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    La BCE: “Dalla dipendenza da terre rare cinesi rischi per economia e inflazione”

    Bruxelles – Economia, consumi, sviluppo: il futuro industriale, produttivo e competitivo dell’Unione euroepea è un’incognita. C’è una carenza di terre rare eccessiva da cui dipende tutto, con la Cina a decidere delle sorti europee. “L’area dell’euro rimane esposta a rischi economici e legati all’inflazione a causa della sua dipendenza dalla Cina per la fornitura di terre rare ai settori industriali critici“, avverte la Banca centrale europea in uno studio dedicato al tema. “Le interruzioni della catena di approvvigionamento derivanti dalle restrizioni all’esportazione imposte dalla Cina potrebbero comportare un aumento dei costi di produzione per i produttori, in particolare nei settori automobilistico, elettronico e delle energie rinnovabili”.Quanto è vulnerabile l’UE alle scelte di Pechino in materie di terre rare? La risposta contenuta nel documento di analisi che ruota attorno a questo quesito esistenziale non lascia spazio ai dubbi: “L’area dell’euro è esposta ai rischi della catena di approvvigionamento legati alle esportazioni cinesi di terre rare”. La Repubblica popolare cinese domina il mercato globale delle terre rare, producendo il 95 per cento delle terre rare mondiali. Occupa inoltre una posizione centrale nella raffinazione di altre materie prime essenziali, come il litio e il cobalto, entrambi essenziali per le batterie delle auto elettriche.Attualmente il 70 per cento delle importazioni di terre rare nell’area euro proviene dalla Cina e alternative disponibili non ve ne sono. “Anche quando l’area dell’euro si rifornisce di prodotti secondari contenenti terre rare da paesi diversi dalla Cina, i fornitori dipendono fortemente dalla Cina per le terre rare grezze”, avvertono ancora gli esperti della BCE. Un esempio in tal caso è rappresentato dagli Stati Uniti, la cui domanda di terre rare è soddisfatta all’80 per cento proprio da Pechino. Ne deriva che nonostante le strategie concepite a Bruxelles per rispondere al problema “l’area dell’euro rimane indirettamente esposta alle catene di approvvigionamento cinesi quando importa prodotti statunitensi che utilizzano terre rare”.I tecnici della Bce suonano l’allarme: “L’influenza della Cina sull’eurozona aumenta”Situazioni di crisi non si profilano all’orizzonte, vuole rassicurare la BCE. “Gli indicatori attuali non suggeriscono che le pressioni sulla catena di approvvigionamento e gli aumenti dei prezzi siano imminenti nell’immediato“. Tuttavia, “è fondamentale rimanere vigili” e monitorare attentamente gli sviluppi, dato il potenziale di rapidi cambiamenti nelle dinamiche di approvvigionamento globali. “La Cina potrebbe utilizzare le terre rare per esercitare pressione nei negoziati commerciali in corso con l’UE”, mette in guardia la Banca centrale europea.In gioco c’è praticamente tutto. L’inflazione e l’aumento dei prezzi, ma pure lo stop per settori produttivi con ricadute di natura politica. Le industrie manifatturiere sono particolarmente esposte, a cominciare da quella automobilistica, che fa ampio affidamento sui magneti permanenti realizzati con terre rare. Analogamente, anche il settore energetico dipende fortemente dalle terre rare per i magneti al neodimio utilizzati nelle turbine eoliche. Ma le terre rare trovano un ampio impiego nel settore tecnologico (semiconduttori, computer, telefonia). Una buona fetta di Green deal e doppia transizione si gioca qui, nella dipendenza dalla Cina in ciò che serve per tradurre in pratica le ambizioni di sostenibilità.

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    Incursioni di droni negli aeroporti di Copenaghen e Oslo. L’UE: “La Russia sta testando i nostri confini”

    Bruxelles – Ancora droni, ufficialmente non si sa se russi, dentro lo spazio aereo europeo. Questa volta ad essere colpiti sono stati gli aeroporti di Copenaghen e Oslo (quest’ultimo non fa parte dell’UE ma collabora in materia di difesa). Nella notte i due scali hanno chiuso il loro spazio aereo e lasciato a terra più di 50 aerei. Due droni hanno sorvolato l’aeroporto danese di Kastrup, che è rimasto chiuso dalle 20.30 all’1. In Norvegia, a Oslo, lo scalo ha sospeso le attività per poche ore a partire dalle 00.30 della notte scorsa, per una minaccia analoga.La mano dietro a queste incursioni non è ancora chiara. Le parole della portavoce della Commissione europea, Anitta Hipper, non lasciano però dubbi su cosa si pensa a Bruxelles: “La Russia sta testando i nostri confini”, anche se poi ha smorzato i toni aggiungendo che “le indagini sono in corso”.L’Unione, per far fronte a questa crescete insidia, cerca di compattarsi intorno alla proposta di un muro di droni. Se ne parlerà nell’incontro di venerdì tra la Commissione europea, otto Paesi membri (Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia, Danimarica, Polonia, Romania, Bulgaria) e l’Ucraina.Footage published earlier tonight by Norwegian state media, claiming to show one of the large, unidentified drones that shutdown Copenhagen Airport in Denmark for several hours on Monday. pic.twitter.com/IeosEuRd7n— OSINTdefender (@sentdefender) September 23, 2025Certo, non paiono casuali le numerose incursioni nello spazio aereo dell’Unione delle ultime settimane. Quelle avvenute ieri, secondo le prime ricostruzioni, potrebbero essere partite dal mare lanciate da delle imbarcazioni. Il sospetto è questo, visto che i velivoli sembrano non aver sorvolato il Baltico prima dell’arrivo all’aeroporto danese. I due droni, poi, non sono stati abbattuti, ma sono scomparsi autonomamente dopo aver minacciato l’aeroporto. La polizia, in virtù di queste prime ricostruzioni, ha descritto gli ignoti artefici come persone “competenti”.La prima a essere colpita da incursioni di questo tipo è stata la Polonia: l’ingresso di una ventina di velivoli guidati, nel cielo polacco aveva dato inizio all’escalation. A esprimere la contrarietà di Varsavia nei confronti di Mosca ci ha pensato il ministro degli Esteri, Radosław Sikorski, durante l’Assemblea delle Nazioni Unite.“Sappiamo perfettamente che non vi importa nulla del diritto internazionale – ha sentenziato il ministro – e che siete fondamentalmente incapaci di convivere pacificamente con i vostri vicini. L’epoca degli imperi è finita e il vostro non tornerà mai! Ogni colpo inferto a voi dai soldati ucraini — che Dio li benedica — avvicina quel giorno”. Il primo ministro polacco, Donald Tusk, aveva già avvertito: “Abbatteremo velivoli sospetti se entreranno nel nostro spazio aereo”. Toni da guerra già iniziata.‼️ “We know perfectly well that you don’t give a damn about international law and are fundamentally incapable of peaceful coexistence with your neighbors. Your radical nationalism is an uncontrollable thirst for domination — the most terrible form of chauvinism. This will not… pic.twitter.com/B7OsTo5fdN— Visioner (@visionergeo) September 22, 2025Il sospetto è ormai quello che la serie di crisi che si stanno avendo in giro per l’Europa abbia una matrice comune. A metterle in fila ci ha pensato la premier danese, Mette Frederiksen: “Non posso escludere che si tratti della Russia. Abbiamo visto droni sopra la Polonia, attività in Romania, violazioni dello spazio aereo estone, attacchi hacker contro aeroporti europei”. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, non ha tardato a farsi sentire, definendo i sospetti danesi come “infondati”.Dalle parti di Bruxelles, per contrastare la minaccia, si pensa a un muro di droni. La Commissione, con ogni probabilità, si impegnerà a finanziare l’iniziativa dando denaro ai paesi confinanti con la Russia. Di questo si parlerà nel briefing di venerdì tra sette Paesi UE più l’Ucraina e Ursula von der Leyen. Resta però da comprendere quanto rapido sarà l’intervento dell’Unione. Ad ascoltare il portavoce della Commissione europea, Thomas Regnier, “le riflessioni sono ancora in corso”, anche se la speranza è quella di “agire velocemente, rapidamente”. Quando però gli è stato chiesto come sarà effettivamente strutturato il progetto, la determinazione è venuta meno: “Non è una conferenza tecnica”.

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    Le imprese festeggiano l’accordo UE-Indonesia: “Ora avanti con i Paesi ASEAN”

    Bruxelles – Ben venga l’accordo con l’Indonesia, ora l’UE acceleri con gli altri Paesi della regione. Questo il messaggio che arriva da BusinessEurope, la confederazione delle confindustrie europee, dopo il nuovo progresso registrato in materia di politica commerciale. “Questo accordo storico riafferma l’impegno dell’UE verso un’ambiziosa agenda commerciale in un momento di tensioni geopolitiche e crescente protezionismo“, riconosce il direttore generale, Marcus Beyrer, che esorta ad “accelerare i negoziati con gli altri partner dell’ASEAN“, l’organizzazione degli Stati del sud-est asiatico che comprende, oltre all’Indonesia, Brunei, Cambogia, Filippine, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam.E’ convinzione del mondo dell’industria che questo accordo darà un impulso “significativo” alla crescita dell’Unione europea grazie innanzitutto alla riduzione dei dazi sui beni industriali e sui prodotti agricoli da entrambe le parti. Sono apprezzate anche le disposizioni in materia di commercio digitale, appalti e investimenti. Inoltre, si ritiene che in quanto fornitore chiave di materie prime essenziali, legami più stretti con l’Indonesia rappresenteranno anche una risorsa importante per la sicurezza economica europea.L’UE ha già relazioni commerciali in essere con l’ASEAN in quanto blocco. Le relazioni risalgono al 1977, e resistono tutt’ora. Inoltre il blocco ha dimostrato convergenze politiche vere in merito alla guerra russa in Ucraina, prendendo le distanze dalle annessioni territoriali russe. Si chiede quindi alla politica di approfittare di questo momento per rilanciare una nuova stagione commerciale euro-asiatica, strategica in senso anti-USA e ant-Cina.Esulta anche la Federazione dell’industria europea degli articoli sportivi (FESI, a cui aderiscono, tra gli altri, le italiane Assosport e Napapijri). “L’accordo tra UE e Indonesia rappresenta una tappa fondamentale“, sottolinea il presidente di FESI, Neil Narriman. L’intesa viene salutata con favore dai membri, in particolare fornitori di materiale sportivo quali Adidas, Puma, e Nike. “L’accordo non è solo un importante accordo commerciale per la nostra industria, i nostri lavoratori e i nostri consumatori, ma anche un forte segnale al resto del mondo che l’Indonesia e l’UE possono promuovere un commercio basato su regole in un contesto commerciale difficile”, sottolinea Ingrid van Laerhoven, Direttore Commercio e Dogane EMEA, Affari Pubblici e Governativi di Nike e Presidente del Comitato Commerciale FESI.

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    UE e Indonesia chiudono l’accordo di libero scambio ‘anti-Trump’

    Bruxelles – Riduzione dei dazi sull’export, accesso a materie prime fondamentali per la doppia transizione verde e digitale, sviluppo dell’auto elettrica, accesso al mercato delle telecomunicazioni, più export agro-alimentare con protezione dei ‘made in’ proprie delle eccellenze europee. Unione europea e Indonesia trovano l’accordo di libero scambio – inyesa di partenariato economico globale – che e apre una nuova pagina non solo commerciale, quanto geo-strategica. E’ questa una risposta alle tensioni e alle pulsioni degli Stati Uniti di Donald Trump, e una prima vera risposta concreta al nuovo regime di dazi e guerre tariffarie innescate dalla Casa Bianca.Proprio l’abolizione dei dazi è, in questo senso, la principale – anche se normale – novità prodotta dell’intesa raggiunta tra le parti. L’intesa determina una riduzione del 50 per cento dei dazi doganali attuali sulle automobili europee vendute in Indonesia, un taglio delle tariffe del fino al 15 per cento sui macchinari e i prodotti farmaceutici esportati, e un ribasso del 25 per cento delle tariffe sui prodotti chimici.Più in generale il 98,5 per cento dei dazi doganali indonesiani sui prodotti dell’UE sarà rimosso. Inoltre la suddetta riduzione delle tariffe settoriali e dei dazi individuali fino al 150 per cento consentirà agli esportatori dell’UE di risparmiare oltre 600 milioni di euro in dazi doganali pagati sulle loro merci che entrano nel mercato indonesiano.Dall’accordo Ue-Mercosur una strada per l’accesso alle materie prime utili al Green Deal“Eliminando gradualmente i dazi doganali del 50 per cento dell’Indonesia sulle importazioni di automobili, l’accordo crea nuove opportunità per le esportazioni automobilistiche dell’UE e per gli investimenti nei veicoli elettrici”, in linea con gli impegni annunciati dall’esecutivo comunitario, sottolinea Maros Sefcovic, commissario per il Commercio e negoziatore capo dell’UE. “Sono convinto che la conclusione odierna dei negoziati sia solo l’inizio di un nuovo entusiasmante capitolo”, aggiunge, per poi lanciare un frecciata a chi di dovere: “Nell’imprevedibile economia globale di oggi, le relazioni commerciali non sono solo strumenti economici, ma risorse strategiche“. Un messaggio per il Parlamento che contesta l’operato della Commissione in materia di commercio, soprattutto sul Mercosur, e un un pro-memoria per l’amministrazione Trump, in risposta alla quale si spiega questo accordo.Auto elettrica e materie prime, l’UE ‘salva’ il Green DealL’intesa raggiunta prevede l’eliminazione dei dazi sui beni ecologici, oltre a nuove regole per consentire più investimenti europei in settori come le energie rinnovabili e i veicoli elettrici. Per quanto riguarda l’auto elettrica, fondamentale l’accesso dell’UE alle materie prime, in particolare nichel e cobalto di cui è ricca l’Indonesia e che sono necessari per la batterie. Non solo, perché il cobalto viene impiegato in soluzioni utili per lo stoccaggio dell’energia da fonti rinnovabili (eolico e solare).Non finisce qui, però. In ambito industriale il nichel può essere impiegato nella produzione di leghe metalliche e componenti in acciaio inossidabile. L’accordo tra le parti permette accesso a una materia prima utile anche per la siderurgia europea.Esulta, e non potrebbe essere diversamente, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen: “Il nostro accordo con l’Indonesia ci garantisce anche un approvvigionamento stabile e prevedibile di materie prime essenziali, essenziali per l’industria europea delle tecnologie pulite e dell’acciaio”.Un’automobile elettrica [foto: imagoeconomica]Telecomunicazioni e e-commerce, tutti i vantaggi dell’intesaL’Accordo di partenariato economico globale include un pacchetto completo di facilitazione del commercio digitale, che semplifica le transazioni elettroniche (ad esempio, firme e autenticazione elettroniche), promuove un ambiente online sicuro per i consumatori e migliora la prevedibilità e la certezza del diritto (ad esempio, la protezione del codice sorgente del computer), e prevede il divieto di dazi doganali sulle trasmissioni elettroniche (come software, messaggi, media digitali),  una novità assoluta per l’Indonesia. Inoltre, per la prima volta, l’Indonesia consentirà la proprietà straniera al 100 per cento nei settori delle telecomunicazioni e dei servizi informatici.Novità per l’agrifoodL’accordo di cooperazione commerciale UE-Indonesia eliminerà i dazi sui principali prodotti di esportazione dell’Unione europea tra cui latticini, carni, frutta e verdura e alimenti trasformati. Previsto il divieto di imitazione dei 221 prodotti tipici riconosciuti come Indicazioni Geografiche, con l’UE che riesce a mantenere chiuso il mercato unico all’Indonesia per prodotti agroalimentari sensibili come riso, zucchero, uova, banane fresche o etanolo, e quote limitate per aglio, funghi, mais dolce, amido di manioca e prodotti ad alto contenuto di zucchero.

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    Marta Kos in Bosnia ed Erzegovina: “Se non accelerate sulle riforme, rischiate di perdere i fondi europei”

    Bruxelles – Spronare la Bosnia ed Erzegovina a procedere ventre a terra con le riforme pre-adesione. Questa la missione di Marta Kos, la commissaria all’Allargamento, durante il suo viaggio di tre giorni che prende il via oggi (22 settembre) nel Paese balcanico, mentre si acuiscono le tensioni con la minoranza serba.Il tour di Kos è cominciato stamattina a Sarajevo, dove ha incontrato la premier Borjana Krišto e i leader della presidenza tripartita della Bosnia ed Erzegovina, cioè i rappresentanti eletti delle tre comunità nazionali: bosgnacchi, croati e serbi. “Credo nel futuro europeo di questo Paese“, ha esordito Kos parlando accanto a Krišto in una conferenza stampa congiunta.La commissaria ha reiterato il sostegno di Bruxelles per gli sforzi di Sarajevo verso l’ingresso nel club a dodici stelle, ma ribadendo la necessità di superare l’opposizione di una parte della complessa macchina statale bosniaca, cioè quella serba. “Abbiamo visto alcuni passi positivi“, ha continuato, per ammonire però sulle “rinnovate sfide poste dalla legislazione incostituzionale e secessionista adottata dalla Republika Srpska“, l’entità della comunità serbo-bosniaca che insieme alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina – quella delle comunità bosgnacca e croata – costituisce la Repubblica federale in base agli accordi di Dayton del 1995.I met chairwoman @KristoBorjana to discuss how to advance Bosnia and Herzegovina’s EU accession path: judicial reforms, adoption of the Reform Agenda still this month & appointment of a chief negotiator. The EU needs a counterpart in BiH to move forward with technical work. pic.twitter.com/qlHPujQqUn— Marta Kos (@MartaKosEU) September 22, 2025“Le istituzioni democratiche devono essere rispettate“, ha scandito la commissaria prima di esortare l’esecutivo di Krišto a “riprendere il percorso delle riforme“, a cominciare da quella del sistema giudiziario, e a mettere in campo “tutte le misure necessarie” a far partire la prima conferenza intergovernativa e aprire formalmente i primi capitoli negoziali con l’Ue.Sarajevo, dice, “deve inviare al più presto l’Agenda delle riforme per non perdere i fondi del Piano per la crescita“, lo strumento da 6 miliardi con cui la Commissione sta cercando di stimolare l’economia dei Balcani occidentali per creare uno slancio propedeutico all’adesione di questi Paesi candidati. Un appello, quello ad accelerare sulle riforme, tutt’altro che nuovo da parte dell’esecutivo comunitario, che ha già congelato l’anno scorso alcuni fondi destinati alla Bosnia ed Erzegovina proprio per l’incapacità di sbloccare questo punto.La padrona di casa si è detta “ottimista” sulla possibilità di fare presto progressi sul dossier delle riforme, ma ha riconosciuto che finora il Consiglio dei ministri non è riuscito a trovare alcun accordo. “Le riforme sono nell’interesse di tutti”, ha osservato, “e dobbiamo portarle a termine”. Soprattutto, ha evidenziato, “i rappresentanti politici devono mostrare un approccio responsabile e funzionale“: “Dobbiamo smetterla con gli alibi, dobbiamo prenderci le nostre responsabilità di fronte ai nostri elettori”, ha rimarcato.Ma potrebbe non essere così semplice. Milorad Dodik, ex presidente della Republika Srpska e leader del partito di governo Snsd, ha annunciato che lui e il suo partito boicotteranno tutti gli incontri con Kos, incluso il discorso finale al Parlamento bicamerale di Sarajevo (in calendario per dopodomani). La stessa commissaria, del resto, considera Dodik un “separatista” e rifiuta di interloquire con chi mina l’unità del Paese balcanico.L’ex leader serbo è stato recentemente raggiunto da una sentenza del tribunale federale bosniaco che lo ha condannato ad un anno di carcere per inadempienza ai suoi doveri istituzionali nel quadro della leale collaborazione tra le entità federate, dichiarandolo ineleggibile alla carica di presidente della Republika Srpska per sei anni. Il suo mandato è dunque decaduto e sono state indette nuove elezioni per il prossimo 23 novembre.La scorsa settimana, Dodik ha visto il titolare degli Esteri russo, Sergei Lavrov, per cercare la sponda di Mosca con l’obiettivo di mantenere il potere. Verso fine agosto, l’Snsd ha votato nell’assemblea nazionale della Republika Srpska per indire un referendum sulla decadenza dell’ex presidente dalla carica, nonché sulla sua estromissione dai pubblici uffici. La consultazione popolare – che tecnicamente non potrebbe modificare la decisione della corte – è stata fissata per il 25 ottobre.Da diverso tempo, la Bosnia ed Erzegovina è attraversata da una crisi politica legata principalmente all’irrigidimento delle posizioni della Republika Srpska, che sta ponendo in discussione l’autorità di Sarajevo. E mettendo a repentaglio, di riflesso, l’avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina al club a dodici stelle. Nel marzo 2024 il Consiglio europeo ha dato il via libera politico all’avvio dei negoziati, ma non è ancora stata convocata la prima conferenza intergovernativa per l’apertura formale dei capitoli negoziali.

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    INTERVISTA / Nataša Kovačev: “In Serbia, i manifestanti si sentono abbandonati da Bruxelles”

    Bruxelles – Da una decina di mesi, la Serbia è sconvolta dalle proteste popolari più partecipate della sua storia recente. In gioco, nelle strade dove gli studenti vengono manganellati e i giornalisti assaliti, non c’è solo la tenuta democratica di un Paese che, sulla carta, è candidato ad entrare nell’Unione europea. C’è anche la credibilità della stessa Ue, che rischia di sgretolarsi sotto il peso dell’inazione. La giornalista serba Nataša Kovačev ha condiviso con Eunews le sue riflessioni sulle dinamiche perverse che si stanno innescando nel suo Paese, alimentate anche dalla freddezza della reazione comunitaria.“Le persone che stanno protestando da oltre 10 mesi – cioè da quando una quindicina di persone sono rimaste uccise nel crollo di una pensilina a Novi Sad (la città natale di Kovačev) lo scorso novembre, scatenando una risposta popolare mai vista dall’implosione della Yugoslavia – si aspettavano una reazione più decisa da parte dell’Ue“, scandisce Kovačev. Invece, negli ultimi mesi, sono arrivati solo mezzi silenzi: come quello del presidente del Consiglio europeo António Costa e quello dell’Alta rappresentante Kaja Kallas.Nataša Kovačev (foto: Nataša Kovačev/LinkedIn)Quello che arriva da Bruxelles, continua, è invece un desolante combinato di “reazioni tiepide e segnali contrastanti“, una cacofonia politica che confonde e scoraggia chi ha creduto in un futuro europeo per la Serbia. E che ora ci crede sempre meno. “Se guardiamo i sondaggi, notiamo che oggi solo il 33 per cento degli intervistati sostiene convintamente la prospettiva dell’adesione” al club a dodici stelle, illustra la giornalista. Nel 2015, l’anno dopo l’apertura dei primi capitoli negoziali con Belgrado, questa cifra si aggirava intorno al 59 per cento.Gli studenti e i loro alleati nel movimento di protesta, già impegnati a resistere coi propri corpi (timpani inclusi) alla brutale repressione messa in campo dall’autoritario presidente Aleksandar Vućič, temono ora di venire abbandonati anche da quelle stesse istituzioni a cui hanno rivolto accorati appelli, affinché li aiutassero a difendere quanto rimane della democrazia e dello Stato di diritto in Serbia.Lo spettacolo che arriva dai rappresentanti comunitari, in effetti, è tutt’altro che edificante. “Durante l’ultima plenaria a Strasburgo, abbiamo sentito cose piuttosto diverse”, spiega: “Marta Kos (la commissaria all’Allargamento, ndr) ha parlato chiaramente della situazione in Serbia e ha preso una posizione netta al riguardo”, ragiona Kovačev, mentre la numero uno del Berlaymont, Ursula von der Leyen, “non si è neanche disturbata a menzionare quello che succede nel suo discorso sullo stato dell’Unione”.D’altro canto, concede la giornalista, Manfred Weber – capo-padrone del Partito popolare europeo, la più potente forza politica del Vecchio continente, da cui proviene anche la presidente della Commissione – “ha ventilato l’ipotesi di sospendere l’Sns (il Partito progressista serbo di Vućič, ndr) dal Ppe”, nel quale è attualmente un membro osservatore. Tuttavia, puntualizza, “è una decisione unilaterale di un partito politico, non una mossa comune dell’Unione”.Il presidente serbo Aleksandar Vućič (foto: Alex Halada/Afp)“Forse qualcosa sta iniziando a muoversi“, rileva con cautela Kovačev, “e pare che tra i vertici comunitari si cominci ad avvertire la necessità di una risposta più incisiva“. “Spero che questo si traduca presto in un’azione concreta, soprattutto per ridare speranza a chi continua a scendere in piazza“, osserva. Auspica un segnale inequivocabile per mettere in chiaro che, oltre alla retorica stucchevole, Bruxelles intende davvero “tutelare lo Stato di diritto ovunque, a maggior ragione in un Paese candidato“.Finora, sotto il regime illiberale di Vućič la spirale di violenza non sembra accennare a fermarsi. In diverse occasioni, spiega Kovačev, il presidente si è dichiarato disponibile a discutere direttamente coi leader della protesta. “Ma i manifestanti non vogliono parlare con lui, vogliono che le istituzioni facciano il loro lavoro, che la corruzione finisca, che lo Stato serbo funzioni“, dice. Invece, ammette, “la repressione del dissenso si fa più asfissiante e si moltiplicano le detenzioni arbitrarie ed extragiudiziali“.Peraltro, aggiunge, “ogni qualvolta Vućič apre a qualche forma di dialogo, si registrano nuovi incidenti“. Come quello dello scorso gennaio, quando a Novi Sad alcuni uomini affiliati all’Sns hanno rincorso degli studenti che stavano affiggendo manifesti, aggredendoli fisicamente. “Hanno tirato fuori una mazza da baseball e li hanno picchiati, rompendo la mascella ad una ragazza“, racconta. Così, alla successiva mano tesa fintamente dal capo dello Stato ai manifestanti, questi hanno risposto per le rime: “Difficile parlare con la mascella rotta”, si leggeva nei comunicati dell’epoca.Poliziotti in tenuta antisommossa a Belgrado (foto: Marko Djokovic/Afp)Il problema, nota Kovačev, è “l’impunità pressoché assoluta” di cui godono le forze dell’ordine. Nel caso di gennaio, ricorda, “quegli uomini furono arrestati e processati, ma a processo ancora in corso Vućič li graziò, prima che venisse emessa qualunque sentenza”. Anche lei ha visto coi propri occhi queste dinamiche, dato che, ci dice, “il dibattito pubblico e lo spazio mediatico sono estremamente polarizzati e ci sono frequenti attacchi contro giornali e giornalisti”.Come certificato da Media freedom rapid response nel suo ultimo rapporto, la situazione in Serbia è “emergenziale”. Nei primi sei mesi di quest’anno si sono verificate 96 aggressioni contro operatori mediatici: una dozzina in più di quelle commesse nell’arco di tutto il 2024 (84) e quasi il doppio del 2023 (49). “Persino se documenti gli attacchi, se li riprendi, non accade nulla“, lamenta Kovačev. Lo scorso novembre, ci racconta, il suo cameraman è stato scaraventato a terra di fronte agli uffici dell’Sns a Novi Sad mentre stava filmando le proteste.Ad aggredirlo era stato un uomo uscito dall’edificio stesso, dopo aver confabulato con alcuni membri della sezione locale del partito. “Avevamo l’incidente sul nastro“, sottolinea la giornalista, “e lo portammo alla polizia e al procuratore, ma nulla si mosse per mesi”. Poi, quando Kovačev e colleghi riuscirono a dimostrare che l’aggressore era uno stretto alleato del sindaco, furono chiamati a testimoniare dal procuratore. Eppure, alla fine, tutto si risolse in una bolla di sapone e gli inquirenti “derubricarono l’incidente ad un banale alterco tra privati, anziché considerarlo un reato penale”.In Serbia, come in altri Paesi candidati (su tutti la Georgia), l’impunità di un potere che prevarica i suoi stessi cittadini è un problema urgente e gravissimo. Da un’Ue che tanto ama dipingersi come paladina del diritto e dei diritti, illudendosi di poter ancora proiettare all’esterno qualche tipo di soft power, ci si aspetterebbe un intervento risoluto contro lo scivolamento autoritario delle fragili democrazie ai suoi stessi confini.Tanto più che, spesso, nell’allontanarsi da Bruxelles questi Paesi si avvicinano a Mosca, a Pechino e ad altri attori geopolitici che l’Europa considera come antagonisti. Magari, ipotizza Kovačev, è precisamente la consapevolezza di trovarsi su un piano inclinato così ripido a “innervosire le gerarchie comunitarie“. “Sanno benissimo che in Serbia le violazioni sono estese, ma forse l’assenza di reazioni deriva dalla paura di spingere Vućič ancora di più tra le braccia della Russia o della Cina“, ragiona.

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    Pronto il 19esimo pacchetto di sanzioni Ue alla Russia. Von der Leyen: “Le minacce aumentano, aumentiamo la pressione”

    Bruxelles – Energia, banche e criptovalute. Nel 19esimo pacchetto di sanzioni europee alla Russia c’è tutto quello che Ursula von der Leyen aveva anticipato pochi giorni fa al presidente statunitense Donald Trump, a partire dal cambio di marcia verso l’abbandono del gas naturale liquefatto russo. “Negli ultimi mesi la Russia ha dimostrato tutto il suo disprezzo per la diplomazia e il diritto internazionale”, ha affermato la leader Ue. Oltre ai pesanti raid su abitazioni civili e edifici governativi in Ucraina, il presunto disturbo al Gps dell’aereo della presidente della Commissione europea e le violazioni dello spazio aereo polacco e rumeno.Se “le minacce alla nostra Unione aumentano, noi rispondiamo aumentando la pressione”, ha proseguito von der Leyen. Alla fine, la stretta sugli import energetici dalla Russia arriva: “È ora di chiudere il rubinetto. Siamo pronti a farlo. Abbiamo risparmiato energia, diversificato le forniture e investito in fonti a basse emissioni di carbonio come mai prima d’ora”, ha assicurato la leader rivelando il divieto di importazione di GNL russo a partire dal primo gennaio 2027. Un anno prima dunque, rispetto al calendario previsto da REPowerEU.In più, von der Leyen ha annunciato l’abbassamento al tetto sul prezzo del petrolio russo a 47,6 dollari al barile. L’Unione stringe le maglie sulle principali compagnie energetiche del Cremlino: Rosneft e Gazprom Neft saranno “soggette al divieto totale di transazioni“, mentre saranno congelati i beni sul territorio europeo a “raffinerie, commercianti di petrolio e società petrolchimiche nei Paesi terzi, compresa la Cina”. Nella lista nera dell’Ue finiscono altre 118 navi della flotta fantasma con cui il Cremlino aggira le sanzioni sul greggio. In totale, Bruxelles ha individuato e sanzionato oltre 560 imbarcazioni.La seconda traccia seguita dalla Commissione europea sono le “scappatoie finanziarie utilizzate da Mosca per eludere le sanzioni”. E dunque, divieti di transazioni per altre banche in Russia e in Paesi terzi e “per la prima volta le nostre misure restrittive colpiranno le piattaforme per le criptovalute“. Infine, come sottolineato dall’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, “dobbiamo interrompere le forniture all’industria militare russa, in modo che non possa alimentare la sua macchina da guerra”. Il 19esimo pacchetto aggiunge ulteriori prodotti chimici, componenti metallici, minerali ai divieti di esportazione. “Stiamo rafforzando i controlli sulle esportazioni verso entità russe, cinesi e indiane“, ha spiegato Kallas: nell’elenco delle misure restrittive finiscono 45 nuove società in Russia e in Paesi terzi. “Il nostro messaggio è chiaro: chi sostiene la guerra della Russia e cerca di eludere le nostre sanzioni ne subirà le conseguenze”, ha proseguito il capo della diplomazia europea.Parallelamente, von der Leyen ha annunciato che “presto” la Commissione europea presenterà una proposta per l’utilizzo dei profitti generati dagli asset russi congelati in Ue per finanziare la spesa militare dell’Ucraina. La presidente della Commissione europea si è rivolta alle capitali: “Conto ora su di voi per un’adozione rapida del pacchetto”.

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    Trump e Starmer stipulano un accordo da 335 miliardi di dollari. Il partner degli USA in Europa è il Regno Unito

    Bruxelles – Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno scelto il loro partner in Europa: è il Regno Unito. Le due economie rafforzano i rapporti grazie a un piano d’investimenti dal valore di 335 miliardi di dollari. I settori coinvolti saranno principalmente quello dell’energia nucleare, dell’intelligenza artificiale e farmaceutico. Londra, che era già riuscita a strappare un accordo commerciale più favorevole con Washington (dazio base al 10 per cento) rispetto all’UE, ora stipula un partenariato definito dal tycoon come “senza precedenti”. Un’intesa commerciale ottenuta anche grazie, secondo Trump, all’“abile negoziatore” Starmer. Una frecciata indiretta a chi lo è stato meno.Il “Tech Prosperity Deal”, così battezzato durante la fastosa cerimonia della firma, è stato siglato a Chequers, nella residenza di campagna del primo ministro britannico. Tra i quadri ottocenteschi della residenza sedevano alcuni dei più influenti imprenditori del settore tecnologico americano, come il CEO di Nvidia Jensen Huang o quello di Microsoft Satya Nadella.Gli sforzi promessi sono consistenti. Il colosso tech di Bill Gates ha annunciato investimenti per 30 miliardi di dollari in infrastrutture di intelligenza artificiale e nelle relative attività operative. Impegni simili sono stati presi anche da Salesforce, Nvidia e Palantir, tra gli altri. Da parte sua, invece, Londra ha messo sul piatto le sue aziende di punta. In prima linea la farmaceutica GSK, che investirà negli Stati Uniti 30 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo in cinque anni. L’azienda petrolifera BP, che spenderà 5 miliardi di dollari all’anno.Il presidente americano, coccolato durante i suoi due giorni britannici, è stato messo alle strette solo nella conferenza stampa finale. I temi affrontati sono stati diversi. Si è parlato della guerra in Ucraina, dove Starmer ha esortato Trump ad aumentare la pressione su Putin affermando: “Le violazioni contro lo spazio aereo NATO non sono il gesto di una persona intenzionata alla pace”. Trump si è limitato a rispondere che Putin lo ha “deluso”. Poi, tornando sul tema più tardi, ne ha approfittato per una strigliata all’Unione Europea: “Sono disposto a fare altre cose (contro la Russia, ndr), ma non quando le persone per cui mi batto comprano petrolio dalla Russia. Se il prezzo del petrolio scende, molto semplicemente, la Russia si accontenterà”.Sulla crisi in Medio Oriente si è vista la maggiore divergenza tra i due. Il primo ministro inglese ha sottolineato come “il riconoscimento dello Stato palestinese rappresenterà un passo avanti verso la soluzione dei due Stati”, mentre il tycoon si è detto contrario: “È uno dei pochi punti in cui non andiamo d’accordo”.Al netto di divergenze sul Medio Oriente il rapporto tra i due sembra però genuino. L’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, ha affermato a Politico: “Il Presidente è molto disponibile ad ascoltare le opinioni di Starmer, indipendentemente dall’ideologia politica. Loro condividono la stessa visione”. Un legame che travalica i secoli, perché, come ha dichiarato Trump, Regni Unito e Stati Uniti hanno fatto “più bene al pianeta di qualsiasi altra coppia di nazioni nella storia”.