More stories

  • in

    Borrell risponde ancora al ministro di Israele negazionista sulla Palestina: “Irrispettoso, pericoloso e controproducente”

    Bruxelles – Il ministro delle Finanze di Israele, Bezalel Smotrich, continua a far discutere. Dopo il vergognoso commento sul villaggio palestinese di Huwara, che “dovrebbe essere cancellato”, il leader del partito sionista religioso di estrema destra ha rincarato la dose: ospite a Parigi per una conferenza, ha affermato che “non si può parlare di palestinesi perché non esiste un popolo palestinese“.
    Secondo Smotrich il popolo palestinese sarebbe “una finzione”, creata a tavolino un secolo fa per ostacolare il movimento sionista. Se le parole su Huwara, teatro di violenze incontrollate da parte di coloni israeliani a seguito di un attentato lo scorso 26 febbraio, erano state definite “ripugnanti” perfino dall’alleato americano, questa volta a rispondere duramente ai “commenti inaccettabili del ministro” ci ha pensato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell.
    “È sbagliato, irrispettoso, pericoloso e controproducente“, ha dichiarato il capo della diplomazia europea, chiedendo  al governo guidato da Benjamin Netanyahu di “rinnegare queste parole e cominciare a lavorare per ridurre le tensioni”. Tensioni che stanno raggiungendo livelli allarmanti, con numeri di vittime che ricordano quelli della seconda intifada del 2006. Nei primi due mesi dell’anno, secondo l’ufficio di coordinamento umanitario per il Territorio Palestinese Occupato (Ocha-Opt) delle Nazioni Unite, sarebbero già 64 le vittime palestinesi e 13 quelle israeliane, a causa dell’inasprimento delle violenze.
    Mohammed Shtayyeh a Huwara (Photo by Zain Jaafar / AFP)
    Lo sforzo diplomatico per riavvicinare le autorità israeliane e palestinesi, che appaiono oggi più lontane che mai, si è concretizzato in due recenti incontri, prima a Aqaba in Giordania e poi a Sharm el-Sheikh in Egitto, con la mediazione di funzionari statunitensi e egiziani. L’ultimo proprio domenica 19 marzo, mentre Smotrich a Parigi reinterpretava a suo modo la storia della regione. A Sharm el-Sheikh i rappresentanti di Israele e Palestina si sono accordati per adottare misure che riducano le tensioni e le violenze durante il Ramadan, il mese sacro per la religione islamica, che comincia questa settimana. “I commenti di Smotrich vanno un’altra volta nella direzione opposta” rispetto agli incontri di Aqaba e Sharm el-Sheikh, ha sottolineato Borrell. Ne è la riprova il fatto che il primo ministro palestinese, Mohammed Shtayyeh, di ritorno dal vertice in Egitto ha espresso la propria indignazione, descrivendo le dichiarazioni di Smotrich come “la prova conclusiva di quanto l’ideologia dell’attuale governo israeliano sia estremista e razzista”.
    Per l’Unione europea c’è solo un percorso da seguire, quello della soluzione a due Stati: “Proseguiremo nel nostro impegno di lunga data per uno Stato palestinese indipendente e sovrano, che vive fianco a fianco con Israele in pace e sicurezza”, ha ribadito Borrell. Che in modo piccato ha aggiunto: “Mi dispiace se a qualcuno non piace, ma questa è la posizione dell’Ue”. E ha chiuso lanciando una provocazione: “Vi immaginate se un leader palestinese avesse detto che Israele non esiste, quale sarebbe stata la reazione?”

    Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha affermato che “non si può parlare di palestinesi perché non esiste un popolo palestinese”. Intanto le due parti si sono accordate a Sharm el-Sheikh per ridurre le tensioni durante il Ramadan, che comincia questa settimana

  • in

    La Tunisia rischia il collasso, l’Ue manda in missione il commissario Gentiloni

    Bruxelles – L’Italia chiama l’Europa in soccorso alla Tunisia. Per Tunisi, ma anche per se stessa e per Bruxelles. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, aveva chiesto con forza che si affrontasse il tema con gli omologhi europei, e così è stato: al Consiglio Affari esteri, i 27 hanno risposto allo stimolo pervenuto da Roma e discusso sulle azioni da intraprendere per scongiurare una “nuova Libia”. La più immediata, un’imminente visita a Tunisi del commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni.
    Il Paese della rivoluzione dei gelsomini, che nel 2011 rovesciò il regime di Ben Ali, è una pentola a pressione sull’orlo di esplodere: all’instabilità politica, con il presidente Kais Saied che cerca di imprimere una svolta autoritaria e le opposizioni che lo contestano ferocemente, si sommano una crisi economica cronica e le sue conseguenze sociali. In Tunisia scarseggiano i beni di prima necessità come burro, latte e zucchero, l’inflazione è galoppante, così come il tasso di disoccupazione. A preoccupare Roma e Bruxelles, sono soprattutto le ricadute che questa situazione rischia di avere sulle partenze di persone migranti verso le coste italiane.
    Ricadute già presenti: secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex), tra gennaio e febbraio la rotta del Mediterraneo centrale è stata la “più attiva”, con quasi 12 mila attraversamenti irregolari delle frontiere europee. Complessivamente il doppio rispetto a un anno fa. Dai dati del Viminale, risulta che almeno 12 083 persone sono partite dalle coste tunisine da inizio anno fino a metà marzo, con un’impennata del 788 per cento rispetto ai 1360 arrivi nello stesso periodo dell’anno precedente.
    Come se non bastasse, lo scorso 21 febbraio il presidente Saied ha puntato il dito contro contro le “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana”, che starebbero portando in Tunisia “la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati”. Il capro espiatorio utilizzato da Saied, che ha parlato di un disegno criminale per “cambiare la composizione demografica” del Paese, ha generato un’ondata di violenze contro i migranti subsahariani, che verosimilmente innescherà nuove e immediate partenze verso l’Europa.
    Per evitare il collasso economico e sociale, già in ottobre il governo di Tunisi aveva raggiunto un accordo con il Fondo Monetario Internazionale per un prestito da 1,9 miliardi in 48 mesi attraverso l’Extended Fund Facility. In cambio, Saied si era impegnato ad attuare una serie di riforme: un vero piano “lacrime e sangue”, il cui annuncio ha causato manifestazioni di piazza, forti repressioni governative e, in definitiva, il congelamento delle riforme. All’immobilismo del presidente tunisino, l’Fmi ha risposto con il blocco dell’erogazione del prestito, fino quando non riceverà segnali incoraggianti da Tunisi.
    Tajani chiede tempi rapidi per finanziare la Tunisia
    Antonio Tajani, Consiglio Affari esteri (20/03/23)
    La temporanea chiusura dei rubinetti da parte dell’Fmi ha preoccupato ulteriormente Bruxelles, con Tajani che ha chiesto “tempi rapidi per finanziare un Paese che vive un momento economico molto difficile”. Oltre al rischio di una “nuova pressione migratoria, perché la frontiera tra Libia e Tunisia è sempre più fragile”, il ministro degli Esteri italiano ha evocato lo spauracchio dell’estremismo islamico, che in caso di collasso dello Stato potrebbe “riapparire in Nord Africa”. Per Tajani il supporto a Tunisi deve arrivare su diversi livelli: se l’Italia “fornirà circa 110 milioni di euro al bilancio e alle piccole e medie imprese della Tunisia attraverso l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics)”, anche l’Europa e il Fondo Monetario Internazionale “devono fare la loro parte“. Il ministro ha proposto che il finanziamento internazionale sia sbloccato in diverse tranche, “man mano che vengono fatte le riforme”.
    Per poter negoziare un supporto finanziario anche da Bruxelles (oltre a quello che la Tunisia già riceve per la gestione dei flussi migratori), sarà per primo Paolo Gentiloni a recarsi “nei prossimi giorni” a Tunisi, seguito dai ministri degli Esteri di Belgio e Portogallo, che rappresenteranno i 27 Paesi membri. Anche l’Alto commissario Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, ha paventato una visita a Saied: “Forse dovrò viaggiare in Tunisia”, aveva dichiarato già questa mattina, prima del vertice. D’accordo con Tajani sull’urgenza della questione, “perché se la Tunisia collassa dovremo affrontare nuovi flussi massicci di migranti in Europa”, Borrell ha tuttavia evidenziato le responsabilità del presidente Saied nel peggioramento della crisi: “Non possiamo aiutare un Paese che non è in grado di rispettare un accordo con il Fmi, Saied deve finalizzare il programma”, ha avvisato il capo della diplomazia europea. Che si è smarcato dalla linea del Viminale, affermando che “il supporto non può che venire dal Fondo Monetario Internazionale“.

  • in

    L’Ue fornirà un milione di munizioni all’Ucraina, tra scorte e acquisti comuni. Il piano da 2 miliardi di euro sul tavolo del Vertice Ue

    Bruxelles – Una decisione storica. Tre parole con cui l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, annuncia che i 27 governi dell’Ue hanno raggiunto un accordo politico per consegnare all’Ucraina nei prossimi dodici mesi un milione di munizioni di armi per difendersi dall’aggressione della Russia cominciata il 24 febbraio di un anno fa.
    Mentre il Consiglio Affari Esteri è ancora in corso a Bruxelles, il capo della diplomazia europea ha spiegato che sulla base di una sua proposta, gli Stati membri “hanno accettato di consegnare un milione di munizioni di artiglieria entro i prossimi 12 mesi” a Kiev. Gli ambasciatori dei 27 Stati membri Ue riuniti al Coreper, comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue, hanno raggiunto ieri un’intesa sul piano da due miliardi euro per consegnare almeno un milione di proiettili da 155 mm all’Ucraina entro l’anno, attingendo alle proprie riserve e sbloccando l’iniziativa di appalti congiunti. Un’intesa formalizzata oggi dai ministri e che finirà sul tavolo dei capi di stato e governo al Vertice Ue di giovedì e venerdì.

    A historic decision.
    Following my proposal, Member States agreed to deliver 1 mio rounds of artillery ammunition within the next 12 months.
    We have a 3 track approach:1) €1 bn for immediate delivery 2) €1 bn for joint procurement3) commission to ramp up production capacity pic.twitter.com/CCNOaxE4bk
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) March 20, 2023

    L’approccio stabilito dai ministri dell’Ue sarà in tre fasi, ha riferito Borrell: “un miliardo di euro sarà mobilitato per la consegna immediata di munizioni attraverso le scorte degli Stati membri; un altro miliardo di euro sarà mobilitato per gli acquisti congiunti di armi; in terzo luogo, i ministri hanno acconsentito ad aumentare la capacità di produzione a livello europeo”, si legge nel tweet. La prima fase del piano prevede di fornire munizioni di emergenza all’Ucraina, che sta affrontando carenze, attingendo alle scorte esistenti degli eserciti europei. Per compensare le risorse militari mobilitate per Kiev, i ministri hanno deciso di mobilitare il miliardo di euro citato da Borrell mobilitando i fondi dello strumento europeo per la pace (European Peace Facility) , un fondo fuori dal bilancio europeo e utilizzato dall’inizio della guerra per rifornire di armi l’Ucraina.
    La svolta storica riguarda però la seconda componente del piano, che prevede di far acquistare agli Stati congiuntamente le munizioni, sul modello degli acquisti di vaccini e ora di riserve di gas. Sono 17 Stati membri Ue e la Norvegia ad aver firmato l’accordo di progetto dell’Agenzia europea per la difesa (AED) per l’approvvigionamento comune di munizioni, aprendo la strada agli Stati membri dell’Ue e alla Norvegia per procedere lungo due percorsi: una procedura accelerata di due anni per i proiettili di artiglieria da 155 mm e un progetto di sette anni per l’acquisizione di più tipi di munizioni. L’Italia per ora non ha firmato, ma lo hanno fatto Austria, Belgio, Croazia, Cipro, Cechia, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Slovacchia, Svezia e Norvegia. Borrell ha chiarito ch gli Stati membri hanno già espresso l’intenzione di aderire all’iniziativa presto seguendo le procedure nazionali.
    “I soldati ucraini stanno dimostrando grande coraggio e tenacia. Ma hanno bisogno di munizioni. Accolgo con favore l’accordo odierno che prevede la consegna di 1 milione di munizioni nei prossimi 12 mesi. Lavoreremo con gli Stati membri per aumentare la produzione industriale nel settore della difesa Ue, in modo da garantire la fornitura”, ha commentato su twitter la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.

    Ukrainian soldiers are showing great courage and tenacity.
    But they need ammunition.
    I welcome today’s agreement aiming to deliver 1 million rounds of ammunition over the next 12 months.
    We will work with Member States to ramp up defence industrial production in 🇪🇺 to deliver.
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) March 20, 2023

    L’accordo tra i ministri degli Esteri a Bruxelles per inviare a Kiev un milione di proiettili da 155 mm all’Ucraina entro l’anno, attingendo alle proprie riserve o spingendo sugli acquisti comuni

  • in

    Iran, ancora sanzioni per i responsabili di violazioni dei diritti umani

    Bruxelles – Continua la pioggia di misure restrittive Ue per i responsabili di violazioni dei diritti umani in Iran. I ministri degli Esteri dei 27 Paesi membri hanno aggiunto 8 persone e un’entità all’ormai ricca lista delle sanzioni contro Teheran, che conta ora 204 individui e 34 entità. L’ultimo pacchetto di sanzioni, il quinto contro la Repubblica dei mullah, era stato promulgato solo lo scorso 20 febbraio.
    Questa volta, a essere presi di mira dalle sanzioni anche tre giudici di altrettante province della Repubblica islamica, colpevoli di aver torturato e mandato al patibolo alcuni dei manifestanti che dallo scorso settembre protestano contro il regime. Entra nella lista il Consiglio supremo della Rivoluzione Culturale, organo statale che promuove progetti e iniziative che compromettono le libertà fondamentali delle donne e che discriminano la minoranze etniche e religiose nel Paese. Per tutti i sanzionati è stato disposto il congelamento dei beni, i divieti di ingresso in Ue e di ricevere fondi o risorse economiche dal territorio comunitario. Inoltre, sarà impedita loro l’esportazione di apparecchiature che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna e di apparecchiature per il monitoraggio delle telecomunicazioni.
    Da Bruxelles i 27 hanno invitato per l’ennesima volta “le autorità iraniane a porre fine alla violenta repressione delle proteste pacifiche, a cessare il ricorso a detenzioni arbitrarie come mezzo per mettere a tacere le voci critiche ea rilasciare tutti coloro che sono stati ingiustamente detenuti”. Ribadito anche l’appello a “revocare le condanne a morte pronunciate e garantire un giusto processo a tutti i detenuti”. Secondo il bollettino pubblicato dall’ong Iran Human Rights il 16 marzo, sarebbero almeno 138 le persone giustiziate dal regime in questo spicchio di 2023.

    Il Consiglio Affari esteri Ue impone misure restrittive a 8 individui e un’entità. Tra loro tre giudici responsabili delle condanne a morte contro i manifestanti. Solo nel 2023, sarebbero almeno 138 le persone giustiziate dal regime di Teheran

  • in

    Embargo sulle armi alla Libia: l’Ue rilancia l’operazione Irini fino al 2025

    Bruxelles – L’Unione europea rilancia il proprio impegno nell’attuazione dell’embargo delle Nazioni Unite sulle armi alla Libia. I ministri degli Esteri dei 27 Stati membri hanno deciso oggi (20 marzo) di prorogare fino al 31 marzo 2o25 il mandato dell’operazione militare Irini, incaricata di effettuare ispezioni nel mar Mediterraneo sulle navi sospettate di trasportare armi o materiale bellico da e verso Tripoli.
    Bruxelles finanzierà i costi comuni della missione, composta da 4 navi e 6 aerei, con 16.921.000 euro per i prossimi due anni. Oltre a contribuire all’attuazione del blocco sulle armi posto dall’Onu nel 2011, Irini ha il compito di monitorare e raccogliere informazioni sulle esportazioni illecite dalla Libia di petrolio e prodotti petroliferi raffinati, contribuire alla formazione della guardia costiera libica e contrastare gli scafisti attraverso la raccolta di informazioni e il pattugliamento aereo.  Sull’addestramento della marina libica, il portavoce del Servizio europeo di Azione esterna (Seae), Peter Stano, ha dichiarato che “fino ad ora non è stato attuato a causa della controparte libica“, che non avrebbe ancora notificato alcuna volontà di partecipare all’operazione.
    Secondo il rapporto pubblicato da Irini nel mese di febbraio, dal 31 marzo 2020 a oggi sono state ispezionate 25 imbarcazioni sospette, di cui solamente tre sono state effettivamente dirottate verso porti europei perché giudicate colpevoli di violare l’embargo. Il rapporto sottolinea che per ben nove volte la Turchia ha impedito al personale di Irini di salire a bordo di navi che battevano bandiera di Ankara. L’operazione Ue avrebbe inoltre richiesto informazioni via radio a 8647 navi mercantili e sorvegliato 131 voli aerei.
    L’altro lato della medaglia è l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, del 28 maggio 2022, in cui l’embargo veniva definito “ancora inefficace”. Gli esperti Onu preposti alla sua vigilanza hanno evidenziato come diversi Stati continuerebbero a “violare impunemente” l’embargo inviando armi alla Libia, il cui territorio è ancora “per la maggior parte controllato da gruppi armati”.

    I ministri degli Esteri Ue hanno rinnovato il mandato della missione militare incaricata di effettuare ispezioni nel mar Mediterraneo sulle navi sospettate di trasportare armi da e verso Tripoli. Ancora fermo l’addestramento alla guardia costiera libica: la Libia non avrebbe manifestato alcuna volontà a partecipare

  • in

    Il Montenegro a un passo dalla svolta nella leadership. Un indebolito Đukanović al primo ballottaggio presidenziale

    Bruxelles – Potrebbe essere arrivato alla sua ultima corsa il partito che ha sempre espresso la presidenza della Repubblica del Montenegro dal giorno della nascita della Repubblica Federale di Jugoslavia nel 1992 e dopo l’indipendenza del Paese nel 2006. Il primo turno delle elezioni presidenziali del 19 marzo ha fornito indicazioni rilevanti sulla possibile svolta nella leadership dello Stato balcanico considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Unione Europea. Il candidato del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) e presidente in carica dal 2018, Milo Đukanović, si è confermato in testa nella prima fase della tornata elettorale presidenziale, ma con una perdita di quasi 19 punti percentuali rispetto a quattro anni fa, quando non era nemmeno servito il ballottaggio. E ora si deve guardare le spalle dalla convergenza dei partiti più rappresentati in Parlamento sullo sfidante di Europe Now, Jakov Milatović.
    Chiamati alle urne per scegliere il nuovo presidente della Repubblica, gli elettori montenegrini hanno dato un segnale preciso alla scena politica nazionale. Basta plebisciti a sostegno del partito al potere da oltre 30 anni – anche se ha subito una prima battuta d’arresto alle elezioni parlamentari del 2020 – ma la corsa per la presidenza dovrà andare fino in fondo, in un clima di incertezza per la prima volta nella breve storia del Paese. In attesa della conferma ufficiale da parte della commissione elettorale, le proiezioni di tutti gli istituti di ricerca attivi in Montenegro hanno evidenziato la vittoria al primo turno di Đukanović con il 35,2 per cento dei voti, seguito da Milatović al 29,2. Sconfitti i candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento, sia il leader del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić (19,3), sia quello del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić (10,9).
    Ed è proprio da questa doppia sconfitta degli sfidanti più controversi del presidente in carica che potrebbe arrivare la svolta per il Montenegro, perché sia Mandić sia Bečić hanno annunciato il proprio appoggio esplicito al candidato del nuovo partito europeista. Se i rispettivi elettori dovessero rispettare le indicazioni dei due leader sconfitti, per Đukanović non ci sarebbe alcuna chance di riconferma al terzo mandato (dopo quello appena terminato e quello del 1998-2003). “Mi sono candidato per sconfiggerlo, perché simboleggia il passato e le politiche divisive che hanno impoverito il nostro Paese”, è stato l’affondo di Milatović nei confronti del presidente in carica. L’economista 37enne è un personaggio relativamente noto a livello nazionale. Dopo aver lavorato per il gruppo bancario e finanziario sloveno Nlb Group a Podgorica e Deutsche Bank a Francoforte, nel 2014 è entrato nel team di analisi economica e politica della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers) e dal 4 dicembre 2020 al 28 aprile 2022 è stato ministro dell’Economia e dello Sviluppo economico nella grande coalizione anti-Đukanović guidata da Zdravko Krivokapić. Durante l’anno e mezzo di governo Milatović ha presentato insieme al ministro delle Finanze, Milojko Spajić, un programma di riforme economiche intitolato proprio ‘Europe Now’, che comprendeva misure come l’aumento del salario minimo a 450 euro e il taglio dei contributi sanitari.
    Il candidato di Europe Now alle elezioni presidenziali in Montenegro del 2023,Jakov Milatović (credits: Savo Prelevic / Afp)
    I due tecnocrati hanno annunciato la volontà di fondare un nuovo partito di centro-destra liberale, anti-corruzione ed europeista dopo la caduta del governo Krivokapić nel febbraio 2022 – poi effettivamente fondato il 26 giugno – anticipando l’intenzione di collaborare con altre formazioni civiche e di centro, come la coalizione moderata di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) del premier dimissionario, Dritan Abazović. Alle amministrative di ottobre nella capitale Podgorica Milatović ha corso come candidato sindaco per Europe Now, piazzandosi al secondo posto. Dopo la squalifica di Spajić da parte della commissione elettorale centrale per il possesso di cittadinanza serba – vietata dalla legge montenegrina per chi vuole correre per la presidenza della Repubblica – si è candidato come sfidante di Đukanović alla prima carica del Paese. Milatović è favorevole all’adesione del Montenegro all’Unione Europea, ma anche a relazioni più strette con la vicina Serbia (nonostante nel 2006 abbia votato a favore dell’indipendenza da Belgrado). È questo uno dei punti più controversi del nuovo partito – il co-fondatore Spajić ha svolto attività di lobbying negli Stati Uniti a favore degli interessi della Chiesa serbo-ortodossa nel Paese – anche se in Montenegro le tendenze filo-serbe non necessariamente sono contrarie alla visione europeista delle relazioni internazionali e non dovrebbero porsi questioni preoccupanti per il processo di adesione all’Ue iniziato nel 2012.

    Montenegro, presidential election (first round) today:
    100% CeMI parallel count:
    Đukanović (DPS-S&D): 35.2% (-18.7)Milatović (Evropa Sad!-*): 29.2% (new)Mandić (NSD-*): 19.3% (new)Bečić (DCG~EPP): 10.9% (new)…
    +/- 2018 election#Montenegro #Izbori2023 #IzboriCG pic.twitter.com/Kn53NmXCgk
    — Europe Elects (@EuropeElects) March 19, 2023

    La situazione politica in Montenegro
    Dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti gli equilibri politici sono iniziati a cambiare già con le elezioni del 30 agosto 2020, vinte dalla larghissima coalizione anti-Đukanović messa in piedi dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ di Krivokapić. Il 4 febbraio 2022 è stata la piattaforma ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via a un governo di minoranza guidato da Abazović. Un governo di scopo per preparare le elezioni anticipate nella primavera successiva – che pochi giorni fa sono state annunciate per il prossimo 11 giugno – ma anche il più breve della storia del Paese, dopo il crollo del 19 agosto per la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović. A scatenare la crisi è stato il cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba, un’intesa per regolare i rapporti reciproci e per il riconoscimento della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219. Tutti i partiti filo-serbi l’hanno appoggiato, mentre gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue.
    Da allora Abazović è premier ad interim e nel frattempo si è aggravata anche la crisi istituzionale, con il via libera a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo. La legge permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi.
    Il vero problema è stata la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Senza la sua piena funzionalità non è stato possibile considerare il voto del Parlamento in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (manca ancora il quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese. In attesa che si chiarisca il futuro del Montenegro, tra presidente e nuovo Parlamento.

    Il presidente in carica vince il primo turno, ma crollando rispetto alle elezioni del 2018. Il 2 aprile sfiderà il candidato di Europe Now, Jakov Milatović, che potrebbe sfruttare l’endorsement degli altri partiti sconfitti per mettere fine al potere trentennale del Partito Democratico dei Socialisti

  • in

    Le 12 ore di Ohrid. L’Ue riesce a far trovare l’intesa a Serbia e Kosovo per l’attuazione dell’accordo di normalizzazione

    Bruxelles – Il diavolo sta nei dettagli, “ma a volte sta nel calendario e nelle tempistiche”. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha fornito una sua personalissima interpretazione della “lunga e difficile” discussione di 12 ore a Ohrid, sulle sponde del lago in Macedonia del Nord, teatro dell’ultimo round di alto livello del dialogo per la normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia. Un appuntamento atteso con particolare urgenza a Bruxelles, dopo il vertice del 27 febbraio decisivo per far trovare alle due parti una complicatissima intesa sulla proposta Ue in 11 punti. Mancava solo il via libera all’allegato di attuazione dell’accordo – la vera chiave di volta di tutta l’intesa che stabilisce “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come” – e ad Ohrid si può dire che quantomeno non c’è stata nessuna battuta di arresto.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (18 marzo 2023)
    Perché i due leader di Kosovo e Serbia, rispettivamente il premier Albin Kurti e il presidente Aleksander Vučić, hanno avallato l’allegato di attuazione, ma non l’hanno firmato. Il 18 marzo ad Ohrid è andato in scena un duello diplomatico, in cui l’alto rappresentante Borrell e il suo braccio destro, il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, hanno dovuto destreggiarsi per arrivare alle 23.10 e poter dire “abbiamo un accordo”. Tra luci e ombre. “Devo ammettere che inizialmente abbiamo proposto un annesso più ambizioso e dettagliato, ma sfortunatamente le parti non hanno trovato un accordo“, ha confessato Borrell, puntando il dito sulla responsabilità condivisa tra Pristina e Belgrado: “Da una parte, al Kosovo è mancata flessibilità nella sostanza, dall’altra parte, la Serbia aveva dichiarato a priori che non l’avrebbe firmato, anche se era pronta a implementarlo pienamente”. Ecco perché i due diplomatici europei hanno dovuto mettere sul tavolo “diverse proposte creative” – anche se “non così ambiziose come le prime” – e così, con la dichiarazione alla stampa dell’alto rappresentante Ue, “l’annesso è considerato adottato”.
    Non si tratta solo di parole o promesse, ma di un documento che ha un impatto concreto, anche senza firma. “Quello che hanno accettato – l’accordo e l’annesso di implementazione – diventeranno una parte integrante dei rispettivi percorsi verso l’adesione Ue“, ha puntualizzato l’alto rappresentante Borrell. In altre parole, se Pristina e Belgrado vorranno continuare a seguire la strada verso l’adesione Ue, è esplicito l’obbligo di mettere a terra tutti i punti concordati e adottati in principio. Anche senza firma. “Per renderlo concreto, lancerò immediatamente i lavori per includere gli emendamenti nel capitolo di negoziazione 35 con la Serbia [sulle relazioni esterne, ndr] e nell’agenda del gruppo speciale sulla normalizzazione del Kosovo”, e da questo momento “entrambe le parti saranno legate dall’accordo”. Il retro della medaglia è perfettamente intuibile: “Ora gli obblighi sono parte del percorso europei, non rispettarli avrà conseguenze“. Anche perché il dialogo Pristina-Belgrado “non riguarda solo Kosovo e Serbia”, ha spiegato ancora Borrell, facendo riferimento alla “stabilità, sicurezza e prosperità” dell’intera regione dei Balcani Occidentali.
    Cosa prevede l’allegato di attuazione dell’accordo tra Serbia e Kosovo
    L’allegato di attuazione dell’accordo sul percorso di normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia è composto di 12 punti, che costituiscono “parte integrante dell’accordo” stesso. Le due parti si impegnano “pienamente” a rispettare tutti gli articoli non solo dell’intesa del 27 febbraio, ma anche dell’allegato che mette nero su bianco i “rispettivi obblighi da adempiere tempestivamente e in buona fede“. Il presupposto è proprio il fatto che entrambi i documenti sono ora “parte integrante dei rispettivi processi di adesione all’Ue“, con le misure annunciate dall’alto rappresentante per rendere questo punto effettivo nei rapporti bilaterali tra Bruxelles e Pristina e tra Bruxelles e Belgrado.
    Come obblighi da attuare, Kosovo e Serbia “convengono di approvare con urgenza la Dichiarazione sulle persone scomparse“, negoziata nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue e Pristina deve “avviare immediatamente negoziati per la definizione di accordi e garanzie specifici che assicurino un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo“, così come già concordato 10 anni fa. Si tratta dell’Associazione delle municipalità serbe nel Paese prevista dall’accordo del 2013, mai implementato. Sul piano dell’attuazione di tutte le disposizioni sia dell’accordo sia dell’allegato, le due parti istituiranno un Comitato congiunto di monitoraggio presieduto dall’Ue, da istituire “entro 30 giorni”. Tra le scadenze viene inclusa anche quella di metà agosto 2023 (“entro 150 giorni) per l’organizzazione di una Conferenza dei donatori per definire un pacchetto di investimenti e aiuti finanziari per Kosovo e Serbia, in modo da attuare l’articolo 9 sull’impegno dell’Ue “in materia di sviluppo economico, connettività, transizione ecologica e altri settori chiave”. In ogni caso l’Unione Europea “non effettuerà alcun esborso prima di aver accertato la piena attuazione di tutte le disposizioni dell’accordo”.
    Il rispetto dei due documenti implica il fatto che “tutti gli articoli saranno attuati indipendentemente l’uno dall’altro“, che l’ordine dei paragrafi dell’allegato “non pregiudica l’ordine di attuazione” e che non dovrà essere bloccata l’attuazione di “nessuno degli articoli”. Le discussioni tra le parti per l’attuazione dell’accordo continueranno “nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue” e il mancato rispetto degli obblighi derivanti “dall’accordo, dal presente allegato o dai precedenti Accordi di dialogo” può avere “conseguenze negative dirette sui rispettivi processi di adesione e sugli aiuti finanziari che ricevono dall’Ue“, è quanto si legge a chiare lettere nel documento avallato da Kurti e Vučić..

    Sulle sponde del lago macedone il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, hanno avallato (ma non firmato) l’allegato di implementazione del vertice di Bruxelles. Un vincolo per i rispettivi percorsi Ue su “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come”

  • in

    A pochi giorni dalle elezioni presidenziali, il Parlamento del Montenegro è stato sciolto. Ritorno alle urne anticipato

    Bruxelles – Dopo le elezioni presidenziali, quelle parlamentari, per tentare di rimettere il Montenegro su una strada più stabile nel suo cammino verso l’adesione all’Unione Europea. Con un decreto presidenziale il leader del Paese balcanico, Milo Đukanović, ha sciolto ieri (16 marzo) il Parlamento nazionale a soli tre giorni dal primo turno di voto per eleggere il nuovo presidente della Repubblica – in cui proprio Đukanović cerca la riconferma – e oggi ha fissato le elezioni anticipate per l’11 giugno.
    “L’Assemblea è sciolta con decreto del Presidente del Montenegro, il decreto diventa effettivo il giorno in cui viene dichiarato”, si legge in un comunicato dell’ufficio di presidenza diffuso alla stampa. La decisione di emanare il decreto sulla base dell’articolo 92 della Costituzione nazionale è stata presa dopo il fallimento del primo ministro incaricato di formare un governo, Miodrag Lekić (leader dell’Alleanza Democratica Demos), che nei 90 giorni di tempo a sua disposizione non è riuscito a mettere insieme una maggioranza parlamentare (di 41 deputati su 81).
    Il tentativo di mettere fine alla crisi politica e istituzionale – invocato da mesi dal presidente Đukanović e in linea con il mandato iniziale del poi sfiduciato governo di Dritan Abazović – nel Paese considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Ue arriva a ridosso delle presidenziali programmate per domenica (19 marzo). Il leader del Partito Democratico dei Socialisti (Dps), eletto numero uno del Montenegro cinque anni fa, tenterà di sfruttare il proprio credito europeista per conquistare un secondo mandato, ma dovrà fronteggiare non solo i candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento – il leader del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić, e quello del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić – ma anche Jakov Milatović, il candidato del nuovo movimento europeista Europe Now, al primo vero banco di prova nazionale dopo il secondo posto alle amministrative dell’ottobre 2022 nella capitale Podgorica. Il sistema elettorale è a doppio turno: se nessun candidato otterrà la maggioranza dei voti domenica, si terrà il ballottaggio tra i due più votati il 2 aprile.
    In occasione delle elezioni presidenziali in Montenegro, anche una delegazione di sei eurodeputati guidata dal croato Tonino Picula (S&D) sarà presente nel Paese balcanico da oggi a lunedì (20 marzo). La delegazione di osservazione elettorale del Parlamento Europeo sarà inquadrata nella missione internazionale dell’Ufficio per le istituzioni democratiche per i diritti umani (Odihr) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Come reso noto dai servizi dell’Eurocamera, i sei eurodeputati incontreranno i candidati dei partiti politici, i rappresentanti delle autorità nazionali, della società civile e dei media nazionali, mentre domenica osserveranno le elezioni dall’apertura dei seggi fino alla chiusura, e successivamente seguiranno lo spoglio.
    I due anni e mezzo di crisi in Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via a un governo di minoranza guidato da Abazović.
    Da sinistra: il primo ministro ad interim del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stata appoggiata dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettata, perché considerata un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue.
    Mentre da allora Abazović è premier ad interim, a partire dal settembre dello scorso anno si è aggravata anche la crisi istituzionale. A sparigliare le carte è stato il via libera a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, che permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi.
    Il vero problema si è però innestato con la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Senza la sua piena funzionalità non è stato possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (si rimane ancora in attesa del quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese.

    La legislatura si chiude con un anno e mezzo di anticipo, dopo che il leader del Paese alla ricerca di riconferma, Milo Đukanović, ha sciolto per decreto l’Assemblea nazionale, per mettere fine alla crisi politica. La tornata elettorale sarà organizzata per l’11 giugno