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    L’Ue tenta di mantenere aperto il dialogo con l’Iran dopo l’attacco degli Usa. Ma la strada è strettissima

    Bruxelles – Dopo i bombardamenti statunitensi sui siti nucleari iraniani, che aveva sperato di poter scongiurare, l’Ue cerca di tenere aperta la porta dei negoziati con Teheran. Ma rimane appiattita sulla linea dettata da Washington, mentre la clamorosa fuga in avanti dell’inquilino della Casa Bianca rischia di far precipitare l’intero Medio Oriente nell’ennesima escalation incontrollabile.Con l’operazione “martello di mezzanotte” ordinata da Donald Trump nelle primissime ore di domenica (22 giugno), i B-2 Spirit del Pentagono hanno fatto piovere 14 bombe bunker buster sugli impianti nucleari di Fordo, Natanz e Isfahan. Non è ancora chiaro quale sia la reale entità dei danni alle strutture e al programma di arricchimento dell’uranio della Repubblica islamica, ma a sentire il tycoon si è trattato di un attacco mirato a cui non dovranno seguirne di nuovi, a patto che Teheran decida di abbandonare le sue velleità atomiche.È chiaro, invece, che quell’azione ha aumentato drammaticamente la tensione in un Medio Oriente già in fiamme e rischia di far saltare definitivamente i pochi argini rimasti ancora in piedi. “Non c’è una linea rossa che (gli Stati Uniti, ndr) non abbiano superato“, ha dichiarato il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi immediatamente dopo i bombardamenti.pic.twitter.com/wu9mMkxtUg— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) June 21, 2025“L’amministrazione fuorilegge e guerrafondaia di Washington è l’unica e completa responsabile per le pericolose conseguenze e le implicazioni di vasta portata del suo atto di aggressione”, ha aggiunto, sottolineando che la “porta della diplomazia” in questo momento non può che rimanere chiusa da parte iraniana e addossando sull’attacco degli Stati Uniti (denunciato come un affronto “imperdonabile” alla Carta delle Nazioni Unite) il deragliamento delle delicate trattative che erano in corso con gli europei.La principale vittima collaterale dei bombardamenti di ieri notte rischia così di essere la pista negoziale, quella faticosamente aperta dagli europei a Ginevra lo scorso venerdì (20 giugno) quando i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito avevano incontrato Araghchi alla presenza dell’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas.Arrivando al Consiglio Affari esteri in corso oggi (23 giugno) a Bruxelles, l’ex premier estone ha riconosciuto che “l’Iran stava aprendo alle discussioni” sul suo programma nucleare. “Dobbiamo assolutamente continuare su questa strada“, ha avvertito, perché “dev’esserci una soluzione diplomatica per avere una prospettiva di lungo termine” e risolvere la crisi che continua ad avvitarsi.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Consiglio europeo)Secondo la responsabile della diplomazia a dodici stelle, “l’Europa ha un ruolo molto concreto” nel quadro degli accordi multilaterali sul programma atomico di Teheran, il Joint comprehensive plan of action del 2015: “L’Europa ha sempre avuto un ruolo – sostiene – e quando l’Iran è pronto a parlarci dobbiamo sfruttare questa opportunità“.Il Jcpoa, aggiunge Kallas, prevede “il meccanismo snapback per rimettere in piedi tutte le sanzioni se non ci sono progressi” da parte della Repubblica islamica, che dieci anni fa si è formalmente impegnata a limitare il proprio programma atomico a soli scopi civili. “Tutti sono d’accordo che l’Iran non deve possedere armi nucleari e stiamo lavorando verso quell’obiettivo”, ha ribadito ai giornalisti.Un messaggio condiviso anche dai ministri degli Esteri dei Ventisette. Antonio Tajani ha annunciato di aver contattato direttamente Araghchi “per cercare di riattivare un dialogo tra l’Iran e gli Stati Uniti“, proponendo di ospitare i negoziati a Roma come già avvenuto nel recente passato. Secondo il responsabile della Farnesina, Teheran “può procedere con la ricerca sul nucleare civile ma non col nucleare militare”: “Ho trovato orecchi attenti”, ha detto, garantendo tra l’altro che “le basi italiane non sono state utilizzate” per l’attacco condotto dallo zio Sam.Il ministro degli Esteri e vicepremier italiano Antonio Tajani (foto: Samuel Corum/Afp)Il vicepremier forzista ha inoltre dichiarato di aver chiesto all’Iran di non colpire le basi militari statunitensi come rappresaglia e di aver espresso “preoccupazione” per la minacciata chiusura dello stretto di Hormuz, il collo di bottiglia che separa il Golfo Persico dall’Oceano Indiano da cui passa circa un quinto del commercio globale di petrolio e gnl (eventualità definita dalla stessa Kallas “estremamente pericolosa”).A ritagliarsi una posizione relativamente più critica nei confronti della Casa Bianca è Parigi. Il titolare degli Esteri Jean-Noël Barrot ha tenuto il punto sul fatto che il “rischio esistenziale” di una Repubblica islamica dotata di un ordigno nucleare va scongiurato attraverso il dialogo e non coi bombardamenti: “Non esiste una soluzione duratura” alla questione “con mezzi militari, solo la negoziazione consentirà di inquadrare in modo rigoroso e duraturo il programma nucleare iraniano e di fornire risposte durature a queste questioni”, ha spiegato.Per Barrot, inoltre, vanno respinti senza indugio “tutti i tentativi di organizzare un cambio di regime con la forza”, come ripetutamente ventilato negli scorsi giorni tanto da Trump quanto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. “Crediamo nel diritto dei popoli all’autodeterminazione e confidiamo nel popolo iraniano che ha eroicamente resistito al regime“, ha ragionato, ma “sarebbe illusorio e pericoloso pensare che con la forza e con le bombe possiamo realizzare un tale cambiamento“.Il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot (foto: Benedikt von Loebell via Imagoeconomica)D’accordo anche lo spagnolo José Manuel Albares: “L’Europa deve avere il coraggio di issare la bandiera della pace, di difendere il diritto internazionale, di dire no alla guerra e sì alla diplomazia e al negoziato”, ha dichiarato.Ma il diritto internazionale, per avere un senso, dev’essere rispettato da tutti: non solo da nemici ed avversari, ma anche da amici ed alleati. Una considerazione che non sembra condivisa tra i corridoi del potere di Bruxelles, almeno a giudicare dalle comunicazioni pubbliche dei vertici comunitari.Ursula von der Leyen, ad esempio, sottolinea che “il rispetto per il diritto internazionale è critico” e che “il tavolo negoziale è l’unico posto per porre fine a questa crisi”. Peccato che la presidente dell’esecutivo Ue chieda solo all’Iran di “impegnarsi in una soluzione diplomatica credibile”, senza menzionare l’attacco statunitense sulle strutture nucleari di un Paese sovrano. Per risolvere il problema, il presidente del Consiglio europeo António Costa evita direttamente di fare nomi, ed esorta “tutte le parti a dare prova di moderazione“.

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    Stoccolma respinge la lettera trumpiana contro le politiche di inclusione: “Non rinunciamo alla diversità”

    Bruxelles – Il comune di Stoccolma ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di aderire alla richiesta, inviata dall’ambasciata statunitense, lo scorso martedì (6 maggio), che invitava la capitale a ridimensionare le proprie politiche di diversità, equità e inclusione (Dei), riprendendo la politica anti-inclusività dell’amministrazione statunitense di Donald Trump. Questo episodio è stato descritto come il primo caso in cui una lettera di questo tipo è stata inviata da un governo straniero.Jan Valeskog, vicesindaco di Stoccolma con delega alla pianificazione, ha definito la richiesta “assurda” e ha ricordato come contino “le nostre priorità politiche, non quelle di questa o altre ambasciate”. La lettera, che ha suscitato grande scalpore in Svezia, chiedeva a Stoccolma di confermare che non fossero in corso programmi per promuovere la diversità, l’equità e l’inclusione. In caso di rifiuto, veniva richiesto di fornire spiegazioni dettagliate da inviare al team legale statunitense. Valeskog ha confermato che la richiesta è stata inviata all’ufficio urbanistico, probabilmente in quanto destinatario di pagamenti e responsabile dell’applicazione delle tariffe per i permessi edilizi. “Siamo rimasti davvero sorpresi” ha affermato: “perché la diversità, l’uguaglianza e l’inclusione sono valori fondamentali che perseguiamo e difendiamo a Stoccolma”.La lettera fa parte di una serie di iniziative intraprese dall’amministrazione Trump per applicare le sue politiche contro le politiche Dei, che si estendono anche alle aziende straniere che intrattengono rapporti con il governo degli Stati Uniti. A marzo diversi funzionari europei, in particolar modo in Francia, avevano già espresso preoccupazione dopo che alcune aziende avevano riferito di aver ricevuto comunicazioni simili.Questo caso è stato il primo segnale di una possibile interferenza diretta nelle politiche locali da parte degli Stati Uniti, in un contesto che si aggiunge a un clima di crescente tensione tra le politiche americane e quelle europee. Dopo la pubblicazione della notizia, il caso ha suscitato un’ondata di reazioni sui social media e tramite email da parte di residenti e cittadini in tutta la Svezia. “Migliaia di persone sono davvero indignate” ha commentato Valeskog: “Molti seguono le notizie su quanto sta accadendo negli Stati Uniti, ma improvvisamente con queste richieste la questione è diventata molto più vicina“. L’episodio ha sollevato interrogativi sul ruolo delle politiche estere americane nelle scelte interne dei Paesi europei e ha riaffermato l’importanza dei valori democratici e inclusivi per le amministrazioni locali, in particolare quelle svedesi, che continuano a sostenere con forza la diversità e l’inclusione come principi irrinunciabili.

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    Le università Ue offrono “asilo scientifico” ai ricercatori americani colpiti dai tagli di Trump

    Bruxelles – Da quando l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è insediata a Washington a fine gennaio, la università e i ricercatori americani hanno incontrato sempre maggiori ostacoli. In nome del contrasto alla cultura woke che propugna l’abbattimento delle disuguaglianze sociali ed economiche e all’interno di una tanto vasta quanto controversa campagna di efficientamento dei fondi federali, il governo federale Usa ha sospeso e persino interrotto il sostegno a centinaia di programmi di ricerca scientifica, specialmente negli ambiti della diversità, dello sviluppo di alcuni tipi di vaccini e di qualsiasi progetto collegato alla crisi climatica. E’ proprio in un periodo tanto ostile che le università dell’Unione europea stanno attivamente offrendo ai talenti a stelle e strisce un rifugio sicuro.“Vediamo come un nostro compito il venire in aiuto dei nostri colleghi americani. Le università americane e i loro ricercatori sono le più grandi vittime di questa interferenza politica e ideologica” ha dichiarato Jan Danckaert, rettore della Vrije Universiteit Brussel (Vub). L’ateneo belga ha infatti aperto 12 posizioni post-dottorato per studiosi internazionali, con un’attenzione particolare a quelli statunitensi, ed in questo non è affatto solo: diverse istituzioni nel vecchio continente hanno avviato campagne di reclutamento, offrendosi come la soluzione per tutti coloro che fuggono dallo smantellamento del sistema accademico americano.Fonte: amUIn prima linea in questa iniziativa si sono schierate le università francesi a partire dal lancio, da parte dell’Università Aix-Marseille, del programma ‘Safe place for science’, che ha messo a disposizione fondi per oltre due dozzine di ricercatori d’oltreoceano per tre anni. In sole due settimane, l’ateneo ha ricevuto più di cento domande di ammissione, con studiosi provenienti dalla Nasa, Yale e Standford. “Speravamo di non doverlo fare” ha detto Éric Berton, il presidente dell’università: “Ma siamo indignati da quello che sta accadendo e sentiamo che i nostri colleghi negli Usa stanno attraversando una catastrofe. Volevamo offrire una sorta di asilo scientifico a coloro la cui ricerca sta venendo ostacolata”.La direttrice dell’Istituto Pasteur di Parigi, Yasmine Belkaid, ha annunciato di essere già al lavoro per reclutare esperti americani nel campo delle malattie infettive e dello studio dell’origine delle malattie. “Potreste chiamarla un’opportunità triste” ha dichiarato la professoressa al giornale La Tribune, parlando delle richieste di ammissione dei colleghi a stelle e strisce, preoccupati per la propria libertà: “Ma è pur sempre un’opportunità”. Nella stessa direzione si è mosso anche Philippe Baptiste, ministro francese per l’Istruzione superiore e la ricerca, che ha esortato le istituzioni scientifiche del Paese ad inviare proposte per attrarre più efficacemente i talenti d’oltre oceano.I Paesi Bassi non hanno fatto mancare il loro interesse a rimanere al passo coi tempi e sfruttare quest’opportunità, annunciando di voler aprire un fondo per il reclutamento di menti di altre nazionalità. Nonostante il programma non sia orientato specificatamente agli americani, il ministro olandese dell’Istruzione, Eppo Bruins, nell’annunciarlo, ha alluso alle tensioni createsi nel mondo accademico dall’altre parte dell’Atlantico: “Il clima geopolitico sta cambiando, il che sta aumentando la mobilità internazionale degli scienziati. Diversi Paesi europei stanno rispondendo a questo con sforzi volti ad attrarre talento internazionale, voglio che i Paesi Bassi rimangano all’avanguardia in questi sforzi”.Con già decine di università americane con sedi stanziate sul territorio dell’Ue e la comparsa di sempre più progetti di ricerca nel settore energetico, industriale e della difesa, la fuga dei cervelli statunitensi potrebbe aiutare il rilancio qualitativo del nostro continente, se questo riuscirà a cogliere al volo l’opportunità.

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    Trump sta abbandonando Kiev per abbracciare Mosca

    Bruxelles – “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”. Come nel celebre adagio di Agatha Christie, non c’è più spazio per nutrire ancora dubbi circa la scelta di campo, in apparenza definitiva e certo inequivocabile, compiuta dall’amministrazione statunitense sulla guerra in Ucraina.In effetti, di indizi in questo caso ce ne sono in abbondanza, e puntano tutti ad una conclusione che sarebbe stata inimmaginabile solo un paio di mesi fa: gli Stati Uniti hanno voltato le spalle a Kiev per abbracciare Mosca. Nelle ultime ore si sono moltiplicati i colpi che Donald Trump sta assestando al Paese aggredito, in un’escalation che dura ormai da settimane e che avvantaggia solo Vladimir Putin.L’ultima tessera del puzzle è l’incontro di alcuni membri del cerchio magico del tycoon newyorkese con alcune figure chiave dell’opposizione domestica a Volodymyr Zelensky, inclusa l’ex presidente Yulia Tymoshenko e alcuni luogotenenti di Petro Poroshenko, capo dello Stato fino al 2019. I colloqui si sarebbero incentrati sulla possibilità di celebrare delle presidenziali in Ucraina (si sarebbero dovute tenere nel maggio 2024), manovrando alle spalle dello stesso Zelensky.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky al Consiglio europeo di Bruxelles, il 19 dicembre 2024 (foto: European Union)Quello delle elezioni a Kiev è di fatto un tema controverso solo in Occidente, data la sostanziale contrarietà degli ucraini a recarsi alle urne sotto le bombe (qualcosa che viene peraltro vietata dalla Costituzione, essendo attualmente in vigore la legge marziale), ma rappresenta un fuoco su cui Trump non ha mai smesso di soffiare, spingendosi fino a definire il leader ucraino un “dittatore” privo di legittimità democratica e suggerendo che Zelensky se ne dovrebbe andare se non accetta di stipulare l’accordo sui minerali con Washington. Ingerenze estere in piena regola.C’è poi l’annunciata intenzione di revocare lo status di protezione speciale per circa 240mila profughi ucraini, che rischiano così di venire espulsi e rispediti nel Paese in guerra. In realtà, questa decisione sarebbe stata presa prima dell’imboscata tesa da Trump e dal suo vice JD Vance a Zelensky la settimana scorsa, e non riguarderebbe solo i rifugiati provenienti dal Paese est-europeo ma anche quelli di altre nazionalità (soprattutto dall’America centro-meridionale e dall’Afganistan) per un totale di quasi 2 milioni di persone non più gradite negli Stati Uniti.Negli scorsi giorni, Trump ha assestato numerosi altri colpi all’ex repubblica sovietica, sulla carta un’alleata ma nei fatti una vittima del bullismo istituzionalizzato del tycoon, intento a recuperare quello che percepisce come “maltolto” (cioè il sostegno finanziario alla resistenza ucraina), del quale peraltro sovrastima abbondantemente l’entità. Tra gli aiuti militari a Kiev di cui ha annunciato la sospensione c’è anche la condivisione dell’intelligence, che negli ultimi tre anni si è rivelata cruciale per l’esercito ucraino. In linea con l’approccio muscolare e transazionale di Trump, lo stop alla condivisione delle informazioni sembrerebbe uno strumento di pressione impiegato da Washington per costringere Kiev a sedersi al tavolo delle trattative. In altre parole, un ricatto.Il presidente statunitense Donald Trump (destra) accoglie nello Studio ovale il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky (foto via Imagoeconomica)Quella dell’intelligence è del resto una partita delicatissima, poiché rappresenta un asset fondamentale (almeno al pari delle capacità operative) nel settore strategico. E le agenzie d’intelligence a stelle e strisce sono universalmente riconosciute come le più efficienti al mondo: erano state loro a lanciare l’allarme, tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, di un’imminente operazione russa in Ucraina, venendo peraltro tacciate di isterismo dalle cancellerie di mezzo mondo.L’azzardo di Trump non ha fatto altro che aggravare i problemi di fiducia reciproca tra i membri Nato, soprattutto nel quadro in cui Stati come l’Ungheria e la Slovacchia (guidati da governi filorussi) vengono percepiti come inaffidabili da gran parte degli alleati occidentali. Ma le crepe si iniziano a vedere anche tra i Paesi che sono sempre stati dallo stesso lato della barricata. Da un lato, in aperta polemica con Washington, Parigi ha rivendicato orgogliosamente che sta continuando a condividere le informazioni con Kiev. Dall’altro, dalla Casa Bianca starebbero spingendo per estromettere il vicino canadese dal gruppo dei Five Eyes, un’alleanza di intelligence globale che comprende anche il Regno Unito, l’Australia e la Nuova Zelanda.Zelensky tenta di fare buon viso a cattivo gioco, perché non può prescindere dal sostegno di Washington. Dopo aver inviato al suo omologo statunitense una lettera in cui si è reso disponibile a rinegoziare l’accordo sulle materie prime chimiche, deragliato venerdì scorso proprio a seguito della riunione disastrosa alla Casa Bianca, il presidente ucraino ha dichiarato oggi di fronte ai leader dei Ventisette, riuniti a Bruxelles per un vertice straordinario, che le delegazioni dei due Paesi sono in contatto e stanno lavorando per organizzare un nuovo incontro la prossima settimana.Il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky (al centro) con il presidente del Consiglio europeo e la presidente della Commissione europea [Bruxelles, 6 marzo 2025]Ma è ormai evidente che a Trump, della sorte dell’Ucraina, importa poco. La pace di cui continua a riempirsi la bocca non è la “pace giusta e duratura” che continuano a invocare le cancellerie europee (qualunque cosa questa formula possa significare concretamente), ma una pace che va più che altro a favore della Russia. Di pari passo con il “grande tradimento” di Kiev, dunque, si sta compiendo un riavvicinamento a Mosca che nessun osservatore si sarebbe aspettato con una simile velocità.Colloqui telefonici diretti con Putin, incontri diplomatici di alto livello con i vertici del Cremlino, negoziati sottotraccia in corso per porre fine alle ostilità nell’ex repubblica sovietica, o almeno metterle in pausa. Il tutto contornato da attacchi frontali al leader ucraino e agli alleati europei (con la pretesa di dare a tutti lezioni di democrazia da parte di chi ha istigato l’assalto al Campidoglio) e dall’amplificazione della propaganda putiniana, per finire a votare insieme al Cremlino all’Onu.Abbandonando l’Ucraina al suo destino e allineandosi così convintamente alla Russia, Washington mette in difficoltà l’intera Europa. E il tycoon sta tirando così tanto la corda che neppure i suoi tradizionali sostenitori nel Vecchio continente – i nazional-populisti della destra radicale – riescono più a stargli dietro. Critiche più e meno dirette al repentino voltafaccia dell’amministrazione statunitense sono arrivate, tra gli altri, dalla francese Marine Le Pen, dall’olandese Geert Wilders e dal britannico Nigel Farage, che peraltro sono stati tutti accusati in passato di essere troppo vicini alla Russia. L’ennesimo risultato impensabile solo fino a poche settimane fa.

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    Il congelamento degli aiuti Usa mette in ginocchio le organizzazioni umanitarie, soprattutto in Ucraina

    Bruxelles – “Il governo statunitense non è un ente benefico“. Sta tutta in queste parole, pronunciate ieri (30 gennaio) dal nuovo Segretario di Stato Marco Rubio, la direzione che la nuova amministrazione a stelle e strisce intende seguire già dal suo avvio. Tra i primi ordini esecutivi firmati da Donald Trump il giorno del suo insediamento, lo scorso 20 gennaio, c’era il congelamento per 90 giorni dei generosi aiuti allo sviluppo che Washington elargiva in giro per il mondo.Questa decisione, come prevedibile, sta mettendo in seria difficoltà moltissime organizzazioni umanitarie internazionali, che ora non saranno più in grado di operare sul campo. E i problemi maggiori si stanno già riscontrando in Ucraina, che da sola era beneficiaria di quasi metà dei fondi federali bloccati.Fondi congelatiStando ai dati compilati dal governo statunitense, nel 2023 l’Agenzia federale per lo sviluppo internazionale (Usaid) ha destinato oltre 36,5 miliardi di dollari a progetti umanitari nel mondo, di cui quasi 16,5 miliardi a Kiev. Ma, dallo scorso 24 gennaio, la quasi totalità di quei fondi è stata bloccata per un periodo iniziale di 90 giorni, cui dovrebbe seguire una revisione per valutare se continuare su questa strada o rimodulare la sospensione.In estrema sintesi, l’ordine di sospensione impone – oltre allo stop ai lavori sul campo finanziati con le risorse dell’Usaid e la proibizione di avviare nuovi progetti – anche il divieto di utilizzare i fondi già stanziati per qualunque tipo di spesa, incluso il pagamento degli stipendi del personale per tre mesi.“Stiamo eliminando gli sprechi“, si legge in un comunicato del Dipartimento di Stato pubblicato per fornire ulteriori dettagli sulla storica decisione della Casa Bianca. “Stiamo bloccando i programmi ‘woke’ e stiamo smascherando le attività contrarie ai nostri interessi nazionali“, aggiunge la nota.The U.S. contributes roughly 40% of global humanitarian aid. Americans deserve transparency and accountability. As we pause and review U.S. foreign aid, @SecRubio issued a waiver for life-saving humanitarian assistance programs. https://t.co/Kwr6Bi8MES— Department of State (@StateDept) January 29, 2025Bancarotta forzata?“Se devo essere sincero, è un maledetto disastro per l’intero settore“, confessa preoccupato a Eunews un membro dello staff di un’organizzazione attiva nella tutela dei diritti umani, che ha condiviso le sue riflessioni in condizione di anonimato poiché l’ordine esecutivo proibisce agli operatori umanitari di diffondere dettagli in materia. “Mi aspetto che entro la fine del periodo di revisione molte organizzazioni che svolgono un lavoro importante in tutto il mondo saranno in bancarotta“, spiega, aggiungendo che “questo è probabilmente, almeno in parte, intenzionale da parte di Trump” per evitare di dover continuare a sostenere programmi non più in linea con le priorità della Casa Bianca.“Ci hanno legato le mani dietro la schiena“, prosegue, illustrando la situazione: “Al momento abbiamo circa mezzo milione di dollari nel nostro conto, ma il 90 per cento non lo possiamo spendere perché proviene dal governo statunitense“, il quale evidentemente “si aspetta che noi restiamo a galla in questo modo per tre mesi, mentre loro spuntano qualche casella”. Il team della sua organizzazione attivo in Ucraina, invece, è finanziato interamente da Washington.“Per le organizzazioni più piccole che ricevevano tutti i loro finanziamenti dal governo Usa potrebbe essere più realistico riuscire a ottenere delle sovvenzioni di emergenza altrove”, ragiona, mentre la sua si troverà con ogni probabilità in difficoltà più grosse. “Anche se sospendiamo tutte le nostre attività” come richiesto dall’ordine presidenziale, “avremo bisogno di circa 450mila dollari solo per pagare il personale in questo trimestre, e non credo che nessun donatore sia disposto a concedere una simile somma ad una singola organizzazione“, dice, visto che un numero altissimo di entità stanno già richiedendo con urgenza sostegno finanziario.La situazione in UcrainaQuesta settimana, Rubio ha introdotto ulteriori esenzioni dal congelamento per i programmi umanitari che forniscono medicine salvavita, servizi medici, cibo, ripari e assistenza di sussistenza, che si vanno ad aggiungere alle deroghe inizialmente previste unicamente per i programmi alimentari di emergenza e gli aiuti militari ad Israele ed Egitto (che nel 2023 hanno ricevuto 3,3 e 1,2 miliardi rispettivamente).Il Dipartimento di Stato e il Pentagono hanno assicurato che continuerà anche l’aiuto militare all’Ucraina, così come il sostegno ai programmi “salva vita”. Ma questo lascia ancora col fiato sospeso – e in preda alla confusione – non solo i programmi civili indispensabili allo sforzo bellico di Kiev (incluso il sostegno agli stipendi pubblici che mantengono in funzione la macchina statale ucraina) ma anche l’affollata galassia di organizzazioni umanitarie attive nell’ex repubblica sovietica, dove tra meno di un mese si celebrerà il terzo anno dall’inizio dell’invasione russa su larga scala.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (foto via Imagoeconomica)“Il problema sta nella natura improvvisa della decisione“, ha spiegato a Euractiv Ivona Kostyna, direttrice di un’ong che si occupa di assistere i veterani ucraini. “Se avessimo avuto un preavviso, avremmo potuto ristrutturare le nostre attività, cercare altri donatori ed evitare danni ai nostri clienti”, ha osservato, spiegando di aver dovuto chiudere uno dei centri di lavoro.Come la sua, sono numerose le organizzazioni che, nonostante svolgano attività che di fatto salvano vite umane, sono comunque rimaste fuori dalle deroghe. Molte di queste sono costrette a licenziare personale, altre a chiudere definitivamente. C’è chi, a poche decine di chilometri dalla linea del fronte, fornisce servizi essenziali come aggiornamenti costanti sulla dislocazione delle mine antiuomo, oppure sui siti dove poter recuperare acqua non contaminata, o ancora i giubbotti antiproiettile per i giornalisti che seguono l’evoluzione della guerra, e non potrà più contare sulle sovvenzioni di Washington.Come prevedibile, dal Paese aggredito si stanno moltiplicando gli appelli di un numero crescente di organizzazione ai loro partner europei, affinché entrino in azione per compensare, almeno parzialmente, la voragine che il ritiro degli Stati Uniti ha aperto nei loro bilanci, che si traduce inevitabilmente nell’incapacità di proseguire le proprie attività in un momento in cui non è certo cessata l’urgenza.

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    Kiev e l’Ue tentano di capire cosa succederà all’Ucraina con la rielezione di Trump

    Bruxelles – Ora che Donald Trump è stato rieletto alla Casa Bianca, l’Europa cerca di prevedere quali saranno le sue mosse su uno dei fronti internazionali più caldi, quello della guerra in Ucraina. Mentre a Bruxelles si teme che il sostegno militare e finanziario a stelle e strisce possa diminuire drasticamente o addirittura interrompersi, a preoccupare Kiev c’è soprattutto la promessa del presidente (ri)eletto di mettere fine al conflitto “in 24 ore”. Il capo dello Stato ucraino, Volodymyr Zelensky, sta lanciando messaggi decisamente eloquenti al suo omologo statunitense, per impedire che imponga all’ex repubblica sovietica un processo di pace accelerato che rischia di tramutarsi in una “sconfitta”.Zelensky a BudapestDopo essersi congratulato con Trump per la sua vittoria nelle urne, il presidente ucraino è tornato sulla questione del sostegno di Washington agli sforzi bellici di Kiev ieri (7 novembre) in occasione del quinto incontro della Comunità politica europea, ospitato a Budapest dal premier ungherese Viktor Orbán. Lì, parlando ai giornalisti, ha ammesso che “il presidente Trump vuole davvero una decisione rapida” su come giungere alla fine delle ostilità con la Russia, ma ha aggiunto che “ciò non significa che andrà in questo modo”. Perché, ha insistito, “tutti vogliamo che questa guerra finisca, ma con una fine giusta”: se il processo di pace “è troppo veloce, sarà una sconfitta per l’Ucraina”, ha detto chiaro e tondo.Anche il padrone di casa è apparso fiducioso sulle prospettive per una risoluzione diplomatica del conflitto aperte dal ritorno di Trump alla Casa Bianca. “Quelli che vogliono la pace sono sempre più numerosi”, ha dichiarato Orbán, rinnovando il suo appello per un cessate il fuoco immediato. “La precondizione per la pace è la comunicazione”, ha spiegato il leader magiaro, e “la condizione per la comunicazione è un cessate il fuoco”, il quale “può fornire margine e tempo alle parti in conflitto” per “cominciare a negoziare la pace”.Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán (foto: European Council)Appello immediatamente bollato come “pericoloso” e “irresponsabile” da Zelensky, secondo cui una tregua in questo momento – cioè con circa un quinto del territorio ucraino in mano alle forze di Mosca, che stanno peraltro avanzando anche sul fronte del Donbass – equivarrebbe a “distruggere la nostra indipendenza e la nostra sovranità”. “Abbiamo già provato” a raggiungere un cessate il fuoco nel 2014, ha ricordato il presidente ucraino, “e abbiamo perso la Crimea, e poi abbiamo avuto l’invasione su larga scala nel 2022”. Come a dire: non è possibile fidarsi di Vladimir Putin, perché non è realmente interessato alla pace.Qual è l’idea di pace secondo Trump?Cercare di capire l’idea di “pace” che avrebbe in mente Trump è dunque, comprensibilmente, la questione centrale che arrovella l’intera leadership ucraina. Per ora, il presidente eletto non ha fatto trapelare pubblicamente alcun dettaglio su come intende risolvere la crisi che da dieci anni tormenta l’ex repubblica sovietica, ma alcune indiscrezioni giornalistiche parlano di diverse opzioni sul tavolo del leader repubblicano.E tutte, allontanandosi dall’approccio seguito dall’amministrazione Biden (cioè quello di lasciar decidere a Kiev quando avviare le trattative), prevedono che l’Ucraina rinunci ad una parte del suo territorio riconosciuto internazionalmente, cioè quello disegnato dai confini del 1991. In alcune versioni si tratterebbe delle regioni occupate militarmente da Mosca, in altre di una sorta di zona cuscinetto demilitarizzata (sul modello delle due Coree) i cui contorni andrebbero negoziati a tavolino e che andrebbe pattugliata da truppe internazionali. Le quali, beninteso, dovranno essere europee e non statunitensi: “Non manderemo uomini e donne americani a difendere la pace in Ucraina”, ha dichiarato un membro dell’entourage di Trump, suggerendo di farlo fare “ai polacchi, ai tedeschi, agli inglesi e ai francesi”.Un altro elemento ricorrente sarebbe l’imposizione di una qualche forma di neutralità a Kiev, quella che veniva ironicamente chiamata “finlandizzazione” dell’ex repubblica sovietica prima che Helsinki decidesse di entrare nella Nato poco dopo l’avvio dell’invasione russa. Sempre secondo questi ipotetici piani, l’ingresso nell’Alleanza nordatlantica verrebbe congelato almeno temporaneamente per l’Ucraina, che in cambio continuerebbe a ricevere sistemi d’arma occidentali come deterrente contro un’eventuale nuova aggressione.L’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, celebra la rielezione il 6 novembre 2024 (foto: Jim Watson/Afp)Un’ulteriore opzione, ancora più radicale, proposta da alcuni collaboratori della prima amministrazione Trump per costringere Kiev a sedersi al tavolo delle trattative sarebbe invece quella di interrompere le forniture di armi alla resistenza ucraina. Si tratta dell’ipotesi peggiore per Zelensky e i suoi: non solo entrerebbero nei negoziati da una posizione di estrema debolezza, ma non riuscirebbero nemmeno a contenere ulteriori attacchi russi se Putin decidesse che, prima di trattare, vuole annettere alla Federazione qualche altro pezzo dell’ex repubblica sovietica. Si tratterebbe, in altre parole, di lasciare carta bianca al Cremlino.Visione strategicaPer Kiev, l’imperativo è far capire a Trump che sostenere l’Ucraina è nello stesso interesse di Washington. Da un lato, perché qualunque soluzione temporanea al conflitto che sia troppo vantaggiosa per la Russia rischia di trasmettere a Mosca il messaggio che, alla fine, l’ha avuta vinta e che quindi può ritentarci quando vuole. Che poi è quello che è successo quando, dieci anni fa, non ci sono state grosse conseguenze per l’annessione unilaterale della Crimea e lo stazionamento di truppe in Donbass, due violazioni della sovranità ucraina che hanno posto le basi per la guerra su larga scala del 2022.Dall’altro perché, se parti dell’Ucraina cadranno definitivamente in mano alla Russia, l’Europa e gli Stati Uniti perderanno l’accesso alle risorse naturali del Paese aggredito, nonché agli asset militari che Kiev ha sviluppato in due anni e mezzo di guerra e che potrebbero essere utilizzati per la sicurezza del Vecchio continente in sinergia con le forze Nato.È questo, in fin dei conti, il senso del “piano per la vittoria” che Zelensky ha presentato ai leader dei Ventisette il mese scorso: al netto della richiesta di far entrare l’Ucraina nell’Alleanza, il presidente ha messo nero su bianco quello che il suo Paese può offrire in cambio dell’aiuto internazionale. Per far passare il messaggio che l’investimento occidentale è strategico, a lungo termine, e che cedere a Putin ora significherebbe compromettere la sicurezza dell’Europa intera.Nel frattempo, l’Ue cerca di correre ai ripari come può. Proprio oggi (8 novembre) il Consiglio ha esteso di altri due anni – fino al novembre 2026 – il mandato della sua missione di assistenza militare all’Ucraina (Eumam Ukraine), dotandola di un budget da circa 409 milioni di euro. Un messaggio simbolico di sostegno a Kiev, ma poco più che noccioline se si considera l’entità delle spese che deve sostenere la resistenza. Allo stato attuale, difficilmente i Ventisette sarebbero in grado di mantenere a galla l’Ucraina da soli nel caso in cui dovessero realmente venire meno gli aiuti dall’altro lato dell’Atlantico.

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    Presidenziali Usa, come funziona l’elezione dal risultato imprevedibile

    Bruxelles – Sembra quasi un paradosso, ma forse dice qualcosa sullo stato del mondo di questi tempi. Le presidenziali negli Stati Uniti, cioè le elezioni più importanti del 2024 – un anno elettorale senza precedenti nella storia globale – sono praticamente impossibili da prevedere. La posta in gioco è decisamente alta, soprattutto sullo scacchiere internazionale, ma mai come stavolta il risultato della sfida a due per la Casa Bianca è stato così difficile da anticipare. E si ridurrà tutto, alla fine, alla conquista di pochi Stati in bilico, o addirittura di uno solo. Potrebbe essere decisiva una manciata di voti. Ecco cosa c’è da sapere sul testa a testa tra la candidata democratica e vicepresidente in carica, Kamala Harris, e lo sfidante repubblicano ed ex presidente, Donald Trump, che si sta combattendo oggi (5 novembre) e che avrà enormi ripercussioni per il mondo in generale e per l’Europa in particolare.Come funziona il votoPer cominciare, va ricordato che quelle per la scelta del presidente degli Stati Uniti non sono elezioni dirette ma indirette: i cittadini non votano per il loro candidato preferito, bensì per la lista dei cosiddetti grandi elettori collegata al candidato suddetto. Ciascuno Stato federato dispone di un numero di grandi elettori (detti anche delegati) pari alla somma totale dei suoi rappresentanti al Congresso: il numero dei deputati alla Camera varia in base alla popolazione, mentre ogni Stato ha due senatori. Così, ad esempio, quest’anno la California ha 54 grandi elettori e il Delaware tre. Ci sono inoltre tre rappresentanti per il District of Columbia, il territorio non statale dove ha sede la capitale federale di Washington.Ora, l’assegnazione dei delegati avviene quasi sempre con il sistema winner-takes-all: tutti i grandi elettori di uno specifico Stato vengono ottenuti dal candidato presidente che ottiene la maggioranza semplice nel voto popolare di quello Stato (50 per cento più uno dei consensi). Solo due Stati, il Maine e il Nebraska (quattro e cinque delegati rispettivamente), adottano un metodo proporzionale: i due delegati “territoriali” (cioè quelli in rappresentanza del Senato) vengono ottenuti da chi vince il voto popolare su base statale, mentre gli altri vengono ripartiti tra i vari distretti elettorali in cui si dividono i due Stati.Il collegio elettoraleI grandi elettori sono in tutto 538 e si riuniranno a dicembre formando quello che si chiama Electoral college, letteralmente collegio elettorale, un organo che decide tramite un voto di “secondo livello” chi guiderà la Casa Bianca a partire dal 6 gennaio 2025. Il “numero magico”, cioè la soglia da superare per ottenere la presidenza, è di 270 voti, la maggioranza semplice dei grandi elettori. Nel caso in cui si arrivasse ad un pareggio (entrambi i candidati a 269 voti), a decidere tra i due è la Camera dei deputati, che attualmente è a maggioranza repubblicana.Un simile meccanismo comporta che, tecnicamente, per i candidati presidenti non è tanto importante vincere il voto popolare quanto assicurarsi un numero sufficiente di delegati nell’Electoral college. Per quanto possa sembrare controintuitivo, le due cose non sono necessariamente collegate: vincere il voto popolare su base nazionale (cioè quello dei cittadini in tutti e 50 gli Stati della federazione) non assicura automaticamente la presidenza se non si vincono abbastanza grandi elettori. Nell’ultimo quarto di secolo, per due volte è stato eletto presidente il candidato che aveva perso il voto popolare: nel 2000 con George W. Bush (contro lo sfidante Al Gore) e nel 2016 con Donald Trump (contro Hillary Clinton).Gli Stati in bilicoEcco perché, in questa competizione elettorale, la geografia politica gioca un ruolo determinante. Alcuni Stati sono tradizionalmente democratici (o blu, dal colore del partito) mentre altri sono roccaforti repubblicane (o rossi). La vera battaglia si combatterà invece in una manciata di Stati che si suole definire “in bilico” (gli swing states), in cui cioè non c’è una netta preferenza per nessuno dei due partiti: si tratta di Arizona (11 delegati), Georgia (16), Michigan (15), Nevada (6), North Carolina (16), Pennsylvania (19) e Wisconsin (10).Attualmente, secondo le ultime proiezioni, Harris dovrebbe già contare con ragionevole certezza su un tesoretto di 226 delegati mentre Trump su un numero che andrebbe da 219 a 230. Ad essere determinanti saranno insomma le “combinazioni” di Stati in bilico che ciascuno dei due candidati potrà portare a casa: se è pur vero che la Pennsylvania, coi suoi 19 grandi elettori, è quello più “succulento”, è anche vero che vincere solo quello non sarà sufficiente se non verranno conquistati anche i delegati di almeno altri due swing states. Uno degli scenari più accreditati in questo momento è quello per cui Trump riesce ad assicurarsi l’Arizona, la Georgia, il Nevada ed il North Carolina, arrivando a 268 delegati, mentre Harris si attesterebbe a 251 conquistando Michigan e Wisconsin. A quel punto, i 19 voti della Pennsylvania sarebbero determinanti per aprire ad entrambi le porte della Casa Bianca.Cosa dicono i sondaggiE qui si aprono i problemi delle previsioni. In nessuno dei sondaggi disponibili si registra un vantaggio netto di un candidato nei sette swing states: nella maggior parte dei casi, il distacco è inferiore ai due punti percentuali, cioè troppo vicino al margine di errore per poter accettare le rilevazioni come affidabili. In Pennsylvania sembrerebbe in leggero vantaggio Trump, ma il testa a testa è così serrato che si parla di una distanza dello 0,3 per cento.C’è anche il caso di un recente sondaggio che darebbe Harris in vantaggio su Trump di quattro punti in Iowa, uno Stato che nelle ultime due elezioni è andato ai repubblicani e che si pensava sarebbe rimasto rosso anche stavolta. Potrebbe trattarsi di un abbaglio (ricordiamo che i sondaggi non sono una scienza esatta, per quanto i modelli che adottano migliorino col tempo), oppure di una dinamica capace di rimettere in discussione anche altri Stati che i due partiti considerano blindati.A livello nazionale, i sondaggi danno Harris in lieve vantaggio, ma si tratta di una distanza dell’1 per cento. Il tycoon newyorkese era davanti all’attuale presidente, Joe Biden, finché quest’ultimo non si è ritirato lo scorso luglio lasciando il posto alla sua vice. Da allora, Harris è rimasta quasi sempre in testa, ma negli ultimi giorni il distacco tra i due candidati si è ridotto.I risultati definitiviAd ogni modo, per sapere chi ha vinto le elezioni dovremo probabilmente aspettare un po’. Gli ultimi seggi chiudono in Alaska e alle Hawaii alla mezzanotte locale, cioè le 6 di mercoledì mattina in Italia. Le prime elaborazioni parziali dei risultati dovrebbero arrivare già intorno alle 2 di notte, ma difficilmente si potrà avere un quadro sufficientemente completo della situazione prima delle 7-8 di mattina. Questo, naturalmente, nel caso in cui l’esito del voto sia chiaro: altrimenti, il conteggio potrebbe prendere ancora più tempo. Nel 2020, ad esempio, ci sono voluti quattro giorni perché Biden fosse proclamato presidente eletto, mentre nel 2000 Bush ha dovuto aspettare un mese prima che il suo sfidante concedesse la sconfitta.Data la crescente polarizzazione dell’elettorato statunitense e la pervasività di fake news e teorie del complotto, c’è da aspettarsi che, se i risultati di quest’elezione non consegneranno una vittoria netta a nessuno dei due candidati, la parte sconfitta rifiuti di riconoscere la vittoria dell’altra e si mobiliti per contestarla: tramite l’avvio di infinte cause legali nel migliore dei casi o, nel peggiore, con una riedizione dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.

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    Presidenziali Usa: Trump contro Harris, e l’Europa nel mezzo

    Bruxelles – La corsa per le presidenziali statunitensi è ormai giunta all’ultimo miglio. La data fatidica del 5 novembre si fa sempre più vicina, e nell’Unione europea aumenta di giorno in giorno l’apprensione per l’esito di quello che è forse il voto più rilevante di questo anno elettorale senza precedenti nella storia globale. A Bruxelles, la vittoria di Donald Trump è vissuta come un pericolo da scongiurare a ogni costo, mentre se venisse eletta Kamala Harris tutte le cancellerie (o quasi) dei Ventisette tirerebbero un sospiro di sollievo. Su quasi tutti i temi di interesse europeo le priorità dell’ex presidente repubblicano e della sua sfidante democratica si pongono in sostanziale opposizione. Quali potrebbero essere dunque i risvolti per l’Europa (e soprattutto l’Ue) nel caso di una vittoria dell’uno o dell’altra contendente?Politica esteraSicuramente, uno degli ambiti nei quali si misurano distanze siderali tra i due candidati è quello della politica estera. Per quanto riguarda la guerra in Ucraina, ad esempio, Trump ha ripetuto più volte che intende, a modo suo, mettere fine al più presto al conflitto. Secondo le indiscrezioni, il tycoon newyorkese intenderebbe proporre al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di cedere alla Russia almeno una parte delle regioni occupate, probabilmente alcune aree del Donbass e la Crimea, in cambio della cessazione delle ostilità. Se Washington decidesse di interrompere dall’oggi al domani il sostegno militare e finanziario a Kiev, sarebbe difficile per gli europei continuare a difendere l’ex repubblica sovietica.L’effetto che il disimpegno statunitense dall’Ucraina avrebbe sulla sicurezza del Vecchio continente – cui Trump non sembra essere particolarmente interessato – è difficilmente calcolabile ma sarebbe senza dubbio estremamente negativo per gli alleati transatlantici, che solo di recente (anche di fronte alla prospettiva di un secondo mandato dell’ex presidente) hanno iniziato a prendere più seriamente la questione della cosiddetta autonomia strategica.Un’amministrazione Harris si porrebbe invece su una linea di continuità con le scelte prese dal presidente uscente Joe Biden: Congresso permettendo, il supporto all’Ucraina verrebbe garantito almeno nel medio periodo. La vicepresidente democratica uscente ha esplicitamente criticato come “arrendevoli” le posizioni del rivale, rifiutando qualunque negoziato bilaterale con Mosca che escluda Kiev.Riguardo allo scacchiere mediorientale le differenze tra Harris e Trump potrebbero essere più sfumate, data la tradizionale solidità dell’alleanza tra Washington e Tel Aviv. Tuttavia, è verosimile che una Casa Bianca guidata dall’ex presidente garantirebbe allo Stato ebraico un appoggio virtualmente incondizionato (va ricordato che fu Trump l’architetto dei cosiddetti accordi di Abramo del 2020 per la normalizzazione dei rapporti diplomatici nella regione), finendo per esacerbare ancora di più le divisioni tra i Ventisette sulla crisi regionale in corso.La sfidante democratica potrebbe tentare di mettere alle strette (si fa per dire) il premier israeliano Benjamin Netanyahu, anche se, ormai, quest’ultimo appare più una scheggia impazzita (disposto a colpire addirittura i caschi blu dell’Onu) che un partner affidabile. Ma il Medio Oriente è un tassello troppo importante per la politica estera statunitense perché qualunque presidente abbandoni l’alleato storico al proprio destino.Il futuro della NatoLa guerra d’Ucraina si intreccia poi con la questione relativa al futuro della Nato: da tempo, Trump denuncia quello che definisce un impegno insufficiente da parte degli alleati del Vecchio continente (alcuni dei quali non hanno ancora raggiunto il target del 2 per cento del Pil da destinare alle spese militari), e ha polemicamente invitato il presidente russo Vladimir Putin a invadere i Paesi europei che non fanno la propria parte. Nemmeno il Congresso sembra dormire sonni tranquilli, dato che ha recentemente adottato una legge in cui si mette nero su bianco che per ritirare gli Usa dall’Alleanza non basta un decreto presidenziale ma serve l’approvazione parlamentare.Nei fatti, comunque, se Trump volesse ridimensionare la partecipazione statunitense alla Nato non avrebbe bisogno di abbandonarla: basterebbe semplicemente, in caso di attivazione del famigerato articolo 5 della Carta nordatlantica (per cui, in caso di attacco ad uno Stato membro, tutti gli altri dovrebbero “adottare le misure che ritengono necessarie per proteggere l’alleato attaccato”), non fornire una risposta militare ma semplicemente supporto diplomatico o civile. Da mesi, nella sede della Nato a Bruxelles, le alte sfere degli altri 31 Paesi membri stanno escogitando piani su come mantenere funzionale l’organizzazione (la cui guida è da poco passata nelle mani dell’ex premier olandese Mark Rutte) anche nel caso di una rielezione del candidato repubblicano.Politica commercialeLa politica commerciale è invece una materia in cui le differenze tra Harris e Trump potrebbero non essere così marcate come si crede. Durante il suo primo mandato, quest’ultimo ha preso alla sprovvista i partner europei con un’agenda (eloquentemente soprannominata America first) di feroce protezionismo, imponendo tariffe doganali elevate sulle importazioni dall’estero e mettendo in crisi il principio alla base del commercio internazionale, cioè l’apertura dei mercati.Se con la Cina c’è stata una vera e propria guerra dei dazi, nemmeno i Ventisette si sono vissuti tranquillamente la presidenza Trump, a cominciare dalla Germania (che letteralmente sopravvive grazie all’export). Il candidato repubblicano ha recentemente ventilato l’idea di reintrodurre tasse del 10 per cento su tutti i prodotti esteri in entrata negli States, provocando un certo panico al di là dell’Atlantico. Un’altra tecnica che l’ex presidente potrebbe adottare è quella di colpire con dazi mirati solo determinate tipologie di merci, creando così una dinamica di rivalità e competizione interna in Europa, secondo la vecchia tattica del divide et impera.D’altra parte, una presidenza democratica significherebbe il mantenimento di normali rapporti commerciali con l’Europa e con il resto del mondo, ma le scelte di Harris si porrebbero verosimilmente in continuità con quelle del suo predecessore. Il quale, partendo dall’eredità dell’era Trump, ha espanso l’arsenale di armi economiche in funzione anti-cinese e ha stimolato la produzione interna con l’Inflation reduction act (Ira), che a Bruxelles è stato visto come un gesto di concorrenza sleale – tanto che ha fatto da base di partenza per le riflessioni, incluse quelle del report di Mario Draghi, sul rilancio della competitività europea e sulla necessità di una strategia industriale comune.Cooperazione internazionaleIl ritorno del trumpismo, che nella sua essenza (non solo economica) è isolazionista e protezionista, avrebbe dei riflessi anche nei rapporti internazionali degli Usa, il che a sua volta produrrebbe inevitabili ricadute anche sull’Ue. Non è un mistero che l’ex presidente nutra poco rispetto per il multilateralismo, che dipinge più spesso come una camicia di forza che non come un’opportunità.Una differenza fondamentale tra i due candidati è proprio l’approccio verso gli alleati e più in generale i partner internazionali: per Harris si tratta di risorse potenzialmente fondamentali, per Trump di pesi morti o addirittura sanguisughe di cui sbarazzarsi. Stesso dicasi per le istituzioni multilaterali: la prima, in continuità con il suo attuale capo, punterebbe a farne uso e, eventualmente, riformarle, mentre il secondo preferisce ignorarle se non direttamente eliminarle.Per citare un tema in cui la cooperazione internazionale è centrale, il tycoon è convintamente ostile agli sforzi multilaterali in ambito climatico e ambientale. Nel 2020 ha fatto ritirare gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi del 2015, che ha definito “un disastro”, e ha promesso che se verrà rieletto continuerà su questa strada, annullando il rientro del Paese nel trattato (voluto da Biden all’inizio della sua presidenza) e magari andando anche oltre.Sul versante energia, una presidenza Trump 2.0 riporterebbe poi in auge (ancora di più) l’approvvigionamento energetico tramite i combustibili fossili, il che andrebbe evidentemente contro agli obiettivi che Bruxelles si è imposta con il Green deal. Harris dovrebbe invece puntare più decisamente sulle fonti rinnovabili, potenzialmente coinvolgendo l’Europa e altri partner globali nel percorso verso il definitivo phasing out degli idrocarburi.