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    La nuova agenda rinnovata tra Ue e America Latina-Caraibi tra transizione e materie critiche

    Bruxelles – Passare dall’essere semplici partner naturali a diventare ‘partner di scelta’. E’ un’agenda rinnovata con l’America Latina e i Caraibi in sei aree di cooperazione (con una serie di azioni chiave per contribuire a realizzarne gli obiettivi) quella adottata oggi (7 giugno) dalla Commissione europea e dall’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, attraverso una comunicazione congiunta.
    Una comunicazione che arriva, strategicamente, a poche settimane dal vertice Ue-Celac che si terrà a Bruxelles il 17 e 18 luglio e propone un partenariato strategico più forte e modernizzato, attraverso un impegno politico rafforzato, la promozione del commercio e degli investimenti e maggiori investimenti attraverso ‘Global Gateway’, l’iniziativa da quasi 300 miliardi di euro che per l’area latinoamericana e caraibica ha in mente un’agenda ambiziosa che comprende attività che vanno dall’estensione del 5G alle aree remote, ai green bond, a sistemi di trasporto più ecologici, all’energia pulita all’idrogeno e a migliori infrastrutture sanitarie, fino all’incremento della ricerca congiunta. Politica, commercio, investimenti di Global Gateway per accelerare una transizione verde e digitale; giustizia e la lotta alla criminalità organizzata transnazionale; pace, sicurezza e diritti, e partnership tra persone: queste le aree di intervento per rafforzare il partenariato messe in evidenza dalla Commissione europea.

    “Oggi il partenariato strategico Ue e America Latina e Caraibi è più importante che mai. Siamo alleati chiave per rafforzare l’ordine internazionale basato sulle regole, difendere insieme la democrazia, i diritti umani e la pace e la sicurezza internazionali. Abbiamo anche interesse a rafforzare il nostro partenariato politico e il nostro impegno, combattere il cambiamento climatico e portare avanti una trasformazione digitale inclusiva e incentrata sull’uomo. Il nostro Global Gateway stimolerà anche gli investimenti e una più stretta cooperazione”, ha riconosciuto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
    Proprio il vertice di luglio sarà il momento per attuare l’agenda comune per gli investimenti, mobilitando risorse tra gli altri, per l’energia rinnovabile e l’idrogeno verde, le materie prime critiche, la decarbonizzazione e i progetti di infrastrutture di trasporto, il 5G e la connettività dell’ultimo chilometro, la digitalizzazione dei servizi pubblici, la gestione sostenibile delle foreste, la produzione sanitaria, l’istruzione e le competenze e la finanza sostenibile. In particolare, Bruxelles guarda alla dimensione commerciale della partnership con America Latina e Caraibi, tanto che a presentare l’agenda in conferenza stampa insieme a Borrell c’era il vicepresidente esecutivo con delega al commercio, Valdis Dombrovskis. L’Ue stima che grazie a questi accordi, gli scambi bilaterali di beni sono aumentati del 40 per cento dal 2018 al 2022, con un totale di scambi bilaterali di beni e servizi pari a 369 miliardi di euro nel 2022.
    Sono in corso gli sforzi per firmare e ratificare l’accordo aggiornato con il Cile e per finalizzare quello con il Messico, ma resta in ballo anche l’accordo con il blocco del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) le cui trattative sono in stallo dal 2019. Il rafforzamento dei partenariati commerciali per l’Ue è la chiave per non perdere la corsa all’approvvigionamento di materie prime critiche per la transizione, che passa anche attraverso il rafforzamento degli accordi commerciali. Bruxelles sta lavorando per rafforzare partnership commerciali strategiche con quei Paesi che possono aiutare l’Unione nella corsa alle materie prime. Il Cile, ad esempio, è il secondo produttore al mondo di litio, che viene usato per la produzione delle batterie. L’Unione europea e la regione latinoamericana e caraibica “scambiano già ogni giorno beni e servizi per un valore di un miliardo di euro, ma ora vogliamo passare al livello successivo, ad esempio con partnership reciprocamente vantaggiose su materie prime critiche per diversificare le nostre catene di approvvigionamento”, ha confermato Dombrovskis, sottolineando che finalizzare l’accordo con il Mercosur “rafforzerebbe notevolmente i legami tra le due regioni”.

    Una comunicazione che arriva a poche settimane dal vertice Ue-Celac che si terrà a Bruxelles il 17 e 18 luglio e propone un partenariato strategico più forte e modernizzato, attraverso un impegno politico rafforzato, la promozione del commercio e degli investimenti e maggiori investimenti attraverso ‘Global Gateway’

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    Energia, trasporti e digitale. L’Unione europea integra l’Ucraina nel Meccanismo per collegare l’Europa

    Bruxelles – Ucraina sempre più integrata energeticamente e digitalmente all’Europa attraverso i trasporti. La commissaria europea per i trasporti, Adina Vălean, e il vice primo ministro per il restauro dell’Ucraina e il ministro per le comunità, i territori e lo sviluppo delle infrastrutture Oleksandr Kubrakov, hanno firmato oggi (6 giugno) a Leopoli, in Ucraina, un accordo per associare l’Ucraina al programma europeo Connecting Europe Facility (CEF), lo strumento finanziario per collegare l’Europa attraverso i trasporti, l’energia e il digitale.
    Un modo per permettere ai promotori di progetti ucraini di richiedere finanziamenti all’Unione europea per realizzare progetti di interesse comune nei settori dei trasporti, dell’energia e del digitale, migliorando ulteriormente la connettività dell’Ucraina con i suoi vicini dell’Ue. Il CEF è uno strumento di finanziamento pensato per promuovere investimenti infrastrutturali mirati a livello europeo e si articola in questi tre settori: trasporto, energia e digitale.

    Bruxelles spiega in una nota che per quanto riguarda i trasporti, le autorità e le imprese ucraine potranno richiedere finanziamenti nell’ambito dei futuri bandi CEF sui trasporti già nell’attuale periodo di programmazione (2021-2027) e il prossimo invito dovrebbe essere lanciato a settembre 2023. Quanto all’energia, i progetti infrastrutturali ucraini collegati con gli Stati membri dell’UE hanno già la possibilità di richiedere lo status di progetti di interesse reciproco (PMI), ma grazie all’accordo siglato oggi i nuovi finanziamenti diventeranno accessibili a questi progetti in Ucraina.
    La Commissione pubblicherà il prossimo elenco dell’Unione di progetti di interesse comune (PIC) a novembre 2023, includendo per la prima volta PMI con paesi terzi. In ultimo, la parte digitale del Meccanismo per collegare l’Europa fornisce sostegno a progetti di connettività di interesse comune, in particolare per le reti dorsali che collegano l’Ue con i paesi terzi. Una volta lanciati i prossimi inviti CEF Digital, le entità in Ucraina potranno richiedere il cofinanziamento per progetti volti ad aumentare la capacità, la sicurezza e la resilienza della connettività digitale tra l’Ucraina e i suoi vicini dell’Ue.
    Il programma sta “già finanziando diversi progetti con un impatto diretto sull’Ucraina: la ricostruzione di una pista all’aeroporto di Rzeszów-Jasionka, in Polonia, l’ammodernamento di un terminal di trasbordo a Košice, in Slovacchia, la costruzione del ponte Ungheni e lo sviluppo dell’hinterland collegamenti e potenziamenti per il porto romeno di Constanta”, ha fatto il punto la commissaria Valean commentando l’intesa. “Con l’accordo odierno, l’Ucraina sarà ora in grado di presentare domande autonomamente, aprendo la porta a progetti che contribuiranno a modernizzare le infrastrutture dell’Ucraina e a migliorare la sua connettività con l’Ue, come gli investimenti nei valichi di frontiera con l’UE. Si tratta di un passo concreto per potenziare ulteriormente le corsie di solidarietà e sostenere la ricostruzione dell’Ucraina”. Per Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato intero, l’integrazione annunciata oggi segna un passo decisivo per l’adesione di Kiev all’Unione europea. “L’Ucraina è nostro vicino e nostro partner e sta per diventare un membro della nostra Unione. L’odierna associazione dell’Ucraina al Connecting Europe Facility segna un passo importante in questo percorso. Rafforzerà la capacità e la resilienza delle reti dorsali digitali che collegano l’Europa all’Ucraina e offrirà ai cittadini e alle imprese ucraini i vantaggi della transizione digitale”.

    La commissaria europea per i trasporti, Adina Vălean, e il vice primo ministro per il restauro dell’Ucraina e il ministro per le comunità, i territori e lo sviluppo delle infrastrutture Oleksandr Kubrakov, hanno firmato a Leopoli un accordo per associare l’Ucraina al programma europeo Connecting Europe Facility (CEF), lo strumento finanziario per collegare l’Europa attraverso i trasporti, l’energia e il digitale

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    Dall’Europa a 45 il “messaggio di unità” contro Putin. Dalla Moldavia Zelensky preme per l’adesione alla NATO

    Bruxelles – Sicurezza, energia, connettività. Sono tre le chiavi della cooperazione rafforzata che unisce l’Europa alle prese con il tentativo di mandare un messaggio di unità contro la guerra di aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina. E’ nella cornice del castello di Mimi a Bulboaca, in Moldavia, che si è tenuto oggi il secondo vertice della Comunità politica europea, il forum informale dell’Europa ‘allargata’ lanciato su idea francese nel maggio 2022 dopo l’aggressione russa in Ucraina. Una risposta politica alla guerra di Putin e un tentativo di rafforzare, se pure informalmente, la cooperazione del Continente.
    Il primo incontro si è tenuto a Praga, in Repubblica ceca, in ottobre, prima del Vertice europeo informale ospitato dalla presidenza ceca del Consiglio. Oggi la riunione ha messo allo stesso tavolo i capi di Stato e governo di 45 Paesi (su 47 in tutto invitati, San Marino e Turchia alla fine non hanno partecipato), tra cui tutti Ventisette gli Stati membri dell’Ue e l’Ucraina. Per conto dell’Unione europea presenti i vertici di Commissione, Parlamento e Consiglio europeo, rispettivamente Ursula von der Leyen, Roberta Metsola e Charles Michel.
    Come previsto, il vertice non ha portato ad alcuna dichiarazione scritta e a nessuna decisione concreta. Ma è stato soprattutto un vertice simbolico e un modo per mandare un chiaro messaggio politico di unità a Putin. Lo indica la scelta stessa di tenere la riunione in Moldavia. “Dobbiamo considerarlo dal punto di vista geopolitico. Se vi sedete a Mosca e vedete 47 Paesi nelle immediate vicinanze che si riuniscono insieme, questo è, a mio avviso, un messaggio importante, anche se si tratta di una cooperazione soft, anche se si tratta di scambi, è un segnale importante”, aveva spiegato una fonte diplomatica alla vigilia del vertice. E questo è quanto è stato ribadito da tutti i capi di stato e governo che hanno sfilato nella passerella, dal presidente Michel alla ‘padrona di casa’ Maia Sandu.
    “Siamo 45 Paesi rappresentati qui in Moldavia, un messaggio simbolico forte della comune volontà di coordinarci e cooperare nel campo dell’energia, della sicurezza, delle infrastrutture. Cerchiamo di costruire una convergenza politica per difendere alcuni dei nostri interessi in comune”, ha spiegato Michel, al suo arrivo a Chișinău. “A venti chilometri dal confine con la Russia abbiamo riaffermato di dover essere uniti a sostegno dell’Ucraina”, ha detto Sandu nella conferenza stampa che ha chiuso la riunione, al fianco del premier ceco Petr Fiala e del premier spagnolo Pedro Sanchez. Passato, presente e futuro della Comunità politica. Si è scelto infatti di fare ospitare gli incontri della Comunità a turno da uno dei partecipanti: a ottobre è stato il turno della Repubblica ceca, e dopo la Moldavia sarà la volta della Spagna che ospiterà gli oltre quaranta capi di stato e governo a Granada, come confermato da Sanchez.
    Sandu ha ammesso senza indugio di essere consapevole che senza la resistenza di Kiev, la guerra sarebbe ora alle porte del suo Paese. Ed è anche per questo che è significativa la scelta del luogo in cui ospitarla, un messaggio di sostegno tanto all’Ucraina quanto alla Moldavia, per ribadirgli la promessa che il loro futuro è dentro l’Unione europea. L’adesione all’Unione europea – cui Ucraina e Moldova sono Paesi candidati – non è l’unica adesione su cui ha insistito il presidente ucraino Zelensky. “L’Ucraina è pronta per entrare nella Nato” e alla riunione dei capi di stato e di governo che si terrà l’11 e 12 luglio a Vilnius “è necessario ci sia un chiaro invito per l’Ucraina ad aderire all’Alleanza proprio come sono necessarie garanzie di sicurezza sul cammino verso l’adesione in futuro. Ed è necessaria una chiara decisione positiva sull’adesione dell’Ucraina alla Ue”, ha detto. Poi però ha aggiunto: “Siamo pronti per quando la Nato sarà pronta”. I leader dell’Ue si sono mostrati cauti sull’adesione, compresa la premier Giorgia Meloni. “Tutto ciò non ha effetti sugli aiuti militari, che continueranno, recita il mantra condiviso, fino a quando necessario, ma ha effetti politici evidenti sia sul percorso che potrebbe portare alla fine della guerra (sulla Russia) sia sugli assetti politici continentali futuri. Rutte ha specificato che da una parte c’è pieno sostegno all’Ucraina, anche militare, nella lotta contro i russi, e dall’altra l’azione per tracciare il percorso verso il futuro”. E che si tratta anche capire bene “che cosa significherà per l’Ucraina un giorno unirsi alla Nato”, ha detto la premier, tornata in Italia prima della fine dei lavori.
    Un incontro informale senza decisioni. Ma non passa inosservato che grande assente, insolitamente, è stata la voce sulla passerella rossa di Ursula von der Leyen, che non ha preso parola in entrata né in uscita. E che a un solo tweet ha affidato la sintesi della giornata. “Unità e forza. Questo è ciò che dimostrano i leader europei riuniti oggi in Moldavia. Insieme difendiamo i nostri valori. E ci battiamo per l’Ucraina”.

    La seconda riunione della Comunità politica europea, il forum informale lanciato dopo l’aggressione della Russia in Ucraina. Una risposta politica alla guerra di Putin e un tentativo di rafforzare, se pure informalmente, la cooperazione del Continente

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    L’appello della presidente della Georgia alla plenaria del Parlamento Ue: “Status di candidato entro fine 2023”

    Bruxelles – C’è un solo Paese che è sulla strada dell’Unione Europea, ma non ha ancora ottenuto lo status di candidato all’adesione. È la Georgia, uno dei partner più europeisti nelle aspirazioni della popolazione, ma allo stesso tempo più complicato nella gestione dei rapporti con il governo in carica. “Aldilà delle passioni politiche tutti i georgiani condividono la speranza di ritrovare la famiglia europea, è una scelta legittima e che non prevede alternative, perché si basa su valori, storia, lotte e determinazione per il futuro comuni”, è stato il messaggio della presidente della Georgia, Salomé Zourabichvili, dal cuore dell’Unione Europea, intervenendo alla sessione plenaria del Parlamento Europeo nell’emiciclo di Bruxelles. Con un chiaro messaggio per il prossimo futuro: “C’è un’unica strada da percorrere, garantire alla Georgia entro la fine dell’anno lo status di Paese candidato all’adesione Ue“.
    La presidente della Georgia, Salomé Zourabichvili, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (31 maggio 2023)
    Era da 13 anni che un leader georgiano non interveniva al Parlamento Europeo – l’ultima volta era stato Mikheil Saakashvili il 22 novembre 2010, le cui condizioni di salute in carcere oggi preoccupano gli eurodeputati – e il ritorno non poteva essere più d’impatto. “Sarebbe il riconoscimento delle lotte del nostro popolo, dell’identità e dell’importanza dell’Ue, è una richiesta come membri della stessa famiglia“, ha ricordato Zourabichvili, riconoscendo “le nostre lacune” sulla strada verso l’adesione: “Tanto deve essere ancora fatto, è il compito comune nei prossimi mesi per non perdere una seconda opportunità che il popolo stavolta non ci perdonerebbe“. Anche la numero uno dell’Eurocamera, Roberta Metsola, ha ribadito la necessità di “spingere di più per dare lo status di candidato” alla Georgia, per non rischiare di perdere un popolo fortemente europeista: “Vi sosterremo nel viaggio per diventare parte dell’Ue, ma serve più decisione sulle riforme-chiave“.
    La Georgia ha fatto richiesta di adesione all’Ue il 3 marzo dello scorso anno. Tuttavia, in linea con il parere della Commissione, al vertice dei leader del 23 giugno è stato deciso di garantire non lo status di Paese candidato ma la ‘prospettiva europea” con 12 riforme-chiave sullo Stato di diritto e le libertà fondamentali da implementare prima della concessione dello status. Proprio ai “12 passi richiesti” ha fatto riferimento nel suo intervento la presidente Zourabichvili, che non li considera un vincolo ma “raccomandazioni di essere fedeli alla nostra identità e riconciliarci con essa“. L’obiettivo è quello di “vedere una Georgia libera in un’Europa libera, l’unica strada per farlo è far parte nell’Ue”, è stata l’esortazione della leader georgiana.
    Le proteste pro-Ue dei manifestanti georgiani a Tbilisi, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    A questo si ricollega la questione delle minacce della Russia, Paese con cui confina a nord. Nell’agosto del 2008 l’esercito russo aveva invaso (per cinque giorni) la Georgia e da allora Mosca riconosce i territori separatisi dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia come Stati indipendenti e nell’area sono ancora dislocati migliaia di soldati russi, per aumentare la sfera d’influenza nella regione della Ciscaucasia. “Quando invoco il futuro europeo della Georgia, lo faccio anche per gli abitanti delle regioni di Abkhazia e Tskhinvali [capitale dell’Ossezia del Sud, ndr], non sono in vendita”, ha attaccato Zourabichvili da Bruxelles. La presidente della Georgia ha fatto anche riferimento alla guerra russa in Ucraina e alla politica di espansionismo intrinseca di Mosca: “Le politiche di appeasement non hanno mai funzionato, è la sua natura imperialistica che le fa portare avanti attacchi contro i vicini“, perché “il Paese più grande al mondo non accetta di avere dei confini”.
    La complessa strada della Georgia nell’Ue
    Per l’Unione Europea la Georgia rimane uno dei Paesi partner più complessi da gestire, a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo quantomeno controverso sulle tendenze filo-russe (anche se poi ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino concretizzatosi il 24 febbraio 2022 in Ucraina). Tra le ultime notizie che hanno sollevato più preoccupazioni va ricordato il ritiro del partito al potere a Tbilisi, Sogno Georgiano, come membro osservatore del Partito del Socialismo Europeo (Pes), a causa delle frizioni sempre più evidenti per l’avvicinamento all’Ungheria di Viktor Orbán (il premier Irakli Garibashvili ha recentemente partecipato alla convention dei conservatori europei e statunitensi a Budapest). Ma anche la ripresa dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore.
    A cavallo della decisione di Bruxelles di giugno 2022 di non concedere ancora alla Georgia lo status di candidato all’adesione, a Tbilisi si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo georgiano ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo per aver fallito l’obiettivo sulla candidatura all’adesione. I tratti comuni di queste manifestazioni sono state le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu (dell’Ue) – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia (quello ufficiale dell’Unione Europea).
    Quasi tre mesi fa sono scoppiate dure proteste popolari contro un controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria, voluta proprio dal premier Garibashvili per registrare tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo simile a quanto in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento decine di migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza con le bandiere della Georgia e dell’Unione Europea, gridando slogan come Fuck Russian law, sostenuti sia dalle istituzioni comunitarie sia dalla presidente Zourabichvili. Dopo due giorni di proteste ininterrotte il partito Sogno Georgiano ha ritirato il progetto di legge, ma senza sconfessare la propria iniziativa. Il leader del partito al potere è l’oligarca Bidzina Ivanishvili, che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo, in cui è richiesto alla Commissione di imporre nei suoi confronti sanzioni personali.

    La leader georgiana Salomé Zourabichvili si è rivolta alle istituzioni comunitarie direttamente dall’emiciclo di Bruxelles: “Tanto deve essere ancora fatto, è il nostro compito comune nei prossimi mesi per non perdere una seconda opportunità che il popolo non ci perdonerebbe”

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    Von der Leyen risponde alle tensioni nei Balcani Occidentali con un nuovo piano di crescita per la regione su 4 pilastri

    Bruxelles – La situazione nei Balcani Occidentali preoccupa i vertici delle istituzioni comunitarie e non potrebbe essere altrimenti. Ma la risposta non può essere sempre e solo cercare di gettare acqua sugli incendi che regolarmente scoppiano soprattutto nella regione di confine tra Kosovo e Serbia, ma deve essere più strutturale. La pensa così la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, secondo quanto emerso dal suo intervento al GlobSec 2023 Bratislava Forum, in cui ha annunciato una nuova iniziativa dell’Unione che risponde anche a un nuovo approccio verso la regione: “Non chiediamo solo ai nostri partner di fare nuovi passi verso di noi, anche noi facciamo un grande passo verso di loro“.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in Albania (27 ottobre 2022)
    Quanto anticipato questa mattina (31 maggio) nella capitale della Slovacchia dalla numero uno dell’esecutivo comunitario è un nuovo piano di crescita per i Balcani Occidentali basato su quattro pilastri: “Avvicinarli al Mercato unico dell’Ue, approfondire l’integrazione economica regionale, accelerare le riforme fondamentali e aumentare i fondi di pre-adesione”. Una strategia che secondo la visione di Bruxelles porterà quasi nell’immediato “alcuni dei vantaggi dell’adesione all’Ue ai cittadini dei Balcani Occidentali” (ovvero Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia). Per esempio, “entrando a far parte del nostro Mercato unico digitale in settori quali il commercio elettronico o la sicurezza informatica”, ha illustrato von der Leyen, sottolineando però parallelamente il ruolo “fondamentale” di un mercato regionale comune per “rendere la regione un luogo più attraente per gli investitori europei”. Anche le riforme e l’aumento dei finanziamenti pre-adesione rientrano nella stessa visione di aumentare la “fiducia degli investitori”, ha precisato von der Leyen: “C’è un disperato bisogno di investimenti nei Balcani Occidentali“.
    Al centro di tutta la riflessione di von der Leyen c’è la questione energetica. “La regione dei Balcani Occidentali ha un enorme potenziale di diversificazione dai combustibili fossili russi“, tuttavia “deve aumentare l’efficienza energetica, intensificare la diversificazione e accelerare la diffusione di un maggior numero di energie rinnovabili” per ottenere due vantaggi: “L’indipendenza energetica dalla Russia e un più stretto allineamento con l’Unione Europea per accelerare l’adesione”. Ma allo stesso tempo anche i Ventisette devono “assumersi la responsabilità di avvicinare molto di più gli aspiranti membri dell’Unione”, perché “le onde d’urto inviate dalla guerra di aggressione di Putin hanno già raggiunto” anche i partner balcanici. Questo comunque per von der Leyen “non ha fatto altro che avvicinarci”, grazie al piano di sostegno dell’Unione che ha garantito le stesse misure di solidarietà come quelle all’interno dell’Unione: “Abbiamo sostenuto le famiglie vulnerabili contro gli alti costi dell’energia e stiamo costruendo nuove infrastrutture per ridurre la dipendenza dei Balcani Occidentali dai combustibili fossili russi“, ha rivendicato da Bratislava la numero uno della Commissione.
    Le tensioni in Kosovo
    Nel presentare il nuovo piano di crescita economica per i Balcani Occidentali, la presidente della Commissione Ue non ha dimenticato di citare la situazione in corso nel nord del Kosovo. “Le recenti tensioni sono preoccupanti, mi associo agli appelli rivolti a tutte le parti ad abbandonare lo scontro e ad adottare misure urgenti per ristabilire la calma“. Proprio questa mattina l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha salutato con favore la decisione del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, di dispiegare nel Paese balcanico 700 truppe aggiuntive della forza militare internazionale Kfor: “Continueremo lo stretto coordinamento e la cooperazione anche attraverso la nostra missione Eulex”, ha commentato Borrell (ritwittato poi dal presidente del Consiglio Ue, Charles Michel).
    Le proteste delle frange violente della minoranza serba nel nord del Kosovo sono scoppiate venerdì scorso (26 maggio) a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica, trasformatesi poi lunedì (29 maggio) in violente proteste che hanno coinvolto anche i soldati Kfor (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). A far deflagrare la tensione è stata la decisione del governo di Pristina di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci, nonostante le perplessità internazionali per l’affluenza al voto tendente all’irrisorio alle elezioni dello scorso 23 aprile – attorno al 3 per cento. Secondo il governo di Albin Kurti la decisione è stata determinata dagli episodi di ostruzionismo messi in atto dagli esponenti di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo, Aleksandar Vučić. Una scelta che però ha scatenato la dura reazione dei partner statunitensi, che hanno duramente accusato Pristina per l’escalation di tensione e imposto lo stop momentaneo alle esercitazioni ‘Defender 23’ come misura sanzionatoria.
    Mentre la Nato ha annunciato un rafforzamento della presenza attraverso il dispiegamento delle Forze di Riserva Operativa per i Balcani Occidentali, a Bruxelles le istituzioni comunitarie hanno iniziato a prepararsi per rafforzare subito il dialogo tra Serbia e Kosovo e riportare la situazione alla calma attraverso la diplomazia. “Ho chiesto a entrambe le parti di prendere misure urgenti per la de-escalation immediata e incondizionata”, ha reso noto ieri (30 maggio) in un punto stampa l’alto rappresentante Borrell, annunciando di essersi attivato per “un incontro di alto livello urgente del dialogo Pristina-Belgrado“. Se il diktat ai “manifestanti violenti” rimane sempre quello di “ritirarsi”, al governo del Kosovo la richiesta è quella di “sospendere le operazioni di polizia incentrate sui municipi nel nord del Paese”, ha ribadito Borrell, che oggi a Bratislava ha incontrato il premier Kurti: “La situazione attuale è pericolosa e insostenibile, abbiamo bisogno di una soluzione attraverso il dialogo per tornare a lavorare sull’attuazione dell’Accordo raggiunto” il 27 febbraio a Bruxelles.
    Il piano energetico per i Balcani Occidentali
    Per la presidente von der Leyen le tensioni nella regione devono però essere affrontate anche da un punto di vista strutturale, come dimostra il nuovo piano di crescita. Lo sforzo anche energetico dell’Unione Europea a sostegno dei sei Paesi dei Balcani Occidentali è stato messo su bianco nel corso del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre 2022 a Tirana, secondo le direttrici anticipate dalla stessa presidente della Commissione nel corso del suo viaggio nelle capitali balcaniche. Il pacchetto da 1 miliardo di euro complessivo sarà finanziato attraverso lo strumento di assistenza pre-adesione (Ipa III), si stima che mobiliterà in tutto 2,5 miliardi in investimenti e sarà diviso in due parti, ciascuna da 500 milioni.
    Il primo pilastro è un sostegno diretto al bilancio per affrontare l’impatto degli alti prezzi dell’energia in ciascuno dei sei Paesi dei Balcani Occidentali: 30 milioni per il Montenegro, 70 per la Bosnia ed Erzegovina, 75 per il Kosovo, 80 per la Macedonia del Nord, altrettanti per l’Albania e 165 per la Serbia. L’obiettivo è quello di mitigare i prezzi per piccole e medie imprese, tenere il costo dell’energia accessibile per le famiglie vulnerabili e supportare misure per accelerare la transizione energetica dalle fonti fossili russe.
    Per quanto riguarda il secondo pilastro da mezzo miliardo di euro del Pacchetto di supporto energetico ai Balcani Occidentali, i finanziamenti per le misure a medio termine arriveranno dal Western Balkans Investment Framework (Wbif), per far avanzare la diversificazione energetica, le fonti rinnovabili, le infrastrutture per il gas e l’elettricità e gli interconnettori. Secondo le previsioni di Bruxelles, questo importo dovrebbe generare ulteriori investimenti pubblici e privati pari a 1,4 miliardi di euro, sia per la riduzione dell’impatto della crisi energetica sia per il sostegno alla transizione verde. Tutto ciò sarà reso possibile da una copertura di garanzia Ue fino a 419 milioni di euro verso sei progetti nella regione, aumentando la capacità di investimento nelle priorità dell’energia pulita.

    Avvicinare i sei Paesi al mercato unico dell’Ue, approfondire l’integrazione economica regionale, accelerare le riforme e aumentare i fondi di pre-adesione. Ma sull’escalation in Kosovo la presidente della Commissione Ue chiede “misure immediate per ristabilire la calma”

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    Dure condanne della comunità internazionale agli scontri nel nord del Kosovo in cui sono rimasti feriti anche soldati Kfor

    Bruxelles – Gli ultimi sviluppi nel nord del Kosovo non sono più una semplice questione di preoccupazione – come spesso le istituzioni comunitarie esprimono in maniera più o meno partecipata – ma richiedono una forte presenza della comunità internazionale per non permettere che la situazione sfugga di mano. Le premesse ci sono tutte, parlare di rischio guerra è un totale azzardo, ma il modo in cui le proteste della minoranza serbo-kosovara sono sfociate ieri (29 maggio) in violenze anche contro i soldati della missione Kfor a guida Nato dimostra la necessità di un intervento deciso a sostegno della soluzione diplomatica su cui Bruxelles sta spingendo per la normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo. L’unico modo per creare condizioni di sicurezza e stabilità anche in una regione fragile come il nord del Kosovo.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, nel nord del Kosovo (29 maggio 2023)
    “L’Ue condanna nella maniera più forte possibile le violenze che abbiamo visto negli ultimi giorni“, ha commentato in modo secco l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in un punto stampa oggi (30 maggio) a Bruxelles con il neo-eletto presidente del Montenegro, Jakov Milatović: “È impossibile non discuterne visto ciò che accade nelle vostre immediate prossimità”, ha sottolineato Borrell parlando con il leader montenegrino degli “atti violenti assolutamente inaccettabili contro i cittadini, i media, le forze dell’ordine e le truppe Kfor”. A proposito dello scoppio delle violenze nel comune di Zvečan, che ha coinvolto anche i membri della forza militare internazionale, Borrell ha ribadito che l’Ue sostiene la Nato “nel suo mandato nell’interesse della pace e della stabilità del Kosovo”, così come ricordato nel corso di due telefonate con il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, e con il presidente serbo, Aleksandar Vučić: “Ho chiesto a entrambe le parti di prendere misure urgenti per la de-escalation immediata e incondizionata”. A Pristina la richiesta è quella di “sospendere le operazioni di polizia incentrate sui municipi nel nord del Paese”, mentre i “manifestanti violenti devono ritirarsi”. Nel frattempo a Bruxelles è lo stesso alto rappresentante a essersi attivato per organizzare “un incontro di alto livello urgente del dialogo Pristina-Belgrado“, ha reso noto.
    Proteste a Zvečan, nel nord del Kosovo, il 26 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    Le proteste nel nord del Kosovo sono scoppiate venerdì scorso (26 maggio) a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di etnia albanese di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica (quest’ultimo è stato l’unico comune in cui non si sono registrate resistenze della popolazione serba). Nonostante l’affluenza al voto tendente all’irrisorio alle elezioni dello scorso 23 aprile – attorno al 3 per cento – il governo di Pristina ha deciso di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci. Una situazione determinata dagli episodi di ostruzionismo messi in atto dagli esponenti di Lista Srpska – il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić – con scontri prima con le forze di polizia kosovare e poi con i soldati Kfor in particolare a Zvečan. Come ha reso noto la stessa forza militare internazionale in un comunicato, sono 30 i membri che hanno riportato “ferite multiple, tra cui fratture e ustioni da ordigni incendiari improvvisati”. Di questi, 11 soldati appartengono dal contingente italiano e 19 a quello ungherese, ma “nessuno è in pericolo di vita”.
    Al momento due sindaci si sono già insediati nei rispettivi municipi. A Leposavić, Ljuljzim Hetemi (di etnia albanese) è da ieri nel suo ufficio e per motivi di sicurezza ci è restato tutta la scorsa notte. A Kosovska Mitrovica invece Erden Atić (della minoranza bosniaca) non ha mai avuto problemi con la popolazione e ha iniziato a svolgere la propria attività. A Zvečan, Iljir Peci (di etnia albanese) ha confermato di voler iniziare il mandato da un ufficio distaccato, mentre a Zubin Potok, Izmir Zeqiri (di etnia albanese) non si è presentato in municipio per evitare altre tensioni. Proprio in questi due comuni si sono radunati anche oggi gli esponenti di Lista Srpska per protestare contro i sindaci definiti “illegittimi e usurpatori”, come urlato ieri prima dello scoppio delle violenze. Anche se la situazione non è tesa come 24 ore fa, la forza Kfor ha aumentato i propri soldati di stanza sul campo attraverso il dispiegamento delle Forze di Riserva Operativa per i Balcani Occidentali della Nato.
    C’è la Kosovo Force della Nato
    La Kosovo Force (Kfor) è una forza di pace internazionale a guida Nato, la cui missione è stata avviata il 10 giugno 1999 dopo il mandato dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I primi soldati della forza militare internazionale sono entrati in Kosovo due giorni più tardi, con il ritiro completo delle forze dell’allora Jugoslavia. Inizialmente la Kfor era composta da 50 mila membri, ma il miglioramento del contesto di sicurezza ha permesso di diminuirne gradualmente il numero fino alle attuali 3762 unità presenti sul terreno, e il trasferimento delle competenze alle forze di polizia kosovare.
    L’obiettivo della forza militare internazionale a guida Nato è quello di mantenere un ambiente sicuro e la libertà di movimento – compresa la presenza civile internazionale e di altre organizzazioni – e il sostegno a un Kosovo “stabile, democratico, multietnico e pacifico”. I contingenti della Kfor sono stati inizialmente raggruppati in cinque brigate multinazionali e per ogni brigata era stata designata una nazione guida. Nell’agosto del 2019 la struttura è stata razionalizzata in due Comandi regionali, il Comando regionale orientale basato a Camp Bondsteel e il Comando regionale occidentale basato a Camp Villaggio Italia. La forza è attualmente guidata dal generale italiano Michele Ristuccia e l’Italia rappresenta anche il Paese con il contingente più consistente tra i 27 che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi della missione (715 su 3762, più degli Stati Uniti con 561).
    Due anni di tensione nel nord del Kosovo
    Negli ultimi due anni la tensione nel nord del Kosovo ha conosciuto diversi momenti di escalation, intrecciandosi con lo sforzo di Bruxelles di spingere sul percorso di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado. Già nel 2021 era scoppiata la cosiddetta battaglia delle targhe tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo guidato da Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Una questione che, dopo essere stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, è tornata a infiammare la seconda metà del 2022, con blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara a fine luglio.
    Due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non avevano portato a nessuno sbocco politico. La situazione si era aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska aveva definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013, ovvero la mancata istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state rinviate al 23 aprile per non rischiare di rendere la situazione fuori controllo.
    Parallelamente era stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si era registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo. Il presidente serbo aveva minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si era dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese durante l’ondata di dimissioni di inizio novembre. Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste è stata risolta solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, alla riunione di alto livello a Ohrid, Macedonia del Nord (18 marzo 2023)
    Con il nuovo anno Bruxelles ha spinto con forza per arrivare a un’intesa definitiva tra le due parti che risolva di riflesso anche i continui episodi più o meno violenti nel nord del Kosovo. È del 27 febbraio l’accordo di Bruxelles che ha definito gli impegni specifici che Serbia e Kosovo devono assumersi per la normalizzazione dei rapporti reciproci: una proposta in 11 punti avanzata dall’Ue e concordata da entrambi i leader dei due Paesi balcanici nel corso della riunione-fiume nella capitale dell’Unione Europea. Nonostante il testo non sia stato firmato, a renderlo vincolante per Pristina e Belgrado è stata l’intesa sull’allegato di implementazione (anche questo non firmato, ma con pesantissime conseguenze finanziarie in caso di mancato rispetto), raggiunto dopo una sessione di 12 ore di riunioni bilaterali e congiunte a Ohrid (Macedonia del Nord). A rischiare di rimettere tutto in discussione è però ancora la situazione nel nord del Kosovo, a causa della bassissima affluenza alle elezioni del 23 aprile nei quattro comuni: “Non offrono una soluzione politica a lungo termine, ma hanno il potenziale di portare a un’escalation e di minare l’attuazione dell’Accordo di Ohrid”, è stato l’allarme lanciato dall’alto rappresentante Borrell al termine dell’ultimo confronto di alto livello a Bruxelles di inizio maggio.

    Tra i membri della forza militare internazionale guidata dalla Nato intervenuti per disperdere i manifestanti violenti serbo-kosovari contrari all’insediamento del nuovo sindaco di etnia albanese di Zvečan, 30 hanno riportato ferite anche gravi e quasi la metà sono italiani

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    Nel nord del Kosovo ci sono stati scontri tra le forze Nato Kfor e i manifestanti contrari all’insediamento dei sindaci

    Bruxelles – L’ennesimo episodio, gli ennesimi scontri, l’ennesimo rischio di destabilizzazione di una situazione particolarmente fragile nella regione. Nel nord del Kosovo l’ultima escalation di tensione tra le frange estremiste della minoranza serba e le forze di polizia intervenute per permettere l’insediamento dei nuovi sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica hanno messo di nuovo in allarme la comunità internazionale. E per la prima volta da anni le forze militari della Nato presenti sul terreno sono dovute intervenire per disperdere la folla, nel pieno delle violenze che le hanno coinvolte.
    Proteste a Zvečan, nel nord del Kosovo, il 26 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    “Questa mattina, la missione Kfor a guida Nato ha aumentato la sua presenza nei quattro comuni del Kosovo settentrionale, a seguito degli ultimi sviluppi nell’area”, è quanto si legge in un comunicato della forza militare internazionale Kosovo Force, attiva nella regione dal 1999. L’esortazione a “tutte le parti” è quella di “astenersi da azioni che potrebbero infiammare le tensioni o causare un’escalation”, anche se la forza comandata dal generale italiano Michele Ristuccia è “pronta a intraprendere tutte le azioni necessarie per garantire un ambiente sicuro in modo neutrale e imparziale”. Lo stesso comandante è in “stretto contatto” con sia con organizzazioni di sicurezza del Paese sia lo Stato Maggiore delle Forze armate serbe, ma soprattutto con la missione Eulex dell’Unione Europea: “Esortiamo Belgrado e Pristina a impegnarsi nel dialogo guidato dall’Ue per ridurre le tensioni e come unica via per la pace e la normalizzazione”, precisa il comunicato. Nel pomeriggio di oggi le stesse forze Kfor sono intervenute per dispendere i manifestanti di fronte agli edifici: 41 militari della Kfor sono rimasti feriti a Zvečan durante gli scontri, di cui 11 sono militari italiani e tre sono in condizioni gravi (ma non in pericolo di vita).
    La situazione a cui si fa riferimento è lo scoppio delle proteste di venerdì scorso (26 maggio) per l’insediamento dei neo-eletti sindaci dei quattro comuni. Nonostante le perplessità dei partner internazionali sull’affluenza al voto tendente all’irrisorio alle elezioni dello scorso 23 aprile – il dato complessivo è attorno al 3 per cento – il governo kosovaro guidato da Albin Kurti, ha deciso di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci. Una situazione determinata dall’intensificazione degli episodi di violenza e ostruzionismo messi in atto dagli esponenti di Lista Srpska – il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo, Aleksandar Vučić – che hanno cercato di ostacolare l’entrata in carica dei nuovi primi cittadini di etnia kosovaro-albanese, causando così scontri con le forze di polizia.
    Auto della polizia del Kosovo presa di mira durante le proteste del 26 maggio 2023 a Zvečan, nel nord del Kosovo (credits: Stringer / Afp)
    Ciò che però è cambiato rispetto al recente passato è il tipo di retorica nella condanna delle violenze da parte dei partner del Kosovo, sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Europea. “Ribadiamo la nostra dichiarazione del 26 maggio che condanna la decisione del Kosovo di forzare l’accesso agli edifici comunali nel nord del Kosovo nonostante i nostri ripetuti appelli alla moderazione”, si legge in una nota congiunta delle ambasciate di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea in Kosovo: “Anche i sindaci eletti dovrebbero dare prova di moderazione e agire immediatamente per dimostrare il loro impegno e la loro responsabilità nel rappresentare e servire tutti i membri delle loro comunità”. Allo stesso tempo gli esponenti di Lista Srpska sono stati messi “fortemente in guardia” su “altre minacce o azioni che potrebbero avere un impatto su un ambiente sicuro e protetto”. In particolare vengono condannati l’attacco alle pattuglie della missione Eulex e le azioni unilaterali e provocatorie, ma è forte anche la critica alle azioni perseguite da Pristina dopo le elezioni del 23 aprile: “Una soluzione politica a lungo termine per i comuni coinvolti può essere trovata solo attraverso un vero dialogo tra tutte le principali parti interessate”.
    Due anni di tensione nel nord del Kosovo
    Negli ultimi due anni la tensione nel nord del Kosovo ha conosciuto diversi momenti di escalation, intrecciandosi con lo sforzo di Bruxelles di spingere sul percorso di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado. Già nel 2021 era scoppiata la cosiddetta battaglia delle targhe tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo guidato da Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Una questione che, dopo essere stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, è tornata a infiammare la seconda metà del 2022, con blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara a fine luglio.
    Due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non avevano portato a nessuno sbocco politico. La situazione si era aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska aveva definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013, ovvero la mancata istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state rinviate al 23 aprile per non rischiare di rendere la situazione fuori controllo.
    Parallelamente era stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si era registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo. Il presidente serbo aveva minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si era dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese durante l’ondata di dimissioni di inizio novembre. Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste è stata risolta solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi.
    Con il nuovo anno Bruxelles ha spinto con forza per arrivare a un’intesa definitiva tra le due parti che risolva di riflesso anche i continui episodi più o meno violenti nel nord del Kosovo. È del 27 febbraio l’accordo di Bruxelles che ha definito gli impegni specifici che Serbia e Kosovo devono assumersi per la normalizzazione dei rapporti reciproci: una proposta in 11 punti avanzata dall’Ue e concordata da entrambi i leader dei due Paesi balcanici nel corso della riunione-fiume nella capitale dell’Unione Europea. Nonostante il testo non sia stato firmato, a renderlo vincolante per Pristina e Belgrado è stata l’intesa sull’allegato di implementazione (anche questo non firmato, ma con pesantissime conseguenze finanziarie in caso di mancato rispetto), raggiunto dopo una sessione di 12 ore di riunioni bilaterali e congiunte a Ohrid (Macedonia del Nord). A rischiare di rimettere tutto in discussione è però ancora la situazione nel nord del Kosovo, a causa della bassissima affluenza alle elezioni del 23 aprile nei quattro comuni: “Non offrono una soluzione politica a lungo termine, ma hanno il potenziale di portare a un’escalation e di minare l’attuazione dell’Accordo di Ohrid”, è stato l’allarme lanciato dall’alto rappresentante Borrell al termine dell’ultimo confronto di alto livello a Bruxelles di inizio maggio.

    Dal 26 maggio sono in corso proteste della minoranza serba contro l’insediamento dei nuovi sindaci a Leposavić, Zvečan, Zubin Potok e Mitrovica. La comunità internazionale accusa il governo Kurti per aver forzato la mano, ma sul campo sale la tensione con Lista Srpska

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    La rimonta dell’opposizione turca fallisce. L’Ue si congratula con Erdoğan per l’ennesima rielezione alla presidenza

    Bruxelles – Le speranze già flebili dell’opposizione turca di mettere fine al potere di Recep Tayyip Erdoğan sono arrivate al capolinea. Al ballottaggio delle elezioni presidenziali in Turchia, il leader in carica ha vinto ancora, mettendo fine all’illusione di quasi metà della popolazione di un cambio al vertice, dopo 20 anni quasi da capo assoluto del Paese. Erdoğan ha vinto, non trionfato, e questo mostra una Turchia molto divisa soprattutto tra città e aree rurali.
    La mappa delle circoscrizioni elettorali in Turchia vinte da Recep Tayyip Erdoğan (in giallo) e da Kemal Kılıçdaroğlu (in rosso)
    Chiamati al secondo turno di voto ieri (28 maggio), gli elettori turchi hanno riconfermato la fiducia nel presidente in carica, che ha conquistato il 52,16 per cento dei voti. Tre punti percentuali in più rispetto al primo turno, abbastanza per garantirsi la rielezione alle spese dello sfidante Kemal Kılıçdaroğlu, che ha tentato la rimonta impossibile e si è fermato al 47,84 per cento delle preferenze nel testa a testa. Ribaltati completamente i sondaggi di sole poche settimane fa, quando una vittoria del candidato unico dell’opposizione turca veniva dato alle stesse percentuali (se non leggermente più alte) di quelle conquistate ieri da Erdoğan. Una vittoria che – nonostante non sia arrivata già al primo turno come invece accaduto nelle tornate del 2018 e del 2014 – può sancire definitivamente l’aura di invincibilità del ‘sultano’ turco.
    Perché sei partiti di opposizione si erano uniti nella cosiddetta ‘Tavola dei Sei’ per esprimere un candidato comune e aumentare le possibilità di scalzare il leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) dalla presidenza del Paese. I sondaggi avevano evidenziato una reale occasione per Kılıçdaroğlu, economista dai toni pacati e leader del Partito popolare repubblicano (Chp), il principale partito d’opposizione fondato nel 1923 dal primo presidente turco, Mustafa Kemal Atatürk. La prima doccia fredda è arrivata al primo turno del 14 maggio, quando Erdoğan è riuscito a mettere il sigillo quasi perfetto sulle presidenziali del 2023 – contrariamente alle aspettative – e arrivando a mezzo punto percentuale dalla rielezione. Ben sotto le aspettative il risultato di Kılıçdaroğlu, fermo al 45 per cento e costretto alla rimonta. Prospettiva diventata ancora più ardua dopo che il terzo candidato escluso dal ballottaggio, il nazionalista di estrema destra Sinan Oğan, ha espresso l’indicazione di voto per i suoi sostenitori a favore proprio del presidente in carica e ha così indirizzato l’esito finale delle elezioni.
    “L’unico vincitore oggi è la Turchia”, ha rivendicato Erdoğan nel suo discorso post-vittoria, attaccando nuovamente l’opposizione sulle questioni Lgbtq+, dei curdi e del terrorismo. “Tutti i mezzi dello Stato sono stati messi ai piedi di un solo uomo, sono le elezioni più ingiuste degli ultimi anni“, ha contrattaccato Kılıçdaroğlu, che però non ha contestato l’esito delle urne. Con la seconda rielezione a presidente (prima ha rivestito la carica di premier dal 2003 al 2014, carica abolita nel 2018), Erdoğan si appresta a diventare il leader più longevo dopo Atatürk (1923-1938), il padre fondatore della Turchia moderna rinata dalle rovine dell’Impero Ottomano: il centenario della nascita della Repubblica sarà celebrato il prossimo 29 ottobre proprio con il nuovo ‘sultano’ saldamente alla testa del Paese. Un leader che sta portando la Turchia su una strada nazionalista, conservatrice e di matrice islamista.
    Quali sfide attendono l’Ue con la Turchia di Erdoğan
    Quasi immediate nella serata delle vittoria di Erdoğan le congratulazioni da parte dei leader delle istituzioni dell’Unione Europea. “Non vedo l’ora di lavorare ancora con lei per approfondire le relazioni Ue-Turchia negli anni a venire“, ha commentato in un tweet il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. A fargli eco la numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: “È di importanza strategica per l’Ue e la Turchia lavorare per far progredire queste relazioni, a beneficio dei nostri popoli”. Al momento nessun commento è invece arrivato dalla presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, mentre l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, si sono esposti in una nota congiunta: “L’Ue ha un interesse strategico a continuare a intrattenere relazioni cooperative e reciprocamente vantaggiose con la Turchia e con tutto il suo popolo, nonché a creare un ambiente stabile e sicuro nel Mediterraneo orientale“. A questo si aggiunge l’impegno con Ankara per la “prosperità e stabilità condivisa, sulla base degli impegni per i diritti umani, lo Stato di diritto, il diritto internazionale e la stabilità regionale”.
    Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan (credits: Adem Altan / Afp)
    Tutte questioni calde per i rapporti tra Bruxelles e Ankara negli ultimi anni di presidenza Erdoğan, destinati a continuare (almeno) per altri cinque anni. Uno dei temi più caldi sul tavolo è quello della delimitazione delle aree marittime nel Mediterraneo, con la Turchia che dal 2019 continua a mettere in discussione i confini greci – e di conseguenza le frontiere esterne dell’Unione – a sud dell’isola di Creta. L’ultimo episodio di tensione risale all’ottobre dello scorso anno, quando Ankara ha siglato un nuovo accordo preliminare sull’esplorazione energetica con la Libia. Nel contesto mediterraneo si inserisce anche la controversia diplomatica più che quarantennale sulla divisione dell’isola di Cipro, dove solo la Turchia riconosce l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord e dal 2017 sono fermi i tentativi di compromesso.
    C’è poi il congelamento dei capitoli negoziali per l’adesione della Turchia all’Unione Europea, avviati nel 2005 e da anni “a un punto morto” per i “continui gravi passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura”, aveva sottolineato ancora nel 2020 il commissario Várhelyi. Per Bruxelles è di cruciale importanza anche la questione della gestione delle persone migranti dirette verso l’Europa: se nel marzo 2016 l’Ue ha stretto un accordo con la Turchia per bloccare e accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani in fuga dalla guerra in cambio di finanziamenti comunitari (oggi Erdoğan parla esplicitamente di rimpatri in Libia per milioni di persone), in diverse occasioni la Grecia ha lanciato dure accuse ad Ankara per violazioni dell’accordo stesso e sta implementando una politica di costruzione di barriere fisiche alla frontiera.
    Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio Europe, Charles Michel, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ad Ankara (6 aprile 2021)
    Per la presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue è invece caldissimo il tema del veto sull’adesione di Stoccolma alla Nato, legato alla repressione della minoranza curda. Ora che Erdoğan si è riconfermato leader del Paese, ci si aspettano movimenti sul dossier – che riguarda sia la politica interna sia quella estera del presidente – fermo da mesi per le richieste intransigenti da Ankara a Stoccolma di estradare i membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). La posizione irremovibile del leader turco ha indispettito non poco i leader dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord e dei Paesi membri Ue, che hanno visto sfumare l’ingresso congiunto di Svezia e Finlandia nell’Alleanza nello stesso giorno (il 4 aprile 2023).
    Ultimo, ma non per importanza diplomatica, quello che è passato alle cronache politiche come ‘Sofagate’. Il 6 aprile 2021 i presidenti von der Leyen e Michel si erano recati ad Ankara in visita istituzionale per rilanciare il dialogo Ue-Turchia. Ma l’accoglienza al palazzo presidenziale per la numero uno dell’esecutivo comunitario era stata tutt’altro che piacevole e rispettosa: mentre al leader del Consiglio è stata riservata una sedia accanto a Erdoğan, von der Leyen si era dovuta accomodare – con evidente imbarazzo e disappunto – su un sofà, appunto. Uno sgarbo istituzionale arrivato a poche settimane dalla decisione del presidente turco di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, che ancora una volta aveva evidenziato tutta la tensione nei rapporti tra Bruxelles e Ankara.

    Il leader al potere da 20 anni si riconferma alla guida del Paese, superando al ballottaggio lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu con il 52,16 per cento dei voti. Per Bruxelles ora si apre una nuova fase su temi già caldi, dalla migrazione all’allargamento, fino a Nato, energia e diritti umani