More stories

  • in

    I territori ucraini chiedono aiuto alle Regioni Ue in vista della ricostruzione

    Bruxelles – Essere pronti per quando sarà il momento, per quando la ricostruzione dell’Ucraina potrà partire. La riforma della pubblica amministrazione, con il decentramento e il trasferimento di maggiori poteri e maggiori competenze e regioni e comuni diventa cruciale. Ucraina ed Europa sono già lavoro, ma la prima ha bisogno della seconda per non farsi trovare impreparata. Il sindaco di Kiev, Vitalii Klychko, si rivolge al Comitato europeo delle regioni per chiedere aiuto in un percorso non scontato, perché la guerra ha cambiato contesto e paradigma.
    “Abbiamo poco tempo, e dobbiamo fare adesso ciò che serve per fare dell’Ucraina un Paese europeo”, riconosce Klychko. “Serve una riforma per l’autogoverno”, e in tal senso “voglio chiedere al Comitato europeo delle regioni l’assistenza per fare queste riforme“. La richiesta di sostegno riguarda in particolare “una roamap”, quanto mai fondamentale, come l’aiuto che si cerca in Europa. “Senza questa assistenza non saremmo in grado”.
    Ripete in sostanza quanto già espresso dal presidente della Repubblica. Anche Volodymyr Zelensky ha apertamente invitato le regioni europee a lavorare con il Paese, con la differenza che il sindaco di Kiev porta il punto di vista delle comunità locali e loro esigenze, quelle che si porranno.
    Il Comitato europeo delle regioni è già al lavoro. Ospita la riunione dell’Alleanza europea delle città e delle regioni per ricostruzione dell’Ucraina, in vista delle conferenza internazionale di Londra in programma il 21 e 22 giugno. La disponibilità c’è, consapevoli che “il decentramento amministrativo nel contesto della ricostruzione è importante”, scandisce Niina Ratilainen, facente le veci del presidente Vasco Alves Cordeiro. “Il Comitato incoraggia la riforma della pubblica amministrazione e il decentramento amministrativo, e siamo d’accordo con l’andare avanti” nonostante tutto, per essere pronti.
    Alla fine delle ostilità saranno le comunità locali a dover far uso delle risorse utili per ricostruire i territori, e si vuole già un quadro legislativo chiaro, pronto per l’uso. “Vediamo pressioni di centralizzazione” legate alle logiche della guerra, ammette Andreas Schaal, direttore per la Cooperazione e le relazioni globali dell’Ocse, ma “è cruciale avere decentralizzazione quando arriverà il momento delle ricostruzione”. Territori d’Ucraina e d’Europa si preparano.

    Il sindaco di Kiev al Comitato europeo: “Per il decentramento amministrativo ci serve la vostra assistenza”

  • in

    Ucraina, gli aiuti Ue salgono a 70 miliardi di euro. Finanziamenti militari per 15 miliardi

    Bruxelles – Un totale di 70 miliardi di euro di aiuti. Di questi, 10 miliardi di euro solo per sostegno militare.  La Commissione europea inizia a fare un bilancio di quanto offerto all’Ucraina per far fronte all’aggressione russa e ciò che ne deriva. Cifre che rispondono agli impegni assunti, nel rispetto dei quali l’esecutivo comunitario annuncia un nuovo pacchetto di aiuti da 1,5 miliardi di euro assistenza micro-finanziaria per il governo di Kiev. Saranno sborsati “a giugno”, e serviranno per pagare stipendi e pensioni, oltre che mantenere in funzione i servizi pubblici essenziali come ospedali, scuole e alloggi.
    E’ nell’annunciare questo nuovo contributo che l’esecutivo comunitario offre i dati complessivi. Dall’inizio della guerra il sostegno all’Ucraina e agli ucraini ammonta a circa 70 miliardi di euro. E’ ripartito in aiuti finanziari, umanitari, di emergenza e militari. La parte di assistenza finanziaria per le necessità urgenti, con questo nuovo impegno appena deciso, ammonta a 18 miliardi di euro. Quasi la metà (7,5 miliardi) sono stati resi disponibili nel 2023.
    Questi 18 miliardi sono inclusi nel più ampio programma di assistenza finanziaria e umanitaria. Un totale di 37,8 miliardi di euro, tra fondi Ue (30 miliardi) e prestiti e garanzie degli Stati membri (7,8 miliardi). E’ qui che ricadono i pacchetti umanitari diretto (685 milioni), sostegno per sfollati (330 milioni), sostegno alle riforme (305 milioni).
    Mentre la parte solo militare vale da sola un oltre settimo del totale. Così spiega l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. “Complessivamente, al momento, grazie allo European Peace Facility, abbiamo incentivato 10 miliardi di euro di sostegno militare all’Ucraina“, dice in occasione della riunione dei ministri delle Difesa. Anche se, alle fine, con i contributi bilaterali il sostegno militare potrebbe arrivare anche 20 miliardi di euro. Allo stato attuale il contributo militare complessivo, tra fondi Ue e dei singoli governi, si aggira a 15 miliardi di euro.
    Il resto del sostegno Ue per gli Ucraini, 17 miliardi di euro, sono il frutto di fondi di coesione non utilizzati e che servono per sostenere donne e bambini ucraini accolti negli Stati membri grazie al meccanismo della protezione temporanea. Riconosciuta subito, è stata concessa a oltre tre milioni di persone.

    Il bilancio fornito in occasione dell’annuncio del nuovo pacchetto di aiuti da 1,5 miliardi per sostegno a stipendi e pensioni, disponibile a giugno

  • in

    Ue al lavoro su F16 all’Ucraina. Borrell: “Finalmente si prepara il terreno per la fornitura”

    Bruxelles – Aerei da combattimento per l’Ucraina, l’Unione europea adesso ci pensa. L’apertura del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ridisegna l’agenda politica a dodici stelle, con la questione della fornitura di F16 che entra nel vivo del dibattito dei ministri degli Esteri. “Una buona idea, un buon segnale quello che arriva dal G7″, scandisce l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. “Finalmente si è deciso di preparare il terreno per la fornitura degli aerei da combattimento di cui hanno bisogno” in Ucraina. “L’addestramento dei piloti è già iniziato  e auspico che molto presto si potrà rifornire l’Ucraina di questi apparecchi”.
    La fornitura dei cosidetti fighter jets fin qui aveva creato non poche divisioni e non meno remore tra i Paesi dell’Unione. Si guardava all’amministrazione Biden, partner storico e capofila della Nato. Ora che il passo è compiuto l’Unione europea sembra intenzionata a procedere nonostante tutto. “Non credo” questo porrà un problema, scandisce Tobias Billstrom, ministro degli Esteri della Svezia, Paese con la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue. Semmai “accresce la pressione sulla Russia”. Quindi “nessun problema, semmai sarebbe un problema per la Russia, e Biden è stato chiaro”, aggiunge. Un riferimento alle parole del capo della Casa Bianca che conferma una volta di più i limiti di un’Unione europea in materia di affari esteri e difesa, legata alla mosse degli Stati Uniti.
    Forti della svolta a stelle e strisce, i Ventisette aggiungono un ulteriore tassello all’assistenza militare garantita fin qui a Kiev. Dalla fornitura di armi di difesa si è giunti all’armamento pesante dell’Ucraina. Prima i carriarmati tedeschi, adesso i caccia. “Molti F16 arriveranno da Paesi europei“, assicura il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis. Questo tipo di velivoli militari è detenuto di Italia, Grecia, Paesi Bassi, Danimarca, Romania, Portogallo. Il contributo olandese è garantito, e anche l’Italia potrebbe fornire tornado. “La coalizione degli F16 ha dunque una dimensione europea forte”, continua il ministro lituano, che però insiste. “Non dobbiamo aggiungere nuovi elementi a quanto già concesso, bisogna continuare a fornire quanto già dato“.
    Gli olandesi confermano la loro disponibilità. “Per noi non ci sono tabù“, scandisce Wopke Hoekstra, che però mette in chiaro che per ora si parla di formazione. “Fornitura di F16 e addestramento fanno parte del dibattito ma ci sono decisioni separate” da prendere, e in tal senso i Paesi Bassi iniziano con l’addestramento, così “se decideremo di inviare gli aerei saranno pronti”.
    La Francia avverte: “La formazione richiede mesi”, scandisce Catherine Colonna, ministra degli Esteri francese. “Oggi le necessità dell’Ucraina sono essenzialmente munizioni e veicoli blindati di terra”. Kiev dovrà quindi attendere. “Niente è escluso, ma siamo in una fase di formazione”.

    Ventisette divisi e titubanti, ma l’apertura degli Stati Uniti avvia i dossier. La Lituania: “Importante continuare a fornire anche quanto già dato”

  • in

    Sudan, l’Ue attiva un ponte aereo umanitario

    Bruxelles – Trenta tonnellate di articoli essenziali, tra cui acqua, attrezzature igienico-sanitarie ed equipaggiamenti per i rifugi in Sudan. L’Unione europea si mobilita di fronte alla crisi del Paese, con uno speciale ponte aereo umanitario attivato per venire incontro alle necessità della popolazione afflitta dalla guerra civile e da una situazione di difficile gestione. La decisione di istituire questo corridoio è stata presa “in considerazione delle crescenti esigenze umanitarie dovute al furioso conflitto”, spiega il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarcic. 
    Dal 15 aprile sono in corso combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces per il controllo del potere politico e militare, e la situazione sembra fuori controllo. Secondo gli ultimi rapporti del ministero della Salute del Sudan, al 5 maggio almeno 550 persone sono state uccise, tra cui 18 operatori sanitari e umanitari, e più di cinquemila ferite, e si teme che il bilancio complessiva possa crescere.
    “Colgo l’occasione per chiedere, ancora una volta, la fine dei combattimenti e della perdita di vite umane”, l’invito del commissario.  “Condanno fermamente i combattimenti in Sudan e invito entrambe le parti a consentire al personale medico e agli operatori umanitari di fornire assistenza salvavita“.
    Il ponte aereo umanitario è organizzato nel quadro della capacità di risposta umanitaria europea, uno strumento progettato per colmare le lacune nella risposta umanitaria ai pericoli naturali e ai disastri causati dall’uomo. Le 30 tonnellate di articoli essenziali sono state trasportate dai magazzini delle Nazioni Unite a Dubai a Port Sudan. All’arrivo, sono stati consegnati all’Unicef e al Programma Alimentare Mondiale.
    L’apertura del ponte aereo umanitario si aggiunge agli impegni già profusi dall’Unione europea. Attraverso il meccanismo di protezione civile e di aiuti umanitario l‘Ue ha già stanziato 200mila euro per i soccorsi immediati e l’assistenza di primo soccorso alle popolazioni ferite o esposte ad alto rischio nella capitale, Khartoum, e in altre zone colpite dalle violenze in corso. Garantito inoltre il sostegno alla Mezzaluna Rossa sudanese nella fornitura di primo soccorso, servizi di evacuazione e supporto psico-sociale. 

    Organizzato attraverso il meccanismo di risposta alle crisi umanitarie, per la consegna di 30 tonnellate di beni essenziali Lenarcic: “Decisione legata alle crescenti esigenze umanitarie dovute al furioso conflitto”

  • in

    Ue contro Israele sulla demolizione di una scuola palestinese. Cancellato il ricevimento per la Giornata dell’Europa

    Bruxelles – Un’altra scuola palestinese finanziata dall’Ue demolita dalle forze di difesa di Israele. Un’altra condanna di Bruxelles a Tel Aviv e alla sua aggressività nei territori occupati. Con la distruzione dell’istituto nel villaggio di Jubbet Adh Dhib, che si trova a pochi chilometri da Betlemme in Cisgiordania, sono già 301 le strutture palestinesi demolite dalle autorità israeliane dall’inizio del 2023.
    La scuola di Jubbet Adh Dhib prima della demolizione
    Un trend “preoccupante” che ricalca quello dello scorso anno, nel quale secondo i dati dell’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) sono state demolite o sequestrate 954 strutture in tutta la Cisgiordania, il numero più alto registrato dal 2016, provocando 1032 sfollati palestinesi. Nell’episodio di domenica mattina (7 maggio), la demolizione della scuola di Jubbet Adh Dhib impedirà agli 81 studenti dell’istituto di proseguire il proprio percorso di istruzione. “L’Ue ricorda che le demolizioni sono illegali ai sensi del diritto internazionale e che il diritto dei bambini all’istruzione deve essere rispettato”, ha dichiarato il portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae), Peter Stano.
    In gioco non c’è solamente il diritto all’istruzione dei bambini palestinesi, ma anche i rapporti tra Bruxelles e il partner israeliano. Delle oltre 9 mila strutture demolite dal 2009 a oggi, ben 1647 erano finanziate da donatori esterni: lo scorso anno, Tel Aviv ha demolito 101 costruzioni finanziate dall’Unione Europea o dai suoi Stati membri, per un valore di circa 337 mila euro. Come sottolineato da un rapporto pubblicato il 27 marzo dall’Ufficio della Rappresentanza dell’Ue all’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi), la maggior parte delle strutture sono state prese di mira per mancanza di permessi di costruzione, che tuttavia per i palestinesi sono quasi impossibili da ottenere.
    Dal Seae dunque l’invito a Israele a “fermare tutte le demolizioni e gli sgomberi, che non faranno che aumentare le sofferenze della popolazione palestinese e rischiano di infiammare le tensioni sul terreno”. Un appello che arriva pochi giorni dopo la visita a Bruxelles del ministro degli Esteri di Tel Aviv, Eli Cohen, a cui il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, aveva espresso la propria preoccupazione per la situazione incandescente nei territori palestinesi occupati.
    Lo strappo tra Ue e Israele sulla Giornata dell’Europa
    Il ministro per la Sicurezza Nazionale di Israele, Itamar Ben-Gvir (Photo by GIL COHEN-MAGEN / AFP)
    Se il governo ultra conservatore guidato da Benjamin Netanyahu rimane sordo alle condanne europee, Bruxelles ha preso oggi una decisione più incisiva e destinata a creare attriti con il partner mediorientale. La delegazione Ue in Israele ha cancellato il ricevimento diplomatico previsto per domani a Tel Aviv, in occasione della Giornata dell’Europa, per non “offrire un palcoscenico a chi ha punti di vista che contraddicono i valori dell’Unione Europea”. Si tratta in particolare del ministro per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, leader del partito religioso di estrema destra, incaricato dall’esecutivo Netanyahu di pronunciare un discorso durante l’evento.
    Ben-Gvir si è reso più volte protagonista di dichiarazioni di sfida verso gli alleati europei e statunitensi, per esempio quando, in risposta a un comunicato congiunto di Stati Uniti, Francia, Germania, Italia e Regno Unito in cui si esprimeva forte preoccupazione per l’espansione delle colonie in territorio palestinese, il ministro aveva risposto “ne vogliamo ancora di più, il territorio di Israele appartiene al popolo di Israele”.
    Come raccontato dal portavoce Stano, l’Ue aveva inoltrato l’invito all’evento alle autorità israeliane, che hanno confermato la presenza del ministro. A quel punto, si sono tenute in mattinata alcune consultazioni interne che hanno portato alla radicale decisione di sospendere il ricevimento, perché “il pensiero di Ben-Gvir e del suo partito è in netta contraddizione con tutti i principi e valori per cui combatte l’Ue“. Su Twitter, la delegazione Ue fa tuttavia sapere che si terrà un evento culturale aperto ai cittadini israeliani, “per celebrare con i nostri amici e partner in Israele la forte e costruttiva relazione bilaterale”.

    Nel 2022 le forze di difesa israeliane hanno distrutto “in modo illegale” 101 strutture finanziate da Bruxelles nei territori palestinesi occupati. La delegazione Ue nel Paese sospende il ricevimento diplomatico a causa della presenza del ministro di estrema destra Ben-Gvir

  • in

    Borrell: “Almeno 13 miliardi per sostegno militare all’Ucraina”. Ma potrebbero essere di più

    Bruxelles – Aiuti finanziari militari, il tesoro a dodici stelle cresce sempre più. Fin qui, in termini di denaro, all’Ucraina sono stati garantiti “almeno 13 miliardi di euro” tra risorse messe a disposizione dallo Strumento europeo per la pace (Epf) e contributi dei singoli Stati membri. Le cifre le offre l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, rispondendo a un’interrogazione parlamentarie sulla strategia di assistenza a Kiev.
    “Il sostegno militare dell’Ue all’Ucraina comprende 3,6 miliardi di euro attraverso l’Epf oltre all’assistenza bilaterale degli Stati membri, per un totale di almeno 13 miliardi”. Ecco le cifre, che però non sono consolidate. Si tratta di stime, si affermano a chiarire a Bruxelles. I governi non sono obbligati a condividere con l’esecutivo le informazioni riguardanti iniziative di sostegno nazionali. La Commissione europea dunque non dispone delle quote Paese.
    A Bruxelles però sugli ordini di grandezza qualche idea c’è. Si stima che oltre a quanto finanziato dall’Epf gli Stati membri abbiamo speso circa 3-4 volte di più a livello bilaterale. Per cui, alla fine, la somma di risorse Ue e contributi dei vari Stati membri “potrebbe raggiungere i 20 miliardi di euro” per l’assistenza militare europea complessiva, confidano fonti Ue. Si tratta solo del denaro necessario per rispondere all’offensiva russa. Poi ci sono gli aiuti umanitari e il rifornimento di mezzi, munizioni e armi, due capitoli diversi.

    L’Alto rappresentante fornisce la stima dei contributi finanziari, risultato di finanziamenti Ue e contributi nazionali bilaterali. A Bruxelles si chiarisce: “Sono stime, potrebbero essere 20 miliardi”

  • in

    Israele, l’Ue chiede un’indagine trasparente sulla morte del leader palestinese Khader Adnan

    Bruxelles – Fa discutere nell’Ue la morte in un carcere israeliano di Khader Adnan, figura di riferimento del Jihad Islamico Palestinese, dopo 86 giorni di sciopero della fame. Una morte sopraggiunta a seguito del recente deterioramento delle sue condizioni di salute denunciato dalla moglie e da diverse Ong locali e la determinazione con cui Adnan portava avanti il suo quinto sciopero della fame alla decima detenzione nelle prigioni di Israele.
    A poco sono serviti gli appelli della comunità internazionale, tra cui quelli dell’Unione Europea, che secondo quanto riferito dal portavoce del Servizio d’Azione Esterna dell’Ue (Seae), Peter Stano, avrebbe nei giorni scorsi “chiesto conto delle condizioni di salute” del prigioniero palestinese al ministro della Sanità di Tel Aviv, Yoav Ben-Tzur. A poche ore dalla morte, avvenuta nelle prime ore di questa mattina (2 maggio), Bruxelles interviene nuovamente chiedendo che venga aperta “un’indagine trasparente sulla sua morte e sulle circostanze che l’hanno causata”. Una richiesta che il capo della diplomazia Ue, Josep Borrell, potrebbe avanzare al ministro della Difesa israeliano, Eli Cohen, in visita proprio oggi nella capitale europea.
    Gli scioperi della fame di Adnan contro la detenzione amministrativa in Israele
    Khader Adnan aveva 45 anni ed era indicato da tempo come uno dei maggiori dirigenti del Jihad Islamico, formazione politica e militare che è ritenuta da Israele – ma anche da Stati Uniti e Unione Europea- un’organizzazione terroristica. Per la decima volta, lo scorso febbraio, era stato sottoposto a detenzione amministrativa, che permette alle autorità israeliane di imprigionare persone accusate di terrorismo o reati simili senza processo praticamente all’infinito, con rinnovi ogni sei mesi.
    Khader Adnan durante i 54 giorni di sciopero della fame nel 2014 (Photo by AHMAD GHARABLI / AFP)
    Il suo primo sciopero della fame risale al 2004, a cui negli anni ne sono seguiti altri quattro: nel 2012, nel 2014, nel 2021, fino all’ultimo che ne ha causato la morte.
    Già nel corso dei 54 giorni di sciopero del 2012, l’allora Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Catherine Ashton, aveva chiesto al governo di Israele “di fare tutto il possibile per preservare la salute di Adnan” e aveva ribadito “la preoccupazione di lunga data dell’Ue per l’ampio ricorso alla detenzione amministrativa senza accusa formale”. Secondo l’ong palestinese Addameer, che si occupa della tutela dei diritti dei detenuti politici in Israele, sarebbero però ancora quasi mille attualmente i prigionieri sottoposti a questa forma speciale di custodia cautelare.
    Il trattamento riservato ai prigionieri politici è uno dei motivi che avevano spinto Adnan a iniziare lo sciopero della fame e a rifiutare aiuti medici esterni e le visite dei medici della prigione. Come riportato da Afp, secondo la moglie le autorità israeliane hanno rifiutato  il trasferimento del detenuto dalla clinica della prigione di Nitzan in un ospedale civile, nonostante il grave peggioramento delle condizioni di salute.
    Alla notizia della sua morte, in mattinata dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati tre razzi sul territorio israeliano, che non avrebbero provocato danni né causato vittime. Il gruppo fondamentalista di Hamas ha immediatamente fatto sapere che “il popolo palestinese non lascerà che questo crimine passi sotto silenzio, e risponderà adeguatamente”, mentre il Jihad Islamico ha dichiarato in un comunicato che “la sua morte sarà una lezione per generazioni, e non ci fermeremo finché la Palestina rimarrà sotto occupazione”.
    L’Unione Europea ha definito “inaccettabili gli inviti alle rappresaglie” da parte dei gruppi armati palestinesi e il portavoce Peter Stano ha espresso parole di condanna per il lancio di razzi su Israele, lanciando l’ennesimo appello a entrambe le parti a evitare azioni unilaterali che portino a ulteriori escalation, dopo mesi di tensioni fortissime nella regione.

    Il portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna ha dichiarato di aver chiesto conto al ministro della Sanità israeliana delle condizioni di salute di Khader Adnan nei giorni scorsi. Il dirigente del Jihad Islamico Palestinese è morto alle prime luci dell’alba dopo 86 giorni di sciopero della fame

  • in

    I curdi del Rojava, gli alleati dimenticati dall’Occidente. Per l’Ue devono essere parte del processo di pacificazione in Siria

    Bruxelles – Guerra in Ucraina, tensioni tra Cina e Taiwan, lo scoppio delle ostilità in Sudan. Nella dichiarazione congiunta diffusa dai ministri degli Esteri dei Paesi del G7 a margine del meeting a Karuizawa, in Giappone, gli attuali sconvolgimenti geopolitici l’hanno fatta da padroni. Ma i capi delle diplomazie dei principali Paesi industrializzati e dell’Unione europea hanno anche voluto ribadire il sostegno al processo di pacificazione in Siria, portato avanti con difficoltà dalle Nazioni Unite e dall’Inviato Speciale, il norvegese Geir Otto Pedersen. Un processo che, “in un modo o nell’altro”, secondo Bruxelles dovrà tenere conto anche dei curdi che abitano nella regione autonoma nel Nord-est del Paese.
    I circa 5 milioni di curdi che dal 2016 hanno auto proclamato l’Amministrazione autonoma del Rojava rischiano infatti di rimanere fuori dai giochi: schiacciati su due fronti, tra il brutale regime di Assad che non ha mai riconosciuto la loro autonomia e la Turchia di Erdogan che negli ultimi mesi ha intensificato i bombardamenti sulla regione, gli eroi della guerra contro l’Isis non hanno ancora conosciuto la pace. I combattenti dell’Unità di Protezione Popolare (Ypg) e le combattenti dell’Unità di Protezione delle Donne (Ypj) lottano ancora per la sopravvivenza di quel sistema confederale rivoluzionario e femminista che rappresenta un unicum in tutto il Medio Oriente.
    Le combattenti delle Ypj, l’Unità di Protezione delle Donne curde (Photo by Delil SOULEIMAN / AFP)
    E anche l’Unione Europea, baluardo di principi democratici e di autodeterminazione dei popoli, sembra essersi dimenticata di loro: per superare il veto posto dalla Turchia all’ingresso di Svezia e e Finlandia nella Nato, la scorsa estate l’Occidente cedeva al ricatto di Erdogan e, in nome di una presunta lotta al terrorismo, sceglieva di voltarsi dall’altra parte mentre Ankara ridava vigore al suo tentativo di eliminare la Confederazione democratica che i curdi hanno costruito al di là del confine.
    La situazione nella regione è drammatica: oltre alle continue tensioni con le forze governative siriane e ai bombardamenti turchi, per la popolazione del Rojava la guerra contro lo Stato Islamico non è mai finita. La maggior parte dei centri di detenzione per i terroristi si trova nel Nord est della Siria, dove sono ancora attive diverse cellule di estremisti islamici. E gli aiuti umanitari che la comunità internazionale ha cercato di mandare nei villaggi curdi a seguito del terribile terremoto del 6 febbraio vengono sistematicamente fermati dalle autorità turche, come denunciato da diverse ong internazionali.
    I Ministri degli Esteri del G7 al meeting a Karuizawa, Giappone (Photo by Yuichi YAMAZAKI / POOL / AFP)
    Al G7 in Giappone, i ministri degli Esteri non hanno parlato del Rojava, ma hanno richiamato ancora una volta quella risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che risale al 2015, in cui si afferma l’impegno “per un processo politico inclusivo, guidato dalla Siria e facilitato dalle Nazione Unite“. Un processo che, ha ricordato il portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna, Peter Stano, possa raggiungere “una soluzione duratura in pieno rispetto dell’unità, dell’integrità territoriale e della sovranità della Siria”. Può convivere l’esperimento democratico curdo con il principio dell’integrità statale? La logica, e il silenzio dell’Occidente che da mesi accompagna le azioni militari siriane contro le città curde, suggerisce di no. Ma per l’Ue “in un modo o nell’altro” i curdi dovranno essere parte del processo di pacificazione nel Paese, perché “sono una componente importante della popolazione siriana e del paesaggio politico”.

    Al meeting del G7 in Giappone, i ministri degli Esteri dei Paesi più industrializzati hanno ribadito la necessità che la comunità internazionale continui a sostenere l’inviato speciale delle Nazioni Unite a Damasco. Per Peter Stano (Seae), la soluzione dovrà rispettare “l’unità, l’integrità territoriale e la sovranità” della Siria