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    L’ennesimo anno perso dall’UE sulla strada dell’allargamento ai Balcani Occidentali: (quasi) tutto rimandato al 2022

    Bruxelles – No, i negoziati per l’adesione all’Unione Europea di Albania e Macedonia del Nord non sono ancora iniziati. La grande promessa della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è caduta nel vuoto. Questa parola data e non rispettata dall’UE ai Balcani Occidentali è uno dei molti segnali di difficoltà che stanno caratterizzando non solo il processo di allargamento dell’Unione nella regione, ma anche gli stessi rapporti tra Bruxelles e le capitali balcaniche.
    Sul 2021 c’erano grandi aspettative di rilancio del ruolo dell’UE nei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia), considerati i diversi dossier lasciati in sospeso alla fine dello scorso anno. La maggior parte sono rimasti pressoché inalterati – se non addirittura peggiorati – mentre solo pochi hanno trovato una nuova spinta. La realtà dei fatti è che al momento sono solo due i Paesi che hanno aperto i quadri negoziali con Bruxelles (Serbia e Montenegro).
    Il contorno è una crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina, un dialogo Kosovo-Serbia che si sta incrinando sempre di più e un clima di disillusione a Skopje e Tirana che non fa presagire nulla di buono. Nel 2022 l’Unione Europea dovrà dimostrare di saper mantenere le promesse fatte ai partner balcanici, o rischierà di compromettere definitivamente il processo di allargamento.
    L’allargamento dell’UE nei Balcani
    Si tratta del tema più caldo sul tavolo europeo e anche il rimpianto più grande di questo 2021. Dopo il veto della Bulgaria all’apertura dei quadri negoziali con la Macedonia del Nord (che ha trascinato nello stallo anche l’Albania) del dicembre dello scorso anno, ci si aspettava che le pressioni diplomatiche sul governo di Sofia avrebbero portato allo sblocco della situazione e l’inizio del cammino di adesione UE per i due Paesi dei Balcani Occidentali vincolati dallo stesso dossier.
    Da sinistra: il premier sloveno e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Janez Janša, il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, e la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen (Kranj, 6 ottobre 2021)
    Ad alzare le aspettative era stata la stessa presidente von der Leyen, che nel suo tour a settembre nelle capitali balcaniche aveva promesso a Skopje e Tirana che “le prime conferenze intergovernative si dovranno organizzare entro la fine dell’anno“. Già allora sembrava un azzardo (ma rimane pur sempre la posizione ufficiale della Commissione) e forse è stato anche per questo motivo che, come riportato da Eunews direttamente da Kranj (Slovenia), il mancato accordo al vertice UE-Balcani Occidentali di inizio ottobre non ha rappresentato una grossa sorpresa.
    Il ritorno in presenza (dopo tre anni) dell’appuntamento più importante tra i leader dell’Unione Europea e della regione balcanica è coinciso con un nulla di fatto, al contrario delle aspettative della presidenza slovena del Consiglio dell’UE, che aveva spinto per inserire – invano – la data del 2030 come termine ultimo per il processo di allargamento dell’UE nei Balcani.
    A proposito di adesione all’Unione Europea, va segnalato un parziale successo di Bruxelles nello spingere con decisione i due Paesi che hanno già aperto i negoziati, dando più credibilità e affidabilità a questo processo. Lo scorso 22 giugno sono state avviate le prime conferenze intergovernative con Serbia e Montenegro, attraverso una metodologia rivista basata sull’accorpamento di 33 capitoli negoziali in 6 gruppi tematici: secondo le intenzioni di Bruxelles, in questo modo si riuscirà a dare maggiore dinamismo e risultati tangibili sul fronte delle riforme strutturali a Belgrado e Podgorica.
    Il dialogo Pristina-Belgrado
    Qui invece ci troviamo di fronte al solito nodo irrisolto delle relazioni diplomatiche tra Kosovo e Serbia, con il tentativo di Bruxelles di trovare un punto di mediazione. Il dialogo, che quest’anno ha compiuto esattamente 10 anni, era ripreso nel luglio dello scorso anno dopo anni di silenzio. Ma proprio nel momento in cui si iniziava a sperare in un compromesso tra le parti, il 2021 ha riservato l’ennesima ondata di tensioni.
    Il primo scossone è stata l’elezione del nuovo primo ministro kosovaro, il leader nazionalista di sinistra Albin Kurti. Se da una parte è stato l’artefice di una maggiore stabilizzazione del Paese, allo stesso tempo Kurti ha fatto capire a Belgrado che non farà nessuno sconto nel corso dei negoziati. Ad aumentare questa posizione dura a Pristina – che sta indispettendo la controparte serba – è stata la nomina della nuova presidente della Repubblica, Vjosa Osmani, che da aprile chiede più vaccini anti-COVID per il suo Paese: “Il dialogo con Belgrado prima dei vaccini non è una priorità”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante UE, Josep Borrell, e il premier del Kosovo, Albin Kurti (15 giugno 2021)
    Per l’UE si tratta di una delle questioni più spinose nei Balcani Occidentali. Dopo il fallimento della ripresa del dialogo nel doppio incontro di alto livello di quest’estate, a inizio autunno si è toccato il punto più basso. Lo scorso 20 settembre è scoppiata la cosiddetta ‘battaglia delle targhe’ tra i due Paesi, dopo la decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Dopo 10 giorni di incontri e negoziati promossi da Bruxelles, l’UE è riuscita a far siglare un’intesa a Serbia e Kosovo, che ha risolto una situazione potenzialmente esplosiva.
    Ma è stata una vittoria di Pirro, che non ha fatto avanzare di un millimetro il processo di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado e che ha avuto come strascico un indebolimento ulteriore della fiducia reciproca. Lo ha dimostrato il fatto che a Bruxelles non si è tenuto più nemmeno un vertice con il premier kosovaro e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. “È inutile incontrarci, se in partenza non c’è l’intenzione di trovare un compromesso”, ha commentato recentemente quasi sconsolato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri, Josep Borrell. Alla vigilia del 2022 la prospettiva di compromessi non sembra essere nemmeno teorica, né sul riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da parte di Belgrado, né sulla creazione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo.
    I buoni propositi per il 2022
    Da cosa ripartire dal primo gennaio del prossimo anno per raddrizzare il cammino dei Balcani Occidentali verso l’UE? Prima di tutto da quello che è indiscutibilmente il vero successo dell’Unione, che le sta consentendo di non perdere troppa credibilità agli occhi dei partner della regione: il Piano economico e di investimenti presentato dal commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi, il 6 ottobre del 2020 e la cui importanza è stata ribadita nel Pacchetto Allargamento 2021.
    Con una mobilitazione di finanziamenti fino a 29 miliardi di euro – e con il sostegno dello strumento di assistenza pre-adesione IPA III per favorire le riforme strutturali – l’UE punta a far sentire la propria presenza economica nella regione, sfidando le insidie russe e soprattutto cinesi nella regione. Una risposta anche allo scandalo del debito da 809 milioni di euro del Montenegro a Pechino, che ha preoccupato l’opinione pubblica fino a fine luglio.
    Il commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi
    Il secondo punto su cui si dovrà insistere sarà la fornitura di vaccini anti-COVID alla regione. Dopo mesi di grandi difficoltà da parte dell’UE, a partire da maggio la situazione dell’invio diretto di dosi e attraverso il meccanismo COVAX ai Balcani Occidentali si è sbloccata, lasciando la sensazione che Bruxelles abbia tutto l’interesse di mettere in sicurezza a livello sanitario i sei Paesi partner. La questione ha una valenza anche geopolitica, dal momento in cui la lotta al COVID-19 sta diventando uno strumento per tenere in piedi il processo di allargamento dell’Unione e si scontra con la penetrazione di Mosca (con il suo vaccino Sputnik V) e di Pechino (con Sinopharm).
    E infine sarà necessario dare una dimostrazione di forza per la stabilizzazione della regione. Evitando errori di comunicazione come quello sul non paper di Lubiana per “completare la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia” – che ha infiammato l’opinione pubblica dei Balcani e dei Paesi membri UE prima dell’inizio del semestre sloveno di presidenza del Consiglio dell’UE – Bruxelles è chiamata a dare una risposta concreta alla crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina. Che si tratti di sanzioni economiche, pressioni politiche o coordinamento con i partner statunitensi sul campo, le istituzioni europee dovranno decidere come non trasformare il 2022 nell’anno in cui le violenze etniche riprenderanno piede nel Paese. Tutto questo a causa delle minacce sempre più reali del membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita, Milorad Dodik, che a ottobre aveva minacciato di portare la Republika Srpska (l’entità serba) fuori dal controllo delle autorità centrali.
    Per l’UE il tempo del temporeggiamento nei Balcani Occidentali sta scadendo. La politica estera nei confronti dei partner più vicini e sensibili alla prospettiva di adesione all’Unione non potrà più basarsi su promesse non mantenute e soli impegni economici. Il 2022 non dovrà essere un ennesimo anno perso sulla strada dell’allargamento, o il rischio di perdere tutta la credibilità accumulata in anni di avvicinamento si potrebbe manifestare in forme più o meno violente. In una regione che ha già dimostrato solo 30 anni fa all’Europa il dramma delle guerre etniche.

    Pesano soprattutto il mancato avvio dei negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord, il dialogo Kosovo-Serbia sempre più stagnante e le difficoltà nel rispondere alla crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegonia

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    Usa e Russia un vertice “distante”. Sulla crisi ucraina Biden e Putin restano divisi ma il dialogo è aperto

    Roma – Nessun passo in avanti tra Joe Biden e Vladimir Putin anche se il dialogo resta aperto. Il presidente americano conferma le minacce di sanzioni durissime in caso di superamento dei confini dell’Ucraina. Il presidente della federazione Russa insiste nella richiesta di tenere lontana Kiev dalla NATO.
    Due ore davanti agli schermi ai due leader sono bastate per sciogliere il gelo ma non per trovare soluzioni alla tensione salita in Europa orientale con le truppe del Cremlino concentrate a migliaia ai confini con il Paese “cuscinetto”. Come era accaduto alla vigilia Biden ha poi avuto un secondo colloquio con gli alleati europei Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna e giovedì parlerà con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
    “Nessuna concessione, il Presidente è stato diretto e chiaro” ha detto Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale al termine del vertice, ribadendo “serie conseguenze” se la Russia deciderà di muoversi oltre confine. Il rafforzamento delle sanzioni era definito in precedenza e prevede una stretta economica pesante, dall’esclusione delle banche russe dai circuiti del sistema finanziario internazionale, alle limitazioni nel settore energetico, oltre che una serie di restrizioni alla libera circolazione di manager e oligarchi.
    Da Mosca Putin ha replicato che “i soldati russi sono sul loro territorio e non stanno minacciando nessuno”, al contrario “è la NATO che sta facendo pericolosi tentativi di conquistare il territorio ucraino e sta aumentando il suo potenziale militare ai nostri confini”. L’accusa lanciata al governo di Kiev e di voler smantellare gli accordi di Minsk con le continue provocazioni adottate verso la comunità russofona del Donbass, nel sud-est della repubblica ucraina.
    Le posizioni restano dunque distanti e solo una timida apertura, “una buona discussione” secondo la fonte del Cremlino, si è registrata sulla questione iraniana, che fa sperare positivamente nel riavvio del negoziato del trattato sul nucleare annunciato la scorsa settimana.
    Nonostante le minacce, condivise dagli alleati europei, la Casa Bianca punta all’azione diplomatica e il recupero degli accordi di Minsk. “I due presidenti – si legge nella nota diffusa da Washington – hanno incaricato i loro team di approfondire e gli Usa lo faranno in stretto coordinamento con gli alleati e partner”.
    Da Bruxelles prima del vertice, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, aveva assicurato il sostegno dell’UE che nei confronti della Russia “risponderà in modo appropriato in caso di una nuova aggressione, di violazioni del diritto internazionale e di qualsiasi altra azione dolosa intrapresa contro di noi o i nostri vicini, inclusa l’Ucraina”.

    I due leader non cambiano posizione con gli Stati Uniti che minacciano sanzioni dure in caso di invasione e il Cremlino che chiede assicurazioni sulla necessità di allontanare i suoi confini dalla NATO. Dopo il vertice nuovo colloquio del presidente americano con gli alleati europei

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    Ucraina al centro del vertice Biden-Putin. L’Europa convitato di pietra

    Roma – Il fronte caldo dell’Europa orientale preoccupa gli Stati e l’ultima emergenza migratoria al confine con la Bielorussia ne è solo un aspetto. Rilevante ma che comprende una questione più ampia che coinvolge l’Ucraina e i Paesi dell’ex influenza sovietica ora nell’UE.
    Nodi che saranno al centro del summit virtuale tra Joe Biden e Vladimir Putin fissato per oggi. Un vertice che riguarda soprattutto l’Europa e a dimostrazione di ciò ieri sera il presidente americano ha chiamato al telefono per un confronto allargato Mario Draghi, Emmanuel Macron, Angela Merkel e Boris Johnson.
    “I leader hanno condiviso la preoccupazione per l’incremento del dispositivo militare russo ai confini con l’Ucraina, concordando sull’esigenza che quest’ultima si adoperi per una distensione – riferisce Palazzo Chigi –  ribadendo che la diplomazia resta l’unica via per risolvere il conflitto nel Donbass dando attuazione agli Accordi di Minsk”.
    Scongiurare dunque l’attacco a Kiev, su cui il dipartimento di Stato americano insieme alla CIA da giorni lancia l’allarme per il concentrarsi di truppe al confine. Da parte di Mosca si rispedisce la palla nel campo opposto, addebitando l’escalation delle tensioni a Washington e ribadendo la richiesta di tenere lontana l’Ucraina dall’influenza NATO. “La Russia non attaccherà nessuno ma abbiamo le nostre preoccupazioni e le nostre linee rosse” ha detto il portavoce Dmitri Peskov ed è questo il primo punto che Putin sottoporrà a Biden nel vertice a distanza, in cui Bruxelles è per forza di cose il convitato di pietra.
    Europa che su questo delicato crinale non ha una posizione granitica e finora non è andata oltre la condanna dell’ingerenza del Cremlino con la conferma delle sanzioni. Queste, secondo l’amministrazione americana, potrebbero diventare ancora più pesanti, al livello più elevato come l’isolamento del sistema bancario russo o le misure di restrizione contro gli oligarchi. La Nato finora è stata allertata e gli Usa hanno già assicurato agli alleati un supporto ulteriore, qualora le truppe della federazione Russa varcassero i confini ucraini.
    La voce grossa avrebbe tuttavia come paradosso l’intenzione di stemperare la tensione in Europa e Biden avrebbe chiesto agli alleati proprio un’azione distensiva, specialmente nei confronti dei Paesi baltici da parte dei quali gli americani temono reazioni azzardate. La difesa dello status quo e il contenimento dell’escalation militare, avrebbe l’obiettivo di evitare le ritorsioni russe in campo energetico che come effetto immediato farebbe emergere una spaccatura tra i Paesi europei. L’altro strumento di pressione è stato già messo in campo da Mosca con il via libera indiretto dei migranti al confine tra Polonia e Bielorussia, e che ha riproposto ai piani alti di Bruxelles il tema irrisolto dei suoi confini, dei rifugiati e dell’applicazione dei principi di solidarietà e integrazione.
    Un vertice “schermato”, non solamente dal punto di vista tecnologico, quello tra Biden e Putin, che avrà come tema centrale l’Ucraina ma si porta dietro molti altri nodi che investono direttamente l’Europa, il suo ruolo internazionale, il progetto di difesa compatibile con la NATO, le sue relazioni economiche. Nodi che forse dovrebbero far scattare qualche urgenza nel dare concretezza a una politica estera comune.

    Il summit a distanza in formato virtuale affronta la crisi alle porte dell’UE e l’escalation militare verso Kiev da parte delle truppe russe. E per concordare un’azione distensiva ieri il presidente americano ha parlato al telefono con i leader europei Draghi, Macron, Merkel e Johnson

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    La Nuova Caledonia verso il terzo voto sull’indipendenza dalla Francia, tra boicottaggi e autodeterminazione

    Bruxelles – A 16.400 chilometri dalla capitale dell’Unione Europea, al largo della costa nord-orientale dell’Australia, si sta tenendo uno dei più accesi dibattiti sull’autodeterminazione dei popoli sul territorio dei Paesi europei. Nonostante l’attenzione mediatica europea sia spesso focalizzata solo sulle vicende dell’indipendentismo catalano e scozzese, a una settimana dell’indipendenza di Barbados dalla Gran Bretagna, con il referendum sull’indipendenza della Nuova Caledonia dalla Francia di domenica prossima (12 dicembre) si giocherà non solo il destino di una delle enclave più lontane dell’Unione, ma anche il ruolo geopolitico del Paese membro che assumerà la prossima guida semestrale del Consiglio dell’UE.
    Fra pochi giorni gli elettori neocaledoni si recheranno alle urne per la terza volta in quattro anni (come previsto da un dettagliato accordo con Parigi) per decidere in merito alla separazione del territorio francese d’oltremare dall’attuale, lontana, Capitale. Il primo voto del 4 novembre 2018 – che aveva riaperto la strada tracciata nel 1987 – era stata una vittoria di misura degli anti-indipendentisti con il 56,6 per cento dei voti, sceso al 53,2 solo due anni più tardi (4 ottobre 2020). Che il vento pro-indipendenza stia soffiando in Nuova Caledonia l’ha dimostrato l’elezione di Louis Mapou, attivista indipendentista di origine kanaki (il popolo indigeno nativo dell’arcipelago), a capo del governo locale lo scorso 8 luglio.
    A pesare sul voto di domenica ci sarà però anche il fattore COVID-19. A causa dell’ondata di pandemia (la prima da marzo 2020) che si è abbattuta sull’arcipelago dallo scorso settembre e che ha portato alla morte di 279 abitanti, il Fronte di Liberazione Nazionale Kanak e Socialista (FLKNS) ha chiesto al governo francese di rinviare il referendum sull’indipendenza per concentrarsi prima sulla lotta al COVID-19 in Nuova Caledonia. Sul fronte opposto, i lealisti hanno accusato gli indipendentisti di usare la pandemia per giustificare il rinvio di un referendum che temevano di perdere, sottolineando il ruolo decisivo di Parigi nell’invio di medici e vaccini nelle isole per sostenere il sistema sanitario locale. A seguito della conferma dell’apertura delle urne il 12 dicembre, il FLKNS ha annunciato che boicotterà il referendum e che non ne riconoscerà il risultato.
    Le conseguenze per Francia e Unione Europea
    Il dibattito sul rinvio del referendum d’indipendenza è determinato dalle condizioni dell’Accordo di Nouméa del 1998 tra Francia e Nuova Caledonia, che ha posto le basi per la decolonizzazione dell’arcipelago e il diritto all’autodeterminazione. Nel testo viene specificato che Parigi dovrà assicurare tre referendum per stabilire se e come effettuare il trasferimento di poteri a Nouméa, la capitale delle isole. Nel caso in cui anche questa volta la maggioranza dovesse appoggiare i lealisti, si dovrebbe rinegoziare un nuovo accordo: è per questo motivo che, con la variabile COVID-19 sul tavolo, gli indipendentisti stanno spingendo per il boicottaggio e i lealisti per andare lo stesso alle urne.
    L’arcipelago di isole è stato acquisito da Parigi come possedimento nel 1853 ed è rimasto nell’orbita francese fino a oggi come territorio d’oltremare. Nonostante abbia un certo grado di indipendenza e un proprio Congresso, lo statuto della Nuova Caledonia continua a essere considerato come un riflesso del passato coloniale, in particolare dai Kanak. La stragrande maggioranza del popolo indigeno – che costituisce il 40 per cento della popolazione totale – è a favore del porre fine alla propria dipendenza dalla Francia, ma sarà decisivo il voto del restante 60 per cento, composto dai discendenti dei coloni e dei lavoratori immigrati europei e asiatici.
    Tutt’ora, l’arcipelago della Nuova Caledonia continua a rivestire un ruolo importante per la Francia, costituendo uno degli avamposti più strategici per far pesare la propria presenza nel Pacifico: lo status di Parigi come attore globale nella regione si basa prevalentemente sul rapporto con gli Stati Uniti e l’Australia – messo in crisi recentemente dalla disputa sui sottomarini – in ottica di contenimento della potenza cinese. Inoltre, i cittadini della Nuova Caledonia votano per le elezioni presidenziali francesi e l’esito del referendum sull’indipendenza determinerà anche se gli elettori del territorio d’oltremare potranno partecipare alla scelta del nuovo Presidente della Repubblica il prossimo 10 aprile.
    Proprio per questo legame politico-istituzionale tra la Nuova Caledonia e la Francia che potrebbe cambiare a partire da lunedì prossimo, anche le istituzioni europee sono pronte a un eventuale nuovo rapporto con l’arcipelago del Pacifico. Se Nouméa dovesse staccarsi ufficialmente da Parigi, gli elettori neocaledoni non potranno più partecipare alle elezioni del Parlamento Europeo, già a partire dal 2024. Una novità che non permetterebbe più di vedere a Bruxelles eurodeputati come Maurice Ponga, politico della Nuova Caledonia eletto nel 2009 (fino alle elezioni del 2019, quando tutte le circoscrizioni francesi sono state accorpate) come rappresentante dei territori d’oltremare.

    Domenica 12 dicembre gli elettori del territorio d’oltremare si esprimeranno (di nuovo) sul referendum per staccarsi da Parigi. Gli indipendentisti non riconosceranno il risultato, dopo aver chiesto il rinvio del voto per la crisi COVID-19

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    Riprendono a Vienna i negoziati sul nucleare iraniano. Ma Teheran non vuole trattare direttamente con gli USA

    Roma – Dopo cinque mesi di interruzione sono ripresi a Vienna i negoziati per riattivare l’accordo internazionale sul programma nucleare dell’Iran. Lo ha annunciato oggi il portavoce della delegazione dell’Unione europea Alain Georges Matton. La ripresa dei lavori della commissione è stata confermata anche dall’agenzia di stampa di Stato iraniana Irna.

    In Vienna, #JCPOA Joint Commission, chaired on behalf of EU High Representatives @JosepBorrellF by @eu_eeas Deputy Secretary General @enriquemora_ , just started. pic.twitter.com/kXtCbQtnEn
    — Alain Georges MATTON 🇪🇺 (@AlainMatton) November 29, 2021

    Un portavoce del governo di Teheran ha riferito che il Paese è “fermamente determinato” a ottenere un buon esito dei negoziati in vista di una revoca delle sanzioni internazionali.
    L’accordo sul nucleare era stato raggiunto nel 2015 con la mediazione dell’UE e dell’ex  rappresentante per la politica estera Federica Mogherini e quando a guidare gli Stati Unti era Barack Obama. Intesa abbandonata dalla presidenza Trump e ora segnata da nuove aperture da parte di Joe Biden. L’accordo era stato sottoscritto da gruppo 5+1, composto da Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti.
    In questa prima fase la delegazione USA guidata dall’inviato speciale per l’Iran, Robert Malley, parteciperà ai colloqui in forma indiretta, con i diplomatici degli altri Paesi che faranno da intermediari.
    Teheran ha sempre rivendicato il diritto a sviluppare un programma nucleare con sole finalità civili, che l’accordo internazionale dovrebbe permettere di monitorare.
    Tuttavia gli ostacoli per un nuovo accordo sono diversi. Da una parte ci sono le forti pressioni di Israele nei confronti dei Paesi occidentali che fin dal 2015 ha contestato l’intesa. Sul fronte opposto l’Iran ha irrigidito la sua posizione, denunciando la controparte statunitense di aver disatteso gli accordi con l’uscita unilaterale nel 2018 e un inasprimento delle sanzioni, motivo che ha portato al rifiuto di Teheran a trattare direttamente con Washington.

    Un portavoce del governo ha dichiarato che il Paese è “fermamente determinato” a un buon esito ma denuncia l’uscita unilaterale degli USA dagli accordi del 2015. Le trattative con l’inviato speciale di Biden saranno mediate dal gruppo dei 5

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    Nella lista nera delle sanzioni UE contro la Bielorussia anche gli operatori di trasporto complici della tratta di migranti

    Bruxelles – Una lista nera di compagnie aeree e operatori di trasporto che facilitano la tratta di persone verso l’Unione Europea. La Commissione Ue alza l’asticella della sua battaglia diplomatica contro il regime del presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, e oggi (martedì 23 novembre) propone un nuovo strumento per cercare di fermare alla radice il flusso migratorio che sta provocando una crisi al confine con la Polonia.
    Secondo la proposta di sanzioni presentata dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, dal vicepresidente della Commissione UE, Margaritis Schinas, e dalla commissaria per i trasporti, Adina Vălean, nel momento in cui un operatore di trasporto “mette a rischio la vita di persone vulnerabili e la sicurezza delle frontiere esterne dell’Unione”, l’esecutivo comunitario può prendere una serie di misure che vanno dal congelamento delle operazioni nel Mercato dell’UE alla sospensione delle licenze e del diritto di operare verso, da e dentro l’Unione Europea, fino al divieto di transitare, sorvolare o fare scalo nei porti dei Paesi membri. “La cooperazione forte e immediata a cui abbiamo assistito dalla comunità globale dell’aviazione nelle ultime settimane dimostra che è essenziale coinvolgere da vicino gli operatori dei trasporti nella prevenzione e nella lotta contro questa nuova forma di minaccia ibrida”, ha spiegato la commissaria Vălean.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (23 novembre 2021)
    Analizzando gli eventi lungo il confine tra Polonia e Bielorussia, la Commissione UE ha sottolineato che “i recenti eventi alla frontiera non si sarebbero potuti verificare senza il contributo degli operatori di volo, consapevole o involontario”. L’alto rappresentante Borrell ha indicato nella proposta di nuovo quadro giuridico “uno strumento adeguato per combattere la strumentalizzazione delle persone per scopi politici“, che sia “proporzionato e determinato caso per caso”. Una prima misura che potrebbe essere adottata a stretto giro riguarda la sospensione del noleggio di aerei della compagnia di bandiera bielorussa Belavia da parte delle aziende europee: “È una decisione imminente”, ha sottolineato il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, nel corso del suo intervento alla plenaria del Parlamento Europeo. Dal 24 maggio scorso a Belavia è stato chiuso lo spazio aereo dell’UE come risposta al dirottamento del volo Ryanair su Minsk per arrestare il giornalista e oppositore politico, Roman Protasevich.
    Anche la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, ha aggiornato gli eurodeputati sulla nuova proposta del suo gabinetto per contrastare la Bielorussia di Lukashenko: “Non accetteremo mai lo sfruttamento di esseri umani per scopi politici”, ha ribadito con forza. “I tentativi di destabilizzarci strumentalizzando le persone non funzioneranno, perché siamo uniti”, ha aggiunto von der Leyen, che ha ricordato l’impegno della Commissione a “risolvere la situazione alle frontiere esterne dell’UE con diverse azioni“.
    La presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen (23 novembre 2021)
    Tra queste azioni c’è anche la proposta di misure provvisorie di emergenza ad hoc in materia di asilo e rimpatrio. “L’obiettivo è sostenere gli Stati membri e definire le procedure adeguate per gestire gli arrivi irregolari in maniera ordinata nel rispetto dei diritti fondamentali”, ha anticipato la presidente della Commissione UE. Sulla base dell’articolo 78, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), la proposta prevede che, nel caso in cui uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi, “il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione con il Parlamento, può adottare misure provvisorie a favore degli Stati membri interessati“.
    C’è poi il capitolo del sostegno per la gestione delle frontiere e del flusso migratorio dalla Bielorussia, il tema più spinoso per le istituzioni UE. La presidente della Commissione ha ribadito la posizione dell’esecutivo comunitario (“Non saranno finanziate barriere fisiche con fondi UE”), ma sono stati messi a disposizione di Polonia, Lituania e Lettonia 200 milioni di euro “per la gestione delle frontiere e per sostenere l’attuazione delle procedure di asilo e le condizioni di accoglienza”, ha specificato il vicepresidente Schinas. Un ulteriore sostegno potrebbe includere l’intervento rapido alle frontiere e le operazioni di rimpatrio da parte dell’Agenzia europea della guardia di frontiera (Frontex) e l’assistenza dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO) nella gestione della crisi migratoria e nell’accoglienza delle persone.
    Sul piano dei fondi da stanziare, la Commissione fornirà “fino a 3,5 milioni di euro” per sostenere i rimpatri volontari dalla Bielorussia ai Paesi di origine, sostenendo iniziative come quelle messe in piedi dal governo dell’Iraq da giovedì scorso (18 novembre). E infine l’assistenza umanitaria verso le persone migranti bloccate alla frontiera dell’UE con la Bielorussia: un pacchetto da 700 mila euro messo a disposizione delle organizzazioni internazionali partner, così come annunciato mercoledì scorso (17 novembre) dall’esecutivo comunitario. “Qualora l’accesso delle organizzazioni umanitarie partner in Bielorussia dovesse migliorare ulteriormente, la Commissione è pronta a fornire ulteriori finanziamenti“, ha specificato la presidente von der Leyen davanti alla plenaria del Parlamento UE.
    A margine del Consiglio Affari Generali, il ministro per gli Affari europei, Vincenzo Amendola, ha dichiarato alla stampa che l’Italia ha chiesto che “al Consiglio Europeo di dicembre si continui a discutere di immigrazione“. Nei confronti della “dittatura bielorussa” c’è “la massima attenzione e unità tra Paesi membri sia nel difendere la vita delle persone migranti, sia nel condannare l’operato del regime di Lukashenko”, ha specificato il ministro.

    È la proposta della Commissione Europea per contrastare la tratta di esseri umani verso le frontiere esterne dell’UE. Previste anche misure provvisorie di emergenza ad hoc in materia di asilo e rimpatrio

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    L’UE trova l’intesa sul quinto pacchetto di sanzioni contro la Bielorussia di Lukashenko

    Bruxelles – L’intesa c’è, ora si attende l’entrata in vigore. I ventisette ministri UE degli Affari esteri hanno raggiunto oggi (lunedì 15 novembre) “un’intesa politica” sul quinto pacchetto di sanzioni contro la Bielorussia. Ad annunciarlo è stato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, nel corso della conferenza stampa al termine della prima giornata di Consiglio Affari Esteri a Bruxelles: “I nomi inseriti nel nuovo pacchetto di misure restrittive saranno comunicati nei prossimi giorni“.
    Non è ancora ufficiale, ma l’entrata in vigore della quinta tornata di sanzioni UE contro la Bielorussia è solo una questione di ore. Dopo la decisione di ampliare il regime di misure restrittive per includere la strumentalizzazione delle persone migranti alla frontiera, rimane solo da scoprire chi è incluso nel “grande numero di persone, istituzioni e imprese che contribuiscono all’organizzazione di voli verso Minsk e di lì verso i confini dell’Unione”, come anticipato da Borrell. “Studiamo tutte le opzioni possibili per bloccare il regime di Lukashenko, che continua a commettere crimini anche contro la sua popolazione” e che “minaccia l’UE con un’aggressione ibrida”, ha aggiunto l’alto rappresentante.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Borrell ha aggiornato il Consiglio sulla conversazione telefonica avuta ieri (domenica 14 novembre) con il ministro degli Esteri bielorusso, Vladimir Makei, in cui ha intimato la “fine delle violazioni dei diritti umani nei confronti di persone migranti vulnerabili”. Stando alle parole dell’alto rappresentante UE, da Minsk è arrivata una risposta positiva per l’accesso al territorio bielorusso alle agenzie ONU e per il sostegno agli aiuti umanitari lungo la frontiera, “ma ha declinato tutte le responsabilità sulla presenza dei migranti in quei territori”, ha spiegato Borrell.
    Per Bruxelles “la colpa di quello che sta accadendo è bielorussa al cento per cento”, dal momento in cui “la crisi è stata creata in modo artificiale“. La strada verso l’UE “non passa dalla Bielorussia” e “le frontiere comunitarie sono aperte solo nei valichi di confine, con il rispetto delle procedure legali sulle richieste di protezione internazionale”, ha ricordato Borrell. L’alto rappresentante UE ha voluto però sottolineare che “le persone migranti non possono essere prese in giro e trasformate in un obiettivo politico, è una pratica disumana” e per questo motivo dovrà essere bloccato il flusso dai Paesi d’origine verso la Minsk attraverso “un intenso lavoro diplomatico con i nostri partner”.
    Tra questi non c’è la Russia di Vladimir Putin, accusata invece dai Ventisette di essere coinvolta in modo più o meno diretto nella crisi: “Anche se afferma di non c’entrare niente, sappiamo bene che Lukashenko non potrebbe fare tutto questo senza un forte supporto di Mosca“, ha accusato Borrell. Per quanto riguarda invece le sanzioni UE contro la Bielorussia, “le toglieremo solo quando saranno rispettati i diritti umani” dei cittadini bielorussi e stranieri.
    Gli altri temi sul tavolo
    Oltre alla questione delle sanzioni contro la Bielorussia di Lukashenko, sempre sul fronte orientale i ministri degli Esteri UE si sono confrontati con i leader dei Paesi del Partenariato Orientale. A causa della decisione di Minsk di ritirarsi lo scorso 28 giugno, “la Bielorussia non è stata invitata, ma abbiamo lasciato una sedia vuota con un cartello per il popolo bielorusso”, ha spiegato Borrell. “Abbiamo ribadito il nostro forte impegno nella regione”, in particolare seguendo la situazione lungo le frontiere orientali dell’Ucraina: “Ci sono movimenti preoccupanti di soldati, ma l’Unione sostiene la sovranità e l’integrità territoriale del Paese“, ha assicurato Borrell, che ha anche ricordato i rapporti da stringere secondo la nuova agenda UE-Ucraina, “in attesa del vertice del prossimo mese”.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    In attesa della discussione sulla Bussola strategica per la sicurezza e la difesa nel corso della cena di lavoro, i ministri degli Esteri si sono confrontati “a lungo” sulla situazione nei Balcani: “Vogliamo coinvolgerli di più nelle discussioni di politica estera e di sicurezza informatica, associandoli più strettamente al Consiglio Affari Esteri”, ha spiegato l’alto rappresentante Borrell. Se da parte della Commissione “è necessario organizzare le conferenze intergovernative per l’adesione di Albania e Macedonia del Nord anche prima della fine della presidenza slovena del Consiglio dell’UE, per evitare un impatto negativo di visibilità dell’Unione nella regione”, preoccupa altrettanto la crisi in Bosnia ed Erzegovina.
    Borrell ha puntato il dito contro “alcuni leader politici nazionali che hanno sfruttato una retorica divisiva per portare avanti l’ostruzionismo alle riforme nell’anno non-elettorale” (in Bosnia si alternano ogni due anni le elezioni parlamentari e quelle amministrative). Il primo accusato è il membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita, Milorad Dodik, che ha minacciato di portare la Republika Srpska (l’entità serba) fuori dal controllo delle autorità centrali: “La situazione è grave e ogni tentativo di creare nuovi Stati è una fonte di problemi“, ha sottolineato con forza Borrell che, nel ribadire la “prospettiva europea della Bosnia”, ha specificato l’obbligo che il Paese rimanga “unito e sovrano”.
    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Il Consiglio Affari Esteri ha stilato una nuova lista di persone ed entità da sanzionare per la strumentalizzazione dei migranti alle frontiere dell’Unione: “Entrerà in vigore nei prossimi giorni”, ha assicurato l’alto rappresentante Borrell

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    Kabul e gli errori dell’occidente: ora non abbandonare gli afgani. L’Europa al bivio di una difesa comune

    Roma – Non abbandonare Kabul, non lasciare che l’Afghanistan precipiti verso la catastrofe umanitaria che ancora si può evitare. L’Europa, la Nato, la difesa UE e gli errori compiuti dall’occidente in questi 20 anni. Riflessioni di protagonisti, esperti, giornalisti e politici che la Rappresentanza della Commissione europea in Italia ha fatto incontrare per comprendere meglio il contesto in cui è avvenuto il ritiro dal Paese ora in mano ai Talebani.
    “Quel giorno di agosto l’UE non c’era” ha ricordato Marco Minniti, ex ministro ed esperto di questioni internazionali, “senza un sistema di protezione autonoma e di difesa, l’Europa non esiste”. Una considerazione che dall’aeroporto di Kabul può essere facilmente trasposta nel Mediterraneo nell’affrontare l’acutissima crisi libica. “Tripoli assediata si è rivolta alla Turchia” afferma Minniti che avverte sui pericoli dell’immobilismo in questo frangente. Difficile dar torto ma la difesa europea ha molti ostacoli davanti a sé, lo spiega bene Antonio Parenti, capo della Rappresentanza italiana ricordando i limiti dell’unanimismo, I’incapacità dei Paesi membri di essere uniti pure davanti alle emergenze. Davanti a certe scelte la cooperazione rafforzata è una strada seppure difficile, l’unica da percorrere, perché “ogni giorno che lasciamo passare perdiamo terreno nella lotta contro le autocrazie”. Nel dibattito entrano a pieno titolo Russia e Cina, gli attori che l’Europa sta soffrendo maggiormente nel gioco dei pesi a livello internazionale.
    Non basta la Nato anche se l’ambasciatore a Stefano Pontecorvo ne difende il ruolo, le prerogative e la buona organizzazione nella catena di comando. L’evacuazione da Kabul da parte italiana ha funzionato molto bene “abbiamo salvato tutti i collaboratori, quelli che rischiavano la vendetta talebana e lasciamo indietro una società migliore di quella che avevamo trovato”.
    Tutto vero ma non basta a giustificare gli errori, il fallimento della “Nation building”, ricorda il giornalista Amedeo Ricucci che non ha timori nel definire in “20 anni di occupazione” la presenza occidentale in Afghanistan. Racconta dell’esercito fantasma, “che abbiamo visto liquefarsi da un giorno all’altro. Lo sapevano tutti che i talebani non erano sconfitti e che tutto sarebbe collassato.  Un ritiro precipitoso, nonostante tutto fosse già scritto da oltre un anno: l’annuncio di Obama e poi la decisione definitiva di Trump, e ancora una partita lasciata tutta nelle mani dei militari uno dei drammatici errori.
    Una piena responsabilità che non consente di avere titubanza nell’affrontare l’emergenza umanitaria. Una catastrofe ancora evitabile, “trasformando gli impegni finanziari in azioni concrete utilizzando la rete di ONG ancora diffusa”, sostiene l’ambasciatore Pontecorvo. Per il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè “abbiamo il dovere di attivare i corridoi umanitari” ma insieme a questa via diplomatica “nessun riconoscimento a un regime che non ha nulla di democratico”.  A incalzare la politica e i piani alti di Bruxelles è ancora Minniti che allarga il campo al ruolo che l’UE dovrebbe conquistarsi nello scacchiere mondiale: “Se aspetta l’unanimità tra poco questa partita non sarà più giocabile”.

    Esperti e protaginisti a confronto sul futuro di uno Stato ripiombato nel fondamentalismo. Minniti: “Lo scacco all’occidente” ma ora l’UE sulla difesa comune non può più restare ferma. La cooperazione rafforzata come unica strada percorribile per superare le divergenze degli Stati membri