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    Ucraina, gli europarlamentari italiani insistono sulla ricerca della pace. E’ tempo di più diplomazia

    Bruxelles – Sostegno all’Ucraina, quello si. Senza se, ma… con dei ‘ma’. Uno su tutti, quello delle trattative di pace per porre fine a un conflitto che anima sempre di più le delegazioni italiane del Parlamento europeo. Non c’è dubbio che Kiev abbia il diritto di difendersi, e non si discute il sostegno dell’Ue, questa è una precisazione d’obbligo, oltre che a concetti ribaditi dai rappresentanti dei vari partiti italiani in occasione del briefing con la stampa che precedere la sessione plenaria del Parlamento, dove la questione Ucraina sarà oggetto dei lavori. Ma emerge in modo trasversale la necessità di dare nuovo impulso alla diplomazia.Chi pone l’accento sul tema in modo più urgente è Ignazio Marino (Verdi-Avs), che guarda con una certa apprensione all’immediato futuro. Le elezioni statunitensi si terranno tra 42 giorni, ricorda, e ricorda anche che il candidato repubblicano “Donald Trump ha detto che se vince non aspetterà l’insediamento per andare da Putin e negoziare la pace alle condizioni che più fanno gli interessi degli Stati Uniti“. Ecco che, alla luce di queste premesse, “anziché spingere per più armamenti bisognerebbe agire prima che agiscano altri“, visto che, insiste “se non ricordo male l’Ucraina si trova in Europa”.Inizia a farsi strada una preoccupazione tutta nuova, quella di un ruolo secondario e subalterno in politica estera. Non è detto che a succedere a Joe Biden nella Casa bianca sarà Trump, ma comunque si avverte la necessità di accompagnare il sostegno economico e armato dell’Ucraina a un dialogo fin qui ridotto al minimo. Salvatore De Meo, capodelegazione di Forza Italia, ben riassume la necessità di questa doppia linea d’azione. “Per quanto riguarda l’Ucraina non possiamo non continuare a rafforzare la vicinanza dell’Europa, insistendo per creare le condizioni per uno spiraglio di pace“.Linea e posizione analoga quella espressa dal Pd, attraverso Annalisa Corrado. “Il sostegno all’Ucraina resta necessario”, ma al tempo stesso, aggiunge, occorre un “potenziamento di tutti gli strumenti diplomatici“, perché quello che preoccupa sicuramente una parte dei socialisti è il rischio di “una escalation che poi diventa difficile da gestire”.I partiti di maggioranza e opposizione descrivono una certa convergenza sul tema, come dimostra una volta di più Stefano Cavedagna (Ecr), esponente del partito della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Per l’europarlamentare di Fratelli d’Italia resta fermo il principio per cui “l’Ucraina ha il diritto di difendersi, ci sono un aggredito e un aggressore”, con Fdi che “sostiene” Kiev, ma al tempo stesso anche all’interno del Fratelli d’Italia si è dell’idea che “l’obiettivo deve essere la pace“.Anche dalle fila della Lega viene esternata la necessità di “creare le prospettive di pace” quando si parla del conflitto russo-ucraino, sostiene Anna Maria Cisint. L’europarlamentare del Carroccio sottolinea come il suo partito e il suo gruppo “non si è mai sottratto a votare per il sostegno all’Ucraina”, ma, aggiunge, “non abbiamo mai fatto mistero della necessità di accompagnare l’aiuto con un’azione diplomatica forte”, perché “un tavolo di pace è necessario”.Serve dunque un riorientamento dell’Ue, che però è tutt’altro che scontato. Il motivo lo spiega Gaetano Pedullà (M5S-laSinistra). “Se vogliamo la pace dobbiamo cambiare la narrativa e smettere di fare quanto fatto negli ultimi due anni e mezzo, vale a dire andare avanti con sanzioni e rifornimento armi”. Per il pentastellato non ci sono grandi alternative. “Senza dialogo non ci può essere pace”, ma per avere un dialogo occorre avere le condizioni per agevolarlo. Quindi per forza di cose serve “ragionare con la Russia, prima che lo facciano gli Stati Uniti“.Nel gruppo italiano all’europarlamento serpeggerebbe dunque una generale necessità di una soluzione non armata del conflitto, a riprova delle insofferenze, non solo italiane, prodotte da un conflitto che va avanti contro ogni interesse a dodici stelle. Su una cosa tutte le delegazioni tricolore sembrano non avere dubbi: le armi fornite dall’Italia all’Ucraina devono essere utilizzate solo per scopi di difesa e non di offesa. un concetto espresso e ribadito da tutti.

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    L’Ue avverte la Serbia: “Allinearsi alla Russia in contrasto con obiettivo dichiarato di adesione”

    Bruxelles – O la Russia o l’Unione europea. Una cosa esclude l’altra e la Serbia deve chiarire che intenzioni ha per il suo presente e ancor di più per il proprio futuro. La Commissione europea non gradisce il viaggio del vice primo ministro serbo Aleksandar Vulin in Russia e il suo incontro col presidente russo Vladimir Putin, e avverte che scelte troppo filo-russe potrebbero chiudere le porte dell’Ue per Belgrado bloccando di fatto il processo di adesione.“Sotto la guida di Vladimir Putin la Russia viola lo Statuto delle Nazioni Unite e il diritto internazionale su cui si fonda l’Unione europea, e allinearsi alla Russia non è compatibile con i principi dell’Ue e in contrasto con ciò che richiede l’adesione all’Ue”, mette in chiaro Peter Stano, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell. La missione istituzionale condotta da Vulin “è in contrasto con l’obiettivo dichiarato di aderire all’Ue”, e da Bruxelles arriva l’invito esplicito ad “astenersi dal rafforzare i legami con la Russia”.La richiesta è però un minaccia. L’incompatibilità delle politica di Belgrado con i valori e l’acquis comunitario implica per l’Unione europea il dover riconsiderare il processo di adesione, il che vuol dire minacciare di sospenderlo come l’esecutivo comunitario ha iniziato a fare con la Georgia. La Serbia ha fatto richiesta di adesione all’Ue nel 2009, e a marzo 2012 ha ottenuto lo status di Paese candidato. Da allora oltre un decennio di lavorio continuo, reso più complicato dalla questione del Kosovo e la normalizzazione dei rapporti tra le due entità (il Kosovo continua a non essere riconosciuto come Stato indipendente e sovrano da tutti i 27), ma comunque mai messo in discussione come oggi.

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    Armenia e Azerbaigian potrebbero non essere lontane da un accordo di pace

    Bruxelles – Il conflitto più che trentennale tra l’Armenia e l’Azerbaigian potrebbe essere avviato verso una conclusione che, se raggiunta, sarebbe senz’altro storica. Ma rimangono ancora dei problemi irrisolti sulla strada della completa pacificazione tra Yerevan e Baku, a cominciare dall’annosa questione dei confini e dal riarmo di entrambi i Paesi. Così, in un’area dove si intrecciano le influenze politiche e gli interessi strategici di vari attori internazionali, la soluzione duratura che da tempo si ricerca potrebbe non essere ancora a portata di mano. Durante una conferenza stampa lo scorso 31 agosto, il premier armeno Nikol Pashinyan ha annunciato di aver inoltrato a Baku una proposta per la stipula di un trattato di pace che possa mettere fine al conflitto tra i due Paesi del Caucaso meridionale iniziato trentasei anni fa, nel 1988 (ancora prima della dissoluzione dell’Urss) e incentrato intorno alla sovranità contesa sull’area del Nagorno-Karabakh. Dopo varie fasi di guerra, alternate a periodi di relativa stabilità in cui il conflitto è parso congelato, l’Azerbaigian nell’autunno del 2023 ha riconquistato militarmente l’enclave armena entro i propri confini.Stando a quanto anticipato da Pashinyan, la bozza comprenderebbe 17 articoli: su 13 ci sarebbe già un “accordo totale” delle due parti, mentre su altri tre ci sarebbe un “accordo parziale“. Mancherebbe dunque l’accordo su un ultimo punto, ma non è stato spiegato quali siano i temi rimasti irrisolti (anche se non è difficile immaginarlo, come vedremo tra un attimo). La proposta di Yerevan a Baku è, sostanzialmente, di siglare un trattato contenente i punti già concordati, e di lasciare ad una seconda fase di negoziati il resto.Con la firma, ha dichiarato il primo ministro armeno, le due ex repubbliche sovietiche avvierebbero anche formali relazioni diplomatiche, prendendo a modello i negoziati bilaterali che hanno portato, lo scorso dicembre, al rilascio dei prigionieri armeni catturati dall’esercito azero nell’offensiva di pochi mesi prima e più recentemente ad un accordo per la creazione di una commissione mista per la demarcazione dei confini tra i due Paesi. Dopo diversi mesi in cui il processo negoziale sembrava in stallo, si tratta sicuramente di un’iniezione di fiducia per trovare la difficile quadra in una regione che non conosce pace da decenni. Sicuramente, una delle questioni ancora irrisolte ha a che fare con la costituzione armena, che include un riferimento alla riunificazione tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh (la riunificazione è citata in un documento risalente al 1989, a sua volta ripreso dalla dichiarazione d’indipendenza del 1990 cui la carta fondamentale del Paese fa riferimento in un preambolo). Ora, l’Azerbaigian ha ripetutamente chiesto la rimozione di tale riferimento, ma pare che solo lo scorso maggio Pashinyan abbia chiesto all’organo incaricato di rivedere la costituzione (creato nel 2022) di riscrivere interamente la carta, per sottoporla a referendum popolare nel 2027, anche se l’opinione pubblica armena non sembra ancora accettare la perdita definitiva della regione azera.Un’altra annosa questione, che parrebbe essere stata recentemente sciolta (o forse, probabilmente, solo rimandata), è quella del corridoio di Zangezur che Baku richiedeva per connettere l’exclave di Nakhchivan al territorio azero. Secondo alcuni analisti, le autorità azere avrebbero fatto questa concessione a Yerevan proprio in cambio delle citate modifiche costituzionali.Ma sulla strada della pacificazione potrebbe mettersi di traverso anche la corsa al riarmo di entrambi i Paesi. Ad oggi, le forze armate azere vantano una netta superiorità, con Baku che viene rifornita da Turchia, Israele, Pakistan e una serie di Stati europei inclusa l’Italia, mentre Yerevan riceve armi ed equipaggiamenti militari da Francia e India. I governi armeno e azero sostengono pubblicamente di non avere intenzione di attaccarsi a vicenda, ma data la storia martoriata della regione fare previsioni sul futuro è tutt’altro che semplice.Negli ultimi anni, l’Armenia sta cercando di allontanarsi dall’orbita russa e di avvicinarsi all’Ue, con la quale ha approfondito i legami diplomatici, politici e militari. Del resto, Bruxelles ha sempre incentivato il processo negoziale tra i due Paesi, impiegando anche una missione di pace sul confine armeno. Quanto all’Azerbaigian, Baku è diventato uno dei principali partner energetici dei Ventisette dopo l’avvio dell’invasione russa dell’Ucraina (sempre dal Paese caucasico arriva in Italia, peraltro, il gas naturale trasportato dal Tap).

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    Tajani: “Convergenza nel governo su Fitto”. E all’Ucraina dice: “Le armi italiane non siano usate in territorio russo”

    Bruxelles – “La figura di Raffaele Fitto è la migliore possibile”: non ci sono dubbi per il vicepremier azzurro, Antonio Tajani, sul profilo del candidato italiano per la prossima Commissione europea, il quale assicura che la maggioranza di governo è compatta nel sostenerlo. E ha risposto in maniera scettica alle critiche mosse a inizio mattinata dall’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, contro l’inerzia dimostrata fin qui dai Ventisette su due dossier cruciali: Ucraina e Medio Oriente. Il leader di Forza Italia, a Bruxelles per il Consiglio Affari esteri informale di giovedì (29 agosto), ha blindato il nome dell’attuale ministro agli Affari europei Raffaele Fitto prima di unirsi ai suoi omologhi nel palazzo Europa. “Domani ne parleremo al vertice di maggioranza, poi ci sarà il Consiglio dei ministri”, ha continuato Tajani, sottolineando come l’ex presidente della regione Puglia “sia la persona più giusta” e su come sul suo nome “ci sia una convergenza da parte di tutti” i partiti della coalizione. La sua esperienza, che il vicepremier ha assicurato essere gradita anche a Bruxelles, è il punto che mette tutti d’accordo: è importante che Roma invii al Berlaymont qualcuno “che non faccia l’apprendista commissario ma il commissario”. E tuttavia il governo italiano attenderà, appunto, fino a domani per formalizzare la nomina, dopo essere rimasto l’ultimo grande Paese del blocco a non aver ancora indicato ufficialmente alcun candidato.Quanto alle accuse, tutt’altro che velate, mosse dal capo della diplomazia Ue all’indirizzo degli Stati membri prima dell’avvio delle discussioni in Consiglio, il titolare degli Esteri si è dimostrato piuttosto indifferente. Anzitutto, sull’Ucraina: “Ogni Paese è libero di decidere” se mantenere o rimuovere le restrizioni sull’utilizzo delle armi inviate a Kiev oltre i confini della Russia, ha ribadito, sottolineando che “per l’Italia rimane la posizione di utilizzare le nostre armi all’interno del territorio ucraino“. A quanto riportato dal ministro, Roma è in procinto di inviare all’Ucraina una nuova batteria per il sistema antiaereo Samp/T.  E sulla proposta, caldeggiata nuovamente da Borrell in mattinata, di sanzionare dei membri del governo israeliano, il vicepremier forzista ha parlato di “periodo ipotetico dell’irrealtà“. L’obiettivo è “convincere Israele a fare delle scelte che portino al cessate il fuoco a Gaza perché questa è la priorità vera”, ha dichiarato Tajani, sostenendo che “non è col riconoscimento teorico della Palestina o con le sanzioni ai ministri israeliani che si risolvono i problemi” nel complesso quadro della crisi mediorientale. “Serve più diplomazia“, ha aggiunto, ricordando che gli obiettivi prioritari sono la sospensione immediata delle ostilità nella Striscia, la distribuzione degli aiuti umanitari alla popolazione palestinese e la liberazione degli ostaggi israeliani ancora in mano ai gruppi islamisti.

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    A Kursk c’è il rischio di un incidente nucleare

    Bruxelles – L’incursione ucraina nella regione russa di Kursk potrebbe mettere a rischio la sicurezza della centrale nucleare di Kurchatov. A lanciare l’allarme è Rafael Grossi, capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organo delle Nazioni unite che si occupa di nucleare. Il fronte dista solo 40 chilometri ma l’avanzata delle truppe di Kiev continua, aumentando le preoccupazioni circa un possibile incidente dagli esiti imprevedibili. L’offensiva lanciata dall’Ucraina lo scorso 6 agosto ha portato la guerra entro i confini della Russia, avvicinandola pericolosamente alla centrale. “Il pericolo o la possibilità di un incidente nucleare è emerso chiaramente“, ha dichiarato alla stampa Grossi martedì (27 agosto), considerato che gli scontri tra gli eserciti rivali stanno avvenendo principalmente proprio nella regione di Kursk. Il Cremlino ha denunciato diversi attacchi ucraini ai danni dell’impianto, che come sottolineato dallo stesso Grossi è particolarmente fragile poiché privo di una cupola protettiva. Il fatto che la centrale stia continuando a funzionare in condizioni operative “quasi normali”, ha aggiunto il segretario dell’Aiea, rende la situazione ancora più delicata. Lo stabilimento nucleare nell’oblast’ di Kursk è uno dei più importanti di tutta la Federazione ed è attivo dal 1976. Attualmente solo uno dei quattro reattori (costruiti tra il 1976 e il 1985 secondo lo stesso modello di quelli di Chernobyl), il numero tre, è operativo, mentre il numero quattro è in manutenzione da domenica (25 agosto). Nel 2018 è cominciata la costruzione di altri due reattori. Quello della sicurezza degli impianti atomici è diventato un tema centrale nella guerra d’Ucraina, soprattutto nell’ultima fase “calda” avviata con l’invasione russa del febbraio 2022. La centrale ucraina di Zaporizhzhia, nei pressi di Enerhodar, è la più grande non solo del Paese ma di tutto il Vecchio continente ed è caduta nelle mani dei russi nel marzo di due anni fa. Da allora, Mosca e Kiev non hanno mai smesso di addossarsi a vicenda la responsabilità degli attacchi che ne mettono a repentaglio le strutture. 

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    La Palestina e l’Azerbaijan vogliono entrare nei Brics

    Bruxelles – La famiglia dei Brics, il gruppo delle cosiddette economie emergenti che si dipingono collettivamente come contrappeso all’egemonia occidentale a livello globale, potrebbe presto allargarsi ancora dopo aver più che raddoppiato la propria membership a inizio anno. Tra i nuovi ingressi, che saranno probabilmente annunciati in autunno, ci potrebbero essere la Palestina e l’Azerbaijan. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa turca Anadolu, l’ambasciatore palestinese a Mosca, Abdel Hafiz Nofal, ha dichiarato che Ramallah ufficializzerà la propria richiesta di entrare nel blocco dei Brics dopo aver partecipato al prossimo summit, in calendario per ottobre a Kazan, circa 870 chilometri a est della capitale russa. I Brics sono un gruppo di Paesi, considerati emergenti nell’economia globale (anche se il concetto di “economia emergente” è ad oggi controverso), nato nel 2009 con quattro membri: Brasile, Russia, India e Cina. Nel 2011 si è aggiunto il Sudafrica (da qui l’acronimo Brics, dall’unione delle iniziali dei Paesi – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e a gennaio 2024 sono entrati anche Egitto, Emirati arabi uniti, Etiopia ed Iran – il che ha portato il blocco a rappresentare ora oltre il 37 per cento del Pil mondiale (l’Ue, per avere una prospettiva, vale circa il 14,5 per cento). La Palestina ha fatto richiesta per partecipare all’organizzazione nell’agosto 2023, insieme ad altri 21 Paesi (inclusi i quattro che sono poi effettivamente entrati). Dal primo gennaio di quest’anno, la presidenza di turno del gruppo (che dura un anno) è stata assunta dalla Federazione russa. “Il presidente russo Vladimir Putin ha promesso che ci sarà una sessione interamente dedicata alla Palestina”, ha precisato l’ambasciatore Nofal, sottolineando che l’invito rivolto al presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas lunedì (26 agosto) “significa che nonostante tutti i crimini, le uccisioni e la distruzione nella Striscia di Gaza, il nostro messaggio è che la Palestina vuole vivere e svilupparsi“. Mosca si è ripetutamente mostrata vicina, almeno a parole, alla causa palestinese fin dall’avvio dell’offensiva israeliana nella Striscia, e rappresenta pertanto uno dei “protettori” internazionali più naturali per Ramallah. Lo Stato di Palestina è stato formalmente dichiarato dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) nel 1988, ma è stato ammesso all’Assemblea generale delle Nazioni unite in qualità di osservatore solo nel 2012. Ad oggi, sono 145 su 193 gli Stati membri dell’Onu che lo riconoscono ufficialmente, di cui solo dodici Paesi Ue (Bulgaria, Cechia, Cipro, Irlanda, Malta, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria). Mancano all’appello la quasi totalità delle nazioni occidentali.  Oltre alla Palestina, anche l’Azerbaijan ha espresso l’intenzione di unirsi al blocco delle economie emergenti lo scorso 20 agosto, in occasione di una visita del presidente russo nel Paese. I legami tra Baku e Mosca si sono intensificati negli ultimi anni: ad esempio, una “dichiarazione sull’interazione alleata” per una maggiore cooperazione bilaterale è stata siglata appena due giorni prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, nel febbraio 2022. L’avvicinamento tra la Federazione russa e la repubblica del Caucaso meridionale è stata anche speculare al progressivo allontanamento dell’Armenia da Mosca, soprattutto in seguito alla mancata risposta del Cremlino all’acuirsi della crisi tra Yerevan e Baku nell’exclave armena del Nagorno-Karabakh, riconquistata dagli azeri nel settembre dello scorso anno. L’Armenia fa ancora formalmente parte di un trattato di sicurezza collettivo stipulato da diverse ex repubbliche sovietiche (Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan), ma nel corso del 2024 si è progressivamente distanziata da Mosca e ha annunciato l’intenzione di abbandonare l’alleanza militare. Nonostante i crescenti legami con la Russia di Putin, l’Azerbaijan è diventato recentemente uno dei principali partner energetici dell’Unione europea, cui fornisce gas naturale e petrolio proprio per sopperire alla mancanza di idrocarburi a seguito della guerra in Ucraina. E, nonostante il Paese sia guidato dal presidente Ilham Aliyev in maniera autoritaria e abbia fatto la propria ricchezza proprio sulla vendita di combustibili fossili, Baku ospiterà la prossima conferenza Onu sul clima, la Cop 29, a novembre. 

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    Per l’Alto rappresentante Ue, a Kiev va consentito di usare le armi occidentali in territorio russo

    Bruxelles – Non sembra esserci ambiguità nella posizione dell’Unione europea circa l’incursione ucraina nella regione russa di Kursk, che è già entrata sua terza settimana. Mentre le truppe di Kiev continuano ad avanzare nel territorio della Federazione, da Bruxelles arriva pieno supporto all’attacco a sorpresa orchestrato dall’Ucraina. Tanto che l’Alto rappresentante Josep Borrell ha suggerito ai partner della Nato di “eliminare le restrizioni” che ancora impediscono all’esercito del Paese aggredito di utilizzare i sistemi d’arma occidentali per colpire direttamente sul suolo del nemico.In un post su X, il capo della diplomazia Ue ha definito l’operazione ucraina nell’oblast’ di Kursk “un duro colpo alla narrazione del presidente russo Putin“, secondo cui il conflitto sta andando nella direzione prevista dal Cremlino. Al contrario, secondo Borrell, l’Ucraina esce rafforzata dall’offensiva in corso oltre confine, dalla quale potrebbe ottenere dei vantaggi in sede di eventuali negoziati. “Eliminare le restrizioni sull’uso delle capacità (fornite dall’Occidente all’Ucraina, ndr) contro l’esercito russo impegnato nell’aggressione dell’Ucraina, nel rispetto del diritto internazionale, avrebbe diversi importanti effetti” secondo l’Alto rappresentante. “Rafforzare l’autodifesa ucraina“, ad esempio, privando la Russia delle basi da cui lancia attacchi contro città e infrastrutture, ma anche “salvare vite” (dei civili ucraini, s’intende) e “contribuire a far progredire gli sforzi di pace“. I commenti di Borrell sembrerebbero diretti soprattutto alle cancellerie occidentali che ancora non hanno permesso a Kiev di utilizzare le armi da loro fornite direttamente sul territorio russo, la cui reticenza sarebbe motivata dal timore di un’escalation nel conflitto. Londra, ad esempio, ha chiarito nelle scorse ore che le attrezzature che ha inviato in Ucraina sono da intendersi come strumenti di difesa e non di attacco. Ad aver accordato agli ucraini l’uso delle proprie armi entro i confini della Federazione, per ora, ci sono invece Germania, Canada, Cechia, Danimarca e Svezia.Come ribadito a Eunews dal portavoce dell’Alto rappresentante, Peter Stano, il trasferimento di armi e materiale e attrezzature belliche all’Ucraina è una questione di accordi bilaterali tra Kiev e gli Stati fornitori. Per non essere sopraffatta dall’aggressione russa, l’ex repubblica sovietica “ha bisogno di difendersi nel migliore e più efficace modo possibile, e l’Alto rappresentante pensa che questo sarebbe possibile eliminando le restrizioni sull’uso delle armi fornite dall’Occidente per combattere il nemico”, ha dichiarato. Niente di nuovo, in effetti, dopo che a inizio mese lo stesso Stano aveva sottolineato che “l’Ucraina ha il diritto di colpire il nemico ovunque sia necessario sul suo territorio, ma anche nel territorio del nemico” in riferimento all’incursione di Kursk, iniziata pochi giorni prima. Fino ad ora, le “linee rosse” indicate da Mosca sono state superate senza che si verificasse un brusco aumento dell’intensità del conflitto (ad esempio tramite il paventato ricorso agli ordigni nucleari tattici), il che ha portato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a parlare di “bluff” da parte del suo omologo russo Vladimir Putin.

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    Ab InBev resta in Russia, Mosca non dà il permesso a fermare il business della birra

    Bruxelles – Birre belga in Russia, il business continua perché Mosca non concede il permesso di interrompere gli affari. La storia di Ab InBev, la multinazionale della ‘bionda’ con sede a Leuven, in Belgio, si arricchisce di un nuovo capitolo che continua a mettere in imbarazzo i belgi e arricchisce la macchina da guerra del Cremlino. Sono le autorità russe ad aver detto ‘niet’ all’intenzione di Ab InBev di uscire dal consorzio con i russi e cedere le quote ai turchi di Anadolu Efes. Questi ultimi si sarebbero detti a più riprese disponibili a rimpiazzare Ab InBev nel mercato della birra in Russia, ma, ammettono i belgi, “non sono state ottenute le necessarie approvazioni normative e governative” per completare la transazione.La Russia in sostanza tiene l’industria delle birra belga legata e ancorata in patria, contro il volere dichiarato del colosso che, tra i vari marchi, vanta Corona, Stella Artois, Budweiser, Beck’s, Birra del Borgo, Leffe, e Jupiler, il brand che sponsorizza la massima serie calcistica del Belgio. Ab InBev ha annunciato l’intenzione di lasciare la Russia nel 2022, sulla scia della guerra dichiarata da Mosca all’Ucraina. Un’intenzione rimasta fin qui lettera morta, per ragioni di contratti commerciali e questioni giuridiche onerose e complicate.Da parte russa è facile capire il motivo che spinge a fare in modo che il partner europeo resti presente e attivo all’interno delle Federazione. Alla fine del 2023 la multinazionale della birra ha registrato ricavi per 59,4 miliardi di dollari. Un partner redditizio, ricco, stabile, che fa gola al Cremlino, e su cui le autorità russe possono esercitare pressione e offrire una prova di forza contro le sanzioni a dodici stelle, che vorrebbero azzerrare i rapporto economico-commerciali con la Russia di Putin per fermarne la macchina bellica. Invece la Russia di Putin, almeno in questa partita, sembra avere la meglio.