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    A Ginevra la diplomazia europea cerca di salvare l’accordo sul nucleare iraniano

    Bruxelles – La diplomazia inizia a muoversi, seppur timidamente, per provare a ricomporre la crisi mediorientale. Ad una settimana esatta dall’avvio dell’aggressione israeliana contro l’Iran, i ministri degli Esteri di Parigi, Berlino, Londra e Teheran si stanno incontrando a Ginevra insieme all’Alta rappresentante Ue per cercare di mantenere aperta la pista negoziale. Nel frattempo, gli Usa prendono tempo prima di scendere in campo a fianco dello Stato ebraico, mentre la Russia prova (almeno a parole) a fissare dei paletti all’escalation.Esattamente una settimana dopo l’inizio della guerra scatenata da Benjamin Netanyahu contro l’Iran, i titolari degli Esteri di Francia, Germania, Regno Unito e Iran – Jean-Noël Barrot, Johann Wadephul, David Lammy e Abbas Araghchi – si sono dati appuntamento oggi (20 giugno) a Ginevra, alla presenza anche del capo della diplomazia a dodici stelle, Kaja Kallas.L’incontro, che si sta svolgendo in queste ore presso la sede della rappresentanza tedesca alle Nazioni Unite, ha l’obiettivo di aprire un canale negoziale formale per cercare di fornire una risposta politica alla pericolosissima escalation che sta infiammando il Medio Oriente. Nessuno si aspetta svolte eclatanti dai colloqui, ma è sicuramente incoraggiante vedere che la diplomazia multilaterale prova a crearsi uno spazio e a mantenere attivo il dialogo mentre continuano a cadere le bombe da una parte e dall’altra.We, Europeans, are engaging in dialogue with Iran to de-escalate the situation.The only possible way forward is dialogue. pic.twitter.com/JjRA6E1ZV3— Jean-Noël Barrot (@jnbarrot) June 20, 2025Per ora, questo è il massimo che si può ottenere. È lo stesso Araghchi, del resto, a ribadire che Teheran non accetterà di negoziare con Washington finché lo Stato ebraico continua le sue operazioni, bollandole come un “tradimento” del processo diplomatico in corso tra Iran e Stati Uniti.Gli europei stanno cercando tra mille difficoltà di far ripartire le trattative sul binario, che sembrava morto, del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), lo storico accordo del 2015 stipulato da Usa e Iran con la mediazione di Francia, Germania e Regno Unito (il cosiddetto formato E3) più Unione europea, Russia e Cina. Nel 2018, fu Donald Trump a ritirare Washington dall’accordo: da quel momento le trattative entrarono in una fase di stallo prolungato, dalla quale il tycoon stava cercando di uscire prima dell’attacco israeliano.Le cancellerie del Vecchio continente provano così a smarcarsi e a definire una propria posizione autonoma dalla Casa Bianca, dopo essersi appiattiti per anni sulla linea dello zio Sam. Ma l’Iran non è un cliente facile per nessuno e in ogni caso gli ayatollah percepiscono gli europei come troppo vicini allo Stato ebraico.Difficile contestare quest’ultimo punto, se si considera la fatica che stanno facendo i Ventisette a rimettere in discussione l’accordo di associazione con Tel Aviv, per non parlare delle sanzioni ai membri più estremisti del governo israeliano o, addirittura, dell’arresto di Netanyahu in ottemperanza al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto via Imagoeconomica)Del resto, la posizione ufficiale di Bruxelles rimane sempre la stessa: lo Stato ebraico ha il diritto di difendersi – seppur entro i limiti del diritto internazionale, come è recentemente riuscita ad ammettere la stessa Kallas dopo sette mesi in carica – e l’Iran non può in alcun modo mettere le mani sull’arma atomica.Sull’altra sponda dell’Atlantico, intanto, Trump non ha ancora deciso se entrare in guerra al fianco del suo storico alleato e dice di voler rimandare la questione di un paio di settimane. Da un lato, il tycoon starebbe aspettando di vedere se quello di Ginevra è un bluff, sostenendo di voler lasciare spazio alla pista negoziale. Dall’altro, non vuole rischiare di perdersi per strada l’ala più oltranzista del popolo Maga, ferocemente contraria a qualunque intervento militare all’estero.Per il momento, il Pentagono ha iniziato a muovere i propri asset nell’Oceano Indiano, ottenendo da Londra l’autorizzazione ad utilizzare le basi militari di Sua Maestà nell’eventualità di dover impiegare i bombardieri B-2 Spirit, gli unici in grado di sganciare le bombe bunker buster per colpire gli impianti di arricchimento sotterranei di Fordo, protetti dalle montagne a sud di Teheran.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Il Cremlino nel frattempo indica la sua linea rossa. Se Israele procederà ad assassinare il leader supremo della Repubblica islamica Ali Khamenei (come suggerito dal ministro degli Esteri Israel Katz, per essere smentito nel giro di qualche ora dal capo dello Stato Isaac Herzog), ammonisce Vladimir Putin, verrà scoperchiato il “vaso di Pandora” e la situazione precipiterà in maniera incontrollabile. Lo zar, almeno stando alle ultime indiscrezioni mediatiche, avrebbe presentato alle dirigenze israeliana e iraniana delle proposte alternative a quelle in discussione a Ginevra per una soluzione negoziata della crisi.Sulla carta, la Russia è uno degli alleati più stretti dell’Iran, dal quale compra i famigerati droni suicidi Shahed con cui attacca quotidianamente l’Ucraina. Ma diversi osservatori mettono in dubbio la reale intenzione di Mosca – al netto delle sue concrete capacità – di scendere in campo in aiuto degli ayatollah se la situazione dovesse peggiorare ulteriormente.Non è detto, ad esempio, che la difesa dell’alleato sciita valga più del mantenimento di rapporti tutto sommato buoni con Tel Aviv, così come sarebbe problematico per Putin inimicarsi il presidente statunitense in una fase in cui si sta dimostrando particolarmente indulgente nei confronti della Federazione.

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    A Ginevra la diplomazia europea cerca di salvare l’accordo sul nucleare iraniano

    Bruxelles – La diplomazia inizia a muoversi, seppur timidamente, per provare a ricomporre la crisi mediorientale. Ad una settimana esatta dall’avvio dell’aggressione israeliana contro l’Iran, i ministri degli Esteri di Parigi, Berlino, Londra e Teheran si stanno incontrando a Ginevra insieme all’Alta rappresentante Ue per cercare di mantenere aperta la pista negoziale. Nel frattempo, gli Usa prendono tempo prima di scendere in campo a fianco dello Stato ebraico, mentre la Russia prova (almeno a parole) a fissare dei paletti all’escalation.Esattamente una settimana dopo l’inizio della guerra scatenata da Benjamin Netanyahu contro l’Iran, i titolari degli Esteri di Francia, Germania, Regno Unito e Iran – Jean-Noël Barrot, Johann Wadephul, David Lammy e Abbas Araghchi – si sono dati appuntamento oggi (20 giugno) a Ginevra, alla presenza anche del capo della diplomazia a dodici stelle, Kaja Kallas.L’incontro, che si sta svolgendo in queste ore presso la sede della rappresentanza tedesca alle Nazioni Unite, ha l’obiettivo di aprire un canale negoziale formale per cercare di fornire una risposta politica alla pericolosissima escalation che sta infiammando il Medio Oriente. Nessuno si aspetta svolte eclatanti dai colloqui, ma è sicuramente incoraggiante vedere che la diplomazia multilaterale prova a crearsi uno spazio e a mantenere attivo il dialogo mentre continuano a cadere le bombe da una parte e dall’altra.We, Europeans, are engaging in dialogue with Iran to de-escalate the situation.The only possible way forward is dialogue. pic.twitter.com/JjRA6E1ZV3— Jean-Noël Barrot (@jnbarrot) June 20, 2025Per ora, questo è il massimo che si può ottenere. È lo stesso Araghchi, del resto, a ribadire che Teheran non accetterà di negoziare con Washington finché lo Stato ebraico continua le sue operazioni, bollandole come un “tradimento” del processo diplomatico in corso tra Iran e Stati Uniti.Gli europei stanno cercando tra mille difficoltà di far ripartire le trattative sul binario, che sembrava morto, del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), lo storico accordo del 2015 stipulato da Usa e Iran con la mediazione di Francia, Germania e Regno Unito (il cosiddetto formato E3) più Unione europea, Russia e Cina. Nel 2018, fu Donald Trump a ritirare Washington dall’accordo: da quel momento le trattative entrarono in una fase di stallo prolungato, dalla quale il tycoon stava cercando di uscire prima dell’attacco israeliano.Le cancellerie del Vecchio continente provano così a smarcarsi e a definire una propria posizione autonoma dalla Casa Bianca, dopo essersi appiattiti per anni sulla linea dello zio Sam. Ma l’Iran non è un cliente facile per nessuno e in ogni caso gli ayatollah percepiscono gli europei come troppo vicini allo Stato ebraico.Difficile contestare quest’ultimo punto, se si considera la fatica che stanno facendo i Ventisette a rimettere in discussione l’accordo di associazione con Tel Aviv, per non parlare delle sanzioni ai membri più estremisti del governo israeliano o, addirittura, dell’arresto di Netanyahu in ottemperanza al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto via Imagoeconomica)Del resto, la posizione ufficiale di Bruxelles rimane sempre la stessa: lo Stato ebraico ha il diritto di difendersi – seppur entro i limiti del diritto internazionale, come è recentemente riuscita ad ammettere la stessa Kallas dopo sette mesi in carica – e l’Iran non può in alcun modo mettere le mani sull’arma atomica.Sull’altra sponda dell’Atlantico, intanto, Trump non ha ancora deciso se entrare in guerra al fianco del suo storico alleato e dice di voler rimandare la questione di un paio di settimane. Da un lato, il tycoon starebbe aspettando di vedere se quello di Ginevra è un bluff, sostenendo di voler lasciare spazio alla pista negoziale. Dall’altro, non vuole rischiare di perdersi per strada l’ala più oltranzista del popolo Maga, ferocemente contraria a qualunque intervento militare all’estero.Per il momento, il Pentagono ha iniziato a muovere i propri asset nell’Oceano Indiano, ottenendo da Londra l’autorizzazione ad utilizzare le basi militari di Sua Maestà nell’eventualità di dover impiegare i bombardieri B-2 Spirit, gli unici in grado di sganciare le bombe bunker buster per colpire gli impianti di arricchimento sotterranei di Fordo, protetti dalle montagne a sud di Teheran.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Il Cremlino nel frattempo indica la sua linea rossa. Se Israele procederà ad assassinare il leader supremo della Repubblica islamica Ali Khamenei (come suggerito dal ministro degli Esteri Israel Katz, per essere smentito nel giro di qualche ora dal capo dello Stato Isaac Herzog), ammonisce Vladimir Putin, verrà scoperchiato il “vaso di Pandora” e la situazione precipiterà in maniera incontrollabile. Lo zar, almeno stando alle ultime indiscrezioni mediatiche, avrebbe presentato alle dirigenze israeliana e iraniana delle proposte alternative a quelle in discussione a Ginevra per una soluzione negoziata della crisi.Sulla carta, la Russia è uno degli alleati più stretti dell’Iran, dal quale compra i famigerati droni suicidi Shahed con cui attacca quotidianamente l’Ucraina. Ma diversi osservatori mettono in dubbio la reale intenzione di Mosca – al netto delle sue concrete capacità – di scendere in campo in aiuto degli ayatollah se la situazione dovesse peggiorare ulteriormente.Non è detto, ad esempio, che la difesa dell’alleato sciita valga più del mantenimento di rapporti tutto sommato buoni con Tel Aviv, così come sarebbe problematico per Putin inimicarsi il presidente statunitense in una fase in cui si sta dimostrando particolarmente indulgente nei confronti della Federazione.

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    A Ginevra la diplomazia europea cerca di salvare l’accordo sul nucleare iraniano

    Bruxelles – La diplomazia inizia a muoversi, seppur timidamente, per provare a ricomporre la crisi mediorientale. Ad una settimana esatta dall’avvio dell’aggressione israeliana contro l’Iran, i ministri degli Esteri di Parigi, Berlino, Londra e Teheran si stanno incontrando a Ginevra insieme all’Alta rappresentante Ue per cercare di mantenere aperta la pista negoziale. Nel frattempo, gli Usa prendono tempo prima di scendere in campo a fianco dello Stato ebraico, mentre la Russia prova (almeno a parole) a fissare dei paletti all’escalation.Esattamente una settimana dopo l’inizio della guerra scatenata da Benjamin Netanyahu contro l’Iran, i titolari degli Esteri di Francia, Germania, Regno Unito e Iran – Jean-Noël Barrot, Johann Wadephul, David Lammy e Abbas Araghchi – si sono dati appuntamento oggi (20 giugno) a Ginevra, alla presenza anche del capo della diplomazia a dodici stelle, Kaja Kallas.L’incontro, che si sta svolgendo in queste ore presso la sede della rappresentanza tedesca alle Nazioni Unite, ha l’obiettivo di aprire un canale negoziale formale per cercare di fornire una risposta politica alla pericolosissima escalation che sta infiammando il Medio Oriente. Nessuno si aspetta svolte eclatanti dai colloqui, ma è sicuramente incoraggiante vedere che la diplomazia multilaterale prova a crearsi uno spazio e a mantenere attivo il dialogo mentre continuano a cadere le bombe da una parte e dall’altra.We, Europeans, are engaging in dialogue with Iran to de-escalate the situation.The only possible way forward is dialogue. pic.twitter.com/JjRA6E1ZV3— Jean-Noël Barrot (@jnbarrot) June 20, 2025Per ora, questo è il massimo che si può ottenere. È lo stesso Araghchi, del resto, a ribadire che Teheran non accetterà di negoziare con Washington finché lo Stato ebraico continua le sue operazioni, bollandole come un “tradimento” del processo diplomatico in corso tra Iran e Stati Uniti.Gli europei stanno cercando tra mille difficoltà di far ripartire le trattative sul binario, che sembrava morto, del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), lo storico accordo del 2015 stipulato da Usa e Iran con la mediazione di Francia, Germania e Regno Unito (il cosiddetto formato E3) più Unione europea, Russia e Cina. Nel 2018, fu Donald Trump a ritirare Washington dall’accordo: da quel momento le trattative entrarono in una fase di stallo prolungato, dalla quale il tycoon stava cercando di uscire prima dell’attacco israeliano.Le cancellerie del Vecchio continente provano così a smarcarsi e a definire una propria posizione autonoma dalla Casa Bianca, dopo essersi appiattiti per anni sulla linea dello zio Sam. Ma l’Iran non è un cliente facile per nessuno e in ogni caso gli ayatollah percepiscono gli europei come troppo vicini allo Stato ebraico.Difficile contestare quest’ultimo punto, se si considera la fatica che stanno facendo i Ventisette a rimettere in discussione l’accordo di associazione con Tel Aviv, per non parlare delle sanzioni ai membri più estremisti del governo israeliano o, addirittura, dell’arresto di Netanyahu in ottemperanza al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto via Imagoeconomica)Del resto, la posizione ufficiale di Bruxelles rimane sempre la stessa: lo Stato ebraico ha il diritto di difendersi – seppur entro i limiti del diritto internazionale, come è recentemente riuscita ad ammettere la stessa Kallas dopo sette mesi in carica – e l’Iran non può in alcun modo mettere le mani sull’arma atomica.Sull’altra sponda dell’Atlantico, intanto, Trump non ha ancora deciso se entrare in guerra al fianco del suo storico alleato e dice di voler rimandare la questione di un paio di settimane. Da un lato, il tycoon starebbe aspettando di vedere se quello di Ginevra è un bluff, sostenendo di voler lasciare spazio alla pista negoziale. Dall’altro, non vuole rischiare di perdersi per strada l’ala più oltranzista del popolo Maga, ferocemente contraria a qualunque intervento militare all’estero.Per il momento, il Pentagono ha iniziato a muovere i propri asset nell’Oceano Indiano, ottenendo da Londra l’autorizzazione ad utilizzare le basi militari di Sua Maestà nell’eventualità di dover impiegare i bombardieri B-2 Spirit, gli unici in grado di sganciare le bombe bunker buster per colpire gli impianti di arricchimento sotterranei di Fordo, protetti dalle montagne a sud di Teheran.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Il Cremlino nel frattempo indica la sua linea rossa. Se Israele procederà ad assassinare il leader supremo della Repubblica islamica Ali Khamenei (come suggerito dal ministro degli Esteri Israel Katz, per essere smentito nel giro di qualche ora dal capo dello Stato Isaac Herzog), ammonisce Vladimir Putin, verrà scoperchiato il “vaso di Pandora” e la situazione precipiterà in maniera incontrollabile. Lo zar, almeno stando alle ultime indiscrezioni mediatiche, avrebbe presentato alle dirigenze israeliana e iraniana delle proposte alternative a quelle in discussione a Ginevra per una soluzione negoziata della crisi.Sulla carta, la Russia è uno degli alleati più stretti dell’Iran, dal quale compra i famigerati droni suicidi Shahed con cui attacca quotidianamente l’Ucraina. Ma diversi osservatori mettono in dubbio la reale intenzione di Mosca – al netto delle sue concrete capacità – di scendere in campo in aiuto degli ayatollah se la situazione dovesse peggiorare ulteriormente.Non è detto, ad esempio, che la difesa dell’alleato sciita valga più del mantenimento di rapporti tutto sommato buoni con Tel Aviv, così come sarebbe problematico per Putin inimicarsi il presidente statunitense in una fase in cui si sta dimostrando particolarmente indulgente nei confronti della Federazione.

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    Serbia, il presidente filorusso Aleksandar Vučić per la prima volta in Ucraina

    Bruxelles – Colpo di scena tra i Balcani occidentali e l’Ucraina. Uno dei principali alleati europei di Vladimir Putin, il presidente serbo Aleksandar Vučić, ha partecipato a sorpresa ad un summit a Odessa, incontrando l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky nella sua prima visita ufficiale nel Paese. Potrebbe trattarsi di un tentativo di riposizionare Belgrado sullo scacchiere internazionale, più lontano da Mosca e più vicino a Bruxelles?L’annuncio, diffuso dall’ufficio della presidenza serba, ha colto tutti di sorpresa. Aleksandar Vučić si è recato oggi (11 giugno) a Odessa per una visita ufficiale di un giorno, mettendo piede in Ucraina per la prima volta da quando è salito al potere nel lontano 2012. L’autoritario leader balcanico ha partecipato ad un summit organizzato da Kiev che riunisce una dozzina di Paesi dell’Europa sud-orientale.Tra gli altri, erano presenti nella città portuale – colpita nelle scorse ore dall’ennesimo bombardamento russo – anche il neo-eletto presidente romeno Nicușor Dan, la presidente moldava Maia Sandu, il premier greco Kyriakos Mitsotakis e quello croato Andrej Plenković. Nessun invito, invece, per i rappresentanti del Kosovo: probabilmente un gesto di buona fede da parte ucraina nei confronti di Belgrado, che non riconosce l’indipendenza di Pristina.Grateful to all the leaders and partners who came together in Odesa for the Fourth Ukraine–Southeast Europe Summit.@sandumaiamd, @JakovMilatovic, @NicusorDanRO, @avucic, @R_JeliazkovPM, @AndrejPlenkovic, @kmitsotakis, @elisaspiropali, @IzetMexhiti, @tfajonYour presence sends… pic.twitter.com/Q58VCl0hdK— Volodymyr Zelenskyy / Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) June 11, 2025Secondo diversi osservatori, la comparsata a Odessa andrebbe letta come un segnale politico del leader serbo, che starebbe cercando di riposizionare il suo Paese un po’ più lontano dalla Russia e un po’ più vicino all’Ue. Vučić si era finora destreggiato in un complicato equilibrismo tra Mosca e Bruxelles, che non sembrava averlo ancora messo in particolare difficoltà.Uno dei più solidi alleati europei di Vladimir Putin (col quale ha celebrato l’80esimo anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista lo scorso 9 maggio), il presidente serbo mantiene con la Federazione profondi legami economici, energetici, strategici e storico-culturali.Per non alienarsi il Cremlino, sta cercando di restare “neutrale” rispetto alla guerra d’Ucraina: non ha aderito alle sanzioni dell’Ue contro Mosca (è in arrivo il 18esimo pacchetto) e fornisce aiuti umanitari (ma non militari) a Kiev, mentre alle votazioni in sede Onu si è ripetutamente schierato a favore dell’integrità territoriale del Paese aggredito, evitando di riconoscere la Crimea e le altre oblast’ parzialmente occupate come territorio russo de jure.Eppure, negli ultimi giorni il rapporto tra Mosca e Belgrado pare essersi improvvisamente incrinato. A fine maggio, l’intelligence russa ha accusato la Serbia di aver inviato armi a Kiev tramite triangolazioni con Paesi Nato come Bulgaria, Cechia e Polonia e altri intermediari africani, arrivando a parlare di una “pugnalata alle spalle” da parte del tradizionale alleato balcanico. La Serbia, come la Russia, è storicamente avversa alla Nato, avendone subito i bombardamenti nel 1999.Il presidente russo Vladimir Putin durante le celebrazioni per l’80esimo anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista, il 9 maggio 2025 a Mosca (foto: Vyacheslav Prokofyev/Sputnik via Afp)D’altra parte, almeno sulla carta, Vučić punta a portare Belgrado dentro il club a dodici stelle. Ma sul percorso verso l’adesione pesano – o erano pesate fin qui – sia la gestione sempre più autoritaria del potere da parte sua (a partire dalla repressione delle oceaniche proteste che stanno scuotendo il Paese da mesi) sia l’imbarazzante vicinanza con lo zar russo, nonostante i silenzi di António Costa e di Kaja Kallas.Attualmente, sono aperti 22 capitoli negoziali su un totale di 33 e un paio sono stati chiusi provvisoriamente, ma il processo è in naftalina da qualche anno. Nello specifico, i problemi sarebbero legati all’apertura del cluster 3 (crescita inclusiva), poiché i Ventisette non ritengono soddisfacente la situazione dello Stato di diritto, inclusi il contrasto alla corruzione, l’indipendenza della magistratura e la libertà dei media.La verità, ad ogni modo, è che l’avvicinamento della Serbia all’Ue – parallelamente all’allontanamento dalla Russia – è nell’interesse strategico di Bruxelles. È probabilmente ancora presto, tuttavia, per dire se siamo di fronte ad un riallineamento della politica estera di Belgrado, che comporterebbe l’abbandono di alleanze decennali da parte di Vučić, peraltro senza una prospettiva concreta di adesione.

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    Ucraina, Trump sente Putin (di nuovo). Ma all’orizzonte non c’è nessuna tregua

    Bruxelles – La pace in Ucraina è ancora lontana. È quanto emerso dalla nuova conversazione telefonica avvenuta ieri sera (4 giugno) tra Vladimir Putin e Donald Trump, durante la quale il capo del Cremlino ha promesso una dura rappresaglia agli attacchi compiuti da Kiev negli ultimi giorni (che gli Stati Uniti non sembrano interessati a impedire). Il presidente russo avrebbe anche offerto alla Casa Bianca una sponda nei complessi negoziati sul programma nucleare iraniano.La chiamata è stata riassunta dal presidente statunitense con un post sul suo social personale, Truth: “È stata una buona conversazione, ma non una conversazione che porterà ad una pace immediata“, ha scritto il tycoon. “Il presidente Putin ha detto, e molto fermamente, che dovrà rispondere al recente attacco sugli aeroporti“, ha aggiunto Trump, senza specificare se nella conversazione di circa 75 minuti abbia tentato di dissuadere il suo interlocutore dal portare a compimento suddetta rappresaglia. Stamattina, il palazzo dell’amministrazione regionale di Cherson è stato colpito con le famigerate “bombe plananti” dall’aviazione russa.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Lo smacco che lo zar non poteva lasciare impunito è una serie di attacchi compiuti negli scorsi giorni dai servizi ucraini contro diversi obiettivi sul territorio russo. Sono stati colpiti alcuni ponti – nelle oblast’ di Kursk, invasa dalle truppe di Kiev lo scorso agosto e recentemente “bonificata” da Mosca, e di Bryansk, ma soprattutto quello di Kerch che collega la Federazione con la Crimea occupata – e sono stati distrutti una quarantina di bombardieri strategici (usati per sganciare appunto le bombe plananti mantenendosi a distanza di sicurezza dalla contraerea nemica), cioè circa un terzo del totale.Bollando il governo ucraino come una “organizzazione terrorista“, Putin ha sostenuto che non ci sono più le condizioni per trattare col suo omologo Volodymyr Zelensky (nonostante lui stesso avesse aperto a questa possibilità poco più di un mese fa), confermando il sostanziale buco nell’acqua del secondo round di colloqui tra le delegazioni dei due Paesi belligeranti svoltisi a Istanbul all’inizio di questa settimana.Del resto, appare sempre più evidente il fiasco della mediazione statunitense nel complicatissimo processo negoziale tra Mosca e Kiev. Al netto di una serie di false partenze, le trattative per una tregua nel conflitto sono sostanzialmente ferme, date le posizioni inconciliabili di Russia e Ucraina su praticamente qualsiasi punto, a partire dalle condizioni per accettare un cessate il fuoco.Dalla prospettiva europea, peraltro, il disimpegno dello zio Sam dal Vecchio continente sembra ormai incontrovertibile. Per la prima volta in quasi tre anni e mezzo, il capo del Pentagono Pete Hegseth era assente alla riunione del gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina (il cosiddetto formato Ramstein) tenutasi ieri a Bruxelles. E, stando alle indiscrezioni circolate nelle scorse ore, l’amministrazione a stelle e strisce ha anche definitivamente rifiutato di fornire copertura aerea ad eventuali operazioni della “forza di rassicurazione” franco-britannica, una richiesta su cui avevano a lungo insistito i membri della coalizione dei volenterosi.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (foto via Imagoeconomica)Un altro punto importante della chiamata Trump-Putin ha riguardato i difficili negoziati in corso (o meglio in stallo) sul nucleare iraniano. Secondo il tycoon, lo zar sarebbe “d’accordo” sul fatto che Teheran “non può possedere” un’arma atomica. Il presidente russo si sarebbe addirittura offerto di “partecipare nelle discussioni” con la Repubblica islamica, suggerendo di poter portare le discussioni “ad una rapida conclusione” mentre gli ayatollah starebbero rallentando le trattative. “Avremo bisogno di una risposta definitiva in un tempo molto breve!”, ha concluso l’inquilino della Casa Bianca.Dopo aver sentito Trump, Putin ha parlato brevemente anche col papa Leone XIV. L’inquilino del Cremlino avrebbe ringraziato il pontefice per la disponibilità mostrata dalla Santa Sede a ospitare in Vaticano futuri colloqui di pace tra Russia e Ucraina, un cambio di passo non indifferente da parte di Robert Francis Prevost rispetto al suo predecessore José Maria Bergoglio.Ma, appunto, non sembra ancora giunto il momento delle trattative. Per ora, Mosca ha proposto delle tregue temporanee (48 o 72 ore) limitate ad alcune zone del fronte per permettere a entrambi gli eserciti di recuperare i cadaveri dei caduti, ma Kiev ha rispedito l’offerta al mittente. Le diplomazie dei belligeranti sarebbero tuttavia impegnate per portare a termine un nuovo scambio di prigionieri di guerra e per la restituzione reciproca di diverse migliaia di salme. La Russia avrebbe anche accettato di rilasciare diverse centinaia di minori ucraini deportati dalle regioni occupate.

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    Yulia Navalnaya al Parlamento Ue: “Sostenete chi in Russia resiste a Putin, il regime cadrà”

    Bruxelles – Mentre la repressione in Russia si inasprisce, tre esponenti dell’opposizione lancianno un appello all’Ue per non abbandonare chi ancora resiste. Yulia Navalnaya, vedova di Alexei Navalny, Vladimir Kara-Murza e Ilya Yashin, sono intervenuti al Parlamento europeo chiedendo un cambio di approccio nel sostegno alle forze democratiche russe. Non si è trattato di semplici dichiarazioni simboliche: gli attivisti hanno presentato indicazioni concrete su cosa si aspettano dalle istituzioni europee.Durante la sessione congiunta della commissione Affari esteri del Parlamento europeo e della Sottocommissione per i diritti umani di stamattina (5 giugno), Navalnaya ha chiesto all’Ue di superare la fase delle dichiarazioni e avviare un sostegno tangibile alla società civile russa. In particolare, ha sollevato dubbi sull’allocazione di 5,5 milioni di euro stanziati per Radio Free Europe, testata americana, e ha chiesto perché non esista un finanziamento analogo per i media russi in esilio. “Ci sono giornali russi che da anni operano fuori dal Paese, parlano al pubblico in lingua russa, fanno un lavoro fondamentale e sopravvivono a fatica. Perché non vengono sostenuti?”, ha domandato, offrendo la disponibilità a fornire una lista di testate, attivisti e progetti specifici. Secondo Navalnaya sarebbero milioni i cittadini russi contrari alla guerra in Ucraina, ma per avere un ruolo, questi dovrebbero ricevere supporto ora. Tra le proposte: mantenere visibile la questione dei prigionieri politici, offrire aiuti ai difensori dei diritti umani, sostenere tecnologie come Vpn e spazi digitali liberi, e rafforzare le connessioni con chi agisce all’interno del Paese. “Servono piccoli progetti concreti, non solo grandi proclami”, ha sottolineato.(FILES) Russian opposition activist Vladimir Kara-Murza during a hearing in Moscow on October 10, 2022. (Photo by NATALIA KOLESNIKOVA / AFP)Vladimir Kara-Murza, recentemente liberato dopo due anni di detenzione, ha confermato che oggi ci sono oltre 3000 prigionieri politici in Russia, la maggior parte incarcerati per aver espresso dissenso contro la guerra. Ha invitato l’Ue a mettere le persone al centro della strategia: “Quando si parla di futuri negoziati, si citano risorse, confini, sanzioni. Ma i detenuti, le vittime civili e i bambini deportati devono diventare una priorità nei colloqui”. Kara-Murza ha inoltre insistito sulla necessità di un piano chiaro per il periodo successivo all’attuale regime: “L’errore degli anni ’90 fu non affrontare fino in fondo il passato sovietico. Serve una roadmap per il dopo-Putin, un piano per sostenere la costruzione di uno Stato di diritto. La transizione democratica, se arriverà, sarà rapida. Bisogna essere pronti”.Anche Ilya Yashin, incarcerato per le sue posizioni contro la guerra, ha ribadito che l’Europa non potrà costruire una democrazia russa al posto dei russi, ma può rafforzarne la capacità di resistenza. La sua richiesta principale è stata quella di legare in modo diretto il sostegno all’Ucraina con quello all’opposizione interna russa: “Ogni successo militare di Putin indebolisce chi, in Russia, lavora per una transizione pacifica e democratica”. Yashin ha inoltre segnalato un passaggio contenuto in una bozza negoziale dell’ultimo vertice negoziale di Istanbul, dove si menziona, per la prima volta, un possibile scambio di prigionieri politici tra Russia e Ucraina: “È un segnale che Putin riconosce l’esistenza di prigionieri politici. È su questo fronte che l’Unione europea dovrebbe insistere”.Molti eurodeputati hanno espresso commozione, rispetto e sostegno. Alcuni, come Michael Gahler del Ppe, hanno ricordato che “la Russia non è geneticamente autoritaria” e che un’altra Russia è possibile. Altri, come José  Sánchez Amor del gruppo Socialisti e democratici, hanno messo in guardia contro la tentazione postbellica di “lasciare fuori l’agenda russa”. Il filo conduttore è stato chiaro: la democrazia russa non può essere costruita dall’esterno, ma senza il sostegno europeo rischia di spegnersi. Infine, è emersa la proposta di creare un dialogo strutturato tra Unione europea e opposizione democratica russa, anche nel quadro di una futura Commissione parlamentare congiunta. L’obiettivo: consolidare il sostegno politico e pratico, e prepararsi a un cambiamento che, come ricordato dagli attivisti, potrebbe arrivare improvvisamente.

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    Ucraina, nuova fumata nera dai colloqui di Istanbul sul cessate il fuoco

    Bruxelles – Ucraina e Russia ci riprovano, ma senza fare progressi sostanziali. Le delegazioni di Kiev e Mosca si sono incontrate di nuovo a Istanbul per continuare i colloqui diretti sulla fine della guerra. C’è l’intesa su uno scambio di prigionieri e sulla restituzione di un gran numero di salme, ma le posizioni su un’eventuale tregua nei combattimenti rimangono inconciliabili. Nel frattempo, di qua e di là del confine continuano a cadere le bombe.Con buona pace delle speculazioni su fantomatici negoziati di pace in Vaticano circolate nelle scorse settimane, è a Istanbul che russi e ucraini continuano a incontrarsi. Lì si è svolto ieri (2 giugno) un nuovo round di colloqui diretti tra le delegazioni dei due belligeranti, sedutesi allo stesso tavolo per la seconda volta dal marzo 2022.Il primo faccia a faccia risale a metà maggio, quando le squadre negoziali avevano concordato uno scambio di 1000 prigionieri per parte, ma senza fare progressi sul nodo centrale delle trattative: le condizioni per un cessate il fuoco sostenibile e, in prospettiva, l’avvio di veri colloqui di pace.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (foto via Imagoeconomica)Anche stavolta, nella millenaria città sul Bosforo i negoziatori di Kiev e Mosca hanno dato il disco verde alla liberazione di un numero imprecisato di prigionieri – soprattutto i soldati più giovani, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, e i feriti più gravi – e alla restituzione di 6mila caduti per parte.Rimane invece siderale la distanza tra le rispettive posizioni su come giungere ad un’interruzione temporanea delle ostilità, punto di partenza per negoziati sostanziali su una pace duratura. Ucraina e Russia si sono scambiate dei memorandum sulle condizioni ritenute accettabili per una tregua, ma i desiderata messi nero su bianco dalle due parti sono sempre gli stessi. E non sono conciliabili.Per avviare negoziati sostanziali, Kiev continua a chiedere un cessate il fuoco immediato e totale, il rilascio di tutti i prigionieri militari e civili e il ritorno dei minori rapiti durante l’occupazione. Altri due punti cruciali sono la libertà dell’Ucraina di aderire tanto all’Ue quanto alla Nato, previo consenso politico all’interno dei due club, e le famigerate (quanto fumose) garanzie di sicurezza che dovrebbero essere fornite dalla coalizione dei volenterosi.I briefed the President of Ukraine @ZelenskyyUa on today’s meeting with the Russian side in Istanbul.Upon returning to Kyiv, I will also present the Russian proposals — which they shared only today, directly during the negotiations.The Ukrainian side acted clearly and… pic.twitter.com/MYuw15BPQw— Rustem Umerov (@rustem_umerov) June 2, 2025Kiev sostiene inoltre la necessità di un faccia a faccia tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin. “Riteniamo che abbia senso continuare il lavoro tra le delegazioni se è finalizzato a preparare un incontro tra i capi di Stato”, ha osservato il capo-negoziatore Rustem Umerov, titolare della Difesa ucraina. La finestra da lui proposta per organizzare il bilaterale – magari alla presenza di Donald Trump – è “entro la fine di questo mese, dal 20 al 30 giugno“.Eventuali cessioni territoriali, fanno sapere gli ucraini, andranno discusse solo al massimo livello tra i due presidenti. Se tali condizioni verranno soddisfatte, Kiev si dichiara disposta ad accettare il progressivo allentamento delle sanzioni contro Mosca, purché venga messo in piedi un meccanismo atto a reintrodurle rapidamente in caso di necessità. Zelensky ha inoltre invocato nuove misure restrittive se il processo di Istanbul non porterà a breve ad un cessate il fuoco.Si tratta con ogni evidenza di condizioni irricevibili per il Cremlino, che a sua volta mantiene le proprie richieste massimaliste già respinte al mittente da Kiev. La Federazione pretende la fine del supporto occidentale alla resistenza ucraina, la smilitarizzazione e “neutralizzazione” del Paese aggredito nonché la rinuncia a farlo entrare nell’Alleanza nordatlantica, oltre alla ritirata dell’esercito ucraino dalle quattro oblast’ parzialmente occupate – che Mosca vuole vedere riconosciute come territorio russo de jure, insieme alla Crimea – e alla rimozione di tutte le sanzioni internazionali.Il presidente russo Vladimir Putin (foto: Imagoeconomica)Quanto al cessate il fuoco, il capo-negoziatore russo Vladimir Medinsky (lo stesso che aveva guidato la squadra russa nella prima fase dei colloqui di Istanbul tre anni fa) ha messo sul tavolo la proposta di una tregua parziale di due e o tre giorni, da attivarsi solo in determinate aree del fronte durante i negoziati.Questo secondo round di colloqui a Istanbul ha avuto luogo all’indomani del più ampio attacco ucraino sul suolo della Federazione dall’inizio dell’invasione su larga scala, che avrebbe portato alla distruzione di decine di bombardieri. Così, tra le richieste avanzate dal Cremlino figura anche “il rifiuto da parte di Kiev di intraprendere attività sovversive e di sabotaggio contro la Russia”.Richiesta destinata a cadere nel vuoto, dato che proprio oggi i servizi di intelligence di Kiev hanno rivendicato il terzo attacco al ponte di Kerch dal 2022. L’infrastruttura, che collega direttamente la Federazione alla penisola nel Mar Nero, è fondamentale per rifornire le truppe russe nel sud dell’Ucraina. Nel frattempo, l’esercito di Mosca continua la sua lenta avanzata nella regione ucraina di Sumy, dove non si fermano i bombardamenti.

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    Sulla Serbia l’Ue rimane in silenzio. Dopo Costa, neanche Kallas critica Vučić

    Bruxelles – Altro giro, altri mezzi silenzi. L’Ue non vuole alzare la voce con la Serbia, scegliendo di non prendere di petto due questioni fondamentali: la vicinanza del presidente Aleksandar Vučić alla Russia di Vladimir Putin e la repressione delle proteste antigovernative. In visita a Belgrado, Kaja Kallas è stata giusto un pelo più loquace di António Costa, che l’aveva preceduta di una decina di giorni. Ma nemmeno lei è riuscita a pronunciare una condanna chiara e netta né dell’autoritarismo del leader serbo né dello scivolamento del Paese candidato verso Mosca.Per la seconda volta nel giro di una decina di giorni, uno dei vertici comunitari si è presentato a Belgrado per confrontarsi con la leadership serba sui progressi nel processo di adesione. Oggi (22 maggio) è toccato a Kaja Kallas, dopo che lo scorso 13 maggio era stato il turno del presidente del Consiglio europeo António Costa.Rispetto a quest’ultimo, l’Alta rappresentante è stata un po’ più schietta. “Voglio sottolineare che abbiamo bisogno di vedere azioni” concrete da parte del Paese balcanico che dimostrino una reale volontà di progredire sulla strada dell’ingresso in Ue, ha dichiarato di fronte ai giornalisti. L’unico modo per Belgrado di avanzare sul sentiero europeo, ha detto, è realizzare “riforme reali”, non cosmetiche. “Non ci sono scorciatoie per l’adesione”, ha aggiunto, suggerendo che “i prossimi passi includono la libertà dei media, la lotta alla corruzione e la riforma elettorale“.My message to the authorities in Belgrade is clear.I want to see Serbia advancing towards the EU. For that, political leaders must deliver the necessary reforms and clarify the strategic direction.This is best done by restoring trust and staying true to democratic principles. pic.twitter.com/I9Jv9BV33P— Kaja Kallas (@kajakallas) May 22, 2025Queste riforme, ha osservato, porteranno benefici a tutta la popolazione, a partire dai giovani animatori dell’agguerrito movimento studentesco, che da mesi si stanno riversando nelle piazze per chiedere un impegno serio contro la corruzione dilagante e reclamare il proprio futuro europeo. Un futuro in cui “l’autonomia delle università dev’essere rispettata”, dice Kallas, riconoscendo esplicitamente le rivendicazioni dei manifestanti.Ma la sua loquacità si è fermata lì. Nessuna condanna della repressione delle proteste ordinata dal governo, oltre a vaghe parole sulla necessità che “i Paesi candidati seguano i princìpi dei diritti umani” tra cui quello a un giusto processo, negato invece agli studenti detenuti arbitrariamente nelle carceri serbe.E nessuna condanna esplicita nemmeno del clamoroso viaggio del presidente Vučić a Mosca, dove ha partecipato alle celebrazioni dello scorso 9 maggio insieme a Vladimir Putin. Un vero e proprio schiaffo in faccia alla stessa Kallas, che aveva personalmente esortato i leader di Stati membri e Paesi candidati a non presentarsi sulla Piazza Rossa (in rappresentanza della prima categoria c’era il premier slovacco Robert Fico).Rispondendo ad una domanda sul tema, il capo della diplomazia a dodici stelle si è limitata a ripetere che “il mio punto di vista è molto chiaro, non capisco perché sia necessario stare fianco a fianco con la persona che sta conducendo questa orribile guerra in Ucraina“. Per poi aggiungere, senza elaborare oltre, che il capo dello Stato “mi ha spiegato la sua versione della storia” nel corso di una “discussione molto lunga”.Il presidente russo Vladimir Putin (sinistra) e il suo omologo serbo Aleksandar Vučić (foto: Alexander Zemlianichenko/Afp)La vicinanza di Vučić al Cremlino è uno dei motivi di maggior imbarazzo a Bruxelles per quel che riguarda la politica estera del Paese candidato. L’altro elemento che sta “ostacolando l’allineamento con la Pesc“, cioè la politica estera dell’Ue, è lo stallo in cui si trova il processo noto come dialogo Belgrado-Pristina, il cui obiettivo è la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Serbia e Kosovo.“La Serbia sta affrontando scelte geostrategiche” importanti, ha rimarcato Kallas, e deve decidere “dove vuole stare”. “Il futuro europeo della Serbia dipende dai valori che sceglie di sostenere” in patria e all’estero, dice l’Alta rappresentante: sia nei rapporti con la Russia sia nelle relazioni di vicinato, a partire dal Kosovo e dalla Bosnia-Erzegovina.L’invito di Kallas: “È tempo di superare il passato e focalizzarci sul futuro comune“. Bruxelles incoraggia i partner dei Balcani occidentali a “far tesoro dello slancio attuale sull’allargamento”, pur riconoscendo la lentezza di un processo che finora ha prodotto pochi risultati concreti. Il rischio, se i Paesi candidati implementano le riforme ma i Ventisette non fanno “i compiti a casa”, è quello di alimentare “frustrazione” nei cittadini, riconosce Kallas.La sua visita a Belgrado è la prima tappa di un tour nella regione che ricalca, seppur in versione ridotta, quello di Costa: lasciata la Serbia, l’Alta rappresentante si è recata in Kosovo. Da Pristina ha annunciato che l’Ue “ha iniziato a rimuovere gradualmente le misure introdotte nel giugno 2023“, cioè le sanzioni seguite agli scontri nel nord del Paese, ma che la rimozione totale rimane “condizionale” ad una completa de-escalation. Domani, l’Alta rappresentante concluderà il suo viaggio in Macedonia del nord.