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    UE e NATO ora preoccupati: “Dobbiamo essere pronti a un attacco della Russia”

    Bruxelles – La Russia minaccia sempre più reale e probabile, in grado di tramutarsi in un vero e proprio attacco alla NATO. In Europa iniziano a farsi ricorrenti gli allarmi e gli avvertimenti di possibili se non addirittura probabili aggressioni russe. Non da ultima quella del ministro delle difesa tedesco, Boris Pistorius, che considera lo scenario possa verificarsi tra 5-8 anni. Per la prima ministra dell’Estonia, Kaja Kallas, invece, potrebbe materializzarsi anche prima, nel giro di tre anni. Tre anni, esattamente quanto sostenuto da Eirik Kristoffersen, ministro della difesa della Norvegia.Una preoccupazione tutta interno ai membri UE della NATO, che plana prepotentemente sui tavoli di confronto, e non solo quelli politici. Perché l’ammiraglio Rob Bauer, capo del consiglio militare della NATO, ha messo in chiaro al termine dell’ultima riunione dell’organismo, giovedì scorso (18 gennaio), che “consideriamo la Russia una minaccia, e dobbiamo essere pronti per un attacco“. In questo contesto serve “un’industria che produca armi e munizioni più velocemente” rispetto a capacità e ritmi avuti prima dell’invasione dell’Ucraina.Dichiarazioni figlie di un mutato contesto, che vede la guerra allungarsi senza che se ne riesca ad immaginare il momento della fine, e la necessità che i Paesi dell’Unione tengano fede alle loro promesse ad esempio sulle munizioni all’Ucraina. Il sospetto che si voglia alzare la tensione per accelerare la produzione militare, come in realtà Bauer dice in maniera esplicita, c’è.Kallas vorrebbe sostituire Jens Stoltenberg alla guida dell’Alleanza atlantica e l’Estonia è attaccata alla Russia, dalla quale si sente da sempre minacciata, dunque è possibile che la premier sia guidata un po’ da preoccupazioni difensive e un po’ dalla volontà ri rinforzarsi come candidata alla Nato. D’altra parte è vero che dalla Russia ci sono continue azioni di disturbo sui confini estoni e finlandesi, ad esempio spingendovi dei migranti e molte sono anche le azioni realizzate con attacchi cibernetici.Il capo del comitato militare della Nato, nella stessa conferenza stampa, ha anche affermato che “non cerchiamo la guerra, ma dobbiamo essere pronti per la guerra“. Affermazione comprensibile. Eppure, a rileggere il discorso di Monaco pronunciato dal presidente russo Vladimir Putin alla conferenza sulla sicurezza globale del 2007, sembra che Europa e occidente abbiano colpevolmente ignorato le minacce di una Russia che chiedeva più meno NATO vicina ai suoi confini, annunciando passo passo le cose che poi ha fatto. Putin non ha mai fatto mistero di voler riprendere gli spazi di quello che fu l’impero russo e molti dei Paesi oggi confinanti ne erano parte.Dopo il discorso di Monaco del 2007 l’UE ha intensificato rapporti con Georgia, Ucraina, Kazakistan. La risposta russa, più o meno diretta, è stata l’intervento a fianco degli indipendentisti dell’Ossezia del sud, in chiave anti-georgiana (2008), l’annessione della Crimea (2014), l’aiuto militare per sedare proteste di piazza in Kazakistan, su richiesta del presidente kazako (gennaio 2022, poco prima dell’avvio delle operazioni in Ucraina). Tutti modi per ribadire che Mosca ha scelto una sua sfera d’influenza, sulla quali non vuole intromissioni. Neanche da parte dei governi legittimi di quei Paesi.La destabilizzazione è un’altra arma che Mosca ha usato spesso, armando e favorendo forze secessioniste quando ce ne sono, o esaltando fenomeni, esecrabili ma piccoli, come i partiti che si richiamano direttamente al nazismo o al fascismo indicando dunque quei Paesi come pericolosi.Di recente un drone russo è precipitato in Romania, ma si è deciso di tenere un profilo basso, di evitare di poter dare pretesti per un acuirsi del confronto.Non preoccuparsi di cosa potrebbe fare la Russia dunque, visti i precedenti, sarebbe, secondo molti osservatori “da sconsiderati”. Non c’è bisogno di invadere militarmente l’Estonia per creare un problema alla Nato, ci sono molte altre azioni che possono essere compiute, e che Mosca ha compiuto che possono essere viste come un attacco all’Alleanza, che difficilmente può essere un’invasione con i carri armati, anche perché la Russia si rende conto che un’azione del genere creerebbe una situazione di debolezza per il Cremlino. Almeno finché non arriva magari un Trump che negozia una sua pace con Mosca e abbandona la Nato e l’Europa a sé stesse.

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    “Multilateralismo e cooperazione”, l’UE indirizza il dibattito di Davos

    Bruxelles – Cooperazione e multilateralismo. La risposta a crisi e tensioni è lavoro di squadra, a livello internazionale. Il World Economic Forum di Davos, quest’anno tenuto quasi in sordina per via dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente che continuano con maggiore intensità e ricadute sul dibattito politico, ha visto un’Unione europea ricoprire il ruolo di ‘pacere’ e mediatore in un contesto globale quanto mai incerto.Complice anche un calendario amico, che ha visto un avvicendamento sul podio a fasi alternate, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha potuto trovarsi nella situazione di provare a dettare una linea seguita e inseguita da chi ha parlato dopo di lei. “Questo è il momento di promuovere la collaborazione globale più che mai“, l’appello e l’invito della presidente dell’esecutivo comunitario, che offre sponde: “L’Europa è in una posizione unica per promuovere questa solidarietà e cooperazione globale”.Un intervento che poteva rischiare di andare perso tra le tante sessioni di lavoro di un summit organizzato su più livelli e in più momenti, tutti diversi. Ma l’intervento di von der Leyen è rimasto sospeso solo qualche ora. Perché il giorno successivo è stata il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, a rilanciare l’agenda dell’UE, avvertendo di come “le divisioni geopolitiche stanno ostacolando una risposta globale a sfide come il cambiamento climatico e l’intelligenza artificiale”, e che per tutto questo serve un “multilateralismo riformato, inclusivo e interconnesso”.In linea di principio gli appelli a un mondo globale e globalizzato che tale resti è condiviso anche dagli Stati Uniti dell’amministrazione Biden, con il segretario di Stato americano, Antony Blinken, anch’egli a Davos il giorno successivo alla presenza di von der Leyen, che è stato chiaro sulla necessità di “partenariati e cooperazione globali” per risolvere le nostre sfide più grandi. E’ questa però la visione di un governo uscente, atteso alla prova elettorale di fine anno, che potrebbe ridisegnare agende ed equilibri. L’UE teme un ritorno di Donald Trump alla Casa bianca, per le conseguenze di un simile scenario. Si teme, con Trump, l’esatto contrario di quanto sottolineato e sostenuto, da più parti, a Davos: divisioni al posto di cooperazione.Alle proposte di mediazione e di inter-relazione dell’UE risponde, il quarto giorno di lavori, il vice primo ministro e ministro degli affari esteri dell’Etiopia, Demeke Mekonnen Hassen. C’è per l’Europa, e non solo per il Vecchio continente, tutto il mondo africano interessato all’agenda di cooperazione. A patto che non sia trattato in modo marginale o neo-coloniale. Al contrario, “l‘Africa deve svolgere un ruolo centrale in tutto il mondo per il multilateralismo e nell’arena internazionale sul commercio, sugli investimenti e su altre attività economiche”. Le dinamiche delle relazioni bi-laterali e regionali sarà compito della politica, ma è chiaro, ha voluto sottolineare il direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), Ngozi Okonjo-Iweala, che “senza un libero flusso commerciale, non credo che potremo riprenderci” a livello economico. Avanti dunque con il libero scambio e le relazioni internazionali. Anche perché, ha messo in chiaro il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, “dobbiamo evitare una corsa ai sussidi, non possiamo permettercelo”.L’Unione europea a Davos sembra toccato e centrato un punto fondamentale. Ha sicuramente dettato il dibattito organizzato su più giorni. Ora la vera sfida è fare di questa linea dettata a Davos l’agenda politica internazionale dei prossimi mesi.Per quanto riguarda l’UE, la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, non ha dubbi: l’Europa deve fare i propri compiti a casa. La responsabile dell’Eurotower è stata tra gli ultimi a intervenire, l’ultimo giorno del summit di Davos. Qui, parlando della prospettiva di un ritorno di Trump alla guida degli Stati Uniti, ha invitato a lavorare fin da ora. “La migliore difesa, se è così che vogliamo vederla, è l’attacco“. Quindi precisa. “Per attaccare bene bisogna essere forti in casa. Essere forti significa avere un mercato forte e profondo, avere un vero mercato unico“.Una delle risposte a un eventuale ritorno di Trump passa per l’integrazione a dodici stelle. Lindner lo ha detto chiaro e tondo. “Il nostro svantaggio competitivo rispetto agli Stati Uniti non sono i sussidi, ma la funzione del nostro mercato dei capitali privati“.

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    L’Ue ha aggiunto alla lista dei terroristi il leader politico di Hamas nella Striscia di Gaza. Chi è Yahya Sinwar

    Bruxelles – Il Consiglio dell’Ue ha deciso oggi (16 gennaio) di aggiungere Yahya Sinwar, leader politico di Hamas nella Striscia di Gaza, alla lista dei terroristi dell’Unione europea. Uno dei principali obiettivi dei bombardamenti israeliani, lo scorso 9 gennaio Tel Aviv aveva posto su di lui una taglia di 400 mila dollari.Da oggi il “macellaio di Khan Yunis”, com’è soprannominato Sinwar, sarà ​​soggetto al congelamento dei fondi e di altre attività finanziarie negli Stati membri dell’Ue. Parallelamente, a tutti gli operatori comunitari sarà vietato mettergli a disposizione fondi e risorse economiche. Con l’aggiunta del leader dell’organizzazione che governa la Striscia di Gaza, la lista dei terroristi Ue conta ora 15 persone e 21 gruppi ed entità.Yahya Sinwar si unì ad Hamas già negli anni Ottanta. Ha più di 60 anni, nato e cresciuto in un campo profughi a Khan Yunis, nel sud della Striscia. Venne arrestato dall’esercito israeliano nel 1988, con l’accusa di aver ucciso due soldati delle Forze di Difesa Israeliane. Nei 23 anni che ha trascorso in prigione, Sinwar ha imparato l’ebraico e studiato a fondo “il modo in cui pensa e agisce il nemico”.Nel 2011 fu liberato, insieme a oltre mille prigionieri palestinesi, in cambio di un solo soldato israeliano, Gilad Shalit. Tornato a Gaza, nel 2017 fu nominato capo politico di Hamas all’interno della Striscia. Assieme a Mohammed Deif, capo delle brigate al Qassam, il braccio militare di Hamas, è ritenuto uno dei principali ideatori dell’attacco terroristico del 7 ottobre. Sinwar e Deif non sono gli unici leader dell’organizzazione: in esilio a Doha, in Qatar, vive Ismail Haniyeh, ritenuto la figura politica più importante di Hamas, così come il suo vice, Saleh Arouri, che si trova a Beirut, in Libano.

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    Ucraina, Ue cerca l’accordo per gli aiuti da 50 miliardi. Il Belgio: “Anche a 26”

    Bruxelles – Avanti con il sostegno all’Ucraina, in caso anche non a 27 senza l’Ungheria. L’Unione europea è decisa a ribadire il proprio sostegno a Kiev nella guerra in corso contro la Russia, e l’obiettivo è mettere al sicuro lo strumento finanziario da 50 miliardi di euro. Da quando il primo ministro ungherse Viktor Orban ha posto il veto alla proposta di modifica di bilancio comune, che include anche la riserva per l’Ucraina per 50 miliardi di euro, non sembra essere cambiato molto. La presidenza belga del Consiglio dell’Ue, spiega il ministro delle Finanze, Vincent van Peteghem, al termine dei lavori dell’Ecofin, intende favorire una soluzione che tenga tutti a bordo, ma non a tutti i costi.“Lavoriamo sullo strumento a sostegno dell’Ucraina per un accordo a 27, ma se non fosse possibile lavoreremo ad altre soluzioni“, spiega van Peteghem. E’ la linea ministeriale per i leader, che si ritroveranno a Bruxelles l’1 febbraio proprio per tornare a discutere di bilancio comune per via delle resistenze ungheresi di dicembre. “E’ importante sostenere il Paese e la sua ricostruzione”, aggiunge il ministro delle Finanze belga. che però lascia spazio ai capi di Stato e di governo. “Aspettiamo il vertice straordinario del Consiglio europeo”.Obiettivo principale resta dunque un via libera unanime. Solo se questo non dovesse arrivare allora si lavorerebbe alla soluzione senza Ungheria. La Commissione Ue, attraverso il responsabile per un’Economia al servizio delle persone, Valdis Dombrovskis, prova a fare pressione. “Non abbiamo tempo da perdere per l’approvazione dello strumento per l’Ucraina. Dobbiamo continuare a fare quello che serve perché l’Ucraina vinca la guerra“.Dal Parlamento Ue si levano però voci contrarie. La pentastellata Laura Ferrara chiede un cambio di rotta. “Davvero Commissione e Consiglio ritengono che continuando ad inviare più armi in Ucraina la Russia si fermerà? I due anni dall’invasione russa dimostrano il contrario”.  Per il Movimento 5 Stelle “è giunto il momento di cambiare strategia”, vale a dire “intensificare gli sforzi diplomatici per una de-escalation militare, avviare un percorso di soluzione negoziale del conflitto”.

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    Mar Rosso, Gentiloni avverte l’Ue: “Le conseguenze potrebbero materializzarsi nelle prossime settimane”

    Bruxelles – Le acque del Mar Rosso sono sempre più agitate. Né il raid coordinato dagli Stati Uniti a cavallo tra l’11 e il 12 gennaio, né la dura condanna delle Nazioni Unite nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 10 gennaio, sono serviti da deterrente contro gli attacchi che gli Houthi conducono sistematicamente dallo Yemen alle navi cargo che attraversano il canale di Suez. Il mondo teme un ulteriore escalation della crisi in Medio Oriente e un duro contraccolpo economico. E da Bruxelles il commissario Ue agli Affari Economici, Paolo Gentiloni, avverte: “Le conseguenze potrebbero materializzarsi nelle prossime settimane”.Il blocco Ue per ora non ha ancora individuato una strategia comune, in attesa dell’incontro dei corpi diplomatici dei 27 nel Comitato Politico e di Sicurezza (Cops), previsto per domani (16 gennaio). Anzi, se Germania, Paesi Bassi e Danimarca hanno firmato una dichiarazione congiunta a sostegno della rappresaglia a guida Usa, la Spagna di Pedro Sanchez ha escluso un suo possibile coinvolgimento in missioni militari nella regione. E Italia e Francia, seppure già inserite nell’operazione Prosperity Guardian lanciata da Washington a metà dicembre con l’obiettivo di garantire la sicurezza delle navi commerciali e delle petroliere che transitano nel mar Rosso, aspettano di valutare la proposta dell’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, per una missione navale europea.Paolo GentiloniIl piano su cui sta lavorando il Servizio europeo di Azione Esterna (Seae), potrebbe vedere la luce in occasione del Consiglio Affari Esteri del 22 gennaio. Ma il tempo stringe, perché anche se Gentiloni ha dichiarato oggi che per il momento la crisi “non sta apparentemente creando conseguenze sui prezzi dell’energia e sull’inflazione“, il vicepremier italiano, Antonio Tajani, ha disegnato un quadro più drammatico. Secondo Tajani “il danno economico è già iniziato per i nostri porti, soprattutto quelli del Sud, ma anche quello di Genova”.E i dati lo confermano: le navi che oggi attraversano il Canale di Suez sono circa 250, rispetto alle oltre 400 di prima delle tensioni con le milizie sciite degli Houthi. “I rischi sono soprattutto economici, perché un viaggio facendo il periplo dell’Africa costa molto più di uno che attraversa il Canale di Suez, aumentano i costi delle assicurazioni delle navi e dei prodotti che vengono esportati o importati e noi siamo un Paese esportatore, visto che l’export è il 40 per cento del nostro Pil”, ha spiegato il vicepremier. Se le navi continuassero a essere costrette a circumnavigare l’Africa, il rischio a medio termine è quello di una perdita di centralità del Mediterraneo nel commercio internazionale, e di conseguenza dei porti italiani.In attesa delle discussioni su un’eventuale missione navale europea, che secondo un documento del corpo diplomatico Ue dovrebbe prevedere l’invio di “almeno tre cacciatorpediniere o fregate antiaeree con capacità multi-missione per almeno un anno”, il portavoce del Seae, Peter Stano, ha chiarito la linea di Bruxelles durante il briefing quotidiano con la stampa internazionale. “Gli attacchi Houthi sono completamente ingiustificabili. Sono attacchi di missili e droni contro navi commerciali, in nessun modo possono essere legali”, ha dichiarato Stano, esprimendo totale sostegno alla risoluzione con cui l’Onu ha chiesto agli Houthi di fermarsi immediatamente.La linea tracciata dall’Ue vuole tenere slegate le due crisi, quella Israelo-palestinese e quella del Mar Rosso, nonostante gli Houthi rivendichino di agire in solidarietà con il popolo palestinese e chiedano come precondizione per ristabilire la libertà di navigazione nel Mar Rosso un cessate il fuoco a Gaza. “Quello che gli Houthi stanno facendo – che sia secondo loro legato al conflitto a Gaza o meno – è illegale e va fermato”, ha precisato ancora Peter Stano.

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    Mar Rosso, l’Ue alla finestra di fronte all’aggravarsi della crisi. Borrell lavora su una missione congiunta

    Bruxelles – L’Ue, per ora, sta alla finestra. Spettatore interessato e preoccupato dell’escalation di ostilità in Medio Oriente, con la nuova rogna degli assalti alle navi cargo nel Mar Rosso da parte delle milizie yemenite Houthi e la risposta militare messa sul campo nella notte da una coalizione di Paesi guidata dagli Stati Uniti. All’orizzonte, un piano per l’invio di una forza navale europea a protezione delle imbarcazioni commerciali che attraversano il canale di Suez.Il problema è che le conseguenze in Europa iniziano già a farsi sentire. Lo stretto egiziano rappresenta il 12 per cento del commercio mondiale in termini di transito di merci in commercio internazionale, un dato che aumenta fino al 30 per cento se si considerano i container. Da qui passa ciò che serve per il settore primario: il 14,6 per cento dell’import mondiale di prodotti cerealicoli passa da Suez, al pari del 14,5 per cento dei fertilizzanti usati in agricoltura. Oggi Tesla ha annunciato che sospenderà la maggior parte della sua produzione in Germania per due settimane, a causa della carenza di componenti dovuta all’allungamento delle rotte di trasporto. Molte compagnie stanno circumnavigando l’Africa per evitare possibili attacchi nel Mar Rosso.Un miliziano Houthi di guardia alla Grande Moschea Al-Saleh a Sana’a, Yemen (Photo by MOHAMMED HUWAIS / AFP)Il bombardamento di diversi siti militari – circa una settantina – usati dai ribelli Houthi in Yemen, che Washington ha coordinato con Londra e con il supporto di Australia, Canada, Paesi Bassi e Barhein, rischia solo di aggravare la situazione. La Nato ha dichiarato che “questi attacchi erano difensivi e progettati per preservare la libertà di navigazione in una delle vie d’acqua più vitali del mondo”, mentre il presidente Usa, Joe Biden, li ha definiti “un chiaro messaggio che gli Stati Uniti e i suoi partner non tollereranno attacchi al loro personale né permetteranno ad attori ostili di mettere in pericolo la libertà di navigazione”.Ma se l’intento era quello di scoraggiare le rappresaglie della milizia sciita, che ha intrapreso i suoi attacchi in aperta opposizione ai bombardamenti di Israele contro la popolazione palestinese, a giudicare dalle prime reazioni potrebbe essere stato un buco nell’acqua. Funzionari degli Houthi hanno già avvertito che Stati Uniti e Regno Uniti “pagheranno un prezzo pesante” per questa “palese aggressione” e che continueranno a prendere di mira le navi nel Mar Rosso. Da Teheran, che foraggia le milizie yemenite, la constatazione che “questi attacchi arbitrari non faranno altro che alimentare l’insicurezza e l’instabilità nella regione”.Mar Rosso, una guardia Houthi su una nave con bandiera della Bahamas, sequestrata in un porto yemenita (Photo by AFP)Ha preso immediatamente posizione anche la Russia, che ha chiesto la convocazione di una riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. “La Russia ritiene che l’attacco degli Stati Uniti e del Regno Unito contro le posizioni del movimento sciita Houthi, dominante nel nord e nel centro dello Yemen, costituisca una minaccia diretta alla pace e alla sicurezza globale“, ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. Mosca ha chiesto alla comunità internazionale di “condannare fermamente l’attacco allo Yemen da parte di un gruppo di Paesi senza mandato delle Nazioni Unite”. La riunione del Consiglio di Sicurezza si terrà intorno alle ore 16 – le 22 italiane – a New York.Italia, Francia e Spagna non partecipano, Borrell studia una missione europeaI 27 dell’Ue, come di fronte alla deflagrazione del conflitto israelo-palestinese, sembrano inermi e soprattutto divisi. Mentre la Germania sta valutando se partecipare alle operazioni di sicurezza a guida americana dispiegando nel Mar Rosso la fregata Hessen, per ora Francia, Spagna e Italia hanno precisato di non aver partecipato al raid notturno. Fonti di Palazzo Chigi precisano che “l’Italia sta lavorando per mantenere bassa la tensione nel Mar Rosso ed è impegnata nella coalizione europea per garantire la circolazione delle navi”. L’Italia sarebbe stata informata “con largo anticipo dell’attacco”, ma non si è nemmeno posta la questione di partecipare all’offensiva, perché – come spiegato in mattinata dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, “non possiamo mettere in atto azioni di guerra senza un dibattito parlamentare”.Ma la preoccupazione c’è anche a Roma: la sola Italia ha in ballo valori per 154 miliardi di euro, a tanto ammonta il valore dell’import-export italiano marittimo che transita per il canale di Suez. Parliamo del 40 per cento del commercio marittimo del Paese. Non solo gli attacchi degli Houthi stanno facendo salire i costi, ma un possibile scenario – disegnato dal centro studi SRM, è che le navi potrebbero non entrare nel Mediterraneo sbarcando nel Nord Europa, con conseguenti danni ai porti italiani. “Il rischio a medio-lungo termine è la perdita di centralità del Mediterraneo ed il conseguente contraccolpo molto serio per la portualità italiana”, avverte l’eurodeputato del Movimento 5 Stelle, Fabio Massimo Castaldo.A Bruxelles si è messo in moto l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, che sta elaborando una proposta per svolgere un ruolo più attivo nella regione. I 27 potrebbero discuterne già martedì 16 gennaio, quando si riunirà il Comitato Politico e di Sicurezza (Cps) dell’Unione: in ballo ci sarebbe l’invio di una forza navale europea per supportare la protezione delle navi commerciali nel Mar Rosso. Almeno tre cacciatorpediniere o fregate antiaeree per il prossimo anno. Ma ora che la tensione è già a salita a un livello superiore, il piano del Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae), rischia di essere già da buttare via.Secondo Massimo Salini, eurodeputato di Forza Italia, “il percorso avviato drammaticamente dagli Stati uniti questa notte implica necessariamente un dibattito politico all’interno dell’Ue per definire una strategia”, che non può più evitare la possibilità di un intervento militare. Tenendo separati la crisi del Mar Rosso e il conflitto tra Israele e Hamas: “Se la precondizione per dare una soluzione ipotetica allo scenario sul Mar Rosso significa un arretramento su Israele, questo vorrebbe dire cedere alla strategia iraniana e non possiamo permettercelo”, sostiene Salini. Perché gli Houthi agiscono “per procura” di Teheran e in definitiva “strumentalizzano” la causa palestinese. Ne è convinto Fabio Massimo Castaldo: “Non credo che questo tipo di assalti a navi civili possa essere chiamata solidarietà con i palestinesi, ma anzi continuano a ledere lo slancio necessario per un cessate il fuoco duraturo a Gaza”.

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    Gli aiuti allo sviluppo dell’Ue sono un problema per l’Africa

    Bruxelles – Gli aiuti dell’UE all’Africa non aiutano il continente e i suoi Stati. Al contrario, per come sono concepiti, accrescono i problemi, soprattutto economici, dei Paesi in cui l’azione concepita per portare contributi utili allo sviluppo. La strategie dell’Unione europea per i Paesi più poveri, soprattutto africani, dovrebbero essere dunque riviste. Il Parlamento europeo accende i riflettori su partenariati che, così, come sono, finiscono per produrre effetti contrari a quelli desiderati.La nota di accompagnamento alla relazione per la cooperazione allo sviluppo dell’Ue a sostegno dell’accesso all’energia nei paesi in via di sviluppo, che l’Aula del Parlamento europeo, da calendario, discuterà il 17 gennaio in occasione della prima sessione plenaria del nuovo anno, evidenzia le carenze dell’azione a dodici stelle.Tra il 2014 e il 2020, recita il passaggio allegato al testo legislativo, l’insieme dei Ventisette ha fornito 13,8 miliardi di euro complessivi di assistenza all’Africa per lo sviluppo sostenibile. Innanzitutto l’importo “non è ancora sufficiente e occorre compiere maggiori sforzi” se si vuole permettere una crescita sostenibile da un punto di vista climatico-ambientale. Ma, soprattutto, “il 53 per cento degli esborsi è avvenuto sotto forma di prestiti”, il che si traduce in “debito aggiuntivo che riduce la capacità di questi paesi di investire negli obiettivi di sviluppo sostenibile”.Aumenta in sostanza il debito dei Paesi africani, che si trovano in una situazione di difficoltà. Tanto che, viene messo in risalto, risulta che  “21 paesi africani a basso reddito si trovano o sono a rischio di sofferenza debitoria nel 2023“.C’è un’ulteriore considerazione da fare, e che viene fatta. La cooperazione allo sviluppo dell’UE, per com’è concepita, non è a misura di Green Deal europeo. “La maggior parte dei progetti finanziati dall’UE mirano a promuovere grandi infrastrutture di generazione elettrica e l’interconnessione delle reti di trasmissione per creare mercati elettrici integrati, che hanno un impatto minimo sulla promozione dell’accesso all’elettricità per coloro che non ce l’hanno”. C’è da ripensare l’intera architettura della politica per lo sviluppo. La relazione che sta per approdare in Aula chiede perciò agli Stati membri dell’UE di aumentare l’importo dell’aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore energetico in Africa, “dando priorità alle sovvenzioni rispetto ai prestiti nei paesi a rischio di indebitamento“. C’è di più. Perché si suggerisce di cambiare il modello di business condotto fin qui. “Per superare la povertà energetica in Africa, i finanziamenti dell’UE dovrebbero essere ri-orientati verso i paesi con tassi di accesso all’elettricità più bassi”.Un altro, poi, riguarda l‘idrogeno verde, quello prodotto attraverso le energie rinnovabili. L’Africa non appare una regione ottimale per spingere per questo particolare tipo di investimenti. “Sebbene possa potenzialmente svolgere un ruolo significativo” nel raggiungimento degli obiettivi internazionali di sostenibilità incardinati negli accordi di Parigi , allo stesso tempo “potrebbe innescare conflitti sull’uso del territorio e aggravare la povertà“. Questo perché produrre idrogeno verde implica estrazione mineraria e uso di materie prime e terre rare, che richiedono grandi quantità di acqua dolce e generano inquinamento idrico. Per il sud del mondo, povero di acqua e sistemi di raccolta, l’idrogeno verde “può avere impatti sociali e ambientali negativi”. L’UE, insomma, sta sbagliando calcoli e strategie, e dovrebbe correggere il tiro.

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    L’Ue: “Soluzione a due Stati in Medio Oriente”. Ma solo 9 su 27 riconoscono la Palestina come Stato

    Bruxelles – Soluzione a due Stati in Medio Oriente, con Israele da una parte e Palestina dall’altra . L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Josep Borrell, sta insistendo sul fatto che solo questa sia la soluzione al conflitto arabo-israeliano. Una linea sposata anche dall’Italia e dal governo in carica, ma che appare tutt’altro che semplice. Perché oggi appena un terzo degli Stati membri dell’UE riconosce la Palestina come Stato. Appena nove su Ventisette, più un decimo che si è aggiunto in corso d’opera.Bulgaria, Cipro, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Svezia e Ungheria. Sono loro ad aver riconosciuto la Palestina come Stato secondo i confini del 1967 (Cisgiordania, striscia di Gaza e Gerusalemme est). Solo la Svezia ha riconosciuto uno stato palestinese da membro UE, mentre gli altri l’hanno fatto prima di entrare nel club a dodici stelle. Recentemente, sulla scia dell’operazione lanciata di Hamas su vasta scala innescando il conflitto tutt’ora in corso, il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez ha annunciato di essere pronto a compiere il passo mai compiuto finora, portando così a dieci gli Stati membri dell’Ue a riconoscere la Palestina come Stato.Risultano evidenti dunque cortocircuito e contraddizione dell’UE, che da una parte chiede un qualcosa che non può avvenire finché i singoli governi non nazionali ottengono ciò che serve. Sulla ‘questione Palestina’ c’è un braccio di ferro inter-istituzionale che si trascina da almeno un decennio. Il Parlamento europeo chiede che venga riconosciuto uno stato palestinese almeno dal 2014, sempre sulla base di una situazione a due stati con frontiere del 1967. Adesso torna a spingere anche la Commissione europea, attraverso Borrell, per la stessa cosa, ma il vero nodo è in Consiglio.Tanto è vero che l’europarlamentare spagnola Ana Miranda (Verdi), con tanto di interrogazione urgente, chiede di riconoscere “con urgenza” la Palestina come Stato invitando il consiglio Affari generali, che riunisce i ministri per gli Affari europei dei 27 Stati membri dell’UE, di mettere sul tavolo l’argomento. La richiesta originariamente era indirizzata alla Spagna, presidente di turno fino al 31 dicembre 2023, ma essendo stata presentata il 13 dicembre questa interrogazione ora finirà all’attenzione del Belgio, presidente di turno dal primo gennaio.“L’Unione deve adottare una nuova posizione e riconoscere lo Stato di Palestina“, esorta l’europarlamentare spagnola. Ma perché ciò sia possibile occorre che tutti i 27 Stati membri riconoscano la Palestina come Stato. Altrimenti le dichiarazioni resteranno prive di fondamento e credibilità. Il sostegno all’Autorità nazionale palestinese da solo non basta.