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    La Transnistria torna a preoccupare Bruxelles dopo la richiesta di protezione a Mosca dalla Moldova

    Bruxelles – Era da quasi un anno che la Transnistria era scomparsa dai radar delle maggiori preoccupazioni dell’Unione Europea sulla destabilizzazione russa nell’Est Europa, ma la più irrequieta delle regioni separatiste del continente europeo è tornata con prepotenza sul tavolo dei dossier più caldi nelle ultime ore. “Seguiamo da vicino l’evolversi della situazione nella Repubblica di Moldova e nel territorio separatista della Transnistria“, ha reso noto oggi (29 febbraio) il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, commentando la richiesta delle autorità dell’autoproclamata Repubblica filo-russa di “protezione” a Mosca dal governo di Chișinău: “Siamo in costante e stretto contatto con le autorità della Repubblica di Moldova e confidiamo che faranno tutto il possibile per gestire la situazione”.La notizia dell’appello arrivato da Tiraspol poco più di 24 ore fa è uno dei punti più bassi delle relazioni tra Chișinău e i separatisti della regione, che ricorda in modo inquietante quanto accaduto nei giorni precedenti all’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022, con il riconoscimento da parte della Russia delle Repubbliche separatiste Donetsk e Luhansk, nel Donbass ucraino. Il Congresso speciale della Transnistria – la cui autorità non è riconosciuta a livello internazionale – ha adottato ieri (28 febbraio) una risoluzione con cui chiederà al Consiglio della Federazione Russa e alla Duma di Stato “di attuare misure per proteggere la Transnistria di fronte alla crescente pressione” della Moldova, motivando la richiesta con il fatto che “sono presenti in modo permanente oltre 220 mila cittadini russi” sul territorio della regione separatista e sulla scorta “dell’esperienza positiva russa di peacekeeping e dello status di garante e mediatore nel processo negoziale” per l’indipendenza da Chișinău.A Bruxelles si cerca di fare appelli alla calma, con il portavoce del Seae Stano che ricorda come “la stabilità in questa regione è nell’interesse di tutti, in primo luogo della popolazione”, mentre si cerca di spingere “un dialogo costruttivo” tra le due parti: “L’Unione Europea continua a sostenere una soluzione pacifica e globale in Transnistria, si tratta di un conflitto congelato” sul territorio moldavo “e per questo lo stiamo affrontando sulla base del rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità della Moldova”, ha concluso Stano. Ma mentre la presidente moldava, Maia Sandu, e l’omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, a Tirana discutevano degli ultimi tentativi di Mosca di destabilizzare la regione e del “sostegno vicendevole” sui rispettivi percorsi verso l’ingresso nell’Unione Europea (Moldova e Ucraina hanno entrambe ricevuto il via libera ai negoziati di adesione Ue al Consiglio Europeo del dicembre 2023), sia la Duma di Stato sia il ministero degli Esteri russo hanno confermato che “la protezione dei nostri compatrioti in Transnistria è una priorità” e che sarà valutata la richiesta di Tiraspol “non appena sarà ricevuta ufficialmente”.Le tensioni nella regione della TransnistriaLa regione moldava a maggioranza russofona che confina a est con l’Ucraina si è separata unilateralmente dalla Moldova a seguito del crollo dell’Unione Sovietica. Nel corso della guerra civile del 1992 i separatisti furono sostenuti dall’intervento dell’esercito russo, prima della cristallizzazione della situazione e il referendum del 2006 (non riconosciuto dalla comunità internazionale) che per la prima volta ha sancito la volontà di farsi annettere dalla Russia. Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina il 24 febbraio 2022 sono aumentate le tensioni nella Repubblica di Moldova, con attacchi a Tiraspol e lungo il confine con l’Ucraina (primi segnali di un tentativo di trovare un pretesto per un possibile intervento armato). Nei primi mesi del 2023 si sono registrati sempre più numerosi atti di provocazione palese di Mosca, compresi missili che hanno attraversato lo spazio aereo della Repubblica di Moldova in direzione del territorio ucraino.Il 9 febbraio dello scorso anno il presidente ucraino Zelensky aveva informato per primo i 27 leader Ue del piano del Cremlino per “rompere l’ordine democratico e stabilire il controllo” russo in Moldova e solo pochi giorni più tardi la presidente moldava Sandu aveva confermato il tentativo di Mosca di “un cambio di potere a Chișinău”, attraverso “azioni violente, mascherate da proteste della cosiddetta opposizione“, con il coinvolgimento anche di “cittadini stranieri”. Il dito era puntato contro il Movimento per il Popolo che riunisce diversi gruppi filo-russi come Șor, il partito di Ilan Shor, oligarca moldavo sanzionato nell’ottobre 2022 dagli Stati Uniti per la sua vicinanza al governo russo e oggi in esilio in Israele per proteggersi da un furto bancario da 1 miliardo di dollari.

    Sul piano politico la situazione si è aggravata con le dimissioni a sorpresa il 10 febbraio dello scorso anno da parte della premier europeista Natalia Gavrilița. Il suo successore, Dorin Recean, ha subito tranquillizzato i partner occidentali sulla linea di continuità nelle politiche e nelle alleanze della Moldova, Paese che ha fatto richiesta formale per aderire all’Ue a una sola settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Dopo l’ulteriore allarme lanciato a Bruxelles dalla ministra degli Interni moldava, Ana Revenco, sul fatto che “la Repubblica di Moldova si trova sulla strada di Mosca per rompere la stabilità e l’unione in Europa”, sette persone legate al Cremlino sono state arrestate durante le proteste antigovernative guidate da Șor, che tra l’altro intimavano le dimissioni della presidente Sandu. Dal 24 aprile 2023 è stata istituita la missione civile di partenariato in Moldova (Eupm Moldova) con l’obiettivo dichiarato di rafforzare la sicurezza del Paese contro crisi e minacce ibride: “Stiamo intensificando il sostegno dell’Ue per proteggere la sicurezza, l’integrità territoriale e la sovranità” di Chișinău di fronte alle “attuali difficili circostanze”, aveva spiegato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell.

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    Bruxelles in pressing su Belgrado: “Attuare le raccomandazioni Osce in vista di future elezioni”

    Bruxelles – Continua il botta e risposta tra Bruxelles e Belgrado sullo svolgimento delle elezioni anticipate in Serbia del 17 dicembre, con un nuovo elemento sul tavolo: il rapporto finale dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) sugli elementi di criticità alle urne. “Conferma le preoccupazioni dell’Unione Europea, il processo elettorale richiede miglioramenti tangibili e ulteriori riforme” e “le segnalazioni di irregolarità devono essere affrontate in modo trasparente, comprese quelle relative alle elezioni locali”, è quanto sottolineato questa mattina (29 febbraio) dal portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano.

    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, alle urne il 17 dicembre 2023 (credits: Elvis Barukcic / Afp)Il rapporto dell’Osce pubblicato meno di 24 ore fa conferma l’allarme già anticipato dalle conclusioni preliminari di dicembre, in particolare sul fronte delle interferenze interne e delle condizioni inique per i concorrenti del partito Partito Progressista Serbo (Sns) al potere. “Sebbene tecnicamente ben amministrate e in grado di offrire agli elettori una scelta di alternative politiche”, le elezioni anticipate del 2023 “sono state dominate dal coinvolgimento decisivo del presidente” Aleksandar Vučić che, “insieme ai vantaggi sistemici del partito al potere, ha creato condizioni ingiuste per i concorrenti”, è quanto rilevato dall’Osce. A questo si aggiunge il fatto che, anche se “le libertà fondamentali sono state generalmente rispettate durante la campagna elettorale”, il voto è stato “inficiato da una retorica aspra, dalla parzialità dei media, dalle pressioni sui dipendenti del settore pubblico e dall’uso improprio delle risorse pubbliche”.È con queste indicazioni che si riapre la partita delle misure da prendere a seguito di uno svolgimento non completamente trasparente delle elezioni anticipate del 17 dicembre scorso. Solo pochi giorni fa la prima ministra serba in carica, Ana Brnabić, aveva chiuso completamente la porta a un’indagine internazionale, “perché richiederebbe l’annullamento della sovranità nazionale”, respingendo la risoluzione del Parlamento Europeo in cui erano state richieste azioni pesanti alla Commissione Ue nel caso in cui venisse accertato il coinvolgimento delle autorità e del governo uscente nei brogli elettorali. Tra queste una “sospensione dei finanziamenti dell’Ue sulla base di gravi violazioni dello Stato di diritto” e, implicitamente, un possibile stop ai negoziati di adesione: “Dovrebbero avanzare solo se il Paese compie progressi significativi nelle riforme legate all’Ue”. Oltre all’indagine internazionale indipendente gli eurodeputati hanno chiesto alla Commissione anche di lanciare “un’iniziativa per l’invio di una missione di esperti in Serbia” sull’esempio dei ‘rapporti Priebe’ (le raccomandazioni di un gruppo di esperti incaricato dalla Commissione nel 2015 sulla Macedonia del Nord).“Non c’è tempo da perdere” sull’attuazione delle 25 raccomandazioni dell’Osce “in vista delle future elezioni nel Paese”, è l’esortazione del portavoce del Seae Stano all’indirizzo delle autorità di Belgrado, facendo riferimento agli “obblighi e standard internazionali per le elezioni democratiche”. Le raccomandazioni principali riguardano la necessità di “rivedere la legislazione per affrontare efficacemente” le carenze a proposito di “un processo consultivo inclusivo basato su un ampio consenso politico”, l’introduzione di “una formazione obbligatoria standardizzata per tutti i membri delle commissioni elettorali locali e dei comitati elettorali” e lo sviluppo di “un programma di educazione degli elettori tempestivo, completo e mirato”, compresa “la prevenzione del voto di gruppo” e “l’importanza del voto a scrutinio segreto”. L’Osce raccomanda anche “una revisione significativa dei registri elettorali e civili” e l’adozione di “misure per prevenire l’uso improprio delle cariche e delle risorse statali”, allo stesso tempo implementando “meccanismi efficaci di controllo legale e istituzionale per prevenire intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi i dipendenti delle istituzioni pubbliche e statali”.Le tensioni in Serbia dopo le elezioni anticipate

    Le proteste di piazza dell’opposizione serba a Belgrado (credits: Miodrag Sovilj / Afp)Nonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza rispondendo all’appello dei partiti e movimenti che avevano tradotto in istanze politiche (europeiste) le proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio. Anche la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) – a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo – ha rilevato “l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”. Dopo quasi un mese dalle elezioni anticipate continuano le proteste contro i brogli del partito al potere, in particolare a Belgrado.Proprio nella capitale la situazione rimane ancora tesa e non è da escludere che si possano ripetere le elezioni amministrative la cui vittoria è stata rivendicata dal Partito Progressista Serbo: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić ha conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović. La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. La stessa denuncia è arrivata dall’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale): “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska e di intimidazione dei votanti”.

    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (credits: Alex Halada / Afp)A questo si aggiunge il caso che Bruxelles “sta seguendo da vicino” (parole della dalla portavoce della Commissione Ue responsabile per la politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero) sulle violenze subite dal leader del Partito Repubblicano di opposizione, Nikola Sandulović, prelevato dai servizi segreti serbi il 3 gennaio e duramente picchiato durante la detenzione per aver reso omaggio alla tomba di Adem Jashari, uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk). Membri dell’Agenzia serba per le informazioni sulla sicurezza (Bia) avrebbero sequestrato e torturato Sandulović, poi detenuto nella prigione centrale di Belgrado senza accesso a cure mediche indipendenti. Tra le persone responsabili per le violenze ci sarebbe anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić) che tra l’altro ha già ammesso di aver organizzato l’attacco armato nel nord del Kosovo a fine settembre dello scorso anno. L’ex-capo dell’intelligence serba (dimessosi due mesi fa), Aleksandar Vulin, ha riferito di aver personalmente ordinato l’arresto di Sandulović, ma l’avvocato della difesa ha puntato il dito contro il presidente Vučić.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Dall’Ue l’ennesimo avvertimento a Israele: “Le decisioni de l’Aia sono vincolanti”. Ma a Gaza entrano sempre meno aiuti umanitari

    Dall’inviato a Strasburgo – L’Eurocamera torna sulla catastrofe umanitaria di Gaza. All’allarme lanciato dal commissario generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini, secondo cui a febbraio gli aiuti umanitari entrati nella Striscia sono diminuiti del 50 per cento rispetto a gennaio, ha risposto da Strasburgo il commissario Ue per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič. Il messaggio è chiaro: Israele deve implementare le misure richieste dalla Corte di Giustizia Internazionale.Lo scorso 26 gennaio il tribunale de l’Aia ha emesso la prima decisione relativa al rischio di genocidio nella Striscia di Gaza, concedendo un mese di tempo alle autorità israeliane per presentare un rapporto in cui illustrasse le misure adottate per prevenire tale crimine. Un portavoce della Corte ha confermato a Eunews che il rapporto è arrivato ed è ora sotto la lente dei giudici.Ma nell’ultimo mese, la situazione sul campo è ulteriormente peggiorata. Israele minaccia un’operazione su vasta scala a Rafah, dove si sono ammassati in questi cinque mesi quasi 2 milioni di sfollati interni palestinesi, se Hamas non dovesse rilasciare gli ostaggi prima dell’inizio del Ramadan (previsto il 10 marzo). E l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati palestinesi ha denunciato la preoccupante riduzione dell’assistenza umanitaria a Gaza a causa di “mancanza di volontà politica, chiusura regolare dei valichi di frontiera e mancanza di sicurezza dovuta alle operazioni militari”. 

    Addirittura, nel nord della Striscia l’Unrwa non riuscirebbe a distribuire aiuti dal 23 gennaio. Alla denuncia dell’Unrwa si è unito Lenarčič, che ha partecipato al dibattito sulla situazione a Gaza all’emiciclo di Strasburgo per conto dell’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell. “Un mese dopo che la Corte ha chiesto misure provvisorie, la situazione è solo peggiorata. Sono apparse sacche di fame a Gaza, le persone sono così disperate che la distribuzione ordinaria non è più possibile”, ha dichiarato in aula. E ha ricordato agli eurodeputati che l’Ue si aspettava “la piena, immediata e effettiva implementazione” degli “ordini vincolanti” de l’Aia.I bollettini diffusi quotidianamente dal ministero della Salute di Gaza parlano di 30 mila vittime accertate nella Striscia dal 7 ottobre. Una carneficina, a cui andranno aggiunti diverse migliaia di dispersi sotto le macerie. Secondo un report della Johns Hopkins University, il numero dei morti potrebbe superare le 60 mila unità se non ci sarà un cessate il fuoco e un massiccio aumento degli aiuti umanitari il più presto possibile. Lenarčič ha ricordato che “26 Stati membri su 27” hanno accolto l’appello della comunità internazionale perché Israele non avanzi su Rafah, e perché si raggiunga “un accordo per la fine immediata dei combattimenti e la liberazione degli ostaggi israeliani ancora detenuti da Hamas”.Così come a 26 – e il bastian contrario è sempre Budapest – c’è “un accordo sull’adozione di sanzioni” contro i coloni israeliani estremisti, ma il veto ungherese immobilizza l’Ue. “Alcuni Stati membri hanno introdotto divieti di ingresso a livello nazionale. Con l’avvicinarsi del Ramadan tra due settimane, il rischio che la situazione possa sfuggire ulteriormente di mano è elevato”, ha avvertito il commissario sloveno.Che è poi tornato sulla vicenda dell’Unrwa e sulle accuse israeliane di complicità di alcuni membri dello staff negli attacchi terroristici del 7 ottobre. “Il lavoro delle Nazioni Unite, compresa l’Unrwa, rimane cruciale“, ha messo in chiaro Lenarčič, ricordando che il segretario generale dell’Onu, Antronio Guterres, e lo stesso Lazzarini “stanno prendendo molto sul serio le accuse israeliane e hanno preso misure immediate”. Lenarčič ha invitato gli eurodeputati a “riconoscere l’ambiente ad alto rischio in cui opera l’Unrwa” e a rifiutare “punizioni collettive che contribuirebbero al collasso umanitario a Gaza“. Oltre che all’instabilità in Giordania, Libano, Siria e nella West bank occupata. Per il commissario Ue responsabile delle crisi umanitarie non c’è dubbio: “Resta di fondamentale importanza fornire all’Unrwa finanziamenti adeguati”, semplicemente perché “non c’è alcun sostituto per l’Unrwa, ora e per il giorno dopo”.

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    Macron non sta trovando appoggio all’ipotesi di inviare soldati Nato in Ucraina contro l’esercito russo

    Bruxelles – È la prima volta che il tema dell’invio di soldati Nato sul territorio ucraino diventa un terreno di confronto tra i leader occidentali, ma la possibilità ipotizzata dal presidente francese, Emmanuel Macron, non sta trovando al momento alcuno spiraglio di manovra. Al contrario, a poche ore dalle parole dell’inquilino dell’Eliseo in conferenza stampa al termine della Conferenza di Parigi sul sostegno all’Ucraina, i maggiori alleati Ue e Nato della Francia prendono nettamente le distanze da uno scenario che implicherebbe un confronto diretto tra l’Alleanza Atlantica e la Russia.

    Il presidente della Francia, Emmanuel Macron“La posizione dell’Unione Europea è chiara dall’inizio della guerra, dobbiamo sostenere l’Ucraina per vincere questa guerra di difesa, la maniera e la forma del sostegno specifico militare è una decisione autonoma di competenza sovrana degli Stati membri“, ha ricordato il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, in un punto con la stampa oggi (27 febbraio) a Bruxelles, sottolineando però con forza che “non c’è alcuna decisione a livello Ue sull’invio di truppe per rafforzare l’esercito ucraino“, anche perché “non c’è un esercito europeo, stiamo discutendo di diverse visioni degli Stati membri”. Stano ha fatto un passo indietro rispetto alla richiesta di commentare le dichiarazioni di ieri sera (26 febbraio) del presidente Macron – “non è nostro compito” – ma ha comunque sostenuto a nome della Commissione Europea l’appello per un “maggiore sostegno con missili a lungo raggio e munizioni, dobbiamo mobilitare di più e più velocemente, perché è ciò di cui hanno bisogno gli ucraini per la difesa”.L’ipotesi di inviare truppe Nato in Ucraina “non è da escludere”, ha ventilato Macron al termine del vertice di ieri in cui si è discusso (senza nessun leader dell’Unione Europea) della futura assistenza all’Ucraina con il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, il presidente polacco, Andrzej Duda, il primo ministro olandese, Mark Rutte, e altri funzionari europei, statunitensi e canadesi. Il presidente francese ha inserito l’eventualità nel quadro della necessità della sconfitta dell’esercito di Mosca “per la sicurezza e la stabilità in Europa“, anche se ha subito messo in chiaro che “non c’è consenso” su questa ipotesi “in modo ufficiale, scontato e approvato”. Lasciando aperta la porta a un cambio di strategia in futuro se cambieranno gli equilibri, l’inquilino dell’Eliseo non ha risparmiato una critica velata alla Germania di Scholz – “Molti di quelli che dicono ‘Mai, mai’ oggi, sono gli stessi che dicevano ‘Mai carri armati, mai aerei, mai missili a lungo raggio’ due anni fa” – e ha invocato “l’umiltà di constatare che spesso siamo arrivati in ritardo di sei o dodici mesi“. L’obiettivo è comunque chiaro (e condiviso da tutti i leader occidentali) sul fatto che “la Russia non può vincere questa guerra”, ha concluso Macron.Le reazioni alle parole di Macron

    Da sinistra: il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il segretario generale della Nato, Jens StoltenbergDopo le parole di Macro solo il primo ministro francese, Gabriel Attal, si è schierato al fianco del suo presidente – “Non si può escludere niente in una guerra in corso nel cuore dell’Europa” – mentre dalle altre capitali sono arrivate prese di distanza dalla possibilità di un dispiegamento di soldati occidentali in Ucraina per fronteggiare quelli russi. Tra i primissimi a chiudere la porta è stato lo stesso segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg: “Gli alleati stanno fornendo un sostegno senza precedenti all’Ucraina, lo facciamo dal 2014 e lo abbiamo intensificato dopo l’invasione su larga scala, ma non ci sono piani per truppe da combattimento della Nato sul terreno in Ucraina“. Nessuna reazione ufficiale dalla Casa Bianca, ma un funzionario statunitense ha confermato a Reuters che l’opzione non è in discussione a Washington. Per l’Italia è stato invece il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a ribadire che “non siamo in guerra con la Russia e l’invio di truppe in Ucraina darebbe invece questa idea“, invocando “molta prudenza” per non dare adito a fraintendimenti e scatenare un conflitto su più larga scala.

    Netta la risposta del cancelliere tedesco Scholz, che non solo ha sottolineato che la possibilità “non è sul tavolo”, ma ha anche precisato che “c’è consenso” sul fatto che questo principio rimarrà anche “in futuro”. Gli ha fatto eco da Londra il primo ministro britannico, Rishi Sunak, che ha ricordato come “oltre al piccolo gruppo di personale” nel Regno Unito per addestrare i soldati ucraini, “non abbiamo alcun piano per un dispiegamento su larga scala“. Da Madrid il governo spagnolo ha fatto sapere attraverso i propri portavoce che “non è d’accordo” con lo scenario tratteggiato da Macron e che piuttosto “dobbiamo concentrarci sull’accelerare l’invio di armi, l’unità è stata finora l’arma più efficace dell’Unione Europea contro Putin“. La Svezia – che è in procinto di diventare il 32esimo membro Nato fra pochi giorni – allo stesso modo ha evidenziato per voce del suo premier, Ulf Kristersson, che “non c’è richiesta” di Kiev su questo fronte e perciò la “questione non è attuale”. Né la Polonia né la Repubblica Ceca – come hanno confermato i rispettivi primi ministri, Donald Tusk e Petr Fiala – hanno piani per l’invio di soldati in Ucraina, mentre il presidente della Bulgaria, Rumen Radev, ha avvertito che un intervento di questo tipo da parte di un qualsiasi Paese Nato – anche sulla base di un accordo bilaterale – “significa provocare un conflitto globale“.

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    Via libera dall’Ungheria all’ingresso della Svezia nella Nato. L’Alleanza tocca quota 32 Paesi membri

    Bruxelles – E anche l’ultimo ostacolo di fronte alla strada della Svezia nella Nato è caduto. L’Assemblea Nazionale dell’Ungheria ha votato oggi (26 febbraio) a favore della ratifica del protocollo di adesione di Stoccolma all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord e fra pochi giorni il Paese scandinavo potrà diventare ufficialmente il 32esimo Paese membro dell’Alleanza Atlantica. “Oggi è una giornata storica”, ha esultato il primo ministro svedese, Ulf Kristersson: “Siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità per la sicurezza euro-atlantica”.

    Il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (credits: Javier Soriano / Afp)Il via libera è arrivato con 188 voti a favore e 6 contrari, dopo che ormai era stato chiaro dalle parole del primo ministro, Viktor Orbán, in apertura della seduta parlamentare che i deputati del partito al potere Fidesz non avrebbero più creato problemi alla ratifica. I due premier si erano incontrati venerdì scorso (23 febbraio) a Budapest per discutere di cooperazione in materia di difesa e sicurezza, e dai negoziati era emerso che l’Ungheria potrà acquistare quattro nuovi aerei da combattimento Gripen di fabbricazione svedese, mentre Stoccolma non avrebbe più visto ostruzionismo da Budapest nel suo percorso verso l’adesione all’Alleanza Atlantica. “L’ingresso della Svezia nella Nato rafforzerà la sicurezza dell’Ungheria“, ha commentato oggi Orbán, definendo la visita di Kristersson nella capitale ungherese come un passo essenziale verso la costruzione di “un rapporto equo e rispettoso tra i due Paesi”.Il protocollo di adesione di Svezia (e Finlandia, 31esimo Paese membro dal 4 aprile 2023) era stato firmato il 5 luglio 2022 – dopo la svolta strategica storica la politica di sicurezza nazionale tradizionalmente legata al non-allineamento – e da allora per Stoccolma è stata una strada in salita. A oltre 19 mesi dal vertice di Vilnius, l’Ungheria era rimasto l’unico Paese membro a non aver approvato in modo formale l’ingresso di Stoccolma nell’Alleanza Atlantica, quando anche la Turchia ha messo fine al suo durissimo blocco. Un mese fa Orbán aveva fatto cadere formalmente il suo breve ostruzionismo, ma lo stesso non ha fatto il suo partito Fidesz, boicottando la sessione straordinaria di inizio mese. Trovatosi sotto pressione da parte degli altri membri – e messo con le spalle al muro dalla visita di Kristersson – il premier ungherese ha infine spinto i membri del suo partito a far crollare la resistenza. “Ora che tutti gli alleati hanno approvato, la Svezia diventerà il 32esimo alleato della Nato“, ha accolto il voto favorevole dell’Assemblea Nazionale di Budapest il segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, sottolineando che “l’adesione della Svezia ci renderà tutti più forti e sicuri”. La cerimonia di ingresso del nuovo membro dell’Alleanza si potrebbe tenere al quartier generale della Nato già venerdì (primo marzo). I passi della Svezia per entrare nella NatoPer diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.

    Il segretario generale della Nato, Jens StoltenbergLa procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

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    Il governo serbo chiude le porte alle indagini richieste dal Parlamento Ue sui possibili brogli elettorali

    Bruxelles – Il governo della Serbia strappa con le istituzioni dell’Unione Europea, chiudendo completamente la porta alle indagini indipendenti sui possibili brogli alle elezioni del 17 dicembre 2023. “Non permetterò mai un’indagine internazionale, perché richiederebbe l’annullamento della sovranità nazionale“, ha messo in chiaro senza mezzi termini la prima ministra serba in carica, Ana Brnabić, nel corso di un’intervista all’emittente serba Prva televizija: “Sospenderebbe il Parlamento, le istituzioni, la democrazia e finirebbe per portare gli stranieri al potere”.

    Cartelloni delle opposizioni alla prima seduta dell’Assemblea Nazionale della Serbia il 6 febbraio 2024 contro il presidente della Repubblica, Aleksandar Vučić, definito ‘capo-mafia’ (credits: Andrej Isakovic / Afp)Parole durissime, arrivate a poco più di due settimane dalla risoluzione del Parlamento Europeo votata a larghissima maggioranza, in cui non sono solo state sollevate enormi preoccupazioni sullo Stato di diritto in Serbia, ma che ha anche chiesto azioni pesanti alla Commissione nel caso in cui venisse accertato il coinvolgimento delle autorità e del governo uscente nei brogli elettorali. “Non è stato rubato nemmeno un voto”, ha risposto secca la premier Brnabić, che ha attaccato gli eurodeputati e le opposizioni nel Paese: “A quanto pare ora si rivolgono alla Commissione Europea per fantasticare su come dovrebbe essere l’indagine, non solo vogliono solo cancellare la nostra sovranità, ma anche sospendere le istituzioni e il diritto nazionale”. Con un contrattacco sulla richiesta di aprire le banche dati per controllare la registrazione regolare degli aventi diritto al voto: “Come si può fare opposizione facendo sì che gli stranieri chiedano controlli come il conteggio di quante persone vivono in un appartamento o in una casa?“.La risoluzione congiunta del Parlamento Europeo aveva esortato la Commissione Ue a “lanciare un’iniziativa per l’invio di una missione di esperti in Serbia per valutare la situazione” relativa alle elezioni anticipate del 17 dicembre scorso e agli sviluppi post-elettorali, facendo attenzione soprattutto alla “sistematicità dei brogli che hanno compromesso l’integrità” della tornata elettorale e alle interferenze del presidente della Repubblica, Aleksandar Vučić, a sostegno del suo Partito Progressista Serbo (Sns). Per questo motivo la missione Ue dovrebbe essere accompagnata da “un’indagine internazionale indipendente” sulle “irregolarità delle elezioni parlamentari, provinciali e comunali”, in particolare per l’Assemblea di Belgrado. Nel caso in cui le autorità serbe non attueranno le raccomandazioni elettorali “o se i risultati di questa indagine indicano che sono direttamente coinvolte nei brogli elettorali”, lo stesso esecutivo comunitario dovrebbe considerare una “sospensione dei finanziamenti dell’Ue sulla base di gravi violazioni dello Stato di diritto” e, implicitamente, un possibile stop ai negoziati di adesione: “Dovrebbero avanzare solo se il Paese compie progressi significativi nelle riforme legate all’Ue”.Le tensioni in Serbia dopo le elezioni anticipate

    Le proteste di piazza dell’opposizione serba a Belgrado (credits: Miodrag Sovilj / Afp)Nonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza rispondendo all’appello dei partiti e movimenti che avevano tradotto in istanze politiche (europeiste) le proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio. Anche la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) – a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo – ha rilevato “l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”. Dopo quasi un mese dalle elezioni anticipate continuano le proteste contro i brogli del partito al potere, in particolare a Belgrado.Proprio nella capitale la situazione rimane ancora tesa e non è da escludere che si possano ripetere le elezioni amministrative la cui vittoria è stata rivendicata dal Partito Progressista Serbo: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić ha conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović. La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. La stessa denuncia è arrivata dall’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale): “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska e di intimidazione dei votanti”.

    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (credits: Alex Halada / Afp)A questo si aggiunge il caso che Bruxelles “sta seguendo da vicino” (parole della dalla portavoce della Commissione Ue responsabile per la politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero) sulle violenze subite dal leader del Partito Repubblicano di opposizione, Nikola Sandulović, prelevato dai servizi segreti serbi il 3 gennaio e duramente picchiato durante la detenzione per aver reso omaggio alla tomba di Adem Jashari, uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk). Membri dell’Agenzia serba per le informazioni sulla sicurezza (Bia) avrebbero sequestrato e torturato Sandulović, poi detenuto nella prigione centrale di Belgrado senza accesso a cure mediche indipendenti. Tra le persone responsabili per le violenze ci sarebbe anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić) che tra l’altro ha già ammesso di aver organizzato l’attacco armato nel nord del Kosovo a fine settembre dello scorso anno. L’ex-capo dell’intelligence serba (dimessosi due mesi fa), Aleksandar Vulin, ha riferito di aver personalmente ordinato l’arresto di Sandulović, ma l’avvocato della difesa ha puntato il dito contro il presidente Vučić.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Il tredicesimo pacchetto di sanzioni Ue alla Russia è ufficiale. Colpite anche Cina e Corea del Nord

    Bruxelles – Ci sono anche quattro aziende registrate in Cina e il ministro della Difesa della Corea del Nord nei quasi 200 individui ed entità che l’Ue ha colpito con l’adozione del tredicesimo pacchetto di sanzioni alla Russia dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Per la prima volta – alla vigilia del secondo anniversario del conflitto – arriva lo strappo con Pechino.Per la precisione 106 persone e 88 entità, che vanno ad aggiungersi a una lista nera di oltre 2000 soggetti che Bruxelles ritiene responsabili di “azioni che minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina”. E a cui, come tali, sono imposti il divieto di ingresso nel territorio comunitario e il congelamento dei beni posseduti nei Paesi membri. Le designazioni adottate oggi riguardano principalmente i settori militare e della difesa: più di 140 delle società e individui colpiti fanno parte del complesso militare-industriale russo, che producono missili, droni, sistemi missilistici antiaerei, veicoli militari, componenti ad alta tecnologia per armi e altre attrezzature militari.Segnale forte anche contro i partner del Cremlino: l’Ue ha preso di mira 10 società e persone russe coinvolte nella spedizione di armamenti dalla Repubblica Popolare Democratica di Corea (RPDC) in Russia, oltre Kang Sun-nam, ministro della Difesa del regime di Kim Jong-un, e diverse società e persone bielorusse che forniscono supporto alle forze armate russe. E per interrompere la catena di approvvigionamento per lo sviluppo e la produzione di droni militari, Bruxelles ha imposto sanzioni a quattro aziende registrate in Cina e a una ciascuna registrata in Kazakistan, India, Serbia, Thailandia, Sri Lanka e Turchia, operanti nel settore dei componenti elettronici.“Mentre raggiungiamo il triste traguardo dei due anni dall’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin, l’Unione europea continua a esercitare pressioni sulla Russia”, ha rivendicato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, sottolineando che oltre prendere di mira chi fornisce attrezzature militari alla Russia, Bruxelles ha individuato ulteriori responsabili “della deportazione illegale e della rieducazione militare dei bambini ucraini”. I nuovi elenchi includono infatti anche 15 persone e 2 entità coinvolte nel trasferimento forzato, nella deportazione e nell’indottrinamento militare di bambini ucraini, anche in Bielorussia.Attraverso i tredici pacchetti di sanzioni a Mosca, l’Ue ha congelato in due anni asset russi per un valore di oltre 200 miliardi di euro. Secondo i dati della Commissione europea, il fatto che – nonostante le sanzioni economiche occidentali – l’economia russa continua a crescere sulla carte, è dovuto sostanzialmente alla spesa militare “in forte aumento”, arrivata nel 2024 al 6 per cento del Pil, ovvero a circa 109 miliardi di euro. Quella russa è diventata insomma un’economia di guerra, con il rublo che è calato di oltre il 20 per cento rispetto al dollaro nel 2023 e con la spesa militare che è aumentata del 79 per cento tra il 2021 e il 2023, superando per la prima volta la spesa sociale.

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    La cooperazione post-Brexit tra Bruxelles e Londra riparte anche dall’intesa Frontex-Regno Unito

    Bruxelles – Settore dopo settore, la cooperazione tra Unione Europea e Regno Unito riprende dopo la Brexit. Con l’accordo tra Frontex e le autorità britanniche, è arrivato anche il turno della gestione delle frontiere, in particolare per contrastare gli attraversamenti del canale della Manica da parte di piccole imbarcazioni che trasportano persone migranti. “Gli accordi di lavoro sono uno strumento estremamente utile per la cooperazione tra Frontex e le autorità dei Paesi partner in aree di interesse fondamentale legate alla lotta alla migrazione irregolare e ai crimini transfrontalieri”, ha commentato la commissaria per gli Affari interni e la migrazione, Ylva Johansson.

    Da sinistra: il direttore esecutivo di Frontex, Hans Leijtens, e la commissaria per gli Affari interni e la migrazione, Ylva JohanssonLa cerimonia formale di firma dell’accordo è in programma nel primo pomeriggio di oggi (23 febbraio) alla presenza del direttore esecutivo di Frontex, Hans Leijtens, e della stessa commissaria Johansson, ma i servizi del Berlaymont hanno già indicato alcuni elementi dell’intesa basata sul dialogo portato avanti negli ultimi mesi dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e dal primo ministro del Regno Unito, Rishi Sunak. Si tratta del pilastro per un “quadro a lungo termine per una stretta cooperazione” nell’ambito della gestione delle frontiere e del contrasto a migrazione irregolare e criminalità transfrontaliera, “nel pieno rispetto degli obblighi internazionali dell’Ue e del Regno Unito in materia di diritti umani”. Sul breve termine questo lavoro congiunto potrebbe includere “lo sviluppo della consapevolezza situazionale delle rotte migratorie e la lotta alla frode documentale”.Nei prossimi mesi “e oltre” si intensificheranno le discussioni tra le due parti per “concordare piani operativi e di cooperazione dettagliati che prevedano un’ampia gamma di attività congiunte”, soprattutto sul fronte dell’analisi dei rischi, dello scambio di informazioni, della formazione, della condivisione delle competenze nel settore del rimpatrio e della gestione delle frontiere e della cooperazione tecnica e operativa. Da evidenziare in particolare la “possibilità” di dispiegare personale e funzionari di collegamento “da entrambe le parti” della Manica “per scopi di osservazione, coordinamento o consulenza”, con l’obiettivo di “rafforzare ulteriormente l’efficacia di questa cooperazione tra l’Ue e il Regno Unito”.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro del Regno Unito, Rishi SunakNessun riferimento invece alle perplessità più volte espresse da Bruxelles sulla politica migratoria di Londra. Solo un anno fa la stessa commissaria Johansson definiva “una possibile violazione degli accordi internazionali e della Convenzione di Ginevra” il progetto di legge che prevede che chiunque entri in modo irregolare nel Regno Unito sia posto in stato di fermo e poi espulso, o nel Paese di origine o in uno terzo “sicuro”, come il Rwanda. L’accordo tra Londra e Kigali dell’aprile 2022 è stato però bocciato dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu), la cui sentenza del 14 giugno dello stesso anno ha bloccato la partenza di un volo in partenza verso la capitale ruandese con sette persone richiedenti asilo a bordo.