More stories

  • in

    Maduro riconfermato presidente del Venezuela tra i dubbi della comunità internazionale

    Bruxelles – Nicolas Maduro sarà ancora presidente della Repubblica del Venezuela. In carica dal 2013, è uscito vincitore dall’appuntamento elettorale di ieri (28 luglio), conquistando il 51,4 per cento dei voti contro il 44,2 di Edmundo Gonzalez Urrutia, candidato per l’opposizione. Un esito contro tutte le previsioni, su cui aleggiano già le perplessità di una buona fetta della comunità internazionale. Compresa l’Ue, con l’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, che chiede di garantire “il conteggio dettagliato dei voti e l’accesso ai registri delle votazioni presso i seggi elettorali”.I sondaggi davano Gonzalez Urrutia, politologo e diplomatico scelto dalla Piattaforma Unitaria per mettersi alle spalle più di vent’anni di chavismo, avanti di 20-30 punti percentuali. La leader dell’opposizione, Maria Corina Machado, ha denunciato irregolarità nello scrutinio e ha rivendicato la vittoria del proprio candidato “con il 70 per cento” dei voti. Maduro si difende all’attacco, accusando “un massiccio attacco hacker” al centro del Consiglio elettorale, escogitato da chi “voleva impedire che il popolo del Venezuela avesse il suo risultato ufficiale”. Per il presidente, i pesanti ritardi nello scrutinio sono stati architettati “per poter gridare alla frode“. La coalizione a sostegno di Gonzalez – che aveva schierato migliaia di osservatori ai seggi di tutto il Paese – ha denunciato invece che in molti seggi gli osservatori sono stati “costretti a andarsene”, ed è stato quindi impossibile verificare che non ci fossero brogli.Maria Corina Machado e Edmundo Gonzalez Urrutia denunciano irregolarità nello scrutinio elettorale (Photo by Federico PARRA / AFP)D’altra parte, a partire dal segretario di Stato americano, Anthony Blinken, sono in molti a ritenere “poco credibili” le cifre annunciate dal Partito Socialista Unito del Venezuela. Anche la Colombia di Gustavo Petro e il Cile di Gabriel Boric. Dall’Unione europea, che a maggio si è vista rifiutare da Caracas l’ingresso di una delegazione di osservazione elettorale, si sono levate diverse voci. Al capo della diplomazia Ue, Josep Borrell, hanno fatto eco i ministri degli Esteri di Spagna, Germania e Italia. Per José Manuel Albares “la volontà democratica del popolo venezuelano deve essere rispettata con la presentazione dei verbali di tutti i seggi elettorali per garantire risultati pienamente verificabili”, mentre una nota di Berlino dichiara che “i risultati elettorali annunciati non bastano a dissipare i dubbi sul conteggio dei voti“. Ancora più diretto il vicepremier italiano Antonio Tajani, che su X si è chiesto se “il risultato che annuncia la vittoria di Maduro rispecchia veramente la volontà del popolo?”.Nicolas Maduro festeggia a Caracas (Photo by Yuri CORTEZ / AFP)Con la stessa fermezza con cui Elvis Amoroso, capo del Consiglio nazionale elettorale del Venezuela, aveva dichiarato che “i rappresentanti dell’Ue non sono i benvenuti nel nostro Paese mentre vengono mantenute le sanzioni genocide contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela, e in particolare il suo governo”, Maduro si è scagliato contro le ingerenze dell’Occidente. “Non ci sono riusciti con le sanzioni, con l’aggressione, con la minaccia. Non ce l’hanno fatta ora e non ce la faranno mai con la dignità del popolo del Venezuela. Il fascismo in Venezuela, la terra di Bolivar e Chavez, non passerà”, sono state le sue prime parole pronunciate davanti al Palazzo Miraflores.Visto il clima incandescente che attraversa il Venezuela – con l’economia in recessione, tassi d’inflazione annua a tre cifre, gli abusi della polizia e le pratiche sempre più antidemocratiche del governo di Maduro – da Bruxelles è arrivato anche l’auspicio che si mantenga per lo meno “la calma e la civiltà” con cui è trascorso il giorno delle elezioni. Giorno in cui Hugo Chavez, sulla cui eredità si fonda il decennale potere di Maduro, avrebbe compiuto 70 anni. “Chavez vive. Chavez questo trionfo è tuo”, ha gridato il presidente alla folla di sostenitori.

  • in

    L’Italia e altri 7 Paesi Ue chiedono a Bruxelles un cambio di strategia sulla Siria

    Bruxelles – Dal 2011 a oggi, l’Ue e i suoi Stati membri hanno mobilitato più di 33 miliardi di euro per l’assistenza umanitaria e allo sviluppo per i 7,2 milioni di cittadini sfollati in Siria e per gli oltre 5 milioni di rifugiati siriani nella regione. Un “enorme sforzo umanitario, che non si è tradotto in un corrispondente ruolo politico”. È la valutazione espressa in una lettera indirizzata all’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, dall’Italia e altri 7 Paesi membri, che chiedono a Bruxelles di cambiare strategia nei confronti del Paese lacerato da una delle peggiore catastrofi umanitarie della storia moderna.Insieme al ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, la lettera è stata firmata dagli omologhi di Austria, Slovenia, Slovacchia, Croazia, Grecia, Repubblica Ceca e Cipro. Al suo arrivo al Consiglio Ue Affari Esteri, il vicepremier Tajani ha lamentato che la Siria è diventato un tema “del quale si parla poco”, sovrastato dai recenti conflitti in Ucraina e a Gaza. “Dobbiamo avere una strategia europea anche su quella parte di Medio Oriente – ha avvertito Tajani -, da dove partono tantissimi profughi”.Dopo tredici anni di guerra civile il 90 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e 7 siriani su 10 necessitano di assistenza umanitaria. Il governo centrale, che occupa oggi ampie porzioni del territorio siriano, è ancora in mano a Bashar al Assad. Un regime che si è macchiato di atrocità contro la popolazione civile, e sul quale grava dal 2011 un duro regime di sanzioni Ue. Ma per le otto cancellerie europee, l’impegno umanitario non basta se permane un totale muro diplomatico nei confronti di Assad.Bashar al-AssadL’attuale strategia sulla Siria, adottata il 3 aprile 2017 dal Consiglio dell’Ue, si concentra su sei aree chiave: porre fine alla guerra attraverso una vera transizione politica, promuovere una transizione significativa e inclusiva, salvare vite umane rispondendo alle esigenze umanitarie dei più vulnerabili, promuovere la democrazia, i diritti umani e la libertà di parola, assicurare alla giustizia i responsabili di crimini di guerra, sostenere la resilienza della popolazione e della società siriana.“Riteniamo che sia giunto il momento di rivedere e valutare i risultati della strategia raggiunti finora, l’efficacia delle nostre azioni e dei nostri strumenti”, recita la lettera al capo della diplomazia Ue. L’Italia e gli altri 7 chiedono una politica per la Siria che sia “più attiva, orientata ai risultati e operativa”. L’obiettivo è “raggiungere le condizioni per ritorni sicuri, volontari e dignitosi dei rifugiati siriani, in conformità con gli standard dell’Unhcr”.I Paesi europei accolgono oltre un milione di rifugiati dalla Siria, di cui più della metà in Germania. Anche nel 2023, i cittadini siriani sono stati i più numerosi tra i richiedenti asilo, circa 183 mila. Contro la lettera firmata da Tajani si è immediatamente scagliata la delegazione del Partito Democratico a Bruxelles, che ha denunciato la presenza di “diversi punti poco chiari o contraddittori che chiediamo al ministro italiano di chiarire pubblicamente”. Lucia Annunziata, Nicola Zingaretti, Giorgio Gori, Alessandra Moretti e Marco Tarquinio – i cinque dem che fanno parte della Commissione Affari Esteri all’Eurocamera -, si chiedono come sia possibile conciliare “l’affermata volontà di contribuire al raggiungimento per un ritorno sicuro, volontario e dignitoso dei rifugiati siriani, in conformità con gli standard dell’Unhcr con la richiesta di rilanciare un dialogo sostanziale e significativo con gli attuali governanti di Damasco”.All’accusa Pd di voler “riabilitare Assad” per potergli rispedire indietro i profughi siriani, Tajani ha risposto in maniera pragmatica: “Abbiamo sempre condannato alcuni comportamenti per quanto riguarda i diritti civili, ma non possiamo non tener conto di ciò che sta accadendo, serve una strategia e bisogna discuterne”. Il problema è ora sulla scrivania di Borrell, che ne discuterà con i ministri dei 27 già dal prossimo Consiglio Ue Affari esteri, dopo la pausa estiva. Sul primo giro di tavolo, tenutosi oggi a Bruxelles come ultimo punto dell’incontro dei ministri, il capo della diplomazia europea ha commentato: “Il lavoro continuerà, con pragmatismo ma senza ingenuità. Conosciamo il regime di Assad, sappiamo quanto è vicino a Iran e Russia”.

  • in

    L’Ue avanza a est, aiuti per le forze armate dell’Armenia in chiave anti-russa

    Bruxelles – Cooperazione militare Ue-Armenia, gli europei ci provano e forzano la mano sullo scacchiere internazionale mettendo un piede nell’area dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Csto), l’alleanza militare che racchiude Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e proprio l’Armenia. Il Consiglio dell’Ue ha deciso di staccare un assegno da 10 milioni di euro a sostegno delle forze armate armene attraverso lo strumento per la pace. L’obiettivo di questa misura, la prima di sempre a favore delle autorità di Yerevan, “accelerare l’interoperabilità delle sue forze armate in caso di possibile futura partecipazione del paese alle missioni e alle operazioni militari internazionali, comprese quelle schierate dall’Ue”.Nella pratica tutto questo si traduce con la fornitura di un vero e proprio campo tendato dispiegabile per un’unità delle dimensioni di un battaglione (unità militare terrestre, generalmente composta da un numero di uomini compreso tra i 500 e i 1.000, ndr). Una mossa che perà è geopolitica, e che rischia di accrescere ulteriormente le tensioni con la Federazione russa e il suo presidente, Vladimir Putin, da sempre, anche da prima dello scoppio della guerra in Ucraina, contrario all’avanzata dell’Europa a est e all’ampliamento di quello che a Mosca viene considerata una politica di accerchiamento.Con la volontà dichiarata di includere l’Armenia nelle missioni militari europee l’Ue compie un nuovo passo verso est, nell’intento di attrarre verso di sé un Paese all’interno di un’area di interesse economico e strategico per la Russia, e che porterebbe l’Europa in Asia occidentale, nel Caucaso.L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, tira dritto. “Abbiamo un interesse reciproco per aumentare ulteriormente il nostro dialogo sulla politica estera e di sicurezza, esaminando anche la futura partecipazione dell’Armenia alle missioni e alle operazioni condotte dall’Ue”.Ufficialmente la decisione si spiega nell’ambito del partenariato bilaterale. Ma c’è anche da dover correre ai ripari dopo gli scontri tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karaback, territorio conteso riconosciuto internazionalmente come azero ma controllato dall’Armenia dalla dissoluzione dell’Unione sovietica. Gli scontri, duri, che hanno visto il Parlamento europeo accusare Baku di pulizia etnica, hanno rilanciato certamente la necessità di rafforzare la sicurezza e la capacità di risposta delle forze armate azere. E con la Georgia che compie passi indietro sul percorso che dovrebbe portare ad un’adesione rimessa in discussione, mettere un altro piede nel Caucaso diventa ancor più prioritario per un’Unione europea desiderosa di espandersi a est e sfidare ancora una volta Vladimir Putin.

  • in

    Da progetto di pace a promotrice di guerra, l’Ue assiste anche l’esercito di Albania e Benin

    Bruxelles – C’era una volta l’Unione europea progetto di pace, che proprio per questo venne insignita del premio Nobel appositamente dedicato. Storia di tempi non lontani, eppur remoti. La bella Ue di una volta non c’è più, smarrita e cambiata sotto i colpi di un presente incerto, molto diverso, tanto diverso anche per quel progetto di pace di cui cambia toni, narrativa e retorica. Per garantire la pace servono le armi, e mentre l’Europa rilancia l’industria bellica definita industria della difesa, arma il resto del mondo. Questo indicano i finanziamenti a Benin e Albania approvati dal Consiglio dell’Ue.Due decisioni separate e distinte, ma uguali nella natura. Con un assegno da 5 milioni di euro a favore del Benin, lo strumento per la pace dell’Ue, “le forze armate del Benin saranno dotate di un aereo militare multiuso“, fa sapere il Consiglio. Mentre con l’aiuto economico da 13 milioni di euro per l’Albania “le forze terrestri albanesi riceveranno veicoli corazzati leggeri multiuso“. In entrambi i casi si offre anche disponibilità per addestramento e formazione tecnica. Prepararsi al peggio, insomma, nel non immediato parallelismo con uno degli slogan e imperativi del mondo orwelliano: “la guerra è pace”. Analogie non immediate anche perché la versione a dodici stelle è che si vogliono sicurezza e difesa, non guerra, ma le sfumature lessicali solo in parte nascondono un’Europa sempre più in versione 1984 che 2024.Ma nell’anno in corso sempre più venti di guerra soffiano sul vecchio continente, deciso ad arginare con fermezza quelle crisi su cui l’Europa proprio esente da colpe non è. I leader dell’Ue non hanno saputo (o voluto) ascoltare gli avvertimenti che arrivavano dalla Russia, e non hanno saputo (o voluto) risolvere per davvero, in modo credibile e concreto, al netto di parole e dichiarazioni di circostanza, una questione senza fine come quella arabo-israeliana. Nel mondo improvvisamente cambiato il progetto di pace non serve più, o più semplicemente non basta più. Avanti con fornitura di armi, munizioni e nuovi comandanti per le forze armate in giro per il mondo.Oltre ai nuovi finanziamenti per Benin e Albania, gli ultimi della serie, operazioni militari Ue con tanto di contributo economico, risultano attive in Mozambico, Repubblica centrafricana, Somalia, Togo, Ghana e Costa d’avorio, Bosnia-Erzegovina e Ucraina (gestita in Belgio). E’ la nuova Unione europea, quella del nuovo corso. L’Ue raccontata fino a poco tempo fa non c’è più. C’era una volta. Adesso è un’altra storia.

  • in

    Israele ha risposto alla richiesta Ue di convocare un Consiglio di Associazione. Ma che non sia solo sui diritti umani

    Bruxelles – Il governo israeliano ha risposto alla richiesta dell’Ue di convocare un Consiglio di associazione per discutere del rispetto dei diritti umani previsto nell’accordo di associazione tra Bruxelles e Tel Aviv. Israele “è disposto a prendere in considerazione” l’invito e “vuole negoziare l’agenda“, conferma un alto funzionario Ue. Ma la distanza tra le parti sull’ordine del giorno persiste.La risposta di Tel Aviv verrà sviscerata dai ministri degli Esteri dei 27 già lunedì prossimo, 24 giugno. Il benestare era già stato anticipato il 17 giugno dall’omologo israeliano, Israel Katz, durante la visita in Israele del ministro degli Affari esteri ungherese, Péter Szijjártó. Nel loro incontro, i due avevano concordato che lo Stato ebraico avrebbe accettato l’invito solo una volta iniziata la presidenza di turno ungherese del Consiglio dell’Unione europea. Budapest – uno dei più strenui difensori in Ue delle operazioni militari israeliane dal 7 ottobre in poi – prenderà la guida dei 27 dal primo luglio.Ma “a quanto pare c’è un grosso malinteso da parte del governo israeliano su cosa sia un Consiglio di associazione, perché un Consiglio di associazione non è presieduto dalla presidenza a rotazione dell’Ue”, commentano fonti qualificate. Il Consiglio di associazione e l’istituzione a più alto livello che regola i rapporti tra l’Ue e i propri partner più privilegiati, quelli con cui ha stretto appunto un Accordo di associazione. In quanto tale, è presieduto dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri. Da Josep Borrell, almeno fino a quest’autunno.In realtà – spiegano ancora le fonti – si costituisce di due parti diverse. Una prima fase in cui “solo l’Alto rappresentante siede al tavolo a nome dell’Ue”, ed una seconda parte “a cui partecipano anche gli Stati membri”. Quindi è “del tutto irrilevante” chi detenga la presidenza a rotazione. Che sia l’attuale presidenza, il Belgio – fortemente critico nei confronti di Israele – o l’Ungheria.Un Consiglio di associazione ha luogo quando entrambe le parti concordano una data e un ordine del giorno. A sua volta, i 27 Paesi membri devono trovare un’intesa all’unanimità su data, agenda e posizione comune. “Nella sua risposta, Israele non ha fornito alcuna indicazione sulla data“, fa sapere ancora a Eunews un alto funzionario Ue. Per quanto riguarda l’ordine del giorno, i 27 avevano deciso di dare seguito all’appello di Spagna e Irlanda e convocare il Consiglio di Associazione per verificare il rispetto degli impegni presi da Israele nell’ambito della tutela dei diritti umani, alla luce della guerra condotta a Gaza e degli oltre 37 mila morti tra la popolazione civile palestinese.I Paesi membri si erano convinti della necessità di chiedere conto a Tel Aviv del suo comportamento il 27 maggio scorso, dopo il massacro al campo profughi di Rafah. Secondo quanto riportato da Politico, Israele si starebbe rifiutando di incontrare i Paesi Ue per un vertice ad hoc sul rispetto dei diritti umani, ma nella lettera ha insistito perché il Consiglio di associazione affronti, “come con qualsiasi altro Paese, tutti gli elementi delle relazioni bilaterali UE-Israele, compresi il commercio, l’istruzione e la cultura“. Così come di “argomenti legati ai diritti umani e alla guerra”.

  • in

    La Commissione Ue: “Estendere protezione temporanea ad ucraini fino a 4 marzo 2026”

    Bruxelles – “Attualmente non esistono condizioni sicure e durature per il ritorno delle persone in Ucraina”, e per questo motivo la Commissione europea ha proposto di estendere la protezione temporanea per le persone in fuga dall’aggressione della Russia per un altro anno, dal 5 marzo 2025 al 4 marzo 2026. L’Ue ha attivato la Direttiva sulla Protezione Temporanea il 4 marzo 2022 con decisione unanime degli Stati Membri ed è stata automaticamente prorogata di un anno. L’ultimo rinnovo a settembre 2023. Adesso si rende necessaria una nuova, ulteriore riflessione.“La protezione temporanea ha già dato speranza a quasi 4,2 milioni di persone nell’Ue, e continueremo a fornire al popolo ucraino protezione temporanea per tutto il tempo necessario“, scandisce la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, che si dice “fiduciosa” sul fatto che “il Consiglio prenderà rapidamente la decisione di prolungare la protezione temporanea per un ulteriore anno”.La proposta della Commissione sarà sottoposta agli Stati membri in occasione della riunione del consiglio Affari interni del 13 giugno. Spetterà quindi ai ministri competenti valutare la proposta dell’esecutivo comunitario e procedere alla decisione del caso.A Bruxelles si guarda con preoccupazione al proseguimento della guerra e dell’offensiva russa. I continui attacchi dell’esercito di Mosca alle infrastrutture civili e critiche in tutta l’Ucraina costituiscono un motivo di serio rischio per la sicurezza dei civili. Da qui la necessità di continuare a garantire la protezione internazionale.

  • in

    Per la diplomazia l’Ue si fida dell’Italia, seconda per numero di ambasciatori

    Bruxelles – Un totale di 145 rappresentanze diplomatiche, sei dipartimenti (Africa, Americhe, Asia e Pacifico, Europa, Europa orientale e Asia centrale, Medio Oriente e Nord America), più di 5mila tra diplomatici, funzionari, addetti e impiegati di vario grado. Sono i numeri del servizio per l’azione esterna dell’Ue (Seae), l’organismo della diplomazia dell’Ue gestito e presieduto dall’Alto rappresentante. Una macchina complessa, per una rete attiva in tutto il mondo e che si affida tanto sull’Italia. Perché tra i capi-delegazione il Paese offre tanto all’azione a dodici stelle.I numeri dicono che l’Italia è seconda per numero di figure di spicco nelle rappresentanze diplomatiche dell’Ue. Un totale di 16 capi-delegazione, cioè ambasciatori dell’Unione, (dei quali 3 con contratto temporaneo). Lo stesso numero che può vantare la Spagna (16 dei quali 4 temporanei). Solo la Francia vanta un peso maggiore nella diplomazia Ue (22, dei quali 6 funzionari temporanei). Da notare la prestazione del Belgio, non tra i Paesi più grandi dell’Unione, che però può vantare ben 10 ambasciatori.A offrire un quadro dettagliato è Josep Borrell, l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza in carica, rispondendo a un’interrogazione parlamentare molto spiccia e diretta in cui si invita a “inviare la ripartizione per nazionalità” degli ambasciatori e dei capi-delegazione nelle rappresentanze dell’Ue.La risposta di Borrell è telegrafica, ma nel caso specifico le informazioni vanno ricercate nell’allegato alla sua risposta. Qui si offre il riassunto dell’organizzazione delle rappresentanze aggiornata ad aprile 2024.C’è dunque un’Europa che si fida degli italiani e della loro capacità in ambito diplomatico. Una riprova di ciò è dato anche dal numero di inviati speciali che fanno capo al Servizio per l’azione esterna. Delle 10 figure appositamente create, due sono italiane. Si tratta di Luigi Di Maio (per il Golfo persico) e di Emanuela Del Re (per il Sahel, mandato in scadenza ad agosto, in carica dal 2021).Da notare il peso della Germania, molto più contenuto di quanto ci potesse attendere e che sembra confermare un’attenzione tedesca più agli aspetti interni che a quelli internazionali. Ma soprattutto lo ‘zero’ alla voce ‘britannici’. Molto probabilmente si tratta di una diretta conseguenza della Brexit. L’uscita del Regno Unito dall’Ue non ha significato la partenza di funzionari entrati ben prima del referendum. All’1 gennaio 2024 in Commissione risultano ancora 428 cittadini britannici.

  • in

    Russia, un europeo su due non crede nell’efficacia delle sanzioni Ue

    Bruxelles – Di fronte alla guerra russa in Ucraina l’Unione europea ha fatto bene. No, invece. Ha fatto poco e male. Gli europei sono divisi. Riconoscono che l’Ue è in grado di gestire a crisi maggiori quali inondazioni o situazioni sanitarie quali il Covid-19, ma la guerra, quella, vede uomini e donne d’Europa in disaccordo. Tanto che un europeo su due non crede nell’efficacia delle sanzioni. Quello che emerge dal nuovo sondaggio Eurobarometro fresco di pubblicazione è un’opinione pubblica che fa fatica a capire. Complice una guerra che si trascina ancora, dopo oltre due anni e dodici pacchetti di sanzioni, il 9 per cento appena dei rispondenti nell’Ue sostiene che la risposta a dodici stelle sia stata ‘molto efficace’, e un altro 39 per cento la considera ‘piuttosto efficace’.Ecco dunque gli europei poco convinti e molto divisi. C’è complessivamente un cittadino su due (48 per cento) che dà credito all’Ue e alla sua azione, e un altro cittadino (46 per cento) che invece non ritiene sufficiente quanto fatto finora per risolvere il conflitto e fermare la guerra alle porte dell’Ue. C’è poi la minoranza che proprio dichiara di non sapere fino a che punto la risposta europea sia stata più o meno efficace (il ‘non so’ registra il 6 per cento). “I rispondenti sono divisi”, riconoscono gli autori dell’indagine, nel presentarne i risultati. E gli italiani? Non fanno eccezione.Anche in Italia c’è una sostanziale equivalenza nelle risposte a sostegno della risposta dell’Ue e le sue sanzioni anti-Russia (49 per cento) e uno generale scetticismo circa l’efficacia dell’azione condotta sinora 47 per cento). La sanzioni funzionano, questo ha detto dapprima la statistica, con i dati commerciali, e poi la politica. Ma non c’è nella società civile una maggioranza chiara a sostenerlo, e questo dà forza alla ragioni degli scettici. Per un europeo su due le sanzioni sono un fallimento.