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    Bruxelles annuncia una “revisione” dei fondi alla Palestina, c’è il rischio di finanziamenti indiretti ad Hamas. Ma salva gli aiuti umanitari

    Bruxelles – Dopo le dichiarazioni di pieno sostegno a Israele e al suo diritto a difendersi, la Commissione europea prende la prima iniziativa unilaterale nei confronti di Hamas. ma che potenzialmente potrebbe impattare su tutto il popolo palestinese: l’esecutivo comunitario avvierà una “revisione urgente dell’assistenza dell’Ue alla Palestina” che non colpirà però i versamenti a “tutti i palestinesi”, assicura l’alto rappresentante per la Politica estera Josep Borrell. Su cosa questo possa comportare, non sono d’accordo nemmeno a palazzo Berlaymont.La notizia è arrivata a metà pomeriggio attraverso un tweet condiviso dal commissario Ue per l’Allargamento e la politica di vicinato, Olivér Várhelyi: “Il livello di brutalità e terrore contro Israele e la sua popolazione è un punto di non ritorno. La Commissione europea rivedrà il suo intero portafoglio di sviluppo, pari a un valore di 691 milioni di euro“. È lo stesso Várhelyi che si prende la libertà di spiegare le dirette implicazioni: stop immediato ai pagamenti, tutti i progetti che tornano in cantiere a Bruxelles e le proposte di budget congelate e rinviate fino a nuovo ordine.Oliver Varhelyi, commissario Ue per l’AllargamentoMa l’annuncio del commissario ungherese ha smentito in parte quanto dichiarato in mattinata dai portavoce dell’esecutivo comunitario, Eric Mamer e Peter Stano, che avevano rimandato qualsiasi mossa del blocco Ue a domani, in occasione del Consiglio Affari Esteri straordinario convocato d’urgenza dall’Alto rappresentante, Josep Borrell. Apparentemente l’uscita di Várhelyi non è stata concordata in modo collegiale dal gabinetto von der Leyen: il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha immediatamente corretto il tiro con un tweet, confermando invece che “gli aiuti umanitari alla Palestina continueranno per tutto il tempo necessario”. Anche diversi Stati membri si sono allarmati dopo l’annuncio di Varhelyi: Spagna, Belgio, Irlanda e Lussemburgo in primis hanno contestato la legittimità di una scelta che riguarda la gestione del budget europeo e di conseguenza i 27 Paesi Ue.Dopo oltre quattro ore di silenzio, è intervenuta la Commissione con un comunicato stampa che annunciava la “revisione” dell’assistenza, non la sua immediata sospensione. “Oltre alle salvaguardie esistenti, l’obiettivo di questa revisione è garantire che nessun finanziamento dell’Ue consenta indirettamente a un’organizzazione terroristica di effettuare attacchi contro Israele. Anche qui, l’esecutivo Ue ha cambiato radicalmente il proprio linguaggio: poche ore prima il portavoce capo della Commissione, Eric Mamer, aveva garantito che le risorse europee per la Palestina sono soggette a “severi controlli per assicurare che non ci siano finanziamenti diretti e indiretti” ad Hamas. Ma il commissario dal tweet facile ha svelato lo scenario in realtà più realistico, e cioè che l’Ue non può avere la certezza che i propri fondi non abbiano armato il gruppo terrorista palestinese.La Commissione europea ha specificato poi che “la presente revisione non riguarda l’assistenza umanitaria fornita nell’ambito delle operazioni europee di protezione civile e aiuto umanitario (Echo)”, confermando quanto dichiarato da Lenarčič. Alla luce dei dati pubblicati dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), che ieri ha contato 73.538 sfollati interni, a cui sta dando rifugio in 64 delle sue scuole all’interno di Gaza, gli aiuti umanitari sono di vitale importanza. L’Unrwa ha anche previsto un “verosimile incremento dei numeri alla luce dei pesanti bombardamenti e attacchi aerei anche sulle aree civili” da parte dell’aviazione israeliana. Oggi il governo israeliano ha ordinato “l’assedio totale” della Striscia e dichiara di aver riunito 100 mila soldati al confine con Gaza, pronti ad un incursione via terra per recuperare gli oltre 100 israeliani che sarebbero tenuti in ostaggio in territorio palestinese. Non solo, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dato indicazione di tagliare completamente i rifornimenti di acqua, elettricità, carburante e generi alimentari alla popolazione della Striscia, che vive una situazione di crisi umanitaria perenne.I finanziamenti europei alla Palestina: 1,1 miliardi di euro dal 2021 al 2024Nell’ultimo anno e mezzo i 27 avevano stanziato più di 300 milioni di euro per la popolazione palestinese, impegnandosi a fornire fino a 1,1 miliardi di euro di assistenza finanziaria dal 2021 al 2024. Nell’ultimo pacchetto – relativo al 2022– erano previsti 200 milioni per sostenere l’Autorità Palestinese nel pagamento degli stipendi e delle pensioni dei dipendenti pubblici, delle indennità sociali alle famiglie vulnerabili, dei ricoveri agli ospedali di Gerusalemme Est e dell’acquisto di vaccini Covid-19, un programma specifico di 36 milioni per il periodo 2021-2023 per migliorare le condizioni di vita a Gerusalemme Est, 30 milioni per lo sviluppo del settore privato nei territori palestinesi occupati. E ancora, lo scorso febbraio, 82 milioni di euro per sostenere il lavoro sul campo dell’Unrwa.La volontà della Commissione europea sarà discussa domani dai ministri Ue, al vertice che si terrà in formato inedito a Muscat, in Oman, dove già oggi Borrell ha discusso delle “tragiche conseguenze dell’attacco di Hamas” con i leader del Consiglio di cooperazione del Golfo. L’ambasciatore spagnolo, José Manuel Albares, ha chiesto di inserire la questione all’agenda dell’incontro, dopo aver espresso il proprio disaccordo in una telefonata con il commissario responsabile dello psicodramma di oggi pomeriggio.
    Il commissario Ue Várhelyi ha annunciato la sospensione immediata dell’intero portafoglio di sviluppo con la Palestina, per un valore di 691 milioni di euro, suscitando le critiche di diversi Paesi membri. In serata la precisazione dell’esecutivo Ue: la revisione non riguarda i fondi per l’assistenza umanitaria e non riguarda “tutti i palestinesi”

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    Il nodo dei ‘rifugiati climatici’ in aumento, un problema politico per l’Ue

    Bruxelles – Un fenomeno in aumento e che crescerà ancora. Un problema reale, naturale, sociale, economico e ancor più politico. Perché nel diritto comunitario manca ancora una definizione di ‘rifugiato climatico’, e riconoscerlo vorrebbe dire dover aprire confini e frontiere a masse di migranti crescenti. Ma i numeri parlano chiaro, e il centro studi e ricerche del Parlamento europeo li raccoglie e li aggiorna. Dal 2008 oltre 376 milioni di persone in tutto il mondo sono state costrette a lasciare la propria abitazione a causa di inondazioni, tempeste di vento, terremoti o siccità, con un record di 32,6 milioni solo nel 2022. Non è la prima volta che il centro studi e ricerche del Parlamento europeo si sofferma sulla questione dei rifugiati climatici. L’ultimo rapporto realizzato nel 2021 censiva 318 milioni di sfollati causa eventi meteorologici estremi dal 2008. In due anni soltanto, dunque, si contano 58 milioni di sfollati ulteriori in tutto il mondo. Ma a dirla tutta “dal 2020 si è registrato un aumento annuo del numero totale di sfollati a causa di catastrofi rispetto al decennio precedente in media del 41 per cento”. Si tratta, guardando i numeri, di una “tendenza al rialzo chiara in modo allarmante”. Tanto che nello scenario peggiore si stima che “1,2 miliardi di persone potrebbero essere sfollate entro il 2050 a causa di disastri naturali e altre minacce ecologiche”. Un invito ad agire. Con la transizione sostenibile e la sua traduzione in pratica, certo. Ma pure con politiche di prevenzione e mitigazione dei rischi. Perché, avvertono gli analisti di Bruxelles, “con il cambiamento climatico come catalizzatore trainante, il numero di rifugiati climatici continuerà ad aumentare”, come dimostra l’ultimo anno, quello in corso. Mettendo insieme i principali eventi di cronaca, emerge come “solo nel 2023 centinaia di migliaia di persone sono state colpite da pericoli naturali e gravi catastrofi meteorologiche in tutto il mondo”. Qualche esempio: a settembre la tempesta Daniel ha causato la morte di oltre 12mila persone in Libia e 40mila persone sono state costrette a lasciare le proprie case; nel corso dell’estate le temperature nella regione del Mediterraneo e negli Stati Uniti hanno raggiunto livelli record e le inondazioni in Emilia-Romagna hanno ucciso 14 persone e provocato 50mila sfollati.“Il cambiamento climatico continuerà ad avere un effetto enorme su molte popolazioni, soprattutto quelle delle zone costiere e pianeggianti”, avverte il documento di lavoro. Uomini, donne e bambini si metteranno in marcia, ancora di più di adesso, perché il crescente impatto del cambiamento climatico sta rendendo alcune aree sempre più inabitabili, rendendo difficile il ritorno. Ma qui c’è il nodo politico della questione. Perché già adesso gli Stati membri dell’Ue litigano sulla gestione dei flussi, insistono sulla necessità di fermare le partenze per ridurre gli sbarchi. Un approccio che sembra in contrapposizione a tendenze peggiorative, dal punto di vista climatico e le sue ricadute. Oggi il diritto prevede che la protezione internazionale possa e debba essere riconosciuta da chi scappa da guerre e persecuzioni. Il clima non è contemplato, neppure dalle convenzioni Onu. L’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, spinge per un cambio di rotta e magari anche un nuovo trattato.Il Green Deal europeo riconosce che i cambiamenti climatici sono una delle cause che alimentano i fenomeni migratori, ma si limita a spostare l’accento sull’investimento in sostenibilità nei Paesi terzi. L’Europa ha già preso coscienza del fenomeno, ma non ha il coraggio, ancora, di introdurre una definizione giuridica di ‘rifugiato climatico’. Farlo vorrebbe dire aprire porti e porte dell’Ue.
    Un’analisi del centro studi e ricerca del Parlamento europeo torna su un tema noto e sempre più una sfida per i Ventisette. Nello scenario 1,2 miliardi di persone sfollate entro il 2050 a causa di minacce ecologiche

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    Oltre il gas, Bruxelles guarda all’Algeria per l’idrogeno verde e le emissioni di metano

    Bruxelles – Non solo gas, ma per Bruxelles la partnership con l’Algeria passa anche per il metano e per l’idrogeno rinnovabile. Si è chiuso nel pomeriggio di oggi (5 ottobre) a Bruxelles il quinto Dialogo energetico tra Unione europea e Algeria, l’occasione per la Commissione europea di guardare oltre la cooperazione con il Paese africano.Rispetto allo scorso anno nel pieno della crisi energetica con la Russia, la riunione ad alto livello ha preso le mosse questa volta in un contesto molto diverso, dando l’occasione ai due partner per riflettere su come approfondire la partnership anche oltre il gas. Dopo la decisione di ridurre gradualmente le importazioni di gas dalla Russia con l’inizio della guerra in Ucraina, l’Algeria è diventata il secondo fornitore di gas all’Ue (prima della guerra era il terzo, dopo la Norvegia). “L’Algeria è stata e continua ad essere un importante e affidabile fornitore di energia per l’Ue. L’anno scorso è stato un partner fondamentale per la sicurezza delle nostre forniture di gas ed è il secondo più grande fornitore di gas per l’Unione europea”, ha ricordato Simson, precisando che oggi durante la riunione di alto livello si è “discusso dell’evoluzione della situazione del mercato del gas e dello scenario a breve e medio termine della domanda di gas in Europa”.In conferenza stampa al fianco del ministro algerino dell’Energia e delle Miniere, Mohamed Arkab, la commissaria estone ha poi puntualizzato che il focus delle discussioni non è stato solo il gas. Prende forma l’idea di dare vita a una partnership sull’idrogeno rinnovabile. “Abbiamo concordato oggi di lavorare a una partnership tra Ue e Algeria dedicata all’idrogeno per sviluppare produzione, consumo e commercio di idrogeno rinnovabile che sarà centrale per decarbonizzare i nostri sistemi energetici”, ha confermato Simson. E per raggiungere gli obiettivi il prossimo anno sarà decisivo per attuare queste ambizioni. “Per prima cosa, riuniremo insieme i portatori di interesse algerini e europei per mettere a punto una valutazione per questa partnership. Parallelamente, studieremo la fattibilità di un primo progetto su larga scala per la produzione di idrogeno rinnovabile e la possibile esportazione in Europa”, ha anticipato ancora Simson.Nella dichiarazione congiunta pubblicata al termine della riunione si legge che Simson e l’omologo algerino Arkab “hanno convenuto che esiste un eccellente potenziale per un partenariato fruttuoso e reciprocamente vantaggioso sull’idrogeno rinnovabile e si sono impegnati a intensificare la cooperazione in questo campo”. L’altra area di cooperazione a cui lavora la Commissione europea è quella della riduzione delle emissioni di metano in particolare nell’industria del petrolio e del gas e hanno concordato di lavorare insieme per promuovere il recupero e la commercializzazione del metano che altrimenti verrebbe disperso nell’atmosfera. “Ciò comporterà vantaggi reciproci in termini di mitigazione del cambiamento climatico, migliore redditività dell’industria del gas algerina e maggiore potenziale di fornitura aggiuntiva all’Unione europea”, si legge nella nota in comune.
    Si è chiuso a Bruxelles il quinto Dialogo energetico tra Unione europea e Algeria, l’occasione per la Commissione europea di guardare oltre la cooperazione sul gas con il Paese africano. Prossimo anno sarà decisivo per la partnership sull’idrogeno pulito

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    In Nagorno-Karabakh “pulizia etnica”, Parlamento Ue per la linea dura contro Azerbaijan

    Bruxelles – Con l’Azerbaijan, ma non con questo Azerbaijan. Il Parlamento europeo censura l’operato di Baku nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, lo accusa di “pulizia etnica” e invia un forte segnale politico di rottura. Nella risoluzione che l’Aula approva a larghissima maggioranza (491 voti favorevoli, 9 contrari e 36 astensioni) si chiede a Commissione e Stati membri di rivedere completamente le relazioni bilaterali con il Paese del Caucaso. Stop alla concessione agevolata dei visti, sanzioni ai funzionati azeri, stop agli acquisti di gas. Una risposta ‘stile Russia’, dura, come quella adottata dall’Ue per rispondere alle manovre militare del Cremlino in Ucraina.Il voto di Strasburgo si inserisce sia nel conflitto russo-ucraino, sia ancora di più con la riunione della Comunità politica europea in corso a Granada, in Spagna, a cui né la Turchia né l’Azerbaijan hanno deciso di partecipare. La questione del conflitto del Nagorno-Karabakh doveva essere uno dei temi oggetto di confronto politico e diplomatico, ma l’Azerbaijan e il suo alleato storico turco hanno deciso di lasciare l’Armenia da sola a un tavolo privo di partecipanti.La censura per l’Azerbaijan e il suo presidente Ilham Aliyev è però di quelle difficili da digerire, visto che la risoluzione dell’Aula del Parlamento europeo, di fronte a “oltre 100 mila armeni che sono stati costretti a fuggire dall’enclave in seguito all’ultima offensiva”, decreta che “l’attuale situazione equivale a una pulizia etnica“.Per questa ragione il Parlamento invita l’Ue ad adottare “sanzioni mirate” contro i funzionari governativi di Baku, poiché “responsabili di molteplici violazioni del cessate il fuoco oltre a violazioni dei diritti umani nel Nagorno-Karabakh“. Ma soprattutto si invita ad una “una revisione globale delle relazioni” con il Paese del Caucaso. Perché, denunciano gli europarlamentari, sviluppare un partenariato strategico con l’Azerbaigian, “che viola gravemente” il diritto internazionale, gli impegni internazionali e “che ha una situazione allarmante in materia di diritti umani, è incompatibile con gli obiettivi della politica estera dell’Ue“. Per cui l’invito è quello di “sospendere qualsiasi negoziato sul rinnovo del partenariato con Baku e, se la situazione non dovesse migliorare, prendere in considerazione la possibilità di sospendere l’applicazione dell’accordo di facilitazione per l’ottenimento dei visti europei con l’Azerbaigian”.L’Eurocamera prende una posizione molto netta e dura. Non si mette in discussione la territorialità dell’area contesa, visto che nessuno Stato membro dell’Ue l’ha mai riconosciuto come extraclave armena. Si condannano l’attacco e l’uso sproporzionato della forza, anche dopo le operazioni militari vere e proprie. Per questo il Parlamento invita l’Ue anche a “ridurre la sua dipendenza dalle importazioni di gas azero” e considerare l’ipotesi di sganciarsi completamente dal fornitore azero. “In caso di aggressione militare o di attacchi ibridi significativi contro l’Armenia”, i deputati si dichiarano “a favore di una sospensione completa delle importazioni da parte dell’Ue di petrolio e gas azeri“.C’è una parte di Unione europea che dunque mostra i muscoli, ma non è chiaro quanto la risoluzione, non legislativa e dunque non vincolante, troverà seguito. Perché da una parte sconfessa l’operato della Commissione per sottrarre il club dei Ventisette dalla morsa di Gazprom e raddoppiare l’import di gas azero al 2027. In secondo luogo rischia di esporre l’Ue a nuovi shock energetici. Senza più gas russo e, eventualmente, in prospettiva, senza gas azero, risulta difficile capire come potrebbe l’Unione europea a soddisfare il proprio fabbisogno.E’ qui che lo strappo tra Ue e Azerbaijan si collega alla guerra in Ucraina. Baku era vista come elemento centrale o quantomeno portante di una strategia volta a indebolire la Russia. Lo scontro diplomatico non gioca a favore degli europei. Anche perché Ilham Aliyev fin qui non ha mai smesso di sostenere Vladimir Putin. L’Azerbaijan vende il suo gas agli europei e poi, con i soldi degli europei, acquista gas russo per rispondere ai fabbisogni interni e sopperire all’aumento delle vendite.fonte foto: https://agsc.az/Il voto di oggi serve come incentivo a chiudere ogni residuo legame con la Russia. Perché a dire il vero, il gas azero arricchisce comunque la Russia. Shah Deniz, il più grande giacimento di gas naturale dell’Azerbaijan, è gestito da Azerbaijan Gas Supply Company Limited (AGSC), consorzio di cui fa parte Lukoil.Il voto del Parlamento apre però un altro fronte, quello dei mai semplici rapporti con Ankara. Si vorrebbe operare sulla Turchia un convincimento a non incoraggiare ulteriormente l’Azerbaijan. Ma come sempre in questi casi i turchi potrebbero chiedere una contropartita. Il Parlamento dell’Ue, con un voto sia pur comprensibile, si espone a rischio geo-politici non indifferenti.
    L’Aula approva una risoluzione che va allo scontro con Baku. Si chiedono stop a visti agevolati e acquisti di gas, e sanzioni ai funzionati azeri. Una prova di forza che apre un nuova sfida geopolitica

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    Ucraina, i dubbi della Corte dei conti Ue sull’assistenza da 50 miliardi per la ricostruzione

    Bruxelles – C’era e c’è la necessità di sostenere l‘Ucraina, perché il Paese “ha continuato a subire enormi danni a causa della guerra di aggressione della Russia”, ma in questa corsa alla solidarietà e al sostegno probabilmente si è agito troppo in fretta col rischio di aver promesso qualcosa che difficilmente si potrà mantenere. Questo il giudizio della Corte dei conti europea nella valutazione dell’istituzione del Fondo per l’Ucraina da 50 miliardi di euro. I conti, in sostanza, non tornano.I revisori Ue di Lussemburgo ricordano che la valutazione rapida dei danni e dei bisogni dell’Ucraina condotta dalla Banca mondiale stima che il fabbisogno totale di ricostruzione sarà equivalente a 384 miliardi di euro nei prossimi 10 anni (2023-2033), di cui 142 miliardi di euro per il periodo 2023-2027. Inoltre, il 30 marzo 2023 il Fondo monetario internazionale “ha stimato che il deficit di finanziamento dello Stato fino al 2027 avrebbe raggiunto i 75,1 miliardi di euro e ha concordato con l’Ucraina un programma quadriennale di 14,4 miliardi di euro per sostenere la stabilità e la ripresa economica”. Ciò si traduce in un gap finanziario residuo di circa 60,7 miliardi di euro. E’ qui che si pongono i problemi. Non è chiaro se e come questo ‘buco’ di bilancio potrò essere colmato. Secondo la Commissione, il “fabbisogno di ripresa rapida” dell’Ucraina, pari a circa 50 miliardi di euro, porta il deficit di finanziamento totale a 110 miliardi di euro entro il 2027. Per la Corte dei conti dell’Ue, “a causa della situazione in rapida evoluzione in Ucraina, queste stime rappresentano una valutazione delle esigenze in un momento specifico , e sono soggetti a rivalutazione“.Con i 50 miliardi di euro previsti per lo strumento per l’Ucraina, l’Ue da sola coprirebbe il 45 per cento di questo deficit di finanziamento da 110 miliardi di euro entro il 2027. Ma mancano studi e documentazioni che l’esecutivo comunitario non ha prodotto. Ha assunto impegni e basta. Come spiega il rapporto della Corte dei conti dell’Ue, “in assenza di una valutazione d’impatto e di un documento analitico che presenti le prove alla base della proposta e le stime dei costi, non è stato possibile valutare se il contributo previsto di 50 miliardi di euro da parte dello strumento per l’Ucraina sia adeguato rispetto al Un deficit di finanziamento di 110 miliardi di euro, ovvero rispetto al fabbisogno complessivo di ricostruzione di 142 miliardi di euro per il periodo 2023-2027″. Ma non finisce qui. Perché fin qui il grosso degli aiuti sono militari. Nella proposta per un Fondo per l’Ucraina “non risulta inoltre chiaro se e in che modo altri strumenti dell’UE (aiuti umanitari, assistenza agli sfollati ucraini e assistenza militare) e/o altri donatori consentirebbero di coprire le restanti esigenze”. Inoltre, in questo suo esercizio, la Commissione ha affermato che il contributo dello strumento per l’Ucraina tiene conto della capacità di assorbimento del paese. Tuttavia, “la Commissione non ha fornito un calcolo della capacità di assorbimento del paese, né un’analisi di come tale capacità è stata valutata“.Nei confronti dell’Ucraina, dunque, si stanno riconoscendo troppe concessioni. La situazione in atto sembra aver lasciato campo aperto a canali troppo preferenziali. Da qui l’invito a considerare l’ipotesi di “limitare i finanziamenti eccezionali per un periodo determinato (ove concesso), al fine di rivalutare se la situazione in Ucraina lo giustifichi ancora”. C’è il sospetto che l’Ue si stia esponendo troppo. Tanto è vero che nel sostegno all’Ucraina, per ciò che riguarda i prestiti che Kiev dovrà rimborsare, si chiede anche di “integrare la garanzia del ‘margine di manovra’ con garanzie aggiuntive, quali accantonamenti, per coprire un default improvviso e inaspettato da parte dell’Ucraina”. In questo si esorta la Commissione a “rendere pubblica un’analisi del ‘margine di manovra’ nella prossima relazione annuale sulle passività potenziali
    L’Europa da sola potrebbe soddisfare solo il 45 per cento dei bisogni di Kiev, e la Commissione non ha prodotto valutazioni e documentazioni utili. L’invito alle correzioni del caso

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    L’Ue sfida Putin: Vertice con i Paesi dell’Asia centrale il prossimo anno

    Bruxelles – Dopo Caucaso e Ucraina, l’Asia centrale. La certosina opera di espansione dell’Europa verso est, per rosicchiare quelle zone di mondo storicamente e tradizionalmente più vicine ad altre logiche e visioni, più moscovite e russofone, continua. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, sta pensando di portare a Bruxelles i leader di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan. “Stiamo cercando di organizzare un vertice dell’Unione europea con l’Asia centrale l’anno prossimo“, riconosce un alto funzionario Ue. Si tratta del “primo vertice di sempre” in questo formato.
    Una sfida alla Russia e al suo ‘zar’ dei tempi contemporanei, Vladimir Putin. Kazakistan e Kirghizistan, Tagikistan sono stati membri dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), l’alleanza militare istituita nel 1992 come riorganizzazione post-sovietica di cui la Russia è capofila. Kazakistan e Kirghizistan fanno anche parte dell’Unione economico euro-asiatica (EAEU), unione doganale e commerciale sempre con capofila la Russia e che vede l’Uzbekistan nella veste di osservatore esterno. Portare attorno al tavolo i leader di questi Paesi vuol dire cercare di scardinare il modello putiniano nella regione o, comunque, avviare una nuova fase nei rapporti con Stati improvvisamente meno lontani.
    Politicamente la guerra lanciata da Mosca contro l’Ucraina ha indebolito l’immagine di Putin. Il contestuale cambio di potere in Kazakistan, con l’attuale presidente Kassym-Jomart Kemeluly Tokayev meno assertivo nei confronti del Cremlino, offre all’Ue l’opportunità di provare ad accrescere la propria presenza nella regione. Vero è, ammette lo stesso alto funzionario europeo, che l’idea di un summit Ue-Asia centrale è stata presa “basandosi sul successo” degli incontri con lo stesso Tokayev, l’ultimo dei quali a Berlino la settimana scorsa, e “sulla partecipazione del presidente Michel agli incontri con tutti i leader dell’Asia centrale”. Perché Michel è molto attivo su questo fronte, e non è un caso.
    Si intravede una strategia, che va nella direzione di eliminare ciò che ancora rimane di un vecchio ordine mondiale basato su due blocchi. Il ragionamento che si fa sull’Armenia lo dimostra. Anche l’Armenia è membro CSTO e EAEU. Ma l’offensiva dell’Azerbaijan in Nagorno-Karabakh offre un’opportunità. L’Ue può poco per soddisfare le rivendicazioni armene su un territorio mai riconosciuto come armeno, ma può offrire prospettive europee.
    In occasione della riunione della Comunità politica europea in programma a Granada il 5 ottobre “dobbiamo essere in ‘modalità ascolto’ per capire cosa meglio fare per sostenere Armenia”, spiegano fonti Ue. Il governo di Yerevan, lasciato solo per l’occasione dal partner russo, “potrebbe anche dover decidere cosa fare a lungo termine con la sua adesione alla CSTO e cosa fare a lungo termine con la sua adesione all’unione doganale eurasiatica”. Si guarda alle scelte dell’Armenia, pronti a offrire una nuova sponda consapevoli di un’intesa russo-azera disegnata per circumnavigare le sanzioni Ue contro la Russia.
    Il blocco a dodici stelle ha tagliato gli acquisti di gas russo e aumentato la domanda di quello dell’Azerebaijan, che per soddisfare il proprio fabbisogno interno si rifornisce da Gazprom al fine di compensare l’aumento di vendite all’Europa. In sostanza, alla fine è Baku a finanziare il regime russo con i soldi presi dall’Europa per il gas venduto proprio all’Europa. Uno dei motivi che ha spinto Mosca a non intervenire nella contesa tutta caucasica.
    L’Ue è consapevole che le sanzioni non stanno dando un’efficacia al 100 per cento. Un meccanismo anti-elusione è stato inserito nell’11esimo pacchetto proprio per questo. Michel vorrebbe che i Paesi dell’Asia centrale si allineassero alla politica Ue in materia di restrizioni contro il Cremlino. Ha già iniziato a porre la questione certamente continuerà. Magari nel vertice che verrà. Per ora ci si lavora, per gradi. Con l’obiettivo di ridefinire i rapporti di forza in Asia centrale.
    Questa idea di un summit Ue-Asia centrale si va ad aggiungere all’espansione che il blocco occidentale tutto, incluso quello europeo, ha già visto con l’adesione di Svezia e Finlandia nella Nato. C’è dunque un pressione euro-atlantica che cresce verso est. L’iniziativa di un ‘allargamento’ Ue verso i Paesi dell’Asia centrale tradizionalmente partner della Russia non fa che accrescere quel senso di accerchiamento denunciato da Putin già dal 2007 , in occasione della conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco.

    L’idea a cui lavora il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Si cerca di scardinare l’alleanza economica e militare regionale della Russia

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    In nome dell’energia l’Ue “potrebbe minare gli obiettivi di promuovere la democrazia e i diritti umani”

    Bruxelles – Energia e risorse energetiche o valori e democrazia? Più di una semplice domanda. Per l’Unione europea è un bivio. Le une non sempre possono andare con le altre. Perché se il presidente russo Vladimir Putin, ormai vecchio rivenditore di gas e petrolio, e scaricato in quanto aggressore e criminale di guerra, i nuovi acquirenti a cui l’Ue si rivolge per sopperire a risorse che non ha e che deve trovare altrove non sembrano essere così migliori. Il rischio, neanche troppo velato, è che volutamente o meno l’Ue sacrifichi la sua battaglia per i valori in nome dell’economia.
    In uno degli ultimi documenti prodotti dal centro studi e ricerche del Parlamento europeo, si mette in luce proprio questo dilemma. Con il riposizionamento sul mercato globale dell’energia e l’Ue che acquista da altri produttori, “nei Paesi terzi le entrate aggiuntive possono ridurre la volontà degli elettori di chiedere conto ai propri governi, favorendo la corruzione e il clientelismo”. Di conseguenza “il risultato potrebbe essere quello di consolidare il potere di regimi autoritari con situazioni contrastanti in materia di diritti umani e politici, minando gli obiettivi dell’Ue di promuovere la democrazia e difendere i diritti umani”, e tradendo una certa visione di Europa, quella di David Sassoli.
    Si fa la lista di Paesi terzi con cui l’Ue ha già avviato e sottoscritto accordi di cooperazione economica, intesa all’acquisto e alla fornitura di energia. Arabia Saudita, Qatar, Azerbaijan, Algeria. Non proprio Paesi e sistemi presi a modello democratico. Ben venga dunque l’accordo con la Norvegia per i rifornimenti di gas, che può far dormire sonni certamente più tranquilli ad un’Europa in difficoltà sia sul fronte energetico sia per quanto riguarda l’aspetto valoriale.
    Che si tratti di gas naturale o liquefatto (Gnl), chiedere il prodotto e fare pressioni politiche per riforme interne a Stati indipendenti e sovrani risulta poco pratico e poco praticabile. L’Ue dunque, nel guardare alle necessità più urgenti, non potrà fare a meno di dare priorità a queste. Che non sono i valori.
    Nel 2020, ricorda il documento, la Russia è stata il principale fornitore dell’Ue di gas naturale (tasso di dipendenza dalle importazioni dell’83,6 per cento, dipendenza dell’Ue dalla Russia 41,1 per cento), petrolio greggio (dipendenza dalle importazioni 96,2 per cento, dipendenza dalla Russia 25,7 per cento) e carbon fossile (dipendenza dalle importazioni 10,5 per cento, dipendenza dalla Russia 52,7 per cento).
    C’è dunque un mercato energetico che l’Ue non può permettersi di non trascurare. Il prezzo da pagare, oltre il bene richiesto, forse troppe volte è finanziare i regimi che tradiscono i valori europei.

    Uno studio dell’Europarlamento mette in luce un aspetto controverso della nuova politica a dodici stelle: “Nei Paesi terzi le entrate aggiuntive possono consolidare il potere di regimi autoritari”

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    Von der Leyen e Michel da Biden il 20 ottobre. Il Vertice Ue-Usa tra Ucraina ed energia

    Bruxelles – Sostegno all’Ucraina, da un lato. Approvvigionamento energetico e digitale, dall’altro. I leader di Unione europea e Stati Uniti si incontreranno venerdì 20 ottobre a Washington per il secondo Vertice Ue-Usa da quando il presidente statunitense Joe Biden si è insediato alla Casa Bianca a gennaio 2021.
    La conferma è arrivata oggi (28 settembre) in una nota congiunta dei due lati dell’Atlantico in cui si legge che il presidente Biden insieme al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, faranno il punto sulla cooperazione tra Stati Uniti e Unione Europea, soprattutto per confermare il “nostro impegno condiviso a sostenere l’Ucraina nella difesa della sua sovranità e a imporre costi alla Russia per la sua aggressione”.
    La difesa dell’Ucraina e il sostegno alla sua ricostruzione saranno i temi dominanti dell’incontro. Ma le discussioni si concentreranno anche sull’approvvigionamento di materie prime critiche, centrali per la produzione di tecnologie verdi e alla doppia transizione verde e digitale. “Promuoveranno gli sforzi degli Stati Uniti e dell’UE per accelerare l’economia globale dell’energia pulita basata su catene di approvvigionamento sicure e resilienti e continueranno la cooperazione nelle tecnologie critiche ed emergenti, comprese le infrastrutture digitali e l’intelligenza artificiale”, si legge nella dichiarazione comune, in cui i leader confermano che faranno un punto anche sulle attività congiunte per rafforzare la resilienza economica e affrontare le sfide correlate.
    Il riferimento alla Cina non è diretto, ma il rafforzamento della cooperazione transatlantica è in chiave anti-Pechino. Washington e Bruxelles lavorano ormai da mesi per finalizzare un accordo sui minerali critici, che entrambe le parti puntano a chiudere entro la fine dell’anno. L’obiettivo è quello di raggiungere uno status equivalente a un accordo di libero scambio per l’Ue per i minerali critici, essenziali per la produzione di tecnologie chiave per la doppia transizione, come il litio per le batterie – e distendere le tensioni create dall’Inflation Reduction Act (IRA), il vasto piano di sussidi verdi da quasi 370 miliardi di dollari varato dall’amministrazione Usa, che Bruxelles teme possa svantaggiare le imprese europee. Le discussioni “esplorative” con gli Stati Uniti tenute finora hanno mostrato un allineamento sui principi principali, mentre i dettagli verranno approfonditi durante i negoziati ancora in corso. E il Vertice di fine ottobre potrebbe essere la giusta occasione per velocizzare i negoziati.
    Il Vertice prenderà le mosse in un contesto completamente diverso rispetto a quello che a giugno 2021 ha accolto Biden a Bruxelles. I leader europei e statunitensi si trovavano a dover affrontare e gestire insieme la crisi economica derivata dall’urgenza sanitaria del Covid-19 e una guerra alle porte dell’Europa era impensabile.

    I tre leader a Washington faranno il punto sulla cooperazione tra Stati Uniti e Unione Europea, soprattutto per confermare l’impegno “condiviso a sostenere l’Ucraina nella difesa della sua sovranità e a imporre costi alla Russia per la sua aggressione”