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    Elezioni in Usa: la presidenza Harris è la più auspicabile per l’Europa, ma senza l’illusione che l’”ombrello statunitense” sia ancora aperto

    Bruxelles – Le elezioni statunitensi sono alle porte e la decisione di Joe Biden di ritirarsi a favore di Kamala Harris ha aperto nuovamente la partita con Trump su chi sarà il 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Per l’Europa, la presidenza Harris “segnerebbe la continuità delle relazioni transatlantiche“, ma è chiaro che non ci sarà, con nessuno dei due candidati, un ritorno alla politica pre-Trump.Questo il contenuto chiave dello studio di Ian Bond e Luigi Scazzieri per il Center for European Reform, che spiega quale sarebbe l’impatto della vittoria delle elezioni presidenziali statunitensi il 5 novembre della candidata democratica Kamala Harris.La vicepresidente Usa è un’avversaria temibile per il repubblicano Donald Trump, la cui vittoria contro Biden era stata quasi per scontata. Per l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, “ci sarà sicuramente una gran differenza” in base a chi sarà il prossimo presidente Usa, e Harris attualmente sembra essere la migliore tra le due opzioni per l’Europa.Un’ipotetica vittoria di Donald Trump metterebbe in difficoltà le relazioni Usa-Ue e la sicurezza europea. L’approccio del repubblicano, soprattutto sull’Ucraina e sulla Nato, apre delle prospettive allarmanti per l’Europa.La sua contrarietà all’assistenza all’Ucraina, unita al supporto al presidente russo Vladimir Putin, preoccupano dall’altra parte dell’Atlantico, ma anche la posizione di Harris sul tema non è così netta.La candidata, per quanto fortemente critica nei confronti di Putin, riflette la grande differenza di percezione sull’Ucraina tra europei e Usa: per gli statunitensi non è una minaccia esistenziale l’eventuale vittoria russa. In sostanza, il sostegno dei democratici all’Ucraina è funzionale ad evitare un conflitto diretto con la Russia per la Nato, e quindi per gli Usa. Per altro, “anche se Harris fosse più incline ad essere più lungimirante di Biden”, se i repubblicani controllassero le camere al Congresso, lo spazio di manovra per ulteriore assistenza sarebbe comunque limitato.Il protezionismo trumpiano non piace (con proposte di tariffe del 60 per cento sulle importazioni dalla Cina e 10-20 dal resto del mondo), soprattutto la richiesta agli europei di allinearsi apertamente con l’approccio conflittuale con la Cina. Harris sembra più cauta e in linea con il suo predecessore, con tariffe mirate per competere con Pechino e sussidi ai produttori nazionali. Per l’Europa queste non sono buone notizie: i dazi americani sui prodotti cinesi in entrata obbligherebbero a proteggere il mercato europeo dalle esportazioni cinesi con altri dazi, i sussidi allontanerebbero gli investimenti dal vecchio continente. Stesso discorso sulla fornitura di tecnologia europea avanzata alla Cina, sul cui divieto nemmeno Harris ha intenzione di mollare la presa. I metodi saranno probabilmente meno bellicosi di Trump, ma per gli Usa il primato tecnologico, già vacillante, non può essere minato dalla Cina tramite informazioni acquisite dagli europei.Il più grande punto interrogativo per l’agenda di Harris riguarda il Medio Oriente. Mentre Trump ha una posizione lapalissiana, con sostegno incondizionato alla linea dura del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, quella di Harris ha dei contorni più sfumati.Fino ad oggi, l’obiettivo primario era quello di mantenere l’unità del partito democratico anche sul tema del conflitto a Gaza, considerando anche le critiche precedentemente ricevute da Biden sulle sue scelte politiche. La linea di Harris è moderata, non cambia il sostegno ad Israele ma si unisce la necessità di impegnarsi per alleviare le sofferenze dei palestinesi. Un impegno non di poco conto, che comporta fare pressioni su Israele e soprattutto sollevare le perplessità dei suoi stessi colleghi di partito.L’Europa, al contrario, sorride alla moderazione, dal momento che ci sarebbe un inedito avvicinamento per questi tempi tra la politica statunitense e quella europea. Nuovamente, i problemi europei non sono priorità statunitensi, per cui il rischio di espansione del conflitto in Libano non è una minaccia primaria per gli Usa e invece ha rischi fortemente impattanti sul vecchio continente, come la radicalizzazione violenta e movimenti di larga scala di rifugiati.Non di poco conto è la poca chiarezza della candidata democratica su come intenda gestire il problema del programma nucleare iraniano. Al contrario, Trump ha una posizione molto definita, avendo deciso per l’uscita  dall’accordo sul nucleare del 2015 durante la sua presidenza. L’espansione del programma nucleare iraniano è pericolosa vista la possibilità che avrebbe il paese mediorientale di produrre un ordigno nucleare in poco tempo, ma Harris non sembra avere le idee chiare (o almeno non aver comunicato nulla) su come cercherà il coinvolgimento dell’Iran sui negoziati riguardanti il programma. Ennesimo punto interrogativo sul Medio Oriente e sul futuro della politica americana.Harris e Trump propongono due visioni differenti della politica statunitense, con delle divergenze sostanziali, ma delle similitudini nella tutela degli interessi americani che in Europa dovrebbero far riflettere.L’elezione di Trump sarebbe deleteria per le relazioni transatlantiche, con qualche eccezione tra i leader europei, come il primo ministro ungherese Orban, che accoglierebbero un Trump-bis con entusiasmo. La vittoria di Harris permetterebbe agli europei di avere continuità con la presidenza Biden, tenendo conto però che gli Stati Uniti non hanno come priorità la questione ucraina e che l’America ha come priorità la protezione della propria produzione e sulla politica industriale.L’Europa con Harris vivrebbe solo un rallentamento al processo (forse irreversibile) di allontanamento dall”ombrello’ statunitense. Chiunque vinca il 5 novembre, sarà necessario per il vecchio continente pensare a come proseguire con gli Usa gradualmente più distanti e una concorrenza economica sempre più agguerrita nel panorama globale.Intanto oggi il Parlamento europeo ha eletto Brando Benifei (Pd/S&D) alla guida della Delegazione dell’Europarlamento per le relazioni con gli Stati Uniti. Secondo il parlamentare “in questo momento di incertezza geopolitica l’incarico comporta un impegno preciso: è fondamentale continuare a lavorare a una relazione transatlantica che sia basata sul rispetto reciproco e sulla cooperazione su temi fondamentali come la tecnologia, l’economia, la sicurezza internazionale e la transizione ambientale”. Secondo Benifei, “chiunque vincerà le elezioni presidenziali americane, questa relazione rimarrà fondamentale per trovare soluzioni adeguate a problemi comuni. L’Europa dovrà trovare una propria voce e maggiore coesione politica, necessari per essere un player globale come gli Usa”.

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    Bruxelles promette a Kiev fino a 35 miliardi di euro, che dovrebbero arrivare dagli extraprofitti sugli asset russi congelati

    Bruxelles – Per l’ottava volta dall’inizio dell’invasione russa, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha incontrato a Kiev il leader ucraino Volodymyr Zelensky. Al quale ha annunciato che presto l’Ue staccherà per il Paese aggredito un maxi assegno che, come da accordi presi la scorsa estate in ambito G7, sarà finanziato dagli extraprofitti generati dagli asset russi immobilizzati. L’importo esatto non è ancora definito, ma potrebbe arrivare fino a 35 miliardi di euro. Ma rimane il rischio che l’Ungheria possa mettere a repentaglio l’intero piano.Durante una conferenza stampa congiunta con Volodymyr Zelensky al termine del loro incontro bilaterale, il capo dell’esecutivo comunitario ha annunciato venerdì (20 settembre) che “la Commissione ha adottato delle proposte che permetteranno all’Ue di prestare 35 miliardi di euro” come parte dell’impegno assunto dai partner del G7 la scorsa estate di fornire all’Ucraina 50 miliardi di dollari (circa 45 miliardi di euro) per sostenere le casse dello Stato, finanziando l’esborso con i proventi generati dagli asset russi immobilizzati in Occidente.Parlando al fianco del presidente ucraino, von der Leyen è tornata sul “piano per l’inverno” in tre punti (del valore di 160 milioni di euro) che aveva articolato giovedì (19 settembre): la priorità per l’Ue è sostenere il sistema energetico di Kiev riparando i danni provocati dagli attacchi russi, connettendo la griglia ucraina a quella europea e stabilizzando la produzione energetica del Paese. E in più ha aggiunto il carico da novanta, cioè appunto questi 35 miliardi che dovrebbero arrivare il più velocemente possibile nelle casse ucraine.In realtà, quello dei 35 miliardi è il limite massimo che l’Ue può fornire all’Ucraina nel quadro del piano del G7, ma non è detto che l’esborso effettivo ammonti davvero a quella cifra. La decisione sull’importo preciso verrà presa in un secondo momento, probabilmente entro la fine di ottobre, quando anche gli altri partner occidentali avranno definito l’entità della propria contribuzione. Insomma, i 45 miliardi totali potrebbero essere forniti anche in proporzioni diverse – non necessariamente 35 da parte di Bruxelles e i restanti 10 dagli altri membri dell’organizzazione.Gli accordi presi la scorsa estate a livello di G7 prevedevano originariamente un contributo paritario di Unione europea e Stati Uniti, pari a 20 miliardi di dollari ciascuno (poco meno di 18 miliardi di euro), mentre Canada, Giappone e Regno Unito avrebbero messo il resto. Ma Washington aveva poi rallentato l’intero processo adducendo dubbi circa la disponibilità degli Stati membri dell’Ue a rinnovare periodicamente le sanzioni che, nel concreto, mantengono effettivamente immobilizzati gli asset della Banca centrale russa – e che costituiscono dunque le fondamenta legali su cui si basa tutto il piano. Nello specifico, il timore si concentra sull’Ungheria di Viktor Orbán: dato che i Ventisette devono raggiungere l’unanimità al Consiglio per rinnovare il regime sanzionatorio contro Mosca, esiste il rischio che Budapest faccia saltare il banco.L’idea della Commissione Ue è di istituire un meccanismo speciale, che dovrebbe chiamarsi Ukraine loan cooperation mechanism, per incanalare annualmente verso le casse di Kiev un gettito compreso tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro (gli asset congelati nelle giurisdizioni europee sono stimati in circa 200 miliardi). Questo meccanismo andrebbe così a complementare lo Strumento europeo per la pace (Epf nell’acronimo inglese), che al momento finanzia la maggior parte degli esborsi sostenuti dagli Stati membri, e anzi dovrebbe finire per coprire (almeno nelle intenzioni) il 95 per cento dei prestiti erogati all’Ucraina, sulla base del principio per cui “la Russia deve pagare per la distruzione che provoca”, come più volte ribadito dalla stessa von der Leyen.Tecnicamente, questi soldi non sono destinati a nessun ambito di spesa specifico ma saranno nella completa disponibilità del governo ucraino. Un modo con cui Bruxelles cerca cioè di aumentare lo spazio di bilancio di agibilità per Kiev, le cui spese per fronteggiare l’aggressione russa continuano a salire. La creazione di questo fondo speciale – che sarà garantito in ultima istanza dal bilancio comunitario e diventerà operativo a partire dal 2025 – dovrà essere approvata entro la fine dell’anno fiscale in corso con procedura legislativa ordinaria dall’Eurocamera e dal Consiglio, che su questo punto delibera a maggioranza qualificata e può quindi bypassare un eventuale veto ungherese.Il “no” di Budapest può invece bloccare, come si diceva, il regime sanzionatorio imposto dai Ventisette contro la Federazione russa, che attualmente viene rinnovato a cadenza semestrale. Ora, per limitare il rischio che un singolo Stato membro possa minare l’intero meccanismo di prestito, la Commissione ha proposto di estendere a 36 mesi la periodicità con cui il Consiglio decide sul rinnovo del congelamento degli asset russi immobilizzati. Con questa mossa (che non va intesa come un “disaccoppiamento” del congelamento dal resto delle sanzioni, come precisato dai funzionari dell’esecutivo Ue), dunque, le misure restrittive continuerebbero ad essere rinnovate ogni sei mesi mentre l’immobilizzazione dei fondi della Banca centrale di Mosca verrebbe di fatto blindata di tre anni in tre anni. Perché questa proposta venga accolta, tuttavia, serve che i governi dei Ventisette l’accettino all’unanimità. Il che potrebbe non essere poi così scontato.

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    Ucraina, gli europarlamentari italiani insistono sulla ricerca della pace. E’ tempo di più diplomazia

    Bruxelles – Sostegno all’Ucraina, quello si. Senza se, ma… con dei ‘ma’. Uno su tutti, quello delle trattative di pace per porre fine a un conflitto che anima sempre di più le delegazioni italiane del Parlamento europeo. Non c’è dubbio che Kiev abbia il diritto di difendersi, e non si discute il sostegno dell’Ue, questa è una precisazione d’obbligo, oltre che a concetti ribaditi dai rappresentanti dei vari partiti italiani in occasione del briefing con la stampa che precedere la sessione plenaria del Parlamento, dove la questione Ucraina sarà oggetto dei lavori. Ma emerge in modo trasversale la necessità di dare nuovo impulso alla diplomazia.Chi pone l’accento sul tema in modo più urgente è Ignazio Marino (Verdi-Avs), che guarda con una certa apprensione all’immediato futuro. Le elezioni statunitensi si terranno tra 42 giorni, ricorda, e ricorda anche che il candidato repubblicano “Donald Trump ha detto che se vince non aspetterà l’insediamento per andare da Putin e negoziare la pace alle condizioni che più fanno gli interessi degli Stati Uniti“. Ecco che, alla luce di queste premesse, “anziché spingere per più armamenti bisognerebbe agire prima che agiscano altri“, visto che, insiste “se non ricordo male l’Ucraina si trova in Europa”.Inizia a farsi strada una preoccupazione tutta nuova, quella di un ruolo secondario e subalterno in politica estera. Non è detto che a succedere a Joe Biden nella Casa bianca sarà Trump, ma comunque si avverte la necessità di accompagnare il sostegno economico e armato dell’Ucraina a un dialogo fin qui ridotto al minimo. Salvatore De Meo, capodelegazione di Forza Italia, ben riassume la necessità di questa doppia linea d’azione. “Per quanto riguarda l’Ucraina non possiamo non continuare a rafforzare la vicinanza dell’Europa, insistendo per creare le condizioni per uno spiraglio di pace“.Linea e posizione analoga quella espressa dal Pd, attraverso Annalisa Corrado. “Il sostegno all’Ucraina resta necessario”, ma al tempo stesso, aggiunge, occorre un “potenziamento di tutti gli strumenti diplomatici“, perché quello che preoccupa sicuramente una parte dei socialisti è il rischio di “una escalation che poi diventa difficile da gestire”.I partiti di maggioranza e opposizione descrivono una certa convergenza sul tema, come dimostra una volta di più Stefano Cavedagna (Ecr), esponente del partito della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Per l’europarlamentare di Fratelli d’Italia resta fermo il principio per cui “l’Ucraina ha il diritto di difendersi, ci sono un aggredito e un aggressore”, con Fdi che “sostiene” Kiev, ma al tempo stesso anche all’interno del Fratelli d’Italia si è dell’idea che “l’obiettivo deve essere la pace“.Anche dalle fila della Lega viene esternata la necessità di “creare le prospettive di pace” quando si parla del conflitto russo-ucraino, sostiene Anna Maria Cisint. L’europarlamentare del Carroccio sottolinea come il suo partito e il suo gruppo “non si è mai sottratto a votare per il sostegno all’Ucraina”, ma, aggiunge, “non abbiamo mai fatto mistero della necessità di accompagnare l’aiuto con un’azione diplomatica forte”, perché “un tavolo di pace è necessario”.Serve dunque un riorientamento dell’Ue, che però è tutt’altro che scontato. Il motivo lo spiega Gaetano Pedullà (M5S-laSinistra). “Se vogliamo la pace dobbiamo cambiare la narrativa e smettere di fare quanto fatto negli ultimi due anni e mezzo, vale a dire andare avanti con sanzioni e rifornimento armi”. Per il pentastellato non ci sono grandi alternative. “Senza dialogo non ci può essere pace”, ma per avere un dialogo occorre avere le condizioni per agevolarlo. Quindi per forza di cose serve “ragionare con la Russia, prima che lo facciano gli Stati Uniti“.Nel gruppo italiano all’europarlamento serpeggerebbe dunque una generale necessità di una soluzione non armata del conflitto, a riprova delle insofferenze, non solo italiane, prodotte da un conflitto che va avanti contro ogni interesse a dodici stelle. Su una cosa tutte le delegazioni tricolore sembrano non avere dubbi: le armi fornite dall’Italia all’Ucraina devono essere utilizzate solo per scopi di difesa e non di offesa. un concetto espresso e ribadito da tutti.

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    L’Ue avverte la Serbia: “Allinearsi alla Russia in contrasto con obiettivo dichiarato di adesione”

    Bruxelles – O la Russia o l’Unione europea. Una cosa esclude l’altra e la Serbia deve chiarire che intenzioni ha per il suo presente e ancor di più per il proprio futuro. La Commissione europea non gradisce il viaggio del vice primo ministro serbo Aleksandar Vulin in Russia e il suo incontro col presidente russo Vladimir Putin, e avverte che scelte troppo filo-russe potrebbero chiudere le porte dell’Ue per Belgrado bloccando di fatto il processo di adesione.“Sotto la guida di Vladimir Putin la Russia viola lo Statuto delle Nazioni Unite e il diritto internazionale su cui si fonda l’Unione europea, e allinearsi alla Russia non è compatibile con i principi dell’Ue e in contrasto con ciò che richiede l’adesione all’Ue”, mette in chiaro Peter Stano, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell. La missione istituzionale condotta da Vulin “è in contrasto con l’obiettivo dichiarato di aderire all’Ue”, e da Bruxelles arriva l’invito esplicito ad “astenersi dal rafforzare i legami con la Russia”.La richiesta è però un minaccia. L’incompatibilità delle politica di Belgrado con i valori e l’acquis comunitario implica per l’Unione europea il dover riconsiderare il processo di adesione, il che vuol dire minacciare di sospenderlo come l’esecutivo comunitario ha iniziato a fare con la Georgia. La Serbia ha fatto richiesta di adesione all’Ue nel 2009, e a marzo 2012 ha ottenuto lo status di Paese candidato. Da allora oltre un decennio di lavorio continuo, reso più complicato dalla questione del Kosovo e la normalizzazione dei rapporti tra le due entità (il Kosovo continua a non essere riconosciuto come Stato indipendente e sovrano da tutti i 27), ma comunque mai messo in discussione come oggi.

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    La Mongolia non arresta Putin, ma l’Ue non può alzare troppo la voce: servono le materie prime critiche per il Green Deal

    Bruxelles – La guerra russo-ucraina, rispetto di diritto internazionale, Stato di diritto e diritti fondamentali. E poi la partita delle risorse, indispensabile per le ambizioni di motore ‘green’ globale. L’Unione europea ha tanto da guadagnare con nuovi, maggiori, rapporti con la Mongolia e la visita del presidente russo Vladimir Putin crea insofferenze e imbarazzi. Non si può forzare la mano né fare troppo la voce grossa visto gli interessi geopolitici in ballo con Ulan Bator, ma la Commissione europea, attraverso la portavoce Nabila Massrali, non nasconde il disappunto per l’inazione delle autorità mongole.“C’è un mandato di arresto della Corte penale internazionale, e la Mongolia in quanto aderente allo Statuto di Roma ha degli obblighi giuridici“, il commento di Massrali ad una visita che ha permesso al leader russo di giocare la sua partita in senso anti-occidentale ed europeo. Gli accordi per le forniture di gas sono introiti per le casse di Mosca e un modo per aggirare le sanzioni a dodici stelle, mentre l’intesa per le materie prime critiche sono una sottrazione alle ambizioni europee.Rame e terre rare sono tra le risorse che la Mongolia può offrire. Elementi utili al Green Deal dell’Unione europea, schiacciata tra l’esigenza di condannare la Russia di Putin e l’impossibilità di una linea troppo dura nei confronti di un partner strategico che rischia di sfuggire. Perché anche Elon Musk, ha considerato l’ipotesi di andare a produrre in Mongolia le batterie per le sue Tesla elettriche in ragione di quello che si trova nel sottosuolo mongolo. Che offre molto di più del rame. Ci sono litio, nichel e manganese, tutti utili per le batterie, il molibdeno, strategico come componente delle celle solari, e ancora la grafite, necessaria per i transistor, i dispositivi elettronici presenti nei semiconduttori di cui l’Ue ha bisogno per la sua doppia transizione verde e tecnologica.L’accordo di cooperazione Ue-Mongolia è entrato in vigore nel 2017, e l’aggressione russa dell’Ucraina nel 2022 ha indotto il blocco dei Ventisette a dover ridisegnare ogni agenda e la necessità di una diversificazione degli approvvigionamenti. A Bruxelles si sono resi conto che la dipendenza dell’Unione europea da catene di fornitura credibili e sicure per materie prime critiche utili a tradurre in pratica la doppia transizione e gli sforzi della Mongolia per diversificare in modo sostenibile le sue relazioni economiche potrebbero avvicinare i due soggetti, tenuto conto anche delle esigenze europee di affrancarsi dal fornitore cinese.Gli analisti del Parlamento europeo fanno un punto della situazione, in un documento di lavoro che riassume passato, presente, e potenziali scenari futuri: “Mentre la corsa alle materie critiche è in pieno svolgimento e i principali paesi importatori di queste materie prime hanno progettato politiche di riduzione del rischio economico per trovare alternative all’attuale quasi monopolio delle esportazioni della Cina come le terre rare, l’Ue e la Mongolia potrebbero stipulare una partnership sulle materie prime critiche“.Un partenariato di tale tipo e natura sarebbe una formula vincente per entrambi i contraenti. La produzione energetica della Mongolia ad oggi deriva al 95 per cento dal carbone, e il potenziale per le rinnovabili resta non sfruttato. L’Ue può offrire una mano per pulire l’economia mongola, e pulire la propria attraverso quelle risorse che non ha ma che potrebbe ottenere dal partner. Il dilemma tutto europeo è servito. La Mongolia acquista una rilevanza e una valenza tutta nuova in uno scacchiere internazionale sempre più complesso. In questa partita Putin sembra aver giocato d’anticipo, con le autorità di Ulan Bator che non ne hanno disposto l’arresto per un risultato che è una doppia beffa per l’Europa. “La Mongolia ha tutto il diritto di stabilire le proprie relazioni bilaterali”, il punto è proprio questo, e la portavoce della Commissione ne è consapevole tanto è vero che lo ricorda lei stessa. La Mongolia, schiacciata tra Russia e Cina, ha fatto le sue scelte, che non sorridono all’Ue.

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    Ucraina, tensione Borrell-Tajani: “Ridicolo non permettere a Kiev di attaccare”

    Bruxelles – Sulla guerra russa in Ucraina, adesso è strappo Ue-Italia e tensioni tra l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, e il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Il primo non gradisce la linea del secondo, e ne critica le argomentazioni. Negare, come ha fatto Tajani, la possibilità di utilizzo delle armi degli alleati su suolo russo è una logica considerata come ipocrita. “Penso sia ridicolo dire che consentire di colpire all’interno del territorio russo significhi essere in guerra contro Mosca”, sostiene Borrell all’inizio della riunione informale dei ministri della Difesa, tornando sulle dichiarazioni di Tajani di ieri. Il ministro degli Esteri ha detto che l’Unione non è in guerra contro la Russia per spiegare il ‘no’ del governo all’eliminazione delle restrizioni sull’utilizzo delle armi occidentali, e l’Alto rappresentante insiste nel bacchettare il partner: “Non siamo in guerra contro Mosca, penso sia ridicolo dirlo. Stiamo sostenendo l’Ucraina“. Ecco il distinguo operato da Borrell, per replicare alle affermazioni non gradite dell’Italia. “L’Ucraina – continua Borrell – viene attaccata dal territorio russo e, secondo il diritto internazionale, può reagire attaccando i luoghi da cui viene attaccata. Quindi, non c’è nulla di strano in questo”. Dall’Italia dunque dichiarazioni inaccettabili e posizioni incomprensibili. Resta fermo per gli Stati membri il diritto di scegliere, questo Borrell né lo nega né lo mette in discussione. “E’ chiaro che questa è una cosa che spetta a ciascuno di loro”, anche perché quella estera e di difesa “non è una politica dell’Ue”. Quindi, a Tajani che lo accusava di parlare a titolo personale, replica: “Come Alto rappresentante devo avere opinioni personali se voglio spingere il consenso tra gli Stati membri”. Le riunioni informali aprono un solco tra il governo Meloni e l’Ue.

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    Medio Oriente, Borrell formalizza la richiesta di sanzioni per i ministri di Israele. “Decideranno gli Stati, ma il processo è avviato”

    Bruxelles – Josep Borrell non molla, al contrario insiste. L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue vuole mandare un messaggio, chiaro e diretto: c’è un’Unione europea che non è più disposta a sostenere le ragioni di Israele di fronte a una risposta all’aggressione di Hamas che ha passato il limite del tollerabile. L’idea di sanzionare i ministri israeliani per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, e delle Finanze, Bezalel Smotrich, diventerà una proposta formale e ufficiale.“Ho deciso di proporre l’inclusione dei due ministri israeliani nella lista Ue delle sanzioni”, annuncia al termine della riunione informale dei ministri degli Esteri. “Ovviamente spetterà ai ministri decidere, come sempre, il processo sarà avviato“. La proposta con ogni probabilità sarà affossata dagli Stati. L’unanimità richiesta per approvare le sanzioni non c’è, vista la contrarietà dichiarata dell’Italia, ma non solo. L’idea non piace all’Ungheria di Orban, e neppure alla Germania. Ma Borrell vuole comunque inviare un messaggio al governo di Benjamin Netanyahu.Non vengono messe in discussione le ragioni dello Stato ebraico. “L’attacco di Hamas ha dato origine a una guerra, e la guerra ha dato origine a una situazione drammatica dal punto di vista umanitario”, dice sintetizzando in estrema sintesi gli avvenimenti dal 7 ottobre 2023 in poi. Ma si scaglia contro la reazione di Israele, e una condotta che a Bruxelles viene vista come irresponsabile. “Dichiarazioni sulla costruzione di una sinagoga dentro una moschea suggeriscono una radicalizzazione della situazione” da parte israeliana, aggiunge in conferenza stampa. Una presa di distanze da Ben-Gvir, che ha dichiarato di voler costruire un luogo di culto ebraico laddove sorge la mosche di Al-Aqsa, a Gerusalemme.E’ l’ultimo atto di una giornata iniziata con un attacco frontale di Borrell nei confronti di Israele. Ai Ventisette chiedeva di condannare l’operato dell’amministrazione Netanyahu, bollata come “inaccettabile”, e di non prevedere tabù nei confronti di un alleato storico considerato dall’Alto rappresentante come non più difendibile. Finora l’Ue si era espressa contro i coloni estremisti, decretando sanzioni restrittive nei loro confronti, ma è la prima volta che prende corpo l’iscrizione nella lista nera di esponenti di governo israeliano. Con ogni probabilità la linea Borrell non passerà, ma adesso Tel Aviv è avvisata: il sostegno senza ‘se’ e senza ‘ma’ dell’Europa è rimessa in discussione.E’ questa un’altra incrinatura dei rapporti tra Europa e Israele, dopo che Belgio e Slovenia hanno sostenuto l’azione legale del Sudafrica, che ha trascinato lo Stato ebraico davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, con l’accusa di crimini di genocidio nei confronti dei palestinesi.

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    Borrell allo scontro con gli Stati dell’Ue su Ucraina e Medio Oriente

    Bruxelles – L’Unione europea si impegna tanto, e produce troppo poco. L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, fa auto-critica e poi critica gli Stati membri. Sull’Ucraina ci sono ritardi e promesse non mantenute, sul modo in cui Israele sta gestendo l’offensiva di Hamas sta invece chiudendo gli occhi su ciò che andrebbe condannato.In occasione della riunione informale dei ministri degli Esteri in corso a Bruxelles Borrell si presenta alla stampa con il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, per permettere al partner di esternare tutta la contrarietà per un’Ue a doppia velocità. “Solleverò una questione per noi spaventosa”, e cioè “il divario tra gli annunci sull’assistenza militare e la consegna effettiva” di quanto promesso, fa sapere un visibilmente contrariato Kuleba. “Ogni ritardo lo paghiamo noi. Quale che sia la ragione per i ritardi, è tempo di rendere operative le decisioni”. Un riferimento ai sistemi di difesa aerea che pure si è deciso fornire a Kiev.Parole che trovano terreno fertile in Borrell. “Condivido le preoccupazioni, e ne parleremo con i ministri” degli Stati membri. L’Alto rappresentante vuole mettere pressioni sui governi, e imprimere un cambio di passo, visto anche come si stanno mettendo le cose. “Le operazioni a Kursk sono un duro colpo alla narrativa di Putin”. Vuol dire che l’Ucraina guadagna terreno, ma la Russia “non smetterà di colpire” finché l’Ucraina sarà in grado di difendersi completamente. Tradotto, in termini chiari: “I sistemi di difesa aerea erano di critica importanza a giugno, e lo ancor più di critica importanza oggi“.Borrell si scusa con Kuleba come può, e accusa pubblicamente gli Stati. “Kuleba ha ragione: gli annunci sono una cosa, la realizzazione un’altra. Chiederò agli Stati di dare ciò che hanno promesso, perché avere forze armate meglio equipaggiate è un elemento chiave per permettere di vincere la guerra”.Ma la furia dell’Alto rappresentante è rivolta nei confronti dei Ventisette per come non stanno gestendo la crisi in Medio Oriente. Invita a trovare quel coraggio fin qui mancato. “Non dovremmo avere tabù” quando si parla di Israele, sottolinea. Perché una volta di più Borrell va all’attacco frontale dell’attuale governo israeliano. “Un ministro israeliano lancia messe di odio che sono un chiaro invito a calpestare il diritto umanitario”, ricorda Borrell, in riferimento al ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, che sosteneva la necessità di affamare la popolazione a Gaza.C’è poi “la preoccupante intenzione di spostare la popolazione in Cisgiordania come già fatto a Gaza“, sottolinea ancora l’Alta rappresentante, producendo sfollati e di fatto disperdendo i palestinesi dai loro territori. Qualcosa di “completamente inaccettabile”. Israele ha passato il segno, e l’Ue dovrebbe farsi sentire con decisione e senza tentennamenti, proprio come Borrell sente che andrebbe fatto nei confronti dell’Ucraina. Il consiglio informale dei ministri degli Esteri sarà l’occasione per una lavata di testa.