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    La Libia dell’Est espelle la delegazione Ue che doveva discutere di immigrazione

    Bruxelles – La Libia dell’Est ha espulso la delegazione europea appena giunta nel Paese per discutere nuove misure sull’immigrazione.La delegazione era composta dai ministri dell’Interno di Italia, Grecia e Malta e dal commissario europeo per la Migrazione Magnus Brunner, ed è stata fermata direttamente all’aeroporto Benina di Bengasi, dove tutti i membri della delegazione sono stati dichiarati “persona non grata”. L’aereo ha immediatamente lasciato l’aeroportoUna nota del governo di questa parte del Paese ha definito la visita una “flagrante violazione” delle convenzioni internazionali e della legge libica.Secondo fonti riportate dal quotidiano greco Ekathimerini il provvedimento sarebbe dovuto al fatto che la delegazione europea ha visitato prima Tripoli, sede del governo libico riconosciuto a livello internazionale.“La notizia che il ministro Piantedosi, il commissario Brunner e i colleghi maltese e greco sono stati fermati in Libia e respinti per ‘ingresso irregolare’ – proprio come un migrante qualunque, uno di quelli che il governo Meloni chiama ‘clandestini’ – farebbe ridere, se non fosse che la Libia è l’inferno in terra per chi la attraversa”, commenta la deputata europea del Pd Cecilia Strada. “Un inferno fatto di estorsioni, stupri, torture, omicidi, intercettazioni violente in alto mare, viaggi della speranza che si trasformano in naufragi. Un inferno pagato con le tasse italiane ed europee. Un sistema – continua la deputata -, quello dell’esternalizzazione delle frontiere, che fra le altre cose alimenta il potere dei trafficanti anziché ridurlo. L’episodio del respingimento di Piantedosi la dice lunga anche sull’affidabilità dei partner libici ai quali deleghiamo il lavoro sporco di bloccare le persone in movimento. Per un giorno – conclude Strada – ministri e commissari hanno provato cosa significa trovarsi dall’altra parte di un porto chiuso”.

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    La Bce: “Con la Cina nel Wto meno democrazia nel mondo in nome del commercio, ma l’Ue ha le sue colpe”

    Bruxelles – L’ingresso della Cina nell’organizzazione mondiale per il commercio (Wto) ha segnato un arretramento del livello democratico dei partner commerciali dell’Ue. Questo sostiene la Banca centrale europea, in un’analisi pubblicata sul blog della Bce, che rappresenta un attacco frontale alla Repubblica popolare e al suo modello politico.Commercio e libero scambio fanno bene all’economia e al quieto vivere, permettendo rapporti cordiali e prosperità. Questo il credo dietro l’azione dell’Unione europea, a cui ora però, la Bce ‘fa le pulci’. Il risultato è che con il libero scambio senza ‘se’ e senza ‘ma’ è che a rimetterci sono valori, principi e diritti. In sostanza, col troppo libero commercio a rimetterci è la democrazia.La questione di fondo è la seguente: perché il profilo democratico dei partner commerciali europei è diminuito negli ultimi 25 anni? Per la Bce “è possibile che questo sviluppo sia interamente dovuto alla Cina“. Come viene messo in risalto, dopo aver trascorso decenni al di fuori del sistema commerciale internazionale, nel 2001 la Cina è entrata a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. “Dato il punteggio molto basso della Cina” nell’indice commerciale ponderato per la democrazia, “è possibile che il deterioramento osservato nel profilo democratico delle importazioni dell’Ue sia interamente dovuto al commercio dell’UE con questo partner molto influente“, afferma la Bce.I presidenti di Cina e Russia, Xi Jinping e Vladimir Putin, tra i generali durante la parata miliare a Mosca per le celebrazioni della grande vittoria [foto: imagoeconomica]C’è però un problema di fondo che riguarda un più generale deterioramento globale e scelte proprie dell’Unione europea, quella di non isolare governi autoritari e illiberali. “Commerciare con i dittatori equivale a generare profitti per regimi che spesso hanno un’esplicita agenda espansionistica e militarista“, rileva l’analisi della Bce. Decidere di non chiudere le porte a determinati soggetti produce “l’aumento del rischio geopolitico ha implicazioni per tutti gli aspetti dell’ordine economico globale”. Nella lista degli aspetti figurano la politica monetaria, la stabilità finanziaria e i flussi di capitali internazionali, “soprattutto per un’economia aperta come quella europea”. In definitiva, che si tratti della Turchia dell’anti-democratico Erdogan, dell’Israele guidato da un Benjamin Netanyahu accusato di crimini contro l’umanità e o della Russia di Putin, cambia poco: “Questo può potenzialmente diventare una sfida esistenziale per l’Ue”.La Cina può aver giocato un ruolo, ma per l’Ue la sfida “più ovvia” in materia di contratti e accordi commerciali “riguarda la sua reputazione di unione economica e politica basata sui valori”. In tal senso, rileva ancora la Bce, “il declino della qualità della governance democratica del suo partner commerciale medio dal 1999 può essere percepito come incoerente con gli obiettivi di politica commerciale sostenibile dell’Ue, volti al rispetto dei diritti democratici, umani e sociali”. Considerando che negli ultimi 25 anni l’Unione “ha commerciato sempre più con autocrati e dittatori”, questo aspetto “non può essere rivendicato con successo dall’Ue”.

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    INTERVISTA / L’eurodeputata Chloé Ridel (S&D): “L’Ue contrasti la repressione transnazionale”

    Bruxelles – La repressione del dissenso da parte dei regimi autoritari ha molte forme. Oltre al pugno di ferro interno, i governi di diversi Stati stanno aumentando la capacità di colpire anche all’estero, prendendo di mira gli oppositori politici e gli attivisti ben al di là dei propri confini nazionali. Per capire meglio le dinamiche di questo fenomeno, e le carenze legislative nell’Unione europea, Eunews ha fatto alcune domande a Chloé Ridel, eurodeputata del Parti socialiste francese (S&D) e relatrice dell’Aula sul tema. La bozza del suo rapporto è datata 16 giugno e verrà discussa dall’emiciclo nei prossimi mesi.“Si parla di repressione transnazionale quando un governo autoritario agisce al di fuori dei propri confini nazionali per costringere, controllare o mettere a tacere i dissidenti, i difensori dei diritti umani, i giornalisti, gli attivisti, le comunità della diaspora e in generale i propri cittadini all’estero“, ci spiega Ridel. Gli Stati sono i principali responsabili, continua, e “si avvalgono spesso di proxy, che possono essere aziende private, reti criminali o collaboratori nella diaspora”.Nel concreto, per quel che riguarda le modalità di questa repressione, “la tattica più comune è la detenzione” mentre altre tattiche “includono minacce fisiche, sparizioni forzate e rapimenti, spesso finalizzati al rimpatrio forzato, ma anche richieste di estradizione e abuso delle segnalazioni all’Interpol per motivi politici e varie altre forme di pressione amministrativa: divieti di viaggio, rifiuto di documenti di identità e di servizi consolari o bancari” e così via.Recentemente, precisa Ridel, “è in crescita la repressione digitale: sorveglianza online, hacking, utilizzo di spyware, molestie sui social e doxing“, cioè una forma di cyberbullismo che consiste nel diffondere dati privati in rete. Soprattutto, puntualizza, “le donne sono oggetto di violenza di genere online in modo sproporzionato“.Il presidente cinese Xi Jinping (sinistra) e il suo omologo russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Si tratta di un fenomeno in aumento a livello globale, ma una decina di regimi sono responsabili per circa l’80 per cento dei casi: Bielorussia, Cambogia, Cina, Egitto, Iran, Russia, Tagikistan, Turchia, Turkmenistan e Uzbekistan. “Solo nel 2023, almeno 300 difensori dei diritti umani sono stati uccisi” per ordine di questi governi, afferma l’eurodeputata, “nel tentativo di zittirli e fermare il loro lavoro”.Qual è la situazione in Europa? Qui, dice la relatrice, “la mancanza di una definizione giuridica condivisa e la scarsità di dati ufficiali stanno permettendo al fenomeno di crescere ed espandersi, in un contesto globale in cui aumenta il numero dei regimi autoritari”. “Il coordinamento rimane debole” all’interno dell’Unione, lamenta l’europarlamentare, con le disposizioni nazionali che procedono in ordine sparso, “ma speriamo di cambiare questa situazione grazie alla presente relazione“, la prima mai redatta dall’Aula sul tema.Tra i Ventisette, spiega, “solo una manciata di governi ha introdotto disposizioni specifiche per affrontare la repressione transnazionale, e le politiche per tradurle in azioni concrete sono ancora agli inizi”. Alcuni Stati membri (la Germania, la Slovacchia e i Baltici) hanno firmato la Dichiarazione di princìpi per combattere la repressione transnazionale, uno strumento volontario elaborato nel 2023 da Freedom House. In Svezia (così come in altri Paesi extra-Ue come Norvegia e Svizzera), lo spionaggio ai danni dei rifugiati è codificato come un reato penale.In Italia, in particolare, ci segnala “l’arresto, nel 2016, dell’attivista iraniano Mehdi Khosravi sulla base di una segnalazione rossa italiana all’Interpol“. Il Belpaese ha funzionato come centro “di transito e di accoglienza in cui i responsabili di queste violazioni hanno cercato di manipolare la cooperazione dell’Interpol o della polizia locale“, prosegue.In realtà, la lacuna legislativa è ben più ampia del solo Vecchio continente: “Non esiste una definizione giuridica unica a livello internazionale“, ammette Ridel, aggiungendo che “anche l’attuazione è disomogenea”. Ma quali misure urgenti si possono adottare per mitigare il fenomeno in Ue? Per la deputata, ci sono almeno tre cose da fare.Una passa per il “miglioramento dei meccanismi di raccolta, tracciamento e segnalazione dei dati sui casi di repressione”, da realizzarsi attraverso “punti di contatto negli Stati membri e un meccanismo a livello comunitario per raccogliere e tracciare gli incidenti“.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen (foto: Consiglio europeo)A quel punto, “gli Stati membri potrebbero includere la repressione transnazionale nelle loro leggi domestiche e utilizzare tutta la flessibilità consentita dalle loro politiche in materia di visti per proteggere i difensori dei diritti umani”. Senza dimenticare “la formazione dei professionisti“, cioè i dipendenti delle agenzie governative e statali, i fornitori di servizi esterni, gli addetti alla sicurezza informatica, le forze dell’ordine e tutto il personale coinvolto nella gestione dei flussi migratori (incluse le pratiche di estradizione).Secondo, bisogna “ridurre l’uso di segnalazioni Interpol motivate da ragioni politiche“. Questo è un compito per l’Europol, che dovrebbe “sottoporre ad esame approfondito le segnalazioni in arrivo e le richieste di estradizione che coinvolgono difensori dei diritti umani, giornalisti, esponenti dell’opposizione o altre persone a rischio”.Infine, va messa in campo un’azione seria di contrasto alla repressione online. Come? Ad esempio “attuando normative più severe sui facilitatori, tra cui i social media e le industrie che producono spyware“, ci dice Ridel, proponendo un embargo sulla vendita di questi software agli Stati che si rendono responsabili di queste azioni criminose, sanzionando gli operatori che continuano ad esportare verso i Paesi inclusi in un’ipotetica blacklist.“Oggi la tecnologia è una potente arma di oppressione da parte dei regimi autoritari“, ribadisce la relatrice, ma purtroppo “la normativa è molto indietro”. L’esecutivo comunitario dovrebbe aggiornare gli strumenti a sua disposizione, sostiene, e può farlo in vari modi: “Coinvolgendo le piattaforme social e applicando pienamente il Digital services act (Dsa)“, come primo passo, ma anche “mobilitando la società civile e i difensori dei diritti umani per non lasciare spazio alla repressione e promuovere invece un ambiente online libero e sicuro”.

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    Allargamento, Kos: “Balcani occidentali accelerino sulle riforme”

    Bruxelles – I Balcani occidentali si muovono verso l’adesione all’Ue, chi più veloce e chi meno. Almeno a sentire la commissaria all’Allargamento Marta Kos, che ha incontrato i leader dei Paesi candidati per fare il punto sui progressi nell’implementazione delle riforme e promettere un sostegno continuato da parte dell’Unione. Senza dimenticare i nodi politici ancora da sciogliere.Si sono dati appuntamento a Skopje oggi (1 luglio) i leader dei sei candidati all’ingresso in Ue dei Balcani occidentali – Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – per incontrare la responsabile dell’Allargamento dell’esecutivo comunitario, Marta Kos.Con lei hanno fatto il punto sul Piano di crescita da 6 miliardi di euro, il maxi-strumento di investimenti con cui Bruxelles sta incentivando le riforme pre-adesione in cambio della cooperazione in diversi ambiti (ad esempio finanza, trasporti, turismo, connettività digitale) e l’integrazione delle economie regionali nel mercato unico, per accelerare la convergenza socio-economica coi Ventisette. Lo scorso ottobre, la Commissione ha approvato le agende presentate da cinque cancellerie (tutte tranne Sarajevo, che ha finalizzato il suo programma a fine giugno) e ha dato il via agli esborsi per quattro di loro, mentre sono ancora fermi i soldi per Pristina.Happy to be in Skopje for the Western Balkans leaders’ meeting.Good exchange with @MickoskiHM, whom I thanked for hosting tomorrow’s Summit.Our Growth Plan is already improving lives across the region, but we can do more! Tomorrow will be about delivering more & faster. pic.twitter.com/eleDG9pfbw— Marta Kos (@MartaKosEU) June 30, 2025“Vogliamo aiutare tutti voi a tagliare il traguardo“, ha dichiarato Kos rivolta ai leader dei partner regionali radunati nella capitale macedone. “Le riforme fondamentali che vi stiamo chiedendo non sono facili“, ha concesso: “Toccano le strutture di potere esistenti, sfidano gli interessi inveterati e richiedono una trasformazione profonda della società”. Ma vale la pena imbarcarsi in questo percorso, ha garantito, poiché “i benefici dell’appartenenza all’Ue sono molteplici: la stabilità, la sicurezza, la prosperità per tutti i cittadini”.Durante il vertice, Kos ha esortato i suoi interlocutori a premere sull’acceleratore. “C’è un chiaro consenso tra le capitali europee per l’allargamento in questo momento”, ha dichiarato, ma “la finestra d’opportunità potrebbe non rimanere aperta per sempre“. “Avete già fatto molto”, riconosce la commissaria, “e ora è il momento di accelerare sulla fase di implementazione“.Un secondo rapporto del Berlaymont sulle agende di riforma è atteso nel giro di un paio di settimane, ha annunciato. Un dettaglio importante, visto che i fondi europei verranno erogati integralmente solo una volta che le suddette riforme saranno state tradotte in realtà. E visto pure che il tempo stringe, perché il Piano di crescita sarà attivo solo fino al 2027, dopodiché le risorse rimaste inutilizzate riconfluiranno nel bilancio comunitario.Per il momento, a sentire Kos, il quadro generale è incoraggiante. L’Albania ha aperto tre cluster di negoziati (cioè la metà del totale) nell’ultimo semestre e di questo passo, sostiene, “potremmo aprire tutti i cluster entro la fine dell’anno“. Il Montenegro ha chiuso un altro capitolo la scorsa settimana, la Bosnia-Erzegovina ha finalmente consegnato la sua roadmap per le riforme, e anche la Serbia si sta muovendo collocazione internazionale di Belgrado(per quanto rimangano dubbi sulla ). Al premier kosovaro Albin Kurti la responsabile dell’Allargamento ha chiesto “un sacco di energia” per rilanciare il processo di adesione.L’allargamento dell’Ue nella storia (grafica di Eunews)Al padrone di casa, il primo ministro Hristijan Mickoski, Kos ha segnalato la disponibilità di Bruxelles ad aprire i negoziati sul cluster dei fondamentali non appena Skopje avrà apportato l’ennesima modifica alla Costituzione, come richiesto dalla Bulgaria che, in assenza di progressi da parte macedone, continua a mettersi di traverso sull’adesione della nazione balcanica.La commissaria ha sottolineato “l’importanza della fiducia e della comprensione reciproca“, aggiungendo che “non appena la Macedonia del Nord emenderà la propria Costituzione dovremmo procedere immediatamente con la conferenza intergovernativa senza ulteriori condizioni politiche”. Una frecciatina, nemmeno troppo velata, diretta al governo bulgaro, sulla scia di quella già scoccata dal presidente del Consiglio europeo António Costa lo scorso maggio.Ma rispetto all’ottimismo di Kos e alle sue osservazioni sulla tutela dell’identità nazionale (“l’adesione all’Ue è il modo migliore” per salvaguardarla, dice la commissaria), Mickoski preferisce mantenersi “cauto”. “Negli ultimi tre decenni abbiamo perso molti pezzi della nostra identità, cambiando la nostra bandiera e la Costituzione in diverse occasioni”, lamenta il premier nazionalista, e ora “non abbiamo alcuna garanzia che questa sarà l’ultima concessione che dovremo fare” per disinnescare il veto di Sofia.

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    L’Armenia verso la liberalizzazione dei visti con l’Ue (ma sempre all’ombra di Mosca)

    Bruxelles – L’Ue e l’Armenia “non sono mai state così vicine”. È il messaggio di speranza consegnato dall’Alta rappresentante Kaja Kallas a Yerevan, dove ha condotto una visita di due giorni conclusasi oggi. Il Paese caucasico sta cercando di abbandonare l’orbita russa e di entrare in quella europea, ma il cammino da fare è ancora lungo. E passa per la normalizzazione dei rapporti col vicino Azerbaigian dopo decenni di guerra, nonché per la difesa dalle “minacce ibride” russe.Parlando accanto al suo omologo armeno Ararat Mirzoyan, il capo della diplomazia a dodici stelle ha annunciato ieri (30 giugno) che la Commissione europea ha “adottato la sua proposta per il piano d’azione per la liberalizzazione dei visti” coi Ventisette, un primo passo simbolico per continuare ad accorciare le distanze tra Yerevan e Bruxelles.Un passo richiesto a gran voce dallo stesso premier armeno Nikol Pashinyan, il cui governo a gennaio ha iniziato a muoversi nella direzione dell’adesione all’Ue, ottenendo lo scorso marzo il via libera del Parlamento nazionale. Nei prossimi mesi la popolazione dovrebbe esprimersi sulla questione tramite referendum.It was a great pleasure to welcome HR/VP @kajakallas to Yerevan both for a very timely & symbolic visit, with an enhanced agenda & important deliverables.We share the vision of deeper partnership & stronger engagement for more resilient democracy & peace. pic.twitter.com/7B4zlgfKzA— Ararat Mirzoyan (@AraratMirzoyan) June 30, 2025“L’Ue e l’Armenia non sono mai state così vicine, avete lanciato il processo di adesione all’Ue, e diamo il benvenuto alla vostra intenzione di approfondire la nostra partnership“, si è congratulata Kallas. L’Alta rappresentante ha svelato anche l’imminente lancio di un nuovo partenariato e l’avvio del piano di resilienza e crescita per il 2024-2027 da circa 270 milioni di euro (messo sul tavolo nell’aprile 2024), nonché la partecipazione dell’Armenia alle missioni Ue nel mondo.Il supporto di Bruxelles alla fragile democrazia caucasica comprende anche, tra le altre cose, il finanziamento dei media indipendenti, il sostegno agli sfollati del Nagorno-Karabakh – una provincia separatista dell’Azerbaigian a maggioranza armena, al centro di un conflitto decennale con Baku conclusosi nell’autunno 2023 con la riconquista dell’exclave armena da parte dell’esercito azero – e la cooperazione militare coi Ventisette.Ma il percorso di Yerevan verso l’ingresso in Ue è ancora lungo, accidentato e tutto in salita. C’è molto da fare a livello domestico per allineare l’Armenia all’acquis communautaire, il corpo giuridico dell’Unione cui tutti i Paesi candidati devono conformarsi in qualunque ambito, dall’energia al commercio passando per lo Stato di diritto.Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan (foto: Leon Nea/Afp)Poi c’è la politica estera e di sicurezza. Sul Paese guidato da Pashinyan pendono almeno due grosse spade di Damocle, rappresentate dai rapporti con l’Azerbaigian e con la Russia. A detta di Mirzoyan, i colloqui per la normalizzazione con Baku stanno procedendo. L’obiettivo è la firma di un trattato di pace il prima possibile, magari entro la fine dell’anno.Bruxelles “sostiene” il processo, ha ribadito Kallas, che deve basarsi sul “rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’inviolabilità dei confini”. Lo sostiene anche, o forse soprattutto, “dal punto di vista dei progetti di connettività verso l’Asia Centrale“, cioè quelli recentemente messi nero su bianco dall’esecutivo comunitario con la Strategia per il Mar Nero che vede coinvolte, appunto, sia Baku sia Yerevan.Potrebbero essere ancora più problematici, invece, i legami con Mosca. La Federazione è l’alleato storico dell’Armenia (un’ex repubblica sovietica ancora dipendente dalla Russia soprattutto per le esportazioni e per l’approvvigionamento energetico), ma da tempo Pashinyan sta cercando di sganciare Yerevan dal Cremlino e di collocarla nell’orbita occidentale.Il presidente russo Vladimir Putin (foto: Vyacheslav Prokofyev/Sputnik via Afp)Soprattutto dopo che l’esercito russo non è intervenuto in Nagorno-Karabakh al fianco dei separatisti armeni, come avrebbe dovuto fare in base agli obblighi del trattato di difesa collettiva (Csto) di cui fanno parte diversi ex membri dell’Urss. Dal febbraio 2024, il Paese caucasico ha di fatto congelato la propria partecipazione nell’alleanza militare, annunciando di volerla abbandonare al più presto.Anche per questo, Kallas ha esortato il suo omologo a non abbassare la guardia e tenere d’occhio le “minacce ibride” poste dall’ingombrante vicino russo, incluse la disinformazione e le ingerenze del Cremlino nell’intera regione, come visto nei processi elettorali e politici in diversi Paesi dalla Georgia alla Moldova e fino alla Romania.Mirzoyan ha recepito il messaggio, ingiungendo a Mosca di tenersi alla larga dalle vicende domestiche dell’Armenia. A partire dall’arresto dell’arcivescovo Bagrat Galstanyan, figura di spicco della Chiesa apostolica armena e leader dell’opposizione antigovernativa, per il suo presunto coinvolgimento in un tentativo di colpo di Stato che Yerevan non esclude possa essere sostenuto proprio dal Cremlino.

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    Al via la quarta Conferenza sugli aiuti allo sviluppo: tutti gli occhi sull’Ue dopo il ritiro degli Stati Uniti

    Bruxelles – Il deficit di finanziamenti per lo sviluppo tocca già i 4 mila miliardi di dollari all’anno. Prima del ritiro degli Stati Uniti dalla corsa – ormai compromessa – verso gli obiettivi stilati dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030. La Conferenza dell’Onu che si apre oggi (30 giugno) a Siviglia, è un’ultima chiamata per i circa 70 leader ospiti di Pedro Sanchez. A rispondere, in prima linea, deve essere l’Unione europea, da cui provengono il 42 per cento degli aiuti globali: “Il nostro impegno è destinato a durare”, ha garantito Ursula von der Leyen.A 23 anni dalla prima Conferenza sul finanziamento dello sviluppo, a Monterrey, l’ottimismo di inizio millennio sembra svanito. L’architettura su cui poggiava lo sforzo globale per ricucire la distanza tra i potenti del mondo e i paesi più svantaggiati è crollata. Come certificato dal taglio dell’ammnistrazione Trump all’83 per cento dei finanziamenti ai programmi all’estero di Usaid, l’agenzia statunitense per lo sviluppo. A Siviglia, si cerca un nuovo slancio: nel documento finale, il ‘Compromiso de Sevilla’, si affrontano il debito crescente e il calo degli investimenti, la crisi dei finanziamenti e le difficoltà nel raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile. L’accordo sul testo è stato raggiunto nonostante le profonde divisioni su diverse questioni, culminate con la decisione degli Stati Uniti di ritirarsi completamente dal processo.Pedro Sánchez, Ursula Von der Leyen, Antonio Guterres [Credit: Eu Commission]Nel 2024, Gli aiuti allo sviluppo in tutto il mondo ammontavano a poco più di 200 miliardi di dollari. “Il divario di investimenti annuali rispetto agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile è pari a migliaia di miliardi di dollari”, ha constatato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento alla Conferenza. Quasi la metà proviene dal vecchio continente, circa 96 miliardi. “Allo stesso tempo, è positivo che nuovi donatori stiano ora intensificando il loro impegno”, ha continuato la leader Ue. La strategia di Bruxelles, per portare più Paesi a bordo, è quella di “unire le forze e istituire programmi di investimento congiunti“, come fatto di recente con l’India.Sul tavolo c’è inoltre l’implementazione dell’accordo, siglato nell’ottobre 2021, con cui 136 Paesi hanno concordato di imporre un’imposta minima del 15 per cento alle multinazionali con oltre 750 milioni di euro di fatturato. L’Unione europea ha trasposto l’accordo in una direttiva e gli Stati membri sono stati chiamati ad adeguarsi dal 31 dicembre 2023. Trump, anche su questo campo, ha ritirato gli Stati Uniti dai negoziati nel febbraio 2025. La Cina sta attuando con estrema lentezza i termini dell’accordo. “Dobbiamo dare attuazione all’accordo sulle norme internazionali in materia di tassazione delle imprese”, ha incalzato von der Leyen, non solo perché “ciò rafforzerà le entrate delle economie in via di sviluppo”, ma anche “per una questione di equità“.Ma anche l’Unione europea ha tradito l’accordo mediato nel 2021 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico: in piena guerra commerciale con Washington, di fronte alle minacce di ritorsione da parte di Trump, i membri del G7 hanno concordato questo fine settimana di esentare le multinazionali statunitensi dall’applicazione dell’aliquota. Nella dichiarazione diffusa dalla presidenza canadese del G7, si indica la creazione di “un sistema parallelo” che esclude le aziende statunitensi dalle norme fiscali minime e “facilita ulteriori progressi per stabilizzare il sistema fiscale internazionale”.Il grande tema, sottolineato anche dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, è l’urgenza di “riformare il sistema finanziario internazionale”, giudicato da alcuni “obsoleto” e “disfunzionale”. Deve essere “più inclusivo, efficace e rappresentativo“, gli ha fatto eco il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa. Di fronte agli altri leader e 4 mila esponenti della società civile e di organizzazioni internazionali, Costa ha concluso: “Il multilateralismo non sta attraversando il suo momento migliore, è vero. Ma resiste ed è vivo. Oggi, qui, lo stiamo dimostrando”.

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    Ucraina, l’Ue rinnova le sanzioni contro la Russia

    Bruxelles – Come da programma, l’Ue ha esteso per altri sei mesi le sanzioni già in piedi contro la Russia. Dopo l’accordo politico raggiunto dai leader dei Ventisette al vertice della scorsa settimana (26 giugno) e il passaggio tra gli ambasciatori al Coreper di venerdì, stamattina è arrivato il via libera formale da parte del Consiglio Affari esteri, tramite procedura scritta. Nessuno si è messo di traverso, nemmeno Ungheria e Slovacchia.In questo modo, l’Unione rinnova per altri sei mesi i 17 pacchetti di sanzioni settoriali e contro individui ed entità specifiche, comminati contro Mosca dal febbraio 2022, quando è cominciata l’invasione su larga scala dell’Ucraina. La scadenza sarebbe stata il prossimo 31 luglio. Le misure dovranno ora essere rinnovate dagli Stati membri entro il 31 gennaio 2026.Russia’s war of aggression against Ukraine : @EUCouncil renews economic sanctions until ️ 31 Jan. 2026.It is appropriate to maintain in force all EU measures as long as Russia’s illegal actions continue to violate the prohibition on the use of force.— EU Council Press (@EUCouncilPress) June 30, 2025Col rinnovo odierno vengono mantenuti congelati anche i circa 210 miliardi di euro in asset della Banca centrale russa immobilizzati da Euroclear negli istituti sotto la giurisdizione dell’Ue, nell’attesa di capire cosa farne (ci sono ancora molti dubbi sulla legalità – e l’opportunità politica – della confisca diretta dei beni in questione, oltre a quella degli extraprofitti da essi generati).Nel frattempo, da settimane a Bruxelles si lavora per confezionare il 18esimo pacchetto, che dovrebbe colpire ancora più duramente la flotta ombra del Cremlino e le esportazioni energetiche della Federazione. Stando a fonti comunitarie, la Commissione lo metterà formalmente sul tavolo degli Stati membri solo dopo un bilaterale tra Ursula von der Leyen e il premier slovacco Robert Fico (preoccupato per i rifornimenti di gas russo di Bratislava), atteso per i prossimi giorni.Molto più incerto, invece, il destino della misura che l’esecutivo Ue voleva mettere al centro del nuovo round di misure restrittive: l’abbassamento del price cap sul greggio russo. Trattandosi di una decisione presa in ambito G7, servirebbe l’ok degli altri partner del gruppo per renderla realtà. Ma su questo punto c’è scetticismo nella Casa Bianca di Donald Trump, come pure tra gli stessi Ventisette.

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    Orbán si sfila, l’Ue rinnova i 17 pacchetti di sanzioni alla Russia per altri sei mesi

    Bruxelles – Alla fine è andato tutto liscio, e le sanzioni che l’Unione europea ha imposto alla Russia negli ultimi tre anni resteranno in vigore. Più liscio del previsto, perché il preventivato scontro con il primo ministro ungherese, VIktor Orbán, non c’è stato. L’accordo politico sulla proroga dei 17 pacchetti di sanzioni per altri sei mesi è arrivato, un po’ a sorpresa, in tarda serata, allo scadere del Consiglio europeo di ieri (26 giugno).Lo scorso gennaio, l’ultima volta che i 27 avevano dovuto ripetere l’esercizio di proroga semestrale delle misure restrittive contro Mosca, Budapest aveva tenuto tutti col fiato sospeso fino all’ultimo minuto, per poi farsi da parte e consentire il via libera all’unanimità. Lasciando però intendere che avrebbe potuto mettersi di traverso in futuro. Ma Orbán guarda a Washington, e in questo momento Trump non solo non sembra intenzionato a sospendere le sanzioni imposte a livello di G7, ma ha chiesto che sia l’Europa a insistere ulteriormente. Il premier magiaro “non ha la sponda degli Stati Uniti“, afferma una fonte diplomatica.E infatti, incalzato dal presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, il leader sovranista non ha sollevato obiezioni. L’Ue assicura così i 17 pacchetti già in vigore mentre cerca l’accordo – sempre con l’Ungheria – sul diciottesimo. Dopo l’endorsement politico dei capi di stato e di governo, oggi gli ambasciatori degli Stati membri avvieranno le procedura per il rinnovo delle sanzioni, in vista dell’adozione formale in agenda già lunedì 30 giugno. Ben in anticipo rispetto alla scadenza del 31 luglio, che avrebbe decretato la cancellazione di un’ampia gamma di misure settoriali, tra cui restrizioni in materia di scambi, finanza, energia, tecnologia e beni a duplice uso civile/militare, industria, trasporti e beni di lusso.Le sanzioni economiche comportano inoltre il divieto di importazione o trasferimento di petrolio per via marittima dalla Russia all’Ue e l’esclusione dal sistema SWIFT di diverse banche russe. Senza una proroga, andrebbero in fumo i circa 210 miliardi di euro di attività della Banca centrale russa congelati da Bruxelles.