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    Per la Corte dell’Aia le condizioni a Gaza stanno precipitando, Israele deve “garantire aiuti umanitari senza restrizioni”

    Bruxelles – La popolazione di Gaza non sta più affrontando soltanto il rischio di carestia, ma “la carestia è già in atto“. Ne ha preso atto la Corte di Giustizia Internazionale, che ha aggiornato la lista di misure provvisorie imposte a Israele lo scorso 26 gennaio per prevenire possibili crimini di genocidio contro i palestinesi della Striscia. Tel Aviv dovrà “garantire senza indugi la fornitura senza ostacoli e su larga scala dell’assistenza umanitaria urgentemente necessaria”.Gli ultimi numeri registrati dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti umanitari (Ocha-Opt) sono agghiaccianti: almeno 31 persone, tra cui 27 bambini, sono già morte per malnutrizione e disidratazione. Al Tribunale dell’Aia insistono quindi che le autorità israeliane debbano “aumentare la capacità e il numero dei valichi terrestri e mantenerli aperti per tutto il tempo necessario”, per permettere l’ingresso di “cibo, acqua, elettricità, combustibile, riparo, abbigliamento, igiene e servizi igienici, oltre a forniture e assistenza medica ai palestinesi di tutta Gaza”.

    Il collegio di magistrati che si occupa del caso di possibile genocidio a Gaza [Photograph: UN Photo/ICJ-CIJ/Frank van Beek]Con un’unica defezione dell’ex presidente della Corte suprema israeliana, Aharon Barak, il collegio di 15 magistrati che si sta occupando del caso sul rischio di genocidio a Gaza sollevato dal Sudafrica ha ordinato inoltre a Israele di “garantire con effetto immediato che i suoi militari non commettano atti che costituiscano una violazione dei diritti dei palestinesi di Gaza, in quanto gruppo protetto dalla Convenzione sul genocidio”. Tra cui il deliberato impedimento alla consegna degli aiuti.Dal primo verdetto della Corte che chiedeva a Israele di “adottare tutte le misure necessarie per impedire un genocidio a Gaza” sono passati due mesi. Lo Stato ebraico, il 26 febbraio scorso (il mese successivo), ha inviato all’Aia un rapporto in cui illustrava le azioni intraprese per proteggere la popolazione civile. Ma nell’aggiornamento delle misure richiesto ieri, la Corte non ha potuto far altro che “osservare con rammarico che, da allora, le condizioni di vita catastrofiche dei palestinesi nella Striscia di Gaza si sono ulteriormente deteriorate, in particolare alla luce della prolungata e diffusa privazione di cibo e di altri beni di prima necessità”. Dal 26 gennaio inoltre le operazioni militari israeliane avrebbero causato oltre 6.600 vittime e quasi 11.000 feriti in più. Portando il bilancio complessivo delle vittime a oltre 32.400 e quello dei feriti a quasi 75 mila.Israele ha ribadito che esiste “un’ampia registrazione di sforzi israeliani in ambito umanitario per alleviare le sofferenze della popolazione civile in generale e per affrontare la sfida dell’insicurezza alimentare in particolare”. E ha respinto “con la massima fermezza” le accuse del Sudafrica secondo cui la fame a Gaza sia il risultato diretto di “azioni e omissioni deliberate”.La Corte Onu ha concesso ora un altro mese a Tel Aviv per presentare un nuovo rapporto in cui dia conto delle misure prese per attuare l’ordine e scongiurare così il diffondersi della carestia. Ma i giudici dell’Aia sono consapevoli “che vi è urgenza”, nel senso che “esiste un rischio reale e imminente che tale danno ai diritti plausibili rivendicati dal Sudafrica sia causato prima che la Corte di pronunci in via definitiva sul caso”.

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    La raccomandazione sul Kosovo nel Consiglio d’Europa torna a esacerbare i rapporti con la Serbia

    Bruxelles – Meno di un mese e il Consiglio d’Europa potrebbe tornare a contare 47 membri. Oppure ancora 46, con una nuova adesione e la seconda defezione in tre anni. Dopo la raccomandazione positiva della Commissione per gli affari politici e la democrazia dell’Assemblea parlamentare a Strasburgo, la sessione plenaria si riunirà il 18 aprile per votare sull’invito al Kosovo a diventare membro del Consiglio d’Europa. L’ultimo passo prima della conta dei voti tra i 46 Paesi membri dell’organizzazione internazionale per i diritti umani, che sta continuando a esacerbare i rapporti con la Serbia (in violazione degli accordi assunti da Belgrado nell’ambito del dialogo Pristina-Belgrado facilitato dall’Ue).Dopo il via libera dal Comitato dei Ministri alla richiesta di Pristina di diventare il 47esimo membro del Consiglio d’Europa (presentata il 12 maggio 2022), la relazione a firma della greca Dora Bakoyannis ha accolto con favore “un ampio elenco di impegni presi per iscritto dalle autorità kosovare”, sottolineando che l’adesione “porterebbe al rafforzamento degli standard dei diritti umani garantendo l’accesso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a tutti coloro che sono sotto la giurisdizione del Kosovo”. Anche a seconda dell’esito del voto del 18 aprile, sarà poi il Comitato dei Ministri a pronunciarsi definitivamente a maggio. Non passa inosservato dalle motivazioni della Commissione il deterioramento dell’ultimo anno della situazione di sicurezza nel nord del Paese: “Il rischio di violenza aperta in Kosovo è fin troppo reale“, dal momento in cui dipende dalla “protezione dei diritti della comunità serba, dalla riduzione delle tensioni e dalla normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia”. Per questo motivo nella relazione compare la richiesta di un “impegno post-adesione” per Pristina di istituire l’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo, a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative.La relazione è passata ieri (27 marzo) con 31 voti a favore, 4 contrari (due rappresentanti della Serbia, più Montenegro e Bosnia ed Erzegovina) e 1 astensione (Grecia), ma ha comunque evidenziato le “circostanze senza precedenti” della candidatura – dal momento in cui diversi Stati membri del Consiglio d’Europa non riconoscono il Kosovo come Stato sovrano (tra cui Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna tra quelli Ue) – e ha invitato il Comitato dei Ministri a garantire che l’adesione “non pregiudichi le posizioni dei singoli Stati membri in merito alla statualità del Kosovo”. Questo non ha però evitato di scatenare di nuovo le ire di Belgrado, che ha definito “vergognosa e scandalosa” la decisione di Strasburgo secondo le parole del primo ministro ad interim, Ivica Dačić. Nei giorni scorsi sia il presidente serbo, Aleksandar Vučić, sia l’ex-premier e oggi presidente del Parlamento, Ana Brnabić, hanno minacciato che un ingresso del Kosovo nel Consiglio d’Europa potrebbe implicare un’uscita della Serbia. Un ricatto che, ancora una volta, è in violazione del punto 4 dell’accordo di Bruxelles del 27 febbraio 2023 sulla normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi: “La Serbia non si opporrà all’adesione del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale“.In ogni caso le possibilità per l’adesione di Pristina all’organizzazione internazionale (che non è tra le istituzioni dell’Unione Europea) sono aumentate dopo l’espulsione/uscita della Federazione Russa, arrivata a seguito della decisione del Comitato dei Ministri del 16 marzo 2022 per l’invasione dell’Ucraina. Mosca è uno degli alleati più stretti della Serbia, in particolare sulla controversia diplomatica con il Kosovo indipendente, e anche al Consiglio d’Europa ha contribuito a tenere in stallo la questione dell’adesione di Pristina. Secondo l’articolo 4 dello Statuto, “ogni Stato europeo che sia ritenuto in grado e disposto ad adempiere alle disposizioni dell’articolo 3 [accettare i principi dello Stato di diritto e del godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ndr] può essere invitato a diventare membro del Consiglio d’Europa dal Comitato dei Ministri”.Le tensioni tra Kosovo e SerbiaA soli due mesi dall’intesa di Ohrid, il 26 maggio è andato in scena il primo evento che ha aperto uno degli anni più difficili e violenti per le relazioni tra Serbia e Kosovo. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica sono scoppiate violentissime proteste, trasformatesi il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato. La tensione è deflagrata per la decisione del governo di Albin Kurti di far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa per la bassissima affluenza al voto.

    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)Nel frattempo il 14 giugno è andato in scena un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine. Bruxelles ha convocato una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per uscire dalla “modalità gestione della crisi” e solo il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari. Ma a causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo (ancora in atto, nonostante la tabella di marcia concordata il 12 luglio). La situazione è però degenerata con l’attacco terroristico del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska. Nella giornata di scontri tra la Polizia del Kosovo e un gruppo di una trentina di uomini armati sono rimasti uccisi un poliziotto e tre attentatori.Gli sviluppi dell’attentato hanno evidenziato chiare diramazioni nella vicina Serbia. Tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska – come confermato da lui stesso qualche giorno dopo l’attacco armato – oltre a Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. A peggiorare il quadro un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo denunciato dagli Stati Uniti. La minaccia non si è concretizzata, ma l’Ue ha iniziato a riflettere sulla possibilità di imporre le stesse misure in vigore contro Pristina anche ai danni di Belgrado. Ma per il via libera serve l’unanimità in Consiglio e il più stretto alleato di Vučić dentro l’Unione – il premier ungherese, Viktor Orbán – ha posto il veto. Come se non bastasse, prima delle elezioni anticipate in Serbia il 17 dicembre, l’ultimo atto del governo guidato da Ana Brnabić è stato inviare una lettera a Bruxelles per avvertire che le istituzioni serbe non riconoscono il valore giuridico degli impegni verbali presi nel contesto del dialogo Pristina-Belgrado e che non sarà riconosciuta nemmeno de facto la sovranità del Kosovo.

    (credits: Armen Nimani / Afp)L’unica notizia positiva al momento è la risoluzione della ‘battaglia delle targhe’ tra Serbia e Kosovo, grazie alla decisione arrivata tra fine 2023 e inizio 2024 sul mutuo riconoscimento per i veicoli in ingresso alla frontiera. Anche considerati i presupposti non promettenti su cui si sta impostando il nuovo anno. Con l’entrata in vigore del Regolamento sulla trasparenza e stabilità dei flussi finanziari e sulla lotta al riciclaggio di denaro e alla contraffazione, dal primo febbraio l’euro è diventato l’unica valuta di cambio e di deposito nei conti bancari: il dinaro serbo può ancora essere scambiato al pari del lek albanese o del dollaro, ma la decisione avrà un impatto su tutti quei servizi pubblici che non si mai adeguati all’adozione dell’euro da parte di Pristina nel 2002 (ancora prima dell’indipendenza). Il 5 febbraio hanno sollevato polemiche a Bruxelles le operazioni di polizia speciale presso gli uffici delle istituzioni temporanee gestite dalla Serbia in quattro comuni del nord del Kosovo (Dragash, Pejë, Istog e Klinë) e presso la sede dell’Ong Center For Peace and Tolerance a Pristina: dal 2008 Belgrado ha continuato a finanziare comuni, aziende, imprese pubbliche, asili, scuole, università pubbliche e ospedali a disposizione della minoranza serba, in modo illegale secondo la Costituzione del Kosovo.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Borrell: “Niente affari con chi viola diritti umani nei territori palestinesi”

    Bruxelles – Non si fanno affari con gli israeliani che violano i diritti umani nei territori palestinesi. L’Unione europea su questo non transige, e chiede agli Stati membri di fare in modo che le aziende nazionali rispettino quelli che sono principi delle Nazioni Unite. E’ l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, nella risposta a un’interrogazione in materia, a prendere posizione e soprattutto, le distanze dalle politiche del governo di Benjamin Netanyahu. Intanto ribadendo un volta di più la “forte opposizione alla politica e alle attività di insediamento di Israele“.Ma è sul fronte commerciale che Borrell si esprime in modo ancora più chiaro. Ci sono principi guida su imprese e diritti umani, approvati all’unanimità dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, ricorda l’Alto rappresentante. Principi che stabiliscono la responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani e impongono alle imprese, tra l’altro, di istituire un processo di condotta etica (due diligence) sui diritti umani per identificare , prevenire, mitigare e rendere conto del modo in cui affrontano il loro impatto sui diritti umani. “L’Ue ha accolto con favore” tutto questo e a Bruxelles si ritiene che “questi principi debbano essere applicati a livello globale“, scandisce ancora Borrell. Per questo motivo “l’Unione europea invita tutte le aziende, comprese quelle europee, ad attuarle in ogni circostanza, anche in Israele e nei territori palestinesi occupati“. La Commissione non ha il potere di imporre alla imprese politiche di business, ed è per questo motivo che si farà pressione sui governi affinché le imprese dei Ventisette si astengano dal sostenere un modello economico considerato lesivo dei diritti fondamentali del popolo palestinese. “Gli Stati membri hanno il ruolo primario di informare aziende e consumatori sulle imprese, sui diritti umani e sui rischi derivanti dall’operare negli insediamenti”, ricorda Borrell. Pronto a fare tutto il possibile perché gli europei non sconfessino sé stessi, come già denunciato dall’ambasciatore dell’Autorità palestinese a Bruxelles.

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    L’Ue cerca ancora una via d’uscita alla crisi Pristina-Belgrado sull’uso esclusivo dell’euro in Kosovo

    Bruxelles – Quando si avvicina la fine del periodo di transizione per l’utilizzo esclusivo dell’euro in Kosovo per i pagamenti ufficiali, la crisi tra Pristina e Belgrado sull’ennesima questione che ha esacerbato i rapporti non ha ancora trovato una soluzione. L’Unione Europea, attraverso il suo rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, sta cercando di spingere per cercare una via d’uscita – dopo aver espresso a inizio anno “preoccupazioni” per l’impatto sulla comunità serba in Kosovo – ma per il momento non sembra esserci alcun passo in avanti da parte dei due governi per rimettere il dialogo sui giusti binari.

    La riunione tra i capi-negoziatori di Serbia e Kosovo a Bruxelles nell’ambito del dialogo Pristina-Belgrado mediato dal rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák (25 marzo 2024)“Le nostre lunghe discussioni hanno contribuito a chiarire dettagli importanti, la prossima settimana abbiamo concordato di riunirci nuovamente con l’ambizione di trovare una soluzione“, è quanto reso noto ieri (25 marzo) dallo stesso rappresentante speciale Ue al termine della riunione con i capi-negoziatori di Serbia e Kosovo (rispettivamente Petar Petković e Besnik Bislimi). Lajčák non rinuncia a una visione ottimistica del dialogo Pristina-Belgrado, anche se a un anno dall’accordo di Ohrid c’è molto poco per cui esultare anche per quanto riguarda il confronto sulle “proposte su come procedere per le persone interessate dal Regolamento della Banca centrale del Kosovo sulle operazioni in contanti”.Con l’entrata in vigore del Regolamento sulla trasparenza e stabilità dei flussi finanziari e sulla lotta al riciclaggio di denaro e alla contraffazione, dal primo febbraio l’euro è diventato l’unica valuta di cambio e di deposito nei conti bancari: il dinaro serbo può ancora essere scambiato al pari del lek albanese o del dollaro per le transazioni private, ma la decisione avrà un impatto su tutti quei servizi pubblici che non si sono mai adeguati all’adozione dell’euro da parte di Pristina nel 2002 (ancora prima dell’indipendenza). Per permettere alla minoranza serba nel nord del Paese di adattarsi alle nuove disposizioni, il governo di Albin Kurti ha definito un periodo di transizione di tre mesi per l’entrata in vigore delle regole, ha offerto conti bancari in euro gratuiti e ha previsto facilitazioni alla Banca Nazionale di Serbia per la conversione dei dinari in euro. Ma da Belgrado l’unica risposta – oltre al non-riconoscimento della sovranità di Pristina – riguarda la necessità di creare l’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo, ovvero la comunità nel Paese a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative (inclusa l’operatività della Banca, della Cassa di risparmio e delle Poste serbe).Un anno di escalation tra Kosovo e SerbiaSono passati dieci mesi da quando il 26 maggio 2023 è andato in scena il primo evento che ha aperto uno degli anni più difficili e violenti per le relazioni tra Serbia e Kosovo. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica sono scoppiate violentissime proteste, trasformatesi il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato. La tensione è deflagrata per la decisione del governo Kurti di far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa per la bassissima affluenza al voto.

    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)Nel frattempo il 14 giugno è andato in scena un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine. Bruxelles ha convocato una riunione d’emergenza con il premier kosovaro Kurti e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, per uscire dalla “modalità gestione della crisi” e solo il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari. Ma a causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo (ancora in atto, nonostante la tabella di marcia concordata il 12 luglio). La situazione è però degenerata con l’attacco terroristico del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska. Nella giornata di scontri tra la Polizia del Kosovo e un gruppo di una trentina di uomini armati sono rimasti uccisi un poliziotto e tre attentatori.Gli sviluppi dell’attentato hanno evidenziato chiare diramazioni nella vicina Serbia. Tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska – come confermato da lui stesso qualche giorno dopo l’attacco armato – oltre a Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. A peggiorare il quadro un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo denunciato dagli Stati Uniti. La minaccia non si è concretizzata, ma l’Ue ha iniziato a riflettere sulla possibilità di imporre le stesse misure in vigore contro Pristina anche ai danni di Belgrado. Ma per il via libera serve l’unanimità in Consiglio e il più stretto alleato di Vučić dentro l’Unione – il premier ungherese, Viktor Orbán – ha posto il veto. Come se non bastasse, prima delle elezioni anticipate in Serbia il 17 dicembre, l’ultimo atto del governo guidato da Ana Brnabić è stato inviare una lettera a Bruxelles per avvertire che le istituzioni serbe non riconoscono il valore giuridico degli impegni verbali presi nel contesto del dialogo Pristina-Belgrado e che non sarà riconosciuta nemmeno de facto la sovranità del Kosovo.

    L’unica notizia positiva al momento è la risoluzione della ‘battaglia delle targhe’ tra Serbia e Kosovo, grazie alla decisione arrivata tra fine 2023 e inizio 2024 sul mutuo riconoscimento per i veicoli in ingresso alla frontiera. Anche considerati i presupposti non promettenti su cui si sta impostando il nuovo anno. Oltre all’entrata in vigore del Regolamento sulla trasparenza e stabilità dei flussi finanziari, il 5 febbraio hanno sollevato polemiche a Bruxelles le operazioni di polizia speciale presso gli uffici delle istituzioni temporanee gestite dalla Serbia in quattro comuni del nord del Kosovo (Dragash, Pejë, Istog e Klinë) e presso la sede dell’Ong Center For Peace and Tolerance a Pristina: dal 2008 Belgrado ha continuato a finanziare comuni, aziende, imprese pubbliche, asili, scuole, università pubbliche e ospedali a disposizione della minoranza serba, in modo illegale secondo la Costituzione del Kosovo.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Didier Reynders correrà per il ruolo di segretario generale del Consiglio d’Europa

    Bruxelles – Il commissario Ue per la giustizia ed ex ministro delle finanze belga, Didier Reynders, punta alla guida del Consiglio d’Europa. L’annuncio della conferma della candidatura arriva direttamente da Strasburgo, sede dell’organizzazione per la tutela dei diritti umani. Per la nomina a Segretario generale, con effetto dal 18 settembre 2024, Reynders se la vedrà con l’ex presidente svizzero Alain Berset e l’ex ministro della cultura estone Indrek Saar.L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, composta da 306 membri, procederà all’elezione durante la sessione dal 24 al 28 giugno. La leadership dell’organizzazione è un vecchio pallino del liberale belga (che ha ricevuto l’appoggio del suo governo): scelto dal Comitato ministeriale come candidato anche nel 2019, era stato sconfitto dalla politica croata e attuale segretaria generale, Marija Pejčinović Burić.Il Consiglio d’Europa è un’organizzazione composta da 46 Paesi membri, tra cui i 27 dell’Ue, e non è un’istituzione dell’Unione europea. Il suo Segretario generale viene scelto dall’Assemblea consultiva su raccomandazione del Comitato ministeriale, l’organo composto dai ministri degli Esteri degli Stati membri.

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    Gli Usa si fanno da parte e il Consiglio di sicurezza Onu chiede un cessate il fuoco immediato a Gaza. Esulta anche l’Ue

    Bruxelles – Dopo mesi di veti incrociati – soprattutto tra i tre grandi, Stati Uniti, Russia e Cina – il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato per la prima volta una risoluzione che chiede un cessate il fuoco immediato a Gaza. A farsi da parte Washington, che si è astenuta, mentre gli altri 14 membri hanno votato a favore. Un appello che va oltre quello per una “pausa umanitaria immediata che porti a un cessate il fuoco sostenibile” uscito dal Consiglio europeo del 21-22 marzo. I leader Ue però esultano e chiedono ora “un’attuazione urgente”.La risoluzione prevede un cessate il fuoco per il periodo del Ramadan, cominciato già il 10 marzo e che si concluderà tra il 9 e il 10 aprile. Contemporaneamente prevede la liberazione immediata di tutti gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e invita Israele a fare di più per facilitare l’ingresso massivo di aiuti umanitari nella Striscia. “L’attuazione di questa risoluzione è vitale per la protezione di tutti i civili”, ha commentato su X la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. A cui hanno fatto eco gli altri tenori della politica estera del blocco, Charles Michel e Josep Borrell, secondo cui la risoluzione “necessita di un’attuazione urgente da parte di tutti”.Nell’organo internazionale più autorevole, l’unico che può prendere decisioni che sulla carta sono vincolanti per tutti i Paesi membri dell’Onu, ci sono attualmente tre Paesi dell’Ue: la Francia – che è membro permanente -, la Slovenia e Malta. Tutti e tre hanno appoggiato la risoluzione proposta in modo congiunto dai dieci membri a rotazione. Proprio la Francia, subito dopo l’approvazione del testo, ha annunciato di essere al lavoro su una nuova risoluzione per arrivare a un cessate il fuoco permanente a Gaza dopo il Ramadan.Decisiva è stata l’astensione degli Stati Uniti, che ha mandato su tutte le furie il gabinetto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Una decisione che “danneggia lo sforzo bellico di Israele“, commentano da Tel Aviv. Che ha immediatamente cancellato la visita di una delegazione israeliana prevista per i prossimi giorni a Washington.

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    I leader Ue chiedono una “pausa umanitaria immediata” a Gaza

    Bruxelles – I capi di stato e di governo dell’Ue trovano un linguaggio comune sulla “tragedia umanitaria” a Gaza. È già una notizia, perché non succedeva dal 26 ottobre, neanche tre settimane dopo l’inizio del conflitto tra Israele e Hamas. A distanza di cinque mesi, quell’appello a “corridoi o pause umanitarie” si è trasformato nella richiesta di “una pausa umanitaria immediata che porti a un cessate il fuoco sostenibile”.L’unanimità ha un costo, e sulla crisi in Medio Oriente è evidentemente quello di andare al ribasso. “So che c’è voluto bisogno di tempo per trovare unità, ma questa sera dimostriamo di poter giocare un ruolo positivo“, ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, nella conferenza stampa a margine dei lavori. Ma nel momento in cui gli Stati Uniti stanno per proporre una risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu in cui per la prima volta chiedono di cessare le ostilità nella Striscia, la dichiarazione finale dei 27 sembra già superata. Con tanta pace dell’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, e del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che in mattinata avevano utilizzato toni ben più duri su Israele.L’aveva già denunciato il primo ministro belga, Alexander De Croo, al suo arrivo al vertice: “L’Ue deve essere leader, non seguire”. Proprio in riferimento al “buon esempio” di Washington, che dopo aver posto il veto diverse volte a risoluzione che chiedevano di deporre le armi, domani per la prima volta non anteporranno la liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas alla richiesta di mettere fine ai bombardamenti sulla popolazione civile palestinese. Lo stesso De Croo, a margine del Consiglio, ha ammesso che “il fatto che gli Stati Uniti stiano adottando questa posizione ha fatto la sua parte“.Nel capitolo dedicato al Medio Oriente della tradizionale dichiarazione a 27 che chiude il vertice europeo, l’Ue “esorta” il governo israeliano a non intraprendere un’operazione di terra a Rafah, “chiede” di garantire la fornitura di assistenza umanitaria, “sottolinea” l’importanza di rispettare e attuare le misure provvisorie richieste dalla Corte internazionale di Giustizia per impedire un genocidio a Gaza. Di condanne, c’è la sacrosanta condanna “nei termini più forti possibili” delle atrocità perpetrate da Hamas il 7 ottobre e quella della violenze commesse dai coloni israeliani estremisti in Cisgiordania. Ma non dei bombardamenti israeliani che hanno causato oltre 30 mila vittime, di cui la maggior parte donne e minori, e nemmeno degli ostacoli all’ingresso degli aiuti umanitari, che stanno portando 2 milioni di persone sull’orlo di una carestia.

    Ursula von der Leyen e Charles Michel in conferenza stampa, 21/03/24I capi di stato e di governo dell’Ue hanno espresso “profonda preoccupazione per la catastrofica situazione umanitaria a Gaza e per il suo effetto sproporzionato sui civili, in particolare sui bambini, nonché per l’imminente rischio di carestia“. Rispetto all’ultima bozza delle conclusioni del Consiglio europeo, hanno avuto l’ardire di aggiungere: “Causata dall’ingresso insufficiente di aiuti a Gaza”.Michel ha insistito che “bisogna fare tutto il possibile per convincere, per assicurarsi che ci sia una reale possibilità di accesso umanitario”. E ha ribadito l’unità dei 27 nel supporto al “ruolo essenziale” svolto dall’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) nella regione. Un’unità che – anche qui – dovrà essere confermata non solo a parole dai Paesi Ue che ancora non hanno sbloccato i fondi all’Agenzia dopo le accuse di complicità con Hamas mosse da Israele contro una decina di dipendenti dell’Unrwa. Tra cui Italia e Germania.

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    Ucraina, l’Ue promette di velocizzare consegne militari ma non c’è accordo su come finanziarle

    Bruxelles – Più sostegno sul campo attraverso la velocizzazione delle consegne militari, anche attraverso l’eventuale utilizzo degli extra-profitti generati dai beni russi congelati in Europa e la linea dura contro i Paesi terzi che aiutano la Russia a mantenere attiva la propria macchina da guerra aggirando le sanzioni. I capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’Ue vengono incontro alla richieste del presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, promettendo quanto prima più munizioni, pezzi di artiglieria e sistemi di difesa anti-aerea. Un modo per rispondere alle critiche e alle accuse per un’alleanza, quella con l’Ue, considerata a Kiev come “umiliante“.Le conclusioni del primo giorno di vertice del Consiglio europeo ribadiscono l’impegno incondizionato all’Ucraina. “La Russia non deve vincere“, il messaggio politico fermo messo nero su bianco dai leader, e per questo l’Unione si dice “determinata a continuare a fornire tutto il sostegno politico, economico, finanziario, militare, umanitario e diplomatico per tutto il tempo necessario“. Si riconosce la penuria e quindi la necessità di rifornimento di munizioni e sistemi di difesa anti-aerea, per cui i Ventisette si impegnano a “velocizzare e intensificare la fornitura di tutta l’assistenza militare necessaria“.Il vero nodo resta quello pratico, vale a dire finanziario, che si scontra con le necessità e le tempistiche. Servono soldi che l’Ue non ha per far ripartire l’industria bellica europea, e i leader europei lasciano il tavolo senza alcuna soluzione pratica. Invitano Commissione e ministri competenti a “esplorare tutte le opzioni” per mobilitare finanziamenti, e fare il punto della situazione “a giugno”, in occasione del vertice del consiglio Europeo di fine mese (27 e 28 giugno). Vuol dire concedere altri tre mesi all’armata russa, durante i quali gli europei continueranno, verosimilmente, a non far partire le commesse necessarie per rifornirsi e rifornire l’Ucraina.Le conclusioni sulla difesa stridono con i proclami e gli impegni scritti nelle conclusioni dedicate all’Ucraina. Vanno inoltre lette con attenzione. “Esplorare tutte le opzioni” può far intendere che l’idea di eurobond per la difesa, e quindi creazione di debito comune per stimolare l’industria del settore, non sia del tutto esclusa. Ma nel linguaggio dei tecnici gli eurobond sono riferiti a “soluzioni innovative”, riferimento scomparso dalla conclusioni. Tra chi vorrebbe eurobond (Italia, Estonia, Lituania, Spagna) e chi invece preferisce guardare gli strumenti esistenti, preferibilmente nel bilancio comune (Germania, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia), sembra prevalere la linea di questi ultimi.Quello che ottiene Zelensky è la disponibilità dell’Unione a valutare “anche la possibilità di sostegno al finanziamento militare” attraverso l’uso degli extra-profitti derivanti dai beni russi congelati in Europa. Una proposta su cui si dovrà continuare a lavorare perché ci sia una base giuridica solida che eviti l’avvio di cause, ricorse, e le conseguenti impossibilità di aiutare militarmente Kiev e paralizzare i sistemi di giustizia nazionali. Se tutto va bene, azzarda la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, tramite extra-profitti potrebbe arrivare a Kiev “un miliardo di euro già l’1 luglio”.Resta ferma l’intenzione di fare della Banca europea per gli investimenti uno strumento utile alla causa, e aprire la strada a prestiti e finanziamenti per l’industria della difesa. Si chiede alla Bei di “adattare la propria politica” di prestiti e di “adattare la sua attuale definizione di bene a duplice-uso“. Sono proprio queste tecnologie ‘duali’ a uso civile e militare la chiave per poter aprire i rubinetti.L’Unione europea ci prova, ma ancora una volta è attesa alla prova dei fatti. Pesa l’assenza di una difesa comune, e un’Europa ancora troppo confederale. “Il sostegno militare e l’impegno alla sicurezza saranno forniti nel pieno rispetto  della politica di sicurezza e difesa di determinati Stati membri e tenendo conto degli interesse nella sicurezza e nella difesa di tutti gli Stati membri”. Vuol dire che il rischio di procedere in modo disordinato è ancora sul tavolo, e questo potrebbe giocare a favore di Putin.