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    Difesa, sicurezza, energia: i Parlamenti di Ue e Regno Unito intensificano la cooperazione

    Bruxelles – Di fronte alla minaccia comune alla sicurezza del continente, ma anche alla guerra dei dazi e al cambiamento climatico, Londra e Bruxelles si stanno ormai avvicinando come non accadeva da tempo. Dopo i sempre più numerosi colloqui tra il primo ministro britannico Keir Starmer e i presidenti della Commissione e del Consiglio europeo Ursula Von Der Leyen e Antonio Costa, ad intensificare il dialogo e la collaborazione sono stavolta il Parlamento Europeo e Westminster. Nella giornata di oggi (18 marzo) si è concluso l’incontro dell’Assemblea Ue-Uk per la partnership parlamentare (Ppa). Il forum, composto dalle delegazioni dei due Parlamenti, si riunisce periodicamente, ed è volto a discutere lo sviluppo e l’implementazione dell’Accordo per il commercio e la cooperazione, che dal 2021 costituisce la bussola dei rapporti politici e commerciali tra le due sponde della Manica.Le due delegazioni, che si sono incontrate per la prima volta dopo le elezioni parlamentari della scorsa estate in Ue e Regno Unito, si sono dette pronte ad “approfondire pienamente rapporti costruttivi basati su valori comuni, fiducia reciproca” e soprattutto “una gamma di questioni di interesse comune”. I parlamentari hanno riconosciuto e accolto gli sforzi dei due esecutivi per lo sviluppo di legami in un periodo di grande sfida geopolitica, e hanno adottato una serie di raccomandazioni “prendendo nota di dove stiamo lavorando bene insieme, attenzionando l’impegno delle parti al supporto dell’Ucraina nel suo sforzo contro la guerra di aggressione della Russia, e sottolineando le aree dove devono essere fatti maggiori sforzi”.Sono state svariate le aree di cooperazione discusse dall’assemblea. Al centro i temi della sicurezza e della difesa, inclusa la lotta alla disinformazione in aree come i Balcani occidentali, la Moldavia e l’Ucraina, ma anche la questione del futuro della collaborazione anglo-europea in politica estera. La Ppa ha discusso la possibilità di offrire nuove opportunità ai giovani, collaborare ulteriormente per il raggiungimento dell’autonomia energetica (con programmi congiunti per l’energia rinnovabile nel Mare del Nord, ad esempio) ma anche aumentare il supporto allo sviluppo internazionale- essenziale dopo la sospensione degli aiuti americani. Immigrazione, sanzioni e mobilità saranno discusse nei prossimi incontri, mentre si sono tenute discussioni informali su intelligenza artificiale, regolamentazione dei servizi finanziari e lotta ai cambiamenti climatici. L’incontro ha prodotto una serie di raccomandazioni che le delegazioni presenteranno ai reciproci esecutivi in occasione del prossimo Summit Uk-Ue previsto per il 19 maggio.I capidelegazione hanno espresso grande soddisfazione e gratitudine per gli sforzi intrapresi, sottolineando il clima di distensione ed intesa che ha caratterizzato il forum. “E’ stato molto costruttivo” ha detto Sandro Gozi, deputato francese e copresidente per conto dell’Ue: “l’atmosfera è certamente migliorata, dobbiamo sfruttare il potenziale dei trattati esistenti e creare basi per una fiducia comune, essenziale per approfondire e sviluppare il nostro partenariato in nuovi campi”. “E’ come girare pagina su un dialogo, più positivo e robusto, tra le nostre due nazioni. C’è forte consenso sul supporto al presidente Zelensky e abbiamo riconosciuto alcune delle sfide che riguardano la sicurezza energetica e il clima, oltre che altre questioni” ha dichiarato la capodelegazione britannica Marsha de Cordova. La parlamentare laburista ha poi concluso il suo intervento con una battuta rivolta a Gozi, del Mouvement démocrate: “Ho apprezzato l’ospitalità del mio copresidente o, come lo chiamo io, il mio nuovo amico centrista”.

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    Von der Leyen: “Non possiamo permetterci di essere sottomessi dalla storia”

    Bruxelles – “Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra”. Ursula von der Leyen parla ai cadetti danesi a Copenaghen ed è più esplicita che mai, sin dall’inizio del suo discorso. Anticipando i temi del Libro Bianco sulla Difesa che la Commissione europea presenterà domani, indica il nemico più prossimo, la Russia, l’alleato che si distrae, gli Usa, e dunque della necessità per l’Unione europea di fare da sola, per tutelare la propria sopravvivenza. Parlando ai danesi assicura ancora un volta “a tutti i cittadini della Groenlandia, e della Danimarca in generale, che l’Europa difenderà sempre la sovranità e l’integrità territoriale”.Poi, apprezzando la scelta danese di aumentare al 3 per cento del Pil la propria spesa militare, ammonisce sul fatto che negli ultimi decenni “ci siamo rapidamente convinti che questo periodo davvero eccezionale, che ha visto la caduta della cortina di ferro e del muro di Berlino e la liberazione di intere nazioni e popoli, fosse una nuova normalità”. Secondo la presidente della Commissione questo “ha portato a un sottoinvestimento nella difesa e, francamente, a un eccesso di compiacimento. I nostri avversari hanno utilizzato quel tempo non solo per rimobilitarsi, ma anche per sfidare le regole che governano la sicurezza globale“.Oggi, però, “l’era dei dividendi della pace è ormai lontana”.Secondo von der Leyen “l’architettura di sicurezza su cui facevamo affidamento non può più essere data per scontata. L’era delle sfere di influenza e della competizione per il potere è tornata. Prendiamo la Russia. Conosciamo già la sua determinazione nel negare ad altri paesi il diritto di scegliere la propria strada. E ora la Russia è su un percorso irreversibile verso la creazione di un’economia di guerra. Ha ampliato enormemente la sua capacità di produzione militare-industriale. Il 40 per cento del bilancio federale è destinato alla difesa. Il 9 per cento del suo Pil. Questo investimento alimenta la sua guerra di aggressione in Ucraina, preparandola al contempo al futuro scontro con le democrazie europee”.Questo mentre “le minacce aumentano il nostro partner più antico, gli Stati Uniti, sposta la propria attenzione sull’Indo-Pacifico”.Ma, dice dunque von der Leyen, “ora è il momento di parlare onestamente, in modo che ogni europeo capisca cosa è in gioco. Perché il disagio di sentire queste parole impallidisce di fronte al dolore della guerra. Il punto è che dobbiamo vedere il mondo così com’è e dobbiamo agire immediatamente per affrontarlo. Perché un nuovo ordine internazionale si formerà nella seconda metà di questo decennio e oltre“.E qui la presidente della Commissione azzarda un cambio di paradigma radicale: di fronte a queste sfide “continueremo a reagire a ogni sfida in modo incrementale e cauto? O siamo pronti a cogliere questa opportunità per costruire un’Europa più sicura? Un’Europa prospera, libera e pronta, disposta e capace di difendersi. La risposta è chiara. La scelta non c’è”.Von der Leyen (nello specchio) durante i saluti che hanno preceduto il suo intervento a Copenaghen. (Fonte: Ebs)Gli europei, sostiene la politica tedesca sono “pronti a prendere il controllo del cambiamento che è inevitabile. Perché non possiamo permetterci di essere sottomessi dalla storia. Ciò significa che agire ora è un dovere. Agire in grande è una condizione sine qua non per velocità, portata e forza entro il 2030″.Entro il 2030, l’Europa deve avere una forte posizione di difesa europea. E lancia lo slogan “Readiness 2030” (pronti per il 2030) che significa “aver riarmato e sviluppato le capacità per avere una deterrenza credibile. ‘Readiness 2030’ – sottolinea – significa avere una base industriale della difesa che costituisca un vantaggio strategico. Ma per essere pronti per il 2030 dobbiamo agire ora”.Von der Leyen assicura che, come d’altra parte prevedono i Trattati, “gli Stati membri manterranno sempre la responsabilità delle proprie truppe, dalla dottrina allo spiegamento, e della definizione dei requisiti delle loro forze armate. Ma c’è molto che è necessario a livello europeo. E domani presenteremo una tabella di marcia per la ‘Readiness 2030’.La presidente elenca poi quattro priorità. “La prima e principale priorità è un aumento della spesa per la difesa” afferma, spiegando che quella attuale “è ancora molto inferiore a quella di Stati Uniti, Russia e Cina”. Ricorda poi qui il piano già lanciato per sbloccare 800 miliardi di euro di investimenti nella difesa europea, con un nuovo strumento, chiamato SAFE, “che può sbloccare rapidamente 150 miliardi di euro per gli Stati membri”. Questo, assicura, “ci aiuterà a comprare meglio, più velocemente e più europeo. E faciliterà gli appalti congiunti”, restando comunque “in linea con la Nato”. Ma è necessario “aiutare gli Stati membri ad aumentare i propri bilanci della difesa. Per questo motivo proponiamo di attivare quella che chiamiamo la clausola di salvaguardia nazionale. Ciò darà ai paesi molta più flessibilità per spendere di più in difesa senza violare le regole fiscali”. Secondo i calcoli della Commissione questo ha il potenziale per mobilitare una spesa aggiuntiva per la difesa fino all’1,5 per cento del Pil, “circa 650 miliardi di euro nei prossimi quattro anni”, mentre si lavora “per attirare anche finanziamenti privati, sia dalla Bei che dai mercati dei capitali”.Secondo punto: “Dobbiamo colmare le nostre lacune in termini di capacità. E dobbiamo farlo in modo europeo. Ciò significa una cooperazione paneuropea su larga scala per affrontare le lacune nelle aree prioritarie”. Si parte da elementi fondamentali come le infrastrutture e la mobilità militare. “Entro il 2030 – spiega -, avremo bisogno di una rete funzionante a livello europeo di corridoi terrestri, aeroporti e porti marittimi che facilitino il trasporto rapido di truppe e attrezzature militari. Allo stesso tempo, dobbiamo investire nella difesa aerea e missilistica, nei sistemi di artiglieria, nelle munizioni e nei missili”. Senza dimenticare i droni, come ha insegnato l’Ucraina “l’Europa deve sviluppare tutti i tipi di sistemi senza pilota e il software e i sensori avanzati che li supportano”, poi il cyber, l’uso dell’IA militare o del quantum computing. “La portata, il costo e la complessità dei progetti in questi settori vanno ben oltre le capacità di ogni singolo Stato membro – ammonisce la presidente -. Ma insieme, come europei, possiamo vincere questa sfida”.“Aumentare il sostegno all’Ucraina” è la terza priorità. Questa “è quella che chiamiamo la strategia del porcospino d’acciaio. Perché dobbiamo rendere l’Ucraina abbastanza forte da essere indigesta per potenziali invasori. Quindi dobbiamo investire nella forza dell’Ucraina. Nella deterrenza attraverso la negazione”, avverte. “Per contribuire a realizzare questo obiettivo, istituiremo una task force congiunta con l’Ucraina per coordinare il sostegno militare dell’Ue e degli Stati membri all’Ucraina”. Ma anche l’Ucraina può sostenerci, “c’è molto che possiamo imparare dalla trasformazione dell’industria della difesa ucraina. L’innovazione, la velocità e la portata della sua base industriale sono notevoli. Quindi dobbiamo accelerare l’integrazione dell’Ucraina nel mercato europeo delle attrezzature per la difesa. E la nostra industria – rileva von der Leyen – sta imparando dall’industria della difesa ucraina. L’industria ucraina ha l’esperienza quotidiana del campo di battaglia, sa come innovare just in time e produrre in modo più veloce, più economico e più intelligente”.Quarta priorità: “rafforzare la base industriale della difesa europea”. Abbiamo – ricorda von der Leyen – molte aziende della difesa competitive e leader a livello mondiale, e molte Pmi che stanno sviluppando nuove tecnologie all’avanguardia dell’innovazione. “Ma la nostra base industriale ha ancora delle debolezze strutturali. Non è ancora in grado di produrre sistemi e attrezzature per la difesa nelle quantità e alla velocità di cui gli Stati membri hanno bisogno. Rimane troppo frammentata – spiega la presidente – con attori nazionali dominanti che si rivolgono ai mercati interni”. Dunque bisogna iniziare con gli investimenti in Europa, “dobbiamo acquistare di più in Europa. Perché ciò significa rafforzare la base tecnologica e industriale della difesa europea. Ciò significa stimolare l’innovazione e creare un mercato europeo per le attrezzature di difesa”. “Istituiremo un meccanismo europeo di vendita militare per contribuire a realizzare questo obiettivo”, annuncia la presidente, spiegando che “proporremo un Omnibus della Difesa per semplificare le norme e i regolamenti”.Il quadro è complesso e pericoloso, ma, assicura von der Leyen, “siamo più forti di quanto pensiamo”, ed abbiamo “partner, amici e alleati con cui può lavorare e su cui può contare”, e, ribadisce infine “siamo pienamente impegnati a lavorare con la NATO e gli Stati Uniti. La nostra sicurezza è indivisibile. Ecco perché stiamo lavorando per aprire nuovi orizzonti in materia di sicurezza con il Regno Unito e altri partner in Europa, nel nostro vicinato o all’interno del G7. Dal Canada alla Norvegia. E anche in paesi lontani come l’India e altre parti dell’Asia”.“La libertà non è un processo. È una lotta costante. È il dovere di ogni generazione”, conclude la presidente della CommissioneDi questi e altri temi legati alla Difesa si parlerà il 15 aprile a Roma nell’evento della serie Connact “Difesa comune europea: finanziamenti e integrazione industriale“.

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    Israele rompe la tregua, è di nuovo strage di civili a Gaza. L’Onu: “Inconcepibile”

    Bruxelles – Con le prime luci dell’alba, è ricominciato l’incubo per la popolazione civile di Gaza. Dopo gli attriti sempre più forti tra Israele e Hamas per negoziare la seconda fase del cessate il fuoco, Tel Aviv ha rotto gli indugi e – con il lasciapassare della Casa Bianca – ha lanciato un pesantissimo attacco aereo su diverse località dell’enclave palestinese. Le vittime sarebbero già più di 400. Mentre l’Onu chiede di “ripristinare immediatamente” la tregua, Netanyahu promette raid sempre più intensi.L’operazione è stata ribattezzata dalle Forze di difesa israeliane (Idf) “Forza e spada”. Sono stati segnalati bombardamenti in diverse località della Striscia, da nord a sud, nei centri di Gaza City, Khan Younis e Rafah. Secondo il ministero della Salute di Gaza molte delle vittime sarebbero – come dall’inizio del conflitto – donne e bambini. In un comunicato, il premier israeliano ha dichiarato di aver ordinato gli attacchi a causa della mancanza di progressi nei colloqui in corso per estendere il cessate il fuoco. Ha accusato Hamas di “rifiutarsi ripetutamente di rilasciare i nostri ostaggi” e di respingere le proposte dell’inviato Usa in Medio Oriente, Steve Witkoff.A rileggere i termini e le modalità con cui si arrivò al cessate il fuoco lo scorso 18 gennaio, lo stallo nei negoziati in vista della seconda fase della tregua era preventivabile. Il sì strappato in extremis da Joe Biden a Netanyahu, prima dell’insediamento di Trump, prevedeva appunto ulteriori colloqui dopo la prima fase di sei settimane e la possibilità che Israele riprendesse le operazioni militari se l’avesse ritenuto necessario. Così, la nuova amministrazione americana e Tel Aviv hanno forzato la mano, presentando un piano per estendere la prima fase della tregua fino alla fine del Ramadan e della Pasqua, chiedendo in sostanza di proseguire il rilascio degli ostaggi israeliani senza però procedere al ritiro del proprio esercito da Gaza (come previsto dalla fase 2).Il tavolo delle trattative era già saltato lo scorso 2 marzo, con i negoziatori di Hamas che avevano declinato il piano di Witkoff e Netanyahu che in tutta risposta aveva annunciato un nuovo blocco degli aiuti umanitari a Gaza. Washington ha confermato di essere stata informata in anticipo dell’attacco di Israele a Gaza e di aver dato il suo benestare alla ripresa delle ostilità: “Hamas avrebbe potuto rilasciare gli ostaggi per prolungare il cessate il fuoco, ma ha invece scelto il rifiuto e la guerra”, ha dichiarato il portavoce della Casa Bianca Brian Hughes.Il quartiere intorno all’ospedale Al-Shifa, a Gaza City, raso al suolo dai bombardamenti israeliani lo scorso 3 aprile  (Photo by AFP)In realtà, la tregua era già stata più volte violata in questi due mesi, ma i bombardamenti a tappeto di oggi sono stati di portata molto più ampia rispetto alla serie regolare di attacchi con droni che l’esercito israeliano ha dichiarato di aver condotto contro singoli individui o piccoli gruppi di sospetti militantinell’ultimo periodo. Secondo quanto riportato da Reuters, le Idf avrebbero dichiarato che gli attacchi continueranno per tutto il tempo necessario e che potrebbero estendersi oltre gli attacchi aerei. “Non smetteremo di combattere finché gli ostaggi non saranno restituiti a casa e tutti i nostri obiettivi di guerra non saranno raggiunti”, ha confermato il ministro della Difesa, Israel Katz.In risposta, un alto funzionario di Hamas ha dichiarato che la decisione di Netanyahu di riprendere gli attacchi su larga scala nella Striscia equivale a una “condanna a morte” per gli ostaggi del 7 ottobre ancora nelle mani del gruppo terroristico palestinese. In cattività a Gaza ci sarebbero ancora circa una sessantina di cittadini israeliani. Il Families Forum, associazione che riunisce i familiari degli ostaggi, ha rilasciato una dichiarazione in cui sostiene che “l’affermazione secondo cui la guerra è stata ripresa per il rilascio degli ostaggi è una completa menzogna” e chiede di “tornare al cessate il fuoco”. L’ufficio politico di Hamas ha accusato di aver fatto saltare i negoziati e ripreso la guerra per salvare la sua coalizione di governo di estrema destra.“È inconcepibile”, ha dichiarato Muhannad Hadi, coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati. In una nota, Hadi ha chiesto di “ripristinare immediatamente il cessate il fuoco”, ricordando che “la popolazione di Gaza ha sopportato sofferenze inimmaginabili”. Di fronte all’ennesima strage, in un conflitto che ha già causato la morte di quasi 49 mila palestinesi di Gaza, l’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto “un intervento internazionale urgente“. Durante il briefing quotidiano con la stampa, il portavoce della Commissione europea, Anouar El Anouni, ha affermato che “l’Ue deplora vivamente la ripresa delle ostilità e il decesso di civili, tra cui bambini, durante i raid aerei israeliani” e ribadito l’appello “ad Hamas affinché rilasci tutti gli ostaggi” e ad Israele “perché dia prova di moderazione” e “ristabilisca l’accesso umanitario senza condizioni”.

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    Siria, ora l’Ue teme il ritorno di combattenti islamici radicalizzati

    Bruxelles – Il nuovo corso in Siria porta con sé rischi per la sicurezza dell’Ue, a cominciare quelli legati al possibile ritorno di combattenti islamici radicalizzati. Un problema avvertito certamente in Parlamento europeo, dove non si parla apertamente di minaccia terroristica ma si fa comunque notare che la presa del potere da parte di Hayʼat Tahrir al-Sham (HTS), la milizia islamica che ha rovesciato il regime di Assad, abbia svuotato le carceri lasciano a piede libero miliziani dell’Isis e di Al-Qaeda. Si tratta non solo di cittadini siriani, ma, viene fatto notare, anche di persone che molto probabilmente hanno la nazionalità dell’Ue.La minaccia c’è, e lo riconosce anche l’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Kaja Kallas, quando rispondendo all’interrogazione parlamentare in materia ammette che “la Commissione, in collaborazione con gli Stati membri, continua a seguire il destino dei cittadini dell’Ue che si sono recati in zone di conflitto come la Siria per unirsi a organizzazioni terroristiche e non sono tornati o le cui morti rimangono non confermate“. Segno che la situazione preoccupa e quindi monitoraggio e controllo si rendono necessari. Se da una parte nell’Ue non si vogliono nuove ondate di rifugiati, dall’altra parte non si vuole neppure un nuovo livello di allerta di minaccia terroristica.Però, viene ricordato sempre dall’Alto rappresentante, in linea di principio ai cittadini dell’Ue non può essere impedito di tornare a meno che non venga revocata la loro nazionalità. Quindi il rientro in Europa di individui radicalizzati non può essere escluso. “Per coloro che tornano e costituiscono una minaccia per la sicurezza, l’azione penale è uno strumento primario”, sottolinea Kallas, la quale ricorda inoltre che in materia di sicurezza la responsabilità primaria è degli Stati membri. Spetta dunque ai governi tenere alta l’attenzione e verificare quanti attraversano la frontiera.Gli Stati membri possono comunque avvalersi della collaborazione di Frontex (l’agenzia di guardia costiera e di frontiera) per quanto riguarda il sostegno operativo alla gestione delle migrazioni, oltre a quella di Europol (la polizia europea) per ciò che riguarda la condivisione di informazioni di intelligence. “Insieme – conclude Kallas – queste misure mirano a impedire il rientro di individui ad alto rischio e a garantire la responsabilità delle loro azioni”.La Commissione europea, comunque, in nome della stabilità del Paese e della regione, ha deciso di intrattenere relazioni con il nuovo governo nonostante sia retto da HTS, la milizia islamica riconosciuta dall’Onu come terroristica, con l’Ue allineata alle decisioni delle Nazioni Unite.

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    Armenia e Azerbaigian hanno concordato i termini di un trattato di pace

    Bruxelles – Si respira l’aria dei momenti storici nel Caucaso meridionale. Armenia e Azerbaigian sembrano sul punto di stipulare un accordo di pace che metterebbe fine a quasi 40 anni di conflitto nella martoriata regione, centro delle mire di diversi attori internazionali. I dettagli dell’intesa non sono stati resi pubblici, ma rimangono ancora degli ostacoli sulla strada della piena pacificazione e della normalizzazione diplomatica tra le due capitali.L’annuncio dell’intesaI ministri degli Esteri di Yerevan e Baku hanno dichiarato ieri (13 marzo) di aver raggiunto un accordo di principio sui termini sostanziali di un trattato di pace, col quale i due Paesi caucasici potrebbero voltare pagina su un aspro conflitto che va avanti da 37 anni ed ha causato decine di migliaia di morti nonché lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone da entrambe le parti. Non è tuttavia stato fornito un calendario preciso per la stipula dello storico accordo, che rimane di fatto ancora in sospeso.Jeyhun Bayramov, titolare della diplomazia azera, è stato il primo ad annunciare che i negoziati sul testo dell’accordo erano stati completati: “Il processo negoziale sul testo dell’accordo di pace con l’Armenia si è concluso”, ha dichiarato ieri. Poco dopo, il suo omologo armeno Ararat Mirzoyan ha confermato che “l’accordo di pace è pronto per la firma“. Secondo fonti armene, Yerevan aveva proposto di redigere una dichiarazione congiunta ma Baku avrebbe unilateralmente deciso la fuga in avanti.Il ministro azero degli Affari esteri Jeyhun Bayramov (foto: Leonardo Munoz/Afp)Sia come sia, l’accordo ha permesso di trovare la quadra relativamente agli ultimi due punti contesi tra i 17 discussi di recente tra le parti, che dalla fine della scorsa estate si stavano muovendo verso una ricomposizione politica della crisi decennale. Si tratta nello specifico dell’espulsione degli osservatori internazionali (inclusi quelli dell’Ue) dislocati lungo il confine tra i due Paesi – attualmente chiuso e fortemente militarizzato – nonché dell’abbandono delle cause legali in corso nelle sedi multilaterali.“Ci congratuliamo con entrambe le parti”, si legge in un comunicato del Servizio europeo di azione esterna (Seae), la Farnesina dell’Ue. “È fondamentale mantenere questo slancio e garantire il completamento senza intoppi di questo processo con lo stesso approccio lungimirante e orientato al compromesso”, continua la nota.Le questioni territorialiLa questione principale alla base del sanguinoso conflitto iniziato nel lontano 1988 (prima ancora della dissoluzione dell’Urss, della quale facevano parte entrambi), cioè lo status del Nagorno-Karabakh, sembra in realtà sostanzialmente risolta da quando il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha ufficialmente riconosciuto la sovranità azera sull’area nel settembre 2023.La regione, all’interno del territorio dell’Azerbaigian ma popolata storicamente da armeni e controllata da separatisti supportati da Yerevan, era stata a lungo contesa tra i due Paesi. Dopo varie fasi di guerra, alternate a periodi di relativa stabilità in cui il conflitto è parso congelato, Baku ne ha ripreso il pieno controllo nel settembre di due anni fa tramite un’operazione lampo che ha provocato una grave crisi umanitaria, l’espulsione della popolazione armena e la fine dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh.Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan (foto: Karen Minasyan/Afp)Ora il governo azero chiede lo scioglimento del cosiddetto gruppo di Minsk, un format dell’Osce coordinato da Francia, Russia e Stati Uniti all’interno del quale hanno avuto luogo i negoziati tra le due nazioni caucasiche fino al 2020, quando è scoppiata la seconda guerra del Nagorno-Karabakh.Rimarrebbe invece aperta la questione del Nakhchivan, un’exclave azera separata dal resto dello Stato caucasico da un lembo di terra armena: Baku vorrebbe collegarla al resto del proprio territorio tramite un corridoio terrestre che passerebbe attraverso l’Armenia, ma per il momento non si hanno notizie di passi avanti sul dossier.Il nodo della Costituzione armenaInoltre, è rimasta esclusa dall’intesa l’annosa questione degli emendamenti alla Costituzione armena: l’Azerbaigian insiste da tempo sul fatto che la rimozione di alcuni riferimenti alla dichiarazione d’indipendenza del Paese (i quali, sostiene Baku, minacciano l’integrità territoriale azera) è una precondizione per la stipula di un trattato di pace complessivo.Nonostante l’Armenia neghi che la propria carta fondamentale ponga alcuna minaccia al vicino, Pashinyan ha annunciato negli scorsi mesi l’intenzione di adottare una nuova Costituzione. Tuttavia non sono ancora state fissate delle tempistiche per il processo, che dovrà includere sia un passaggio parlamentare sia un referendum popolare.La geopolitica regionaleLa regione del Caucaso meridionale, cui appartiene anche la Georgia e che affaccia da un lato sul Mar Nero e dall’altro sul Mar Caspio, ha una grande rilevanza strategica (non solo per la posizione ma anche per i ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale) ed è pertanto al centro di un intreccio di interessi geopolitici di attori come la Russia, la Turchia, gli Stati Uniti e l’Unione europea.Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Negli ultimi anni, l’Armenia sta cercando di allontanarsi dall’orbita russa (all’interno della quale si è storicamente mossa fin dall’indipendenza) e di avvicinarsi all’Ue, con la quale ha approfondito i legami diplomatici, politici e militari. Del resto, Bruxelles ha sempre incentivato il processo negoziale tra i due vicini, impiegando anche una missione di pace lungo il confine armeno che però verrebbe appunto smantellata.L’Azerbaigian, d’altra parte, è diventato uno dei principali partner energetici dei Ventisette dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina (il gas azero arriva in Italia trasportato dal Tap). Nonostante gli standard democratici non siano particolarmente elevati nel Paese, lo scorso novembre Baku ha ospitato anche la conferenza Onu sul clima (Cop29).

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    Il libro bianco sulla difesa certifica che Russia e Cina sono i possibili nemici dell’Ue

    Bruxelles – La Russia senza ombra di dubbio, e poi la Cina. I nemici potenziali dell’Unione europea sono loro, sono i grandi attori del versante orientale del mondo, e da adesso sono nemici dichiarati, perché tali sono definiti all’interno del libro bianco sul futuro della difesa. Qui si citano esplicitamente, per il ruolo che hanno giocato e, soprattutto per quello che ancora non hanno avuto.“La Russia è una minaccia esistenziale per l’Unione“, si legge nell’introduzione del documento redatto a Bruxelles. “Considerato il suo passato di invasione dei suoi vicini e le sue attuali politiche espansionistiche, la necessità di una deterrenza contro le aggressioni armate della Russia resterà anche dopo un accordo di pace giusta e duratura in Ucraina“. Visioni e considerazioni sul Cremlino sono chiare, e fanno capire come l’Ue intende vivere da qui in avanti, con uno stato di allerta perenne per una minaccia avvertita come persistente, ma non isolata.Perché la minaccia russa è strettamente collegata quella cinese. “Anche se un cessate il fuoco dovesse essere raggiunto in Ucraina, la Russia probabilmente continuerà ad aumentare la scale della sua economia di guerra, col sostegno di Bielorussia, Cina e Corea del nord“. E’ questo un nuovo, più diretto, attacco frontale dell’Ue alla Repubblica popolare, già criticata per il suo appoggio a Mosca. Se da una parte “una Russia revanscista è la minaccia militare immediata per l’Ue“, dall’altra parte c’è il governo di Pechino che “sta aumentando costantemente” la sua produzione di capacità militare col risultato che adesso la Cina “possiede un forza militare di primo rango con capacità marittime senza precedenti”.Un dragone cinese. La Cina è diventata una minaccia per l’Ue [foto: imagoeconomica, tramite AI]Il risultato di questa crescita militare cinese, riconosce pubblicamente la Commissione europea, è che “l’equilibrio strategico nella regione dell’Indo-Pacifico è sotto pressione, il che influisce sulla sicurezza dell’Ue“. Insomma, il libro bianco sul futuro della difesa sconfessa le aspettative della presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, che proprio alla Cina guardava come possibile alternativa agli Stati Uniti di Donald Trump. Invece, a giudicare dai contenuti del documento, i migliori auspici appaiono morti e sepolti. Anche perché, si denuncia ancora, “la Cina è diventato un un attore ibrido principale che minaccia l’Ue“. Vuol dire che Pechino attacca l’Europa senza bisogno di muovere truppe, utilizzando tecniche diverse e metodi diversi da quelli militari per indebolire il blocco a dodici stelle.Certo, non è un mistero che la Repubblica popolare abbia importanti leve economiche grazie al controllo dei porti europei, che garantiscono al Paese asiatico una presenza tale da minacciare la sicurezza a dodici stelle.  Ma la minaccia cinese si estende oltre l’Europa e diventa più globale, e l’Ue lo mette nero su bianco. “La Cina sta utilizzando l’insieme dei suoi strumenti economici, militari e informatici per esercitare pressione su Tawain e sui Paesi che si affacciano sul mar cinese meridionale“. Le acque dell’area sono ‘agitate’, visto che le isola Paracelso, controllate da Pechino dal 1974, sono rivendicate da Taiwan e dal Vietnam, mentre tra Repubblica popolare e Filippine si contendono le isole Spratly, che ricadono nella zona economica esclusiva di Manila per le contestazioni cinesi.In sostanza, la Cina “sta minando la stabilità regionale”, avverte la Commissione europea, preoccupata per le ricadute anche economiche potenziali. Il mar cinese meridionale è gioca un ruolo commerciale non indifferente, essendo al centro di alcune delle rotte marittime più trafficate al mondo che collegano Cina, Giappone, Corea del sud e Taiwan con l’oceano Indiano. Non solo: i fondali di questa porzione marittima nascondono importanti giacimenti di petrolio e di gas, che fanno del controllo dell’area un motivo di confronto accesso.Di questi e altri temi legati alla Difesa si parlerà il 15 aprile a Roma nell’evento della serie Connact “Difesa comune europea: finanziamenti e integrazione industriale“.

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    L’Ue aggira il veto di Orbán in extremis e rinnova le sanzioni contro individui e entità russi. Ma ne rimuove quattro

    Bruxelles – Il premier ungherese filorusso Viktor Orbán è andato vicinissimo a far saltare il periodico rinnovo delle misure restrittive europee che colpiscono quasi 2 mila individui e circa 500 entità nell’ambito della guerra russa in Ucraina. In extremis, gli altri 26 Paesi membri l’hanno convinto – acconsentendo a rimuovere tre oligarchi e il ministro dello sport di Mosca dalla lista – e hanno raggiunto l’unanimità necessaria per riaffermare le sanzioni. E soprattutto per trattenere i beni privati per un valore di 25 miliardi di euro congelati dall’Ue nel corso dei tre anni di guerra.I nomi dei 1927 individui che Bruxelles ha identificato come responsabili dello sforzo bellico russo e delle violenze commesse in Ucraina – così come delle circa 500 entità – vanno confermati ogni sei mesi. Dopo l’ultimo rinnovo di settembre, la scadenza era fissata a sabato 15 marzo. Ieri, Budapest aveva confermato il suo “no”. Secondo fonti Ue, Orbán aveva posto come condizione per togliere il proprio veto che fossero cancellati 9 nomi. Questa mattina, all’ultima riunione degli ambasciatori dei 27 possibile sul calendario, la presidenza polacca del Consiglio dell’Ue è riuscita a trovare un compromesso: l’Ungheria si è fatta da parte in cambio della cancellazione di 4 persone dalla lista. E di tre recentemente decedute.Fonti diplomatiche confermano che si tratta dell’oligarca Vyacheslav Kantor, dell’uomo d’affari Vladimir Rashevsky, di Gulbakhor Ismailova, sorella dell’uomo d’affari Alisher Usmanov, e del ministro dello sport della Federazione Russa, Mikhail Degtyarev. I tre deceduti rimossi dalla lista sono il veterano politico russo Nikolai Ryzhkov e gli ufficiali militari Andrei Ermishko e Aleksei Bolshakov. Rimangono le misure restrittive contro il  miliardario Mikhail Fridman, oligarca russo nato in Ucraina, che l’Ungheria insisteva per rimuovere dall’elenco.“L’Ue aumenta la pressione sulla Russia. Estendiamo le nostre sanzioni a circa 2400 individui ed entità a causa dell’aggressione in corso da parte della Russia contro l’Ucraina”, ha esultato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in un post su X. In realtà, ciò che salta all’occhio sono le sempre maggiori frequenza e forza con cui Budapest mette in pericolo il supporto dell’Ue all’Ucraina e l’unità dei 27. Non è la prima volta che Orbán mette in discussione le misure restrittive contro la Russia: lo scorso gennaio aveva minacciato a lungo – salvo poi cedere all’ultimo minuto in cambio di una fumosa dichiarazione sulle garanzie di forniture di gas attraverso l’Ucraina – di far saltare tutte le sanzioni settoriali, quelle che hanno permesso a Bruxelles di congelare 200 miliardi di euro di asset russi, di imporre divieti su import ed export e di tagliare fuori Mosca dai circuiti finanziari occidentali. In totale, dal febbraio 2022 a oggi, Bruxelles ha adottato 16 pacchetti di sanzioni contro la Russia e i suoi alleati nell’ambito della guerra in Ucraina.Le misure restrittive Ue contro i responsabili di “minare l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina” si applicano a oltre 2.400 persone ed entità e consistono – per quanto riguarda gli individui – in divieto di viaggio e congelamento dei beni sul territorio Ue, mentre nei confronti delle entità nel congelamento dei beni. L’elenco comprende dal presidente Vladimir Putin al ministro degli Esteri Sergey Lavrov, l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovych, i membri della Duma russa, del Consiglio di sicurezza nazionale e del Consiglio della Federazione Russa, ministri, governatori e politici locali, come il sindaco di Mosca, funzionari di alto rango e personale militare, comandanti del gruppo Wagner, imprenditori e oligarchi di spicco. Sono inclusi nell’elenco anche individui provenienti da Iran, Bielorussia e Repubblica Democratica Popolare di Corea. Nella lista nera ci sono poi partiti politici, forze armate e gruppi paramilitari, banche e istituzioni finanziarie, organizzazioni mediatiche responsabili di propaganda e disinformazione, aziende nei settori della difesa, dei trasporti, dell’energia e IT, società coinvolte nell’elusione delle sanzioni. E organizzazioni responsabili dei programmi di rieducazione e deportazione dei bambini ucraini.

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    Putin prende tempo sul cessate il fuoco in Ucraina

    Bruxelles – Vladimir Putin prende tempo. Durante una conferenza stampa al Cremlino, ha sostenuto di essere “favorevole” in linea di principio alla cessazione delle ostilità in Ucraina, ma ha anche avvertito che ci sono ancora una serie di “questioni serie” da risolvere prima di poter dare il disco verde alla tregua. E ha poi calciato la palla in tribuna, rimandando ulteriori spiegazioni a dopo i colloqui che avrà nelle prossime ore: anzitutto con Steve Witkoff, atterrato ieri a Mosca, e poi (probabilmente) al telefono con Donald Trump.Tutto il mondo lo stava aspettando, col fiato sospeso. Ma come d’abitudine, il presidente russo non si è sbilanciato. Parlando nel pomeriggio di oggi (13 marzo) ai giornalisti accanto all’omologo bielorusso Aleksander Lukashenko, ha fornito qualche commento sulla proposta per un cessate il fuoco immediato di 30 giorni, messa nero su bianco dalle delegazioni di Kiev e Washington incontratesi l’altroieri a Gedda, in Arabia Saudita.“L’idea è buona e certamente la sosteniamo“, ha dichiarato, aggiungendo che la Russia è d’accordo con il “porre fine al conflitto in maniera pacifica”. Ma “ci sono questioni che devono essere discusse e negoziate coi nostri colleghi e partner americani, forse tramite una telefonata col presidente Trump“. Un colpo al cerchio e uno alla botte.Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Putin si è detto “tecnicamente favorevole” non tanto all’accordo nella sua formulazione attuale – su cui il Cremlino già ieri aveva fatto trapelare un certo scetticismo – quanto alla necessità di giungere ad una fine delle ostilità per via diplomatica. Ma ha ribadito che ci sono diverse “sfumature” e “questioni serie” da esaminare, tra cui la situazione nell’oblast’ di Kursk, invaso dagli ucraini lo scorso agosto. In altre parole, la bozza di tregua non prende in sufficiente considerazione gli interessi cruciali della Federazione, che dovranno essere “studiate con estrema attenzione” durante i prossimi round negoziali.Nella prospettiva di Mosca, qualunque tregua accettabile dovrà “portare ad una pace duratura e rimuovere le cause alla radice di questa crisi“: una posizione che segnalerebbe, secondo alcuni analisti, come Putin non abbia affatto intenzione di abbandonare le sue richieste massimaliste legate alla complessiva architettura della sicurezza nel Vecchio continente (riguardo soprattutto al ruolo della Nato, contro cui si è scagliato per l’ennesima volta oggi attraverso una dichiarazione congiunta con Lukashenko).Prima che parlasse il presidente, un funzionario russo aveva comunicato che l’accordo negoziato dagli emissari di Kiev e Washington era sostanzialmente irricevibile poiché sarebbe solo servito a fornire “respiro” all’esercito ucraino, attualmente in ritirata dall’area di Kursk dove Putin si è recato in visita proprio ieri e sotto grande pressione lungo l’intera linea del fronte, che si estende per circa 2mila chilometri.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Putin sta parlando questa sera con Steve Witkoff, l’inviato speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente (che nonostante questo titolo sta gestendo le trattative sulla guerra in Ucraina), e potrebbe sentire al telefono il suo omologo statunitense Donald Trump nelle prossime ore, anche se non è stato ancora fissato ufficialmente un colloquio.Da Washington, pare intanto che il tycoon inizi a spazientirsi: “Dobbiamo concludere in fretta” l’accordo, ha dichiarato da Washington, poco dopo aver sostenuto che i negoziati “stanno andando bene”. Trump, che ha accolto oggi nello Studio ovale il capo della Nato Mark Rutte, ha aggiunto che troverebbe “molto deludente” se Putin rifiutasse il cessate il fuoco, mentre ieri aveva fatto alcune allusioni ad eventuali ritorsioni finanziarie con cui gli Stati Uniti potrebbero colpire la Russia se questa si sfilasse dalle trattative.