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    Trump promette nuovi aiuti umanitari per Gaza. E torna a minacciare Putin con un nuovo ultimatum

    Bruxelles – Dopo Ursula von der Leyen, è stato il turno del premier britannico Keir Starmer di incontrare Donald Trump durante la visita di quest’ultimo in Scozia. Una conversazione a tutto campo, dall’accordo sui dazi doganali appena stretto con l’Ue alla carneficina che Israele sta compiendo a Gaza, passando per un nuovo ultimatum a Vladimir Putin.Non ha certo lasciato a bocca asciutta i giornalisti accalcati al golf club di Turnberry, in Scozia, Donald Trump, neanche per il secondo giorno di fila. Dopo aver annunciato ieri (27 luglio) insieme a Ursula von der Leyen l’avvenuto accordo commerciale con l’Unione europea (lui l’ha definito “il più grande accordo mai fatto”, al netto dei dubbi di diverse cancellerie tra i Ventisette), oggi il presidente statunitense ha avuto un faccia a faccia col primo ministro di Sua Maestà, sir Keir Starmer.Trump ha riservato alcune lusinghe anche per l’inquilino di Downing Street, complimentandosi per il “fantastico lavoro” compiuto da quest’ultimo nell’ottenere una tariffa base ancora più bassa di quella offerta a Bruxelles (il 10 contro il 15 per cento). “Hanno voluto un accordo commerciale per anni, molti anni”, ha ricordato il tycoon riferendosi alle difficoltà dei vari gabinetti succedutisi a Londra dal 2016 nel trovare una quadra con Washington nell’era post-Brexit, nonostante la special relationship tra i due Paesi.Il primo ministro britannico Keir Starmer (foto: Lauren Hurley via Imagoeconomica)Ma soprattutto, l’inquilino della Casa Bianca ha usato parole piuttosto nette in merito a due delle questioni internazionali che più preoccupano il Regno Unito e l’Europa tutta. Anzitutto, sull’immane massacro perpetrato da Israele nella Striscia di Gaza negli ultimi 21 mesi, giustificato da Benjamin Netanyahu come una necessaria risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 ma ingiustificabile sotto il profilo del diritto internazionale (al punto da essere valso al leader dello Stato ebraico un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale).Proprio mentre prendeva il via alla sede dell’Onu di New York la conferenza internazionale sulla Palestina co-presieduta da Francia e Arabia Saudita, tra i colli scozzesi Trump e Starmer sembravano concordare sulla necessità di fare immediatamente rispettare un cessate il fuoco e di far entrare con urgenza gli aiuti umanitari nella martoriata enclave costiera. “Dobbiamo aumentare gli aiuti umanitari“, ha notato il padrone di casa, per farsi rispondere dal suo ospite che Washington è “pronta ad aiutare” per risolvere la “terribile situazione” in cui versa Gaza, collaborando col Regno Unito (che sta già effettuando lanci aerei di generi alimentari sulla Striscia).Bambini palestinesi aspettano la distribuzione degli aiuti umanitari (foto: Bashar Taleb/Afp)“Dobbiamo nutrire i bambini“, ha continuato il tycoon, promettendo che gli Usa si impegneranno “ancora di più” e forniranno “cibo buono e sostanzioso” alla popolazione civile, deliberatamente affamata dal governo israeliano, garantendo l’istituzione di “centri di distribuzione di cibo“. La speranza è che tali operazioni non si risolvano in decine di palestinesi assassinati quotidianamente come avviene ora con la Gaza humanitarian foundation, l’ente israelo-statunitense che gestisce gli aiuti umanitari (quelli che Tel Aviv fa entrare col contagocce, scaricando sull’Onu la colpa per la loro penuria).Le immagini circolate negli scorsi giorni mostrano “gente che muore davvero di fame, non si può fingere una cosa del genere“, ammette Trump, apparentemente contraddicendo le bugie di Netanyahu per cui “non c’è fame a Gaza“. Ma senza mai riconoscere le responsabilità genocidiarie dello Stato ebraico, che rimane pur sempre l’alleato di ferro dello zio Sam nel cruciale scacchiere mediorientale. “Israele può fare molto” per far arrivare ai gazawi il cibo di cui hanno bisogno, dice il presidente, ma bisogna fare in modo “che le persone possano entrare” nella Striscia.Trump è parso insofferente anche sul tema del cessate il fuoco, sostenendo di aver fatto notare al premier israeliano che “ora forse dovrai agire in modo diverso” per “porre fine a tutto questo” e osservando che una tregua “è possibile”, se non altro per far tornare a casa la ventina di ostaggi ancora nelle mani di Hamas (detenzione bollata come “molto ingiusta” dal miliardario repubblicano).Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Quanto alla guerra d’Ucraina, il presidente statunitense si è mostrato ancora più rigido nei confronti dell’omologo russo Vladimir Putin, nei confronti del quale si è detto “molto deluso“. Tanto da ritrattare il precedente ultimatum di 50 giorni, rivolto un paio di settimane fa all’inquilino del Cremlino affinché accetti di sedersi al tavolo delle trattative: “Fisserò un nuovo termine di circa 10 o 12 giorni a partire da oggi“, ha ammonito, riservandosi di annunciarlo pubblicamente nelle prossime ore.“Non c’è motivo di aspettare“, spiega il tycoon, dal momento che “non vediamo alcun progresso” nei negoziati per porre fine alle ostilità che durano ormai da quasi tre anni e mezzo, come certificato dall’ennesimo buco nell’acqua dei colloqui di Istanbul tra le delegazioni di Kiev e Mosca. Se le armi non tacciono e non si raggiunge un accordo, minaccia, Washington comminerà “sanzioni e forse dazi secondari” contro la Federazione.

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    Gaza, l’Ue sospende la partecipazione di Israele dal programma Horizon per la ricerca

    Bruxelles – Stop alla partecipazione di Israele al programma europeo Horizon per la ricerca. La Commissione europea decide di prendere provvedimenti contro il governo di Benjamin Netanyahu per la risposta agli attacchi di Hamas e la situazione umanitaria a Gaza. Per lo Stato ebraico la sospensione al partenariato con l’Ue non p totale bensì parziale. La sospensione riguarda specificamente la partecipazione di entità con sede in Israele ad attività finanziate dal Consiglio europeo per l’innovazione (CEI) nell’ambito dell’Accelerator, programma per start-up e piccole imprese con innovazioni dirompenti e tecnologie emergenti con potenziali applicazioni a duplice uso, come la sicurezza informatica, i droni e l’intelligenza artificiale.Una mossa, quella dell’esecutivo comunitario, dal forte significato politico. L’Ue, seppur faticosamente e dopo molte incertezze, inizia davvero a mettere all’angolo la leadership israeliana. La decisione presa dal collegio dei commissari è il frutto della revisione condotta a Bruxelles sul rispetto da parte di Israele dell’articolo 2 del trattato di associazione Ue-Israele, quello che sancisce che la validità dell’intero trattato ruota attorno al rispetto dei diritti umani. L’Ue già a fine giugno ha stabilito che il governo di Netanyahu ha violato i diritti umani a Gaza, ma hah rimandato a oggi (28 luglio) il tempo della decisione.E’ stato dato tempo a un Paese tradizionalmente amico di cambiare rotta, ma a distanza di un mese è cambiato poco. Da qui la decisione di escludere Israele dal programma del Consiglio europeo per l’innovazione. Un primo passo, peraltro non definitivo. La decisione è reversibile, ma spetterà allo Stato ebraico convincere la Commissione europea a ritornare sui propri passi. Inoltra lo stop “non pregiudica la partecipazione di università e ricercatori israeliani” a progetti collaborativi e attività di ricerca nell’ambito di Horizon Europe, precisa la Commissione. Esclusione industriale, dunque, non accademico-scientifica.L’annuncio delle ‘sanzioni’ Ue contro Israele arriva a distanza di pochi giorni dall’annuncio della Francia di riconoscere lo Stato palestinese, e di chiedere in sede di Organizzazione delle Nazioni Unite di fare altrettanto ad altri attori. L’annuncio del presidente francese, Emmanuel Macron, è stato accolto tra le critiche e le aspre reazioni di Tel-Aviv, con cui l’Ue è sempre più ai ferri corti.

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    All’Onu comincia la conferenza sulla Palestina

    Bruxelles – La diplomazia prova a battere un colpo a favore della Palestina. Con oltre un mese di ritardo, inizia oggi alla sede dell’Onu la conferenza co-presieduta da Francia e Arabia Saudita per promuovere il riconoscimento dello Stato palestinese, tra le divisioni della comunità internazionale. Nel frattempo, Tel Aviv ha momentaneamente ceduto alle pressioni dei partner e sta facendo entrare col contagocce alcuni aiuti umanitari a Gaza.La conferenza era stata annunciata oltre due mesi fa, a fine maggio, e si sarebbe dovuta svolgere a metà giugno. Poi però Israele ha sferrato il suo attacco contro l’Iran e, così, era stata rimandata sine die. Fino ad oggi (28 luglio), quando ha preso ufficialmente il via la conferenza di alto livello delle Nazioni Unite sulla “risoluzione pacifica della questione palestinese e l’attuazione della soluzione dei due Stati“, promossa da Parigi e Riad per imprimere un’accelerazione alla ricomposizione politica della cosiddetta questione israelo-palestinese.L’incontro, che si svolgerà fino a mercoledì (30 luglio) al Palazzo di vetro di New York, punta anche a centrare altri obiettivi chiave. La riforma dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), l’amministrazione guidata da Mahmoud Abbas che, operando come surrogato del futuro governo del futuro Stato palestinese, gestisce quello che rimane dei territori palestinesi occupati. Sul tavolo anche la smilitarizzazione di Hamas e la sua esclusione dalla vita politica della nazione palestinese che sarà e, infine, la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e gli Stati arabi della regione.Il presidente francese Emmanuel Macron (foto: Stephane De Sakutin/Afp)Lo scorso giovedì (24 luglio), con una mossa che ha scosso il mondo politico occidentale, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che a settembre la Francia riconoscerà formalmente lo Stato di Palestina, il primo Paese G7 a farlo da quando, nel 1988, la leadership palestinese in esilio proclamò la nascita dello Stato. Per il suo ministro degli Esteri, Joel-Noël Barrot, “la prospettiva di uno Stato palestinese non è mai stata così minacciata, o così necessaria”.“La conferenza offre un’opportunità unica per trasformare il diritto internazionale e il consenso internazionale in un piano operativo e per dimostrare la determinazione a porre fine all’occupazione e al conflitto una volta per tutte, a beneficio di tutti i popoli“, ha dichiarato l’ambasciatore palestinese all’Onu Riyad Mansour, chiedendo “coraggio” a tutte le delegazioni (un centinaio circa) partecipanti.Per la segretaria generale di Amnesty international, Agnès Callamard, la priorità assoluta dev’essere quella di “intraprendere azioni concrete per porre fine al genocidio in corso” perpetrato da Israele nei confronti dei palestinesi, nonché di terminare “la sua occupazione militare illegale del territorio palestinese, che ha alimentato violazioni di massa contro i palestinesi e ha permesso e consolidato il crudele sistema di apartheid di Israele“.Senza “un cessate il fuoco immediato e duraturo” e la fine del “blocco illegale” imposto da Tel Aviv sulla Striscia, osserva Callamard, “qualsiasi processo volto ad affrontare il futuro dei palestinesi manca di credibilità“. “Gli Stati devono essere inequivocabili: Israele non è al di sopra della legge e la responsabilità è una priorità“, conclude.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Menahem Kahana/Afp)Tel Aviv e i suoi alleati di ferro non hanno preso bene l’iniziativa franco-saudita. Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu (sul quale pende un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale) la mossa di Parigi “premia il terrorismo” e Donald Trump ha bollato come “ininfluente” Macron e la decisione.Una cattiva idea anche per il cancelliere tedesco Friedrich Merz, mentre il primo ministro britannico Keir Starmer è finito sotto il fuoco di fila dei deputati di Sua Maestà (inclusi i suoi stessi laburisti) affinché segua l’esempio di Macron. Giorgia Meloni schiera l’Italia sul consueto equilibrismo, sostenendo che riconoscere uno Stato palestinese che non esiste sulla cartina sia “controproducente“.Attualmente, sono 147 gli Stati membri dell’Onu che riconoscono la Palestina, su un totale di 193 Paesi. Tra questi ci sono undici membri Ue (Bulgaria, Cechia, Cipro, Irlanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria), ma nessuna nazione del G7. Un futuro Stato palestinese dovrebbe sorgere, teoricamente, sui territori di Gaza e della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est), tutti occupati illegalmente da Israele sin dalla guerra dei Sei giorni del 1967.La speranza, almeno da parte dell’Eliseo, è che la spinta di Macron possa indurre altri Paesi a riconoscere la Palestina, aumentando la pressione diplomatica per una fine della guerra – virtualmente la più sanguinosa che il mondo abbia conosciuto negli ultimi decenni – e per il soccorso alla popolazione civile dell’enclave palestinese.Sfollati palestinesi si accalcano per ricevere del cibo da parte di operatori umanitari al campo profughi di Nuseirat, nella Striscia di Gaza (foto: Eyad Baba/Afp)Non solo con le bombe (metà delle quali sono made in Europe), ma anche attraverso la strumentalizzazione della fame. Tel Aviv sta affamando artificialmente centinaia di migliaia di esseri umani, negando loro gli aiuti umanitari che pure vengono stipati ai confini della Striscia – tanto che a tonnellate stanno venendo letteralmente buttati via, poiché ormai deperiti – con una deliberata strategia che ricorda l’Holodomor, il genocidio degli ucraini perpetrato dalla dirigenza sovietica nel 1932-33.Un numero crescente di Paesi, inclusi i tradizionali alleati europei, sta insistendo affinché lo Stato ebraico fermi la carneficina in corso, apra i valichi e faccia entrare a Gaza gli aiuti. Durante il weekend sono stati effettuati dei lanci di generi alimentari dal cielo, mentre il governo di Netanyahu (che incolpa l’Onu per i ritardi nella consegna degli aiuti) ha acconsentito a delle “pause tattiche” di una decina di ore al giorno “fino a nuovo avviso” e all’apertura di corridoi umanitari verso tre destinazioni nella Striscia.Ma è una goccia nel mare, che secondo gli esperti non sarà sufficiente a salvare i civili dalla malnutrizione. Nel frattempo non si interrompono i crimini di guerra dell’esercito di Tel Aviv, che ogni giorno continua ad assassinare decine di palestinesi durante la distribuzione del cibo a Gaza e continua a spalleggiare le violenze dei coloni in Cisgiordania.

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    A Istanbul, iraniani ed europei tengono in vita il Jcpoa e scongiurano le sanzioni (per ora)

    Bruxelles – I colloqui di Istanbul sul nucleare iraniano sono andati relativamente bene, almeno nella misura in cui le parti coinvolte hanno deciso di mantenere aperte le trattative. Nella città turca si sono dati appuntamento i rappresentanti della Repubblica islamica e dei membri europei del Jcpoa, l’accordo di dieci anni fa sul programma atomico degli ayatollah, prossimo alla scadenza. Le cancellerie del Vecchio continente vogliono convincere Teheran a fare progressi sugli impegni assunti in sede Onu, minacciandola con la reintroduzione delle sanzioni pre-2015.Ha descritto un “colloquio serio, franco e dettagliato” con le controparti europee il viceministro degli Esteri iraniano Kazem Gharibabadi in un post su X, offrendo un sintetico resoconto dell’incontro avuto stamattina (25 luglio) con gli omologhi di Francia, Germania e Regno Unito (i membri del cosiddetto gruppo E3) presso il consolato della Repubblica islamica a Istanbul. Era stato proprio il superiore di Gharibabadi, Abbas Araghchi, ad annunciare la convocazione del tavolo a inizio settimana.دکتر تخت روانچی و من گفتگویی جدی، صریح و مفصل با مدیران سیاسی سه کشور اروپایی/اتحادیه اروپا داشتیم. آخرین تحولات مربوط به لغو تحریم‌ها و موضوع هسته‌ای مورد بحث و بررسی قرار گرفت. ضمن انتقاد جدی از مواضع آنها در مورد جنگ تجاوزکارانه اخیر علیه مردم ما، مواضع اصولی خود، از جمله در…— Gharibabadi (@Gharibabadi) July 25, 2025“Sono stati affrontati gli ultimi sviluppi riguardo la revoca delle sanzioni e la questione del nucleare“, continua il messaggio, dove il viceministro specifica che, “pur criticando in modo serio le loro posizioni riguardo la recente guerra di aggressione contro la nostra popolazione, abbiamo spiegato le nostre posizioni di principio“. Il riferimento è all’attacco israeliano del 13 giugno scorso, cui ha fatto seguito il bombardamento di tre siti nucleari della Repubblica islamica da parte degli Stati Uniti il successivo 22 giugno.Nella millenaria città sul Bosforo – già teatro, l’altroieri, di altri colloqui tra Russia e Ucraina – le squadre negoziali di Teheran, Parigi, Berlino e Londra hanno concordato di mantenere aperto il canale diplomatico, nel primo incontro tra rappresentanti del regime degli ayatollah e potenze occidentali dal cessate il fuoco mediato da Donald Trump a conclusione della cosiddetta guerra dei 12 giorni. La precedente riunione si era tenuta a Ginevra il 20 giugno.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Uno dei temi centrali della discussione odierna è stato il cosiddetto meccanismo di snapback, tramite cui gli europei minacciano di reintrodurre le sanzioni comminate contro la Repubblica islamica prima del 2015, quando vennero sospese per effetto del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), lo storico accordo di cui sono parti anche Cina, Russia e Ue e dal quale Trump ritirò gli Usa nel 2018.Le nazioni E3 hanno concordato di dare tempo l’Iran fino alla fine di agosto per riprendere seriamente le trattative, pena il ripristino di suddette misure restrittive. La scelta di questa data dipende dal fatto che la risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che disciplina il Jcpoa, scadrà il prossimo 18 ottobre, e lo snapback non può venire attivato nei 30 giorni precedenti tale scadenza.Le cancellerie europee vogliono dunque tenersi le mani libere per proporre al Consiglio di sicurezza un’eventuale reintroduzione delle sanzioni entro la prima metà di settembre. Viceversa, dopo quella data non sarà possibile far entrare in funzione il meccanismo di ripristino, e a quel punto tutte le misure restrittive decise prima del 2015 non saranno più valide a decorrere dal 18 ottobre, quando il Jcpoa cesserà di esistere. Alla vigilia dell’incontro di Istanbul, la Repubblica islamica ha fatto sapere di non essere interessata ad una potenziale proroga della risoluzione 2231.Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi (foto: Anwar Amro/Afp)Per dimostrare “buona fede”, gli europei hanno chiesto a Teheran di dimostrare il proprio impegno su alcuni punti chiave. Tra questi, la ripresa di colloqui diretti con la Casa Bianca, la piena e continuativa collaborazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), e la rendicontazione di circa 400 chili di uranio altamente arricchito (quasi al 90 per cento, soglia oltre la quale è possibile sviluppare un ordigno atomico) di cui è sconosciuta l’ubicazione in seguito agli attacchi dei B-2 Spirit a stelle strisce sulle centrali di Fordo, Natanz e Isfahan.A tirare un sospiro di sollievo, almeno parziale, è stato anche il capo dell’Aiea, Rafael Grossi, dichiaratosi “incoraggiato” dal via libera dell’Iran alla visita di una delegazione dell’agenzia “nelle prossime settimane”, suggerendo che tale apertura potrebbe spianare la strada ad un ritorno degli ispettori Onu entro la fine dell’anno. La Repubblica islamica aveva estromesso il personale dell’Aiea in seguito all’acuirsi della guerra, criticando aspramente lo stesso Grossi per la sua presunta complicità negli attacchi di Tel Aviv e Washington.

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    Macron annuncia il riconoscimento della Palestina. Israele e Stati Uniti furiosi: “Premia il terrorismo”

    Bruxelles – Mentre continua a peggiorare la catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che Parigi riconoscerà ufficialmente lo Stato di Palestina. La decisione dell’inquilino dell’Eliseo, pur nell’aria da qualche tempo, scuote comunque il mondo politico, soprattutto quello occidentale. La Francia diventerà così il primo Paese del G7 a riconoscere la statualità palestinese, aprendo una frattura diplomatica di non poco conto con gli Stati Uniti. Che, seguendo Israele, hanno immediatamente condannato la mossa del leader transalpino.Il presidente francese Emmanuel Macron ha affidato ad un post su X, nella serata di ieri (24 luglio), l’annuncio che ha scosso la diplomazia di mezzo mondo, soprattutto tra gli alleati più stretti di Parigi: “Fedele al suo storico impegno per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, ho deciso che la Francia riconoscerà lo Stato di Palestina“, ha scritto, specificando che la comunicazione formale avverrà alla prossima sessione plenaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in calendario per settembre.“L’urgenza oggi è che cessi la guerra a Gaza e che la popolazione civile riceva soccorso“, continua il post, dove si chiede “un cessate il fuoco immediato, la liberazione di tutti gli ostaggi e un massiccio aiuto umanitario” agli abitanti dell’enclave palestinese. Qui, decine di civili continuano a venire assassinati ogni giorno dall’esercito di Tel Aviv mentre tentano di mettere le mani sugli aiuti umanitari che lo Stato ebraico fa entrare col contagocce (con buona pace del conclamato accordo mediato dall’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas), scaricando peraltro la responsabilità per la mancata distribuzione sull’Onu.Fidèle à son engagement historique pour une paix juste et durable au Proche-Orient, j’ai décidé que la France reconnaîtra l’État de Palestine.J’en ferai l’annonce solennelle à l’Assemblée générale des Nations unies, au mois de septembre prochain.… pic.twitter.com/7yQLkqoFWC— Emmanuel Macron (@EmmanuelMacron) July 24, 2025Macron menziona tra le priorità anche “la smilitarizzazione di Hamas” e la ricostruzione della Striscia, passi fondamentali per “costruire lo Stato di Palestina, garantirne la sostenibilità e consentire che, accettando la sua smilitarizzazione e riconoscendo pienamente Israele, contribuisca alla sicurezza” dell’intera regione. “Non c’è alternativa“, incalza monsieur le Président, che conclude il suo messaggio con una promessa, o forse una speranza: “Conquisteremo la pace“.Di pace, tuttavia, non vuole assolutamente saperne il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il cui unico modo per rimanere al potere (e non finire sotto processo in patria e, potenzialmente, pure di fronte alla Corte penale internazionale) è proprio quello di prolungare la guerra. O meglio, le guerre.Non solo quella che da 21 mesi sta conducendo a Gaza – sulla carta contro Hamas, anche se appare sempre meno credibile questa foglia di fico per nascondere l’intento genocidiario e di pulizia etnica nella Striscia e nel resto dei territori palestinesi occupati (come certificato dal recente voto della Knesset, il Parlamento monocamerale di Tel Aviv, sull’annessione della Cisgiordania) – e che sta conoscendo in queste settimane l’ennesima, atroce recrudescenza. Ma anche le campagne condotte in Libano, l’aggressione contro l’Iran e i più recenti bombardamenti sulla Siria.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Andrew Caballero-Reynolds/Afp)Non a caso Netanyahu, che da sempre si oppone con forza alla possibilità di una statualità palestinese in qualsiasi forma, ha criticato duramente l’annuncio di Macron. Secondo l’uomo forte di Tel Aviv la mossa di Parigi “premia il terrorismo“, mentre “uno Stato palestinese in queste condizioni sarebbe un trampolino di lancio per annientare Israele, non per vivere in pace al suo fianco”. Un interessante rovesciamento di prospettive e responsabilità, se si guarda a quanto accade sul terreno.Furiosi anche gli Stati Uniti, alleati di ferro di Israele che respingono “fermamente” la fuga in avanti dell’Eliseo, definita dal segretario di Stato Marco Rubio come una decisione “avventata” che “ostacola il processo di pace” e rappresenta addirittura “uno schiaffo alle vittime del 7 ottobre“.Del resto, Washington non ha sottoscritto l’appello internazionale al governo di Tel Aviv perché fermi la carneficina in corso a Gaza e consenta l’accesso incondizionato degli aiuti umanitari. Tra i Paesi firmatari, arrivati a quota 28, c’è anche l’Italia (Roma ha iniziato ad alzare la voce con lo Stato ebraico solo dopo il bombardamento di una chiesa cattolica nella Striscia), mentre l’altra assenza di peso, tutt’altro che sorprendente, è la Germania.Il cancelliere federale di Berlino, Friedrich Merz, sentirà nelle prossime ore Macron e il primo ministro britannico Keir Starmer, per una “chiamata d’emergenza” in cui coordinare una posizione comune del gruppo di tre nazioni (noto come E3) sia sulla questione palestinese sia su un altro importante dossier: i colloqui con Teheran sul programma nucleare iraniano, che riprendono proprio oggi a Istanbul.Il premier laburista – che ieri sera ha dichiarato, in un comunicato congiunto con Macron e Merz, che “la sovranità è un diritto inalienabile del popolo palestinese” – sta fronteggiando crescenti pressioni dal suo stesso partito per seguire le orme del presidente francese. Ma per il momento non è in vista un cambio nella posizione ufficiale di Londra, nonostante Regno Unito e Canada avessero aperto la porta ad un futuro riconoscimento della Palestina lo scorso maggio, insieme alla Francia.Il primo ministro britannico Keir Starmer (foto via Imagoeconomica)D’altro canto, l’iniziativa del leader transalpino non arriva esattamente come un fulmine a ciel sereno. Da tempo il suo governo sta segnalando aperture nei confronti della causa palestinese (pur con tutte le attenzioni diplomatiche del caso), e da mesi ventilava la possibilità di legittimare formalmente lo Stato di Palestina, unendosi a diversi Paesi europei che già la riconoscono.Addirittura, la Francia avrebbe dovuto organizzare a metà giugno, insieme all’Arabia Saudita, una conferenza internazionale al Palazzo di vetro dell’Onu per rilanciare la cosiddetta “soluzione a due Stati” per la questione israelo-palestinese. L’evento è poi saltato a causa della guerra dei 12 giorni, ma il 28 e 29 luglio prossimi dovrebbe svolgersi una riunione a livello ministeriale, il che spiega bene il tempismo dell’annuncio di Macron.Attualmente, sono 147 gli Stati membri dell’Onu che riconoscono la Palestina, su un totale di 193 Paesi. Tra questi ci sono undici membri Ue (Bulgaria, Cechia, Cipro, Irlanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria), ma nessuna nazione del G7. Un futuro Stato palestinese dovrebbe sorgere, teoricamente, sui territori di Gaza e della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est), tutti occupati illegalmente da Israele sin dalla guerra dei Sei giorni del 1967.Il vicepresidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Hussein al-Sheikh, ha accolto con favore l’apertura di Macron, che spera possa aprire la strada alla “creazione del nostro Stato indipendente“. Il capo dell’Anp, Mahmoud Abbas, si è impegnato a organizzare nuove elezioni legislative e presidenziali nel 2026 e, se mai uno Stato palestinese nascerà, a smilitarizzare le milizie di Hamas.

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    Crisi Ucraina, Zelensky fa un passo indietro e promette di restaurare l’indipendenza degli organi anticorruzione

    Bruxelles – Mentre le trattative con la Russia sono in stallo, Volodymyr Zelensky sta fronteggiando un’ondata di sdegno popolare senza precedenti in patria. Un giro di vite contro le agenzie anticorruzione, descritto dai critici del presidente come una mossa per accentrare ulteriormente il potere nelle proprie mani, si è rapidamente trasformato in un micidiale boomerang politico. Alla fine, sotto crescenti pressioni interne e internazionali, il presidente è stato costretto ad un clamoroso passo indietro per disinnescare una crisi di legittimità dagli esiti imprevedibili. E ora tutti, alleati e oppositori, lo aspettano al varco.Negli ultimi giorni, Volodymyr Zelensky è finito al centro della bufera per aver promulgato nella serata di martedì (22 luglio) la controversa legge 12414, approvata poche ore prima dalla Verchovna Rada, il Parlamento monocamerale di Kiev. C’è chi parla di “errore fatale” del presidente ucraino, mentre per i cittadini scesi in piazza due giorni di fila – per la prima volta dall’inizio dell’invasione russa, sfidando apertamente i divieti imposti dalla legge marziale in vigore dal 2022 – il capo dello Stato ha superato il “punto di non ritorno“.Manifestanti a Kiev nella serata del 22 luglio 2025 (foto: Tetiana Dzhafarova/Afp)Col pretesto di contrastare presunte infiltrazioni di spie del Cremlino, le nuove norme hanno sostanzialmente privato i due principali organi per la lotta alla corruzione – l’Ufficio nazionale anticorruzione (Nabu) e l’Ufficio del procuratore speciale anticorruzione (Sapo), creati nel 2015 nel quadro delle riforme post-Euromaidan – della loro indipendenza, riportandole sotto il diretto controllo del procuratore generale, una figura di nomina presidenziale.Alla fine, sembra che le pressioni interne ed esterne moltiplicatesi nelle ultime ore abbiano spinto Zelensky a tornare sui propri passi prima che la situazione gli sfuggisse completamente di mano. Nella mattinata di ieri (23 luglio) ha incontrato i vertici delle agenzie anticorruzione e delle forze dell’ordine, promettendo al termine della riunione la presentazione di un “piano congiunto” per rinnovare le strutture finite nel mirino del governo, epurandole dalle infiltrazioni russe e migliorandone l’efficacia.Nel tardo pomeriggio di oggi, il presidente ha annunciato di aver presentato alla Rada un nuovo disegno di legge volto a “preservare l’indipendenza delle istituzioni anticorruzione“. Il testo, sostiene, è “ben equilibrato” e “garantisce un reale rafforzamento del sistema di applicazione della legge in Ucraina”, nonché una “protezione affidabile” di quest’ultimo da “qualsiasi influenza o interferenza russa“, assicurando “l’indipendenza di Nabu e Sapo“.I’ve just approved the text of a draft bill that guarantees real strengthening of Ukraine’s law enforcement system, independence of anti-corruption agencies, and reliable protection of the law enforcement system against any Russian influence or interference. The text is…— Volodymyr Zelenskyy / Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) July 24, 2025“È importante mantenere l’unità“, ha sottolineato Zelensky nel tentativo di ricucire lo strappo da lui stesso aperto. Secondo il presidente dell’Aula, Ruslan Stefanchuk (compagno di partito del presidente), il provvedimento potrebbe venire esaminato entro un mese, cioè prima della ripresa ufficiale dei lavori dell’emiciclo, tecnicamente in pausa estiva fino al prossimo settembre.Il Nabu si è detto convinto che le nuove norme “ripristineranno tutti i poteri procedurali e le garanzie di indipendenza” suoi e del Sapo. Commenti positivi sono arrivati anche dal Centro d’azione anticorruzione (AntAC), l’ong guidata da Vitaliy Shabunin, un’altra figura chiave negli avvenimenti delle ultime settimane. La nuova legge, si legge in una nota dell’organizzazione, è il risultato della dedizione degli ucraini “che negli ultimi giorni hanno dimostrato alle autorità che non permetteranno che il loro futuro europeo venga distrutto“.Ma non sono stati solo gli ucraini – dalle opposizioni parlamentari ai militari in trincea, passando per attivisti e ong – a salire sulle barricate per richiamare la leadership di Kiev al mantenimento delle promesse di rinnovamento democratico vergate col sangue delle oltre 100 vittime dell’Euromaidan, la sollevazione popolare del 2013-2014 (altrimenti nota come “rivoluzione della Dignità“) che portò alla destituzione del presidente filorusso Viktor Yanukovych, all’inesorabile avvicinamento dell’Ucraina alla comunità euro-atlantica e al parallelo allontanamento dall’orbita di Mosca.Le proteste dell’Euromaidan a Kiev, nel febbraio 2014 (foto via Wikimedia Commons)Da giorni, a suonare l’allarme con sempre più insistenza sul pericolo di uno scivolamento autoritario sono anche un numero crescente di organizzazioni internazionali e associazioni per la tutela dei diritti umani. Tra le dichiarazioni di condanna fioccate contro la legge 12414 si annoverano quella di Human rights watch, secondo cui “rischia di indebolire le fondamenta democratiche dell’Ucraina” e quella del Consiglio d’Europa, che ha “espresso profonda preoccupazione” per i recenti sviluppi.Le reprimende sono arrivate anche dagli alleati occidentali di Kiev, dal cui sostegno dipende la resistenza all’invasione neo-imperialista del Cremlino. Dagli Stati Uniti all’Unione europea, le voci critiche hanno immancabilmente evidenziato il rischio che le norme in questione finissero per minare un decennio di conquiste democratiche, nonché i progressi compiuti negli ultimi anni sotto le bombe russe, ancora più encomiabili date le circostanze.La presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, ha avuto una conversazione telefonica con Zelensky, a cui ha “chiesto spiegazioni” sull’adozione del provvedimento legislativo. Stando ai retroscena, parole dure nei confronti del governo di Kiev sono giunte anche dalla commissaria all’Allargamento Marta Kos, la quale avrebbe ricordato che il percorso di adesione al club a dodici stelle può essere interrotto precisamente per questo genere di violazioni dello Stato di diritto, come esemplificato dal caso della Georgia.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen (foto: Alexandros Michalidis via Imagoeconomica)Rispondendo alle domande dei giornalisti, i portavoce del Berlaymont hanno confermato che Bruxelles ha espresso “gravi preoccupazioni per i passi compiuti” dalla Rada e dallo stesso presidente, anticipando anche apprezzamento per il cambio di passo delle autorità ucraine prima ancora che questo si materializzasse concretamente. L’assistenza finanziaria dell’Ue, hanno reiterato, è condizionata al rispetto dello Stato di diritto e delle garanzie democratiche, ma hanno dichiarato di non voler “speculare sui prossimi sviluppi”, sottolineando che ora spetta al governo di Kiev “implementare le nuove misure”.Secondo alcune ricostruzioni, il presidente del Consiglio europeo António Costa e il capo di Stato francese Emmanuel Macron avrebbero tentato inutilmente di dissuadere Zelensky dal promulgare la legge in questione lo scorso martedì. Addirittura, gli ambasciatori delle nazioni G7 a Kiev sarebbero stati confinati in una stanza senza telefoni per ore mentre gli eventi precipitavano nella capitale ucraina, onde evitare che potessero informare in tempo reale le rispettive cancellerie.In realtà, secondo i critici del presidente e del suo governo, la deriva autoritaria sarebbe già iniziata da tempo. Il “caso Nabu” appena scoppiato in mano a Zelensky rappresenterebbe solo la punta dell’iceberg, l’ultimo atto di un attacco ampio e sistematico alle fondamenta democratiche dello Stato ucraino che va avanti da mesi. Con la scusa della guerra, dei protocolli di sicurezza e della legge marziale, il presidente e il suo cerchio magico starebbero accentrando sempre di più i propri poteri e quelli dell’esecutivo a scapito di Parlamento e agenzie indipendenti. Adesso, alleati e oppositori aspettano al varco Zelensky e i suoi, sapendo che il leader ucraino non può permettersi un nuovo passo falso.

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    Ue-Cina, von der Leyen invoca pragmatismo: “Riequilibrio commerciale per contrastare i dazi globali”

    Bruxelles – Un summit convocato con aspettative limitate, compresso da due a un solo giorno, e concluso con l’impressione che l’Unione europea e la Cina siano tenute legate solamente dalla necessità di non farsi nuovi nemici nel sempre più precario equilibrio internazionale. I vertici Ue ripartono da Pechino con in tasca una dichiarazione congiunta sull’impegno per il clima e l’intesa per un meccanismo che faciliti l’export di terre rare dalla Cina. Sui dossier principali, la guerra in Ucraina e gli attriti commerciali, nessun significativo passo avanti.“Le nostre relazioni sono a un punto di svolta. È importante ascoltarsi a vicenda e trovare soluzioni pragmatiche“, ha esordito la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in conferenza stampa a margine del 25esimo summit Ue-Cina, con cui Bruxelles e Pechino hanno celebrato i 50 anni di relazioni diplomatiche. L’Ue tira dritto sulla strategia di de-risking nei confronti del gigante asiatico: “Difendiamo i nostri interessi, nel contempo rimaniamo impegnati a favore di un dialogo franco, rispettoso e aperto”, ha spiegato la presidente dell’esecutivo comunitario. Nessuna illusione su una convergenza di vedute, ma la consapevolezza – come sottolineato dal presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa – che “il modo in cui interagiamo e cooperiamo è importante per il mondo”.I presidenti di Cina e Russia, Xi Jinping e Vladimir Putin, tra i generali durante la parata miliare a Mosca per le celebrazioni della grande vittoria [foto: imagoeconomica]A partire dal posizionamento nei confronti della guerra d’aggressione russa in Ucraina. “In qualità di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Cina ha un ruolo fondamentale“, hanno insistito i leader Ue, che da tre anni chiedono a Pechino di fare pressioni su Mosca per mettere fine al conflitto. O quanto meno di non sostenerla attivamente. “In tempo di guerra, le tecnologie a duplice uso sono spesso utilizzate come strumenti di guerra, abbiamo chiesto alla Cina di prestare attenzione”, ha dichiarato Costa. Di fronte alla negligenza di Pechino, che fa orecchie da mercante dall’inizio del conflitto, l’Ue ha già incluso diverse aziende cinesi nei pacchetti di sanzioni comminati alla Russia e ai suoi alleati.C’è poi il nodo commercio. Nel 2024 le relazioni commerciali bilaterali hanno raggiunto un valore di 730 miliardi di euro. Ma è cresciuto progressivamente anche il deficit dell’Ue nei confronti della Cina, che tocca ora i 305 miliardi. L’analisi di Bruxelles è nota: distorsioni sistemiche, barriere commerciali e la sovra-capacità produttiva di Pechino “aggravano le condizioni di disparità”. Von der Leyen ha attaccato: “A differenza di altri mercati importanti, l’Ue mantiene il suo mercato aperto alla Cina. Tuttavia, questa apertura non è ricambiata”. L’altro mercato è un riferimento agli Stati Uniti di Trump, ben presenti sullo sfondo – e nelle menti – dei leader impegnati al vertice. Tant’è che von der Leyen ha affermato chiaramente che “la necessità di riequilibrare le nostre relazioni è ancora più urgente a causa dell’aumento globale dei dazi“.Sulla destra la delegazione Ue con Ursula von der Leyen, Antonio Costa e Kaja Kallas, sulla sinistra il presidente cinese Xi Jinping e il suo team durante i lavori del summit Ue-Cina a PechinoBruxelles ha visto diversi contenziosi con Pechino negli ultimi anni: i dazi sui veicoli elettrici e l’esclusione delle imprese cinesi dagli appalti pubblici per dispositivi medici ne sono due esempi. D’altra parte, la Cina ha imposto misure di difesa commerciale “ingiustificate e di ritorsione” sei confronti del brandy, della carne suina e di prodotti lattiero-caseari provenienti dall’Ue.Sulla reciprocità e l’accesso al mercato cinese alle aziende europee, “abbiamo convenuto di lavorare a soluzioni concrete”, ha annunciato la leader Ue. Quanto alla sovra-capacità nell’economia cinese – oltre che nei veicoli elettrici, anche nell’acciaio, nelle batterie, nei pannelli solari – “la leadership cinese ha espresso la volontà di sostenere maggiormente i consumi e meno la produzione“.L’ultimo punto, l’unico in cui von der Leyen ha strappato a Xi Jinping qualcosa in più rispetto a una generico impegno, riguarda il controllo statale sulle esportazioni di terre rare dalla Cina, che secondo Bruxelles starebbe rallentando le catene di approvvigionamento globali. Le due parti hanno raggiunto un’intesa su un nuovo “meccanismo di approvvigionamento per l’esportazione potenziato”, che dovrebbe risolvere rapidamente eventuali colli di bottiglia.Nessuna dichiarazione congiunta a corredo del vertice, salvo per un impegno scritto per l’azione contro i cambiamenti climatici, nella quale Bruxelles e Pechino hanno affermato di voler “guidare gli sforzi globali per ridurre le emissioni di gas a effetto serra“, e in cui l’Ue ha incoraggiato la Cina a proporre un piano ambizioso per la riduzione delle emissioni fino al 2035 e ad aumentare i propri contributi finanziari internazionali, “in linea con le sue dimensioni e la sua responsabilità globale”.

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    I tormenti dell’Ue su Israele e sull’accordo (non attuato) per l’ingresso di aiuti umanitari

    Bruxelles – C’è un senso di “frustrazione generale” tra i Paesi Ue, incapaci di spingere Israele a mettere fine alle atrocità in corso a Gaza. È quanto filtra dall’incontro in cui gli ambasciatori dei 27 hanno fotografato le prime due settimane di messa in atto da parte di Tel Aviv dell’intesa per consentire l’ingresso massiccio di aiuti umanitari nella Striscia. Perché i “segnali positivi” a cui si è appigliata l’Alta rappresentante Kaja Kallas svaniscono di fronte alle vittime della fame e dei bombardamenti. Secondo le cifre rilanciate dalle Nazioni Unite, dieci i morti per mancanza di cibo solo questa notte, oltre cento sotto i raid dell’aviazione israeliana nelle ultime 24 ore.I termini dell’intesa raggiunta tra Kallas e il suo omologo israeliano, Gideon Sa’ar, lo scorso 10 luglio, non sono stati resi noti. Ma fissano un certo numero di convogli umanitari e di carburante da far entrare a Gaza, oltre che l’impegno di Tel Aviv a riaprire varchi e corridoi terrestri e a riparare alcune infrastrutture essenziali. “Israele deve mantenere gli impegni presi“, ha ribadito oggi (24 luglio) Anouar El Anouni, portavoce della Commissione europea per gli Affari Esteri. La stessa Ursula von der Leyen ha affermato con un post su X che le immagini della fame a Gaza sono “insopportabili” e ha invitato Israele a “mantenere le promesse” fatte all’Ue.“Sono stati compiuti alcuni progressi, ma la situazione rimane grave”, ha affermato El Anouni durante il briefing quotidiano con la stampa, aggiungendo che “i limiti delle operazioni sono chiari: siamo in tempo di guerra, in una zona di guerra, e le condizioni sono estremamente difficili per gli operatori umanitari“. A quanto si apprende, i funzionari del Servizio europeo di Azione esterna incaricati di aggiornare i Paesi membri ogni due settimane, ieri avrebbero ammesso che Tel Aviv non sta attuando l’intesa. E soprattutto, che sta offrendo a Bruxelles numeri diversi da quelli messi a disposizione dalle agenzie delle Nazioni Unite.Il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, e Kaja Kallas, al Consiglio di Associazione Ue-Israele celebrato a Bruxelles a febbraio 2025El Anouni ha assicurato che “l’Ue sta incrociando tutte le fonti per avere un quadro il più chiaro possibile, autentico e basato sui fatti”. Non solo i numeri forniti da Israele, ma anche quelli dei Paesi vicini – Egitto e Giordania -, delle ong e degli attori sul campo. Secondo il bollettino settimanale dell’Ufficio di coordinamento Onu per gli Affari umanitari (Ocha), tra il 16 e il 22 luglio, su 75 tentativi di coordinare i movimenti di aiuti pianificati con le autorità israeliane in tutta la Striscia, quasi un quarto sono stati respinti, un ulteriore 20 per cento è stato “inizialmente accettato” ma poi interrotto a causa di “blocchi o ritardi sul terreno”, il 25 per cento ha dovuto essere ritirato dagli organizzatori “per motivi logistici, operativi o di sicurezza”. Solo il restante 31 per cento (22 tentativi) è stato facilitato dall’esercito israeliano.Ieri, il direttore dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha affermato che Gaza “sta soffrendo una fame diffusa causata dall’uomo”, mentre più di 100 agenzie hanno lanciato l’allarme sulla “carestia di massa” nella Striscia ed esortato Israele a far entrare i rifornimenti. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, sarebbero ormai 113 le persone morte di fame nell’enclave palestinese. Tra il 16 e il 23 luglio, nella seconda settimana d’implementazione dell’intesa con l’Ue, l’esercito israeliano avrebbe ucciso 646 palestinesi e ferito oltre 3 mila.Diversi Stati membri, una decina, avrebbero insistito già ieri perché la Commissione europea presenti rapidamente misure per aumentare la pressione su Israele. Sottolineando che non si può attendere fino alla prossima riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue, prevista solo dopo la pausa estiva, il 28 agosto. Ma un manipolo di Paesi Ue continua a opporsi strenuamente ad eventuali misure contro Tel Aviv, sostenendo che sarebbero controproducenti. La presidenza danese del Consiglio dell’Ue ha aggiunto una nuova discussione sul tema alla riunione degli ambasciatori della prossima settimana.