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    L’UE è al centro della “battaglia delle targhe” tra Serbia e Kosovo

    Bruxelles – Ci risiamo, si è riacceso lo scontro diplomatico tra Pristina e Belgrado. Ma questa volta, al centro della “battaglia delle targhe” dei veicoli serbi in Kosovo, c’è anche l’Unione Europea e la sua strategia di equidistanza tra le due parti. Mentre Bruxelles sta tentando la ripresa di un dialogo decennale sempre più in salita, la nuova crisi sul confine settentrionale del Kosovo sta rischiando di minare definitivamente la credibilità delle istituzioni europee nel riuscire a portare a termine questo processo di mediazione.
    A far scoppiare le tensioni nella regione è stata la decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Ieri mattina (lunedì 20 settembre) i reparti speciali di polizia sono affluiti ai valichi di confine di Jarinje, Brnjak e Merdare, dove hanno fermato automobili, ciclomotori e camion e imposto l’applicazione di targhe di prova kosovare, il pagamento di una tassa di cinque euro e la stipulazione di contratti di assicurazione. La minoranza serba in Kosovo – concentrata proprio nel nord del Paese – ha protestato con forza, anche se dai suoi rappresentanti politici è arrivato l’appello a non esasperare la tensione e attendere l’intervento delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio.
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Stando a quanto dichiarato dal premier kosovaro, Albin Kurti, a imporre il cambio di targhe automobilistiche è stato il principio di reciprocità: da tempo vige l’obbligo per gli automobilisti del Kosovo di coprire la propria targa con una temporanea rilasciata dalle autorità serbe e di pagare una tassa di due euro, una volta superato il confine. Inoltre, lo scorso 15 settembre è scaduta l’intesa sulle targhe che era stata raggiunta tra i due Paesi nell’ambito dell’accordo di Bruxelles del 2013. Ecco perché, secondo il governo di Pristina, le nuove misure non sono dirette contro la popolazione serba né mirano a destabilizzare la situazione, ma sono un semplice adeguamento alla situazione creata proprio da Belgrado. Ma il rimpallo di accuse tra le due capitali sta mettendo l’Unione Europea al centro della battaglia delle targhe.
    La posizione ‘scomoda’ dell’UE
    Proprio l’Unione Europea è impegnata in questi giorni in una missione nella regione. Il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, si è recato prima nella capitale kosovara e poi in quella serba, dove ieri pomeriggio si è confrontato con il presidente Aleksandar Vučić. “Sono preoccupato e chiedo una de-escalation immediata“, è stato il commento del rappresentante UE. “È importante ridurre le tensioni, ripristinare un’atmosfera pacifica e consentire la libertà di movimento”, ha aggiunto, sottolineando che le istituzioni europee sono “pronte a facilitare i colloqui su tutte le questioni aperte nel dialogo”.
    Prima dell’incontro, il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano, aveva invitato “entrambe le parti” a utilizzare lo strumento del dialogo mediato dall’UE per risolvere le questioni aperte, “compresa la libertà di circolazione”. Nel caso specifico della battaglia delle targhe tra Serbia e Kosovo, “ci aspettiamo che entrambi i governi promuovano un clima che conduca a una riconciliazione“, aveva precisato Stano.
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Bruxelles con la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen
    Tuttavia, da ventiquattro ore Bruxelles sta ricevendo dure critiche per il suo atteggiamento attendista. Il presidente serbo Vučić si è detto “stufo di questi appelli alle due parti”, dal momento in cui il governo di Belgrado non avrebbe fatto “nulla di male”. La parte serba inizia a scalpitare sul rispetto delle condizioni stabilite dall’accordo del 2013 che non sarebbe mai stato rispettato da Pristina: “Qualcuno in Europa deve dirci una volta per tutte se esiste ancora, la nostra pazienza non è illimitata”, ha aggiunto Vučić. Al termine di una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale, questa mattina il presidente serbo ha aggiunto che “la risposta da Bruxelles dovrà arrivare entro un mese”.
    La cosiddetta battaglia delle targhe è solo la punta di un iceberg sullo status giuridico della minoranza serba in Kosovo. Tutto nasce dal rifiuto di Pristina di realizzare una misura che ritiene contraria alla sua Costituzione, vale a dire la Comunità delle municipalità serbe in Kosovo. L’associazione delle enclave serbe è prevista proprio dall’accordo dell’aprile 2013, che da allora è rimasta però solo sulla carta: per il governo kosovaro si tratterebbe di una “fase preliminare” della creazione di una nuova Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina). Belgrado insiste invece sul rispetto dei trattati: “Un silenzio europeo significherà che l’accordo di Bruxelles non esiste più e che non vogliono la creazione della Comunità delle municipalità serbe”, ha attaccato il presidente Vučić.
    La questione ha evidenti conseguenze sull’intero processo di mediazione facilitato dall’UE, che sarebbe dovuto riprendere a settembre a Bruxelles con un nuovo incontro tra Kurti e Vučić. “La condizione per continuare il dialogo è il ritiro di tutte le formazioni armate dal nord del Kosovo“, ha dichiarato il presidente serbo. “Solo dopo il ritorno allo status quo ci recheremo a Bruxelles”, è stata la precisazione da Belgrado. Se l’Unione Europea non cambierà atteggiamento, dimostrando che esistono ancora margini per rispettare le promesse fatte in questi anni, sarà sempre più difficile superare gli ostacoli sulla strada della normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo.

    I briefed EU HoMs on the situation in the north of Kosovo. I’m concerned & call for immediate deescalation. It’s important to reduce tensions, restore a peaceful atmosphere & allow for freedom of movement. We stand ready to facilitate talks on all open issues in the Dialogue. pic.twitter.com/2HvqC0ldmS
    — Miroslav Lajčák (@MiroslavLajcak) September 21, 2021

    Bruxelles ha invitato “entrambe le parti” alla moderazione e al ripristino della libertà di circolazione alla frontiera. Ma il governo di Belgrado protesta e chiede entro un mese una risposta sul rispetto degli accordi del 2013

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    Cina, la battaglia per i tre Imperi

    Siamo nel ventunesimo secolo, la Cina crea strategie politiche-economiche per sferrare attacchi mirati nello scacchiere della finanza mondiale. The trade winds, i venti del commercio orientale soffiano sempre in una precisa direzione, volti a tracciare un sentiero o un percorso nell’economia dei  tre ‘imperi’, Europa, America, Africa.
    Nell’attesissimo intervento a Davos, il presidente cinese, Xi Jinping, ha dichiarato che la Cina corre per la leadership. Di conseguenza, tutto il comparto economico cinese subirà un intervento statale con la conseguente regolamentazione, che coinvolgerà il settore finanziario, digitale, educativo, logistico e ferroviario.
    Un rapporto di Eurostat indica che gli scambi tra Cina ed Europa nel 2020 ammontano a 31 miliardi di euro rispetto agli USA, per un valore di mercato di 555 miliardi di euro. Con COSCO, il colosso statale definito da Xi Jinping “la testa del drago in Europa”, Pechino entra nelle infrastrutture UE. La compagnia statale di navigazione attualmente detiene il 51 per cento del Porto del Pireo (il più importante scalo della Grecia) e sta per rilevare un’ulteriore quota del 16 per cento dell’Autorità Portuale, raggiungendo una quota di maggioranza del 67 per cento.
    In Italia la Cina investe nella nuova ‘via della seta, Nola-Shanghai’’ attraverso un collegamento ferroviario diretto. La merce arriva via treno all’Interporto Campano di Nola (Napoli) senza nessun trasbordo intermedio, con tappe presso gli hub di Kaliningrad (Russia), Rostock (Germania) e Verona (Interterminal). L’obiettivo, il rilancio del polo logistico e del terziario avanzato dell’Interporto e un avanzamento internazionale del settore commerciale del Sud Italia. I vantaggi del servizio sono di tipo operativo, per il rapporto diretto con sdoganamento in importazione presso la dogana di Nola e per i ridotti rischi di dannosità della merce, e anche ambientali, specie in relazione alla riduzione di emissione di anidride carbonica, calcolata del 20 per cento. Già ad agosto 2019 il numero di treni merci Cina-Europa ha raggiunto i diecimila.
    Nodo cruciale è l’ampliamento delle infrastrutture cinesi, per lo più collegate a data center, cavi in fibra ottica, strutture attraverso cui scorrono le informazioni e reti Internet. Di conseguenza, porti, ferrovie e digitalizzazione sono interessi determinanti nella lotta per il dominio tecnologico, per cui lo scontro tra Stati Uniti e Cina subisce un’accelerazione. Altro tema caldo è la volontà di Pechino di rafforzare la presenza militare in Africa: l’esempio più eclatante è l’installazione militare di Gibuti, nel Corno d’Africa, proprio all’imbocco dello Stretto di Bab el-Mandeb davanti alla rotta dei flussi commerciali da e per il Canale di Suez.
    Misure in espansione sono nel settore militare. Il governo cinese, a conferma delle ambizioni globali, consolida le capacità di proiezione strutturale e rafforza la dimensione militare/strategica, sa perfettamente che laddove aumentano gli interessi economici, aumenta anche la necessità di tutelarli. La volontà d’espansione si proietta verso interessi diffusi della collettività indifferenziata. Pechino può contare su una presenza costante e assidua in campo economico/logistico, finanziario e militare nel territorio africano, partecipa a missioni di peacekeeping sotto le insegne dell’ONU.
    Altro aspetto è la situazione afghana. Il presidente Xi Jinping ha sottolineato che la Cina rispetta la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Afghanistan, persegue una politica di non interferenza negli affari interni del Paese e ha sempre svolto un ruolo costruttivo nella soluzione politica della questione afghana. Altrettanto, Putin ha dichiarato che la Cina e la Russia condividono posizioni comuni sull’Afghanistan e che i due Paesi potranno lavorare insieme per facilitare la transizione di governo in Afghanistan.
    Il confronto decisionale tra Xi Jinping  e Putin è avvenuto in seguito a un incontro del Gruppo dei Sette sull’Afghanistan. I leader del G7 hanno chiesto che venga garantita la sicurezza nel Paese, mentre l’amministrazione di Joe Biden sconta la decisione di Trump di ritirare le truppe americane dal territorio afghano durato vent’anni, anche se agli occhi del mondo appare una sconfitta dal sapore amaro.
    La rivalità tra le grandi potenze non si è attenuata nemmeno durante la crisi COVID-19. Nel 2021, il Paese del Sol Levante si apre con estremo scetticismo al dialogo con altre nazioni, nonostante la posizione di forza, ed è il primo Paese e riprendersi dal contagio e a riavviare l’economia. La Cina, attraverso una politica restrittiva e un’economia d’espansione, è stata l’unica nazione a registrare una crescita durante la pandemia dello scorso anno.
    Joe Biden, cavalcando l’onda pandemica, promuove le posizioni di coloro che sotto l’amministrazione Trump hanno sempre sostenuto di dover arginare l’espansione della Cina. L’ipotesi che il COVID-19 abbia avuto origine nell’Istituto di virologia di Wuhan consentì a Trump di dichiarare che aveva “enormi prove” che lo comprovavano. Altresì, nelle migliori delle ipotesi, gli USA sembrano intenzionati a “chiedere il conto” alla Cina.
    In attesa di nuovi sviluppi, Pechino sta contrastando le accuse al laboratorio Wuhan con una feroce propaganda anti-americana e una maggiore coercizione economica all’estero. Boicottaggio delle merci e dei servizi e dazi punitivi sono uno dei tanti mezzi utilizzati come forma di coercizione economica verso Stati terzi che intendono “appoggiare” le decisioni americane. La pandemia ha costretto i leader politici di tutto il mondo a fare i conti con una crisi economica senza precedenti, le loro decisioni appaiono irretite da un’irrazionalità politica, intrise da contraddizioni sociali. Prioritarie sono le scelte nel voler tirar fuori la propria nazione dalla recessione che, secondo questa logica, eviterebbero qualsiasi misura che porti a ulteriori restrizioni.
    Ovviamente la risposta americana non si è fatta attendere. Già da allora, l’amministrazione Trump si era mossa per imporre dazi sulle esportazioni cinesi, sanzionare i funzionari sulle mosse per limitare le libertà a Hong Kong e nello Xinjiang e negare la tecnologia vitale ad alcune delle più grandi aziende cinesi. In previsione di altri incontri in sedi più opportune, il presidente cinese Xi Jinping ha enfatizzato una politica di “doppia circolazione” che privilegia l’autosufficienza. Il team di Biden ha segnalato che continuerà a mantenere una linea dura con la Cina, mentre cerca la cooperazione verso temi che riguardano il cambiamento climatico.
    Nel tempo in cui i leader del mondo dettano le strategie, per resistere al conflitto economico tra Cina e Stati Uniti, l’Europa tenta di organizzare un controllo serrato sugli investimenti strategici provenienti dall’estero, migliorare la sua resilienza dagli attacchi diretti e indiretti e conseguentemente agli effetti collaterali della diatriba commerciale USA-Cina.
    In questi giorni si è realizzata una straordinaria alleanza indo-pacifica, che ha dato vita all’accordo AUKUS: l’acronimo riguarda i tre Paesi partecipanti, Stati Uniti-Gran Bretagna-Australia. La partnership “aggiornerà la nostra capacità condivisa di affrontare insieme il ventunesimo secolo e le sue minacce”, ha riferito Joe Biden parlando alla Casa Bianca durante la teleconferenza. Boris Johnson ha parlato di “un pilastro strategico” in quello che per Londra è il nuovo “centro geopolitico mondiale”. Ma per capire lo scopo strategico dell’accordo è necessario rileggere le parole di Johnson: “Stiamo inaugurando un nuovo capitolo della nostra amicizia e il primo compito sarà quello di sostenere l’Australia nell’acquisizione di una flotta di sottomarini a propulsione nucleare”.
    Il primo ministro australiano Scott Morrison ha replicato affermando che il Paese non porterà a completamento l’accordo da 90 miliardi di dollari australiani (66 miliardi di dollari) con la Francia per la fornitura di sottomarini, ma ne costruirà di propri, a propulsione nucleare, utilizzando la tecnologia statunitense e britannica. “La decisione che abbiamo preso di non continuare con il sottomarino Attack Class e di percorrere questa strada non è un voltafaccia ma una necessità”, ha aggiunto.
    AUKUS, soprannominato ‘patto contro la Cina’, scatena l’ira di Pechino e della Francia. Zhao Lijain portavoce del ministero degli Esteri, ha dichiarato che la Cina “monitorerà la situazione” e che “è un accordo irresponsabile”. Altrettanto dure sono le parole del ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian: “Sono veramente in collera. Avevamo instaurato un rapporto di fiducia con l’Australia’”. La ragione di tanto disappunto è la rescissione della  commessa pregressa tra Francia e Australia stipulata nel 2016, per costruire sottomarini nucleari, dal valore 31 miliardi di euro. L’UE invece ha rivelato che “non era stata informata” e che “siamo in contatto con i partner per saperne di più e ne dobbiamo discutere con gli Stati membri dell’UE per capirne le implicazioni”, ha detto il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano.
    Il giorno seguente alla pubblicazione dell’accordo, il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, ha tentato di rassicurare che “il nostro patto punta a garantire pace e stabilità”. All’unisono, il premier australiano, Scott Morrison, ha dichiarato che “i nostri sottomarini garantiranno sicurezza nella regione e saranno utili a tutti, compresa la Cina”. Ma il presidente cinese Xi Jinping, irritato, ha inviato le sue considerazioni ai tre Paesi: “Non permetteremo interferenze di forze straniere”. Su questo accordo si gioca una partita strategica per il futuro del mondo.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
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    Nord Stream 2, la costruzione del gasdotto è finita. Per Mosca sarà in funzione “nei prossimi giorni”

    Bruxelles – Sono giunti al termine ieri (6 settembre) i lavori di costruzione del controverso gasdotto da 11 miliardi di dollari Nord Stream 2, che raddoppierà la capacità di gas naturale (metano) in arrivo dalla Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico. Ad annunciarlo è la compagnia energetica russa Gazprom, che ne controlla le attività, a cui si aggiungono le parole del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov secondo cui il gasdotto Nord Stream 2 entrerà in funzione nei prossimi giorni, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Interfax.
    Il gasdotto Nord Stream 2 collegherà la Germania alla Russia
    L’ultima sezione del gasdotto è stata saldata e ora dovrà essere calato nel collegamento sottomarino sotto al Mar Baltico. Secondo Reuters, il gasdotto deve ancora ricevere la certificazione che potrebbe richiedere fino a quattro mesi di tempo. Entro fine anno dovrebbe essere pienamente operativo.
    Il percorso di Nord Stream 2 andrà a replicare quello del gemello Nord Stream che è già in attività. Si parla di circa 55 miliardi di metri cubi all’anno di gas verso la Germania a capacità massima, da raddoppiare fino a 110 miliardi di metri cubi di gas che consentono a Mosca di trasportare il gas in Europa senza passare per via terrestre attraverso l’Ucraina, come faceva prima, indebolendone la posizione strategica.
    La costruzione del gasdotto è stata fin dall’inizio osteggiata da molti Paesi, primi tra tutti gli Stati Uniti, per i timori di una maggiore influenza di Mosca sul vecchio Continente che ne dipende energeticamente. Solo a fine luglio, Berlino e Washington hanno raggiunto un accordo di massima per ultimare i lavori del progetto, promettendo sanzioni alla Russia in caso di pressioni sull’Ucraina, come l’annessione illegale della penisola di Crimea nel 2014.
    Un’opposizione che il progetto ha trovato anche in Europa, guidata in particolare dai Paesi dell’Europa orientale. Solo la cancelliera Angela Merkel ha sposato la causa, impegnandosi a portarla a termine. Da quando a fine agosto di un anno fa l’oppositore russo Alexei Navalny è stato avvelenato su iniziativa del presidente russo Vladimir Putin sono però aumentate di molto le pressioni su Merkel per abbandonare il progetto. Pressioni che sono aumentate ancora con l’ulteriore incrinarsi dei rapporti di Bruxelles con Mosca, con i Paesi dell’Europa centrale e orientale che temono l’ulteriore dipendenza energetica dei Ventisette dal gas russo.

    Saldata l’ultima sezione del gasdotto da 11 miliardi di dollari che raddoppierà la capacità di gas naturale in arrivo dalla Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico. Per il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov sarà in funzione nei prossimi giorni

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    Brexit, pressing britannico vuol rinegoziare il periodo di grazia nel Mare d’Irlanda. Ma per l’UE “il Protocollo non si tocca”

    Bruxelles – La guerra delle salsicce ricomincia. Il 30 settembre scade la proroga dell’Unione Europea al periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda e Londra è già in pressing. Il governo guidato da Boris Johnson è intenzionato a rinegoziare la durata della concessione temporanea ai controlli dei certificati sanitari per il commercio di generi alimentari refrigerati dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord da parte delle autorità UE (che nel contesto post-Brexit sono necessari per mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda).
    Il consigliere britannico per la Sicurezza nazionale, David Frost, ha annunciato ieri (6 settembre) di voler continuare a commerciare “sulla base delle pratiche attuali”, senza fissare una data di scadenza per la concessione temporanea. In realtà questo periodo di grazia sta assumendo i contorni di un tentativo di rinegoziare l’intero Protocollo sull’Irlanda del Nord dell’accordo di recesso tra UE e Regno Unito, siglato per garantire l’unità sull’isola. Lo stallo “fornirà spazio per ulteriori discussioni con Bruxelles”, ha spiegato Frost, in particolare sulle “profonde differenze” delle parti in merito all’accordo di divorzio.
    La richiesta di una “revisione totale” dell’accordo è stata già respinta a fine luglio dalla Commissione Europea. Anche questa volta la porta è rimasta chiusa: “Prendiamo atto della dichiarazione, ma non accetteremo una rinegoziazione del Protocollo“, si legge nella nota dell’esecutivo UE. “Continuiamo a sottolineare che l’accordo di recesso è un accordo internazionale e il Protocollo ne è parte integrante”. Gli sforzi di Bruxelles vanno nella direzione di identificare “soluzioni a lungo termine, flessibili e pratiche”, con l’obiettivo di “affrontare le questioni relative all’attuazione pratica del Protocollo” che stanno vivendo cittadini e imprese dell’Irlanda del Nord. Tuttavia, Unione Europa e Regno Unito sono “legalmente vincolati ad adempiere ai loro obblighi ai sensi dell’accordo“.
    Il periodo di grazia era entrato in vigore provvisoriamente all’inizio di quest’anno, con la firma dell’accordo di commercio e di cooperazione (TCA), e sarebbe dovuto scadere il primo aprile. Solo la proroga concessa dalle autorità europee il 30 giugno aveva momentaneamente risolto il conflitto diplomatico nato dalla decisione unilaterale di Downing Street di estendere il periodo di grazia fino a fine di ottobre.
    La porta sulla rinegoziazione dell’accordo rimane sigillata, ma l’Unione sembra voler evitare lo scontro frontale con Downing Street. Lo dimostra il fatto che la procedura d’infrazione avviata lo scorso 15 marzo per le presunte violazioni del Protocollo sull’Irlanda del Nord da parte di Londra è rimasta congelata (è stata momentaneamente sospesa lo scorso 28 luglio). “La Commissione si riserva i suoi diritti per quanto riguarda le procedure d’infrazione”, specifica la nota del gabinetto guidato da Ursula von der Leyen. Tuttavia, “per ora non stiamo passando alla fase successiva” all’invio della lettera di costituzione in mora.

    🇪🇺🇬🇧 Statement by @EU_Commission following today’s announcement by the UK government regarding the operation of the Protocol on Ireland / Northern Ireland 👇https://t.co/VMO4cDKzHM pic.twitter.com/JcIlGCZFLn
    — Daniel Ferrie 🇪🇺 (@DanielFerrie) September 6, 2021

    Il consigliere per la Sicurezza nazionale Frost ha annunciato che il commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord deve continuare “sulla base delle pratiche attuali”. Bruxelles si oppone al disimpegno sull’accordo di recesso

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    Bielorussia, condannati gli oppositori Kolesnikova e Znak. L’UE: “Minsk disprezza i diritti umani. Siano rilasciati subito”

    Bruxelles – È arrivato il verdetto. Maria Kolesnikova e Maksim Znak, membri del Presidium del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa, sono stati condannati dal tribunale regionale di Minsk rispettivamente a 11 e 10 anni di carcere. Entrambi sono stati ritenuti colpevoli di aver incitato la popolazione a “commettere azioni contro la sicurezza nazionale, di cospirazione per impadronirsi del potere con mezzi incostituzionali e di creazione e direzione di una formazione estremista”. In altre parole, di aver organizzato le proteste popolari e la piattaforma di opposizione al presidente Alexander Lukashenko, dopo le elezioni-farsa del 9 agosto dello scorso anno.
    Il processo a carico dei due imputati era iniziato un mese fa, dopo quasi un anno di detenzione. A settembre dello scorso anno aveva fatto scalpore la vicenda dell’arresto di Kolesnikova. L’attivista – che aveva diretto il quartier generale del candidato presidenziale Viktor Babariko e successivamente aveva offerto sostegno alla campagna elettorale di Sviatlana Tsikhanouskaya – era stata rapita dai servizi segreti bielorussi a Minsk in pieno giorno. Portata alla frontiera con l’Ucraina, le autorità avevano tentato di espellerla dal Paese, ma Kolesnikova si era opposta e aveva distrutto il suo passaporto. A quel punto era stata arrestata e portata in isolamento nel carcere della capitale.
    “L’Unione Europea deplora la continua palese mancanza di rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali del popolo bielorusso da parte del regime di Minsk “, è stata la condanna di Bruxelles, attraverso una nota del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE). “Ribadiamo la richiesta di rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri politici in Bielorussia“, che al momento “sono più di 650”. Tra questi, oltre Kolesnikova e Znak, anche “giornalisti e tutte le persone che sono dietro le sbarre per aver esercitato i loro diritti”.
    L’UE ha avvertito il regime di Lukashenko che “deve rispettare i suoi impegni e obblighi internazionali” e che le istituzioni europee continueranno i loro “sforzi per promuovere la responsabilità della brutale repressione da parte delle autorità bielorusse”. Dopo le sanzioni economiche contro Minsk e i quattro pacchetti di misure restrittive nei confronti di persone e aziende vicine al regime, è attesa a stretto giro a Bruxelles l’adozione di un quinto pacchetto di sanzioni mirate.
    Per quanto riguarda il processo che ha portato alle condanne per i due membri del Presidium dell’opposizione democratica, l’UE ha bollato come “infondate” le accuse del tribunale di Minsk. Anche la leader dell’opposizione e presidente legittima riconosciuta dall’UE, Sviatlana Tsikhanouskaya, ha puntato il dito contro gli uomini di Lukashenko: “Si tratta di terrore contro i cittadini bielorussi che osano opporsi al regime“, ha commentato su Twitter. “Chiediamo l’immediato rilascio di Maria e Maksim, che non sono colpevoli di nulla”.

    The regime sentenced Maria Kalesnikava & Maksim Znak to 11 & 10 years in prison. We demand the immediate release of Maria & Maksim, who aren’t guilty of anything. It’s terror against Belarusians who dare to stand up to the regime. We won’t stop until everybody is free in Belarus. pic.twitter.com/RbnefQzX0q
    — Sviatlana Tsikhanouskaya (@Tsihanouskaya) September 6, 2021

    I due membri del Presidium del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa sono stati riconosciuti colpevoli di cospirazione e direzione di una formazione estremista. Accuse definite “infondate” da Bruxelles, che invoca il rispetto degli obblighi internazionali

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    L’Europa deve avere una politica estera comune

    Se c’è un piccolo aspetto  positivo che si può ricavare dalla drammatica crisi afghana è quello che è stato resa ancora più chiara a tutti la non più prorogabile esigenza di creare una politica estera comune europea. Persino il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato apertamente di questa necessità per la politica europea che sempre più mostra tutte le sue incongruenze e debolezze. Il periodo della condivisione da parte dell Europa a quella che era la politica estera del guardiano del mondo statunitense, che spesso senza nemmeno consultare i propri alleati del vecchio continente  prendeva decisioni, a cui poi gli europei dovevano, anche loro malgrado adeguarsi ( proprio l invasione dell Afghanistan aveva incontrato molte resistenze fra i paesi europei) sembra ormai definitivamente alle spalle.
    Gli Stati Uniti hanno ormai mostrato in più occasioni di non voler più assumere quel ruolo di guardiano del mondo che dalla caduta del muro ha dovuto assumere per garantire l’ordine mondiale. Il chiaro intento della politica estera americana è quello di non impegnarsi più in dispute che non riguardino direttamente i propri interessi nazionali. Questo atteggiamento non è cominciato, come si potrebbe pensare, con l’amministrazione Trump, ma è iniziato ben prima. Già nell’ultimo periodo del secondo mandato di George W. Bush, la politica estera americana aveva cominciato una nuova fase maggiormente “attendista”, che è poi proseguita con maggiore vigore sotto le due amministrazioni Obama, soprattutto durante il secondo mandato.
    Fu proprio Obama, infatti, il primo presidente a parlare di un disimpegno dall’Afghanistan e per un graduale ridimensionamento del ruolo americano sullo  scenario mediorientale e africano. Ed è proprio da qui che forse è cominciato non a caso a crescere il peso internazionale della Cina in primis, verso cui Obama ha sempre adottato una politica distensiva e anche di Turchia e Russia, che proprio grazie alla “morbida” politica estera Usa sotto Obama hanno potuto allargare la loro influenza strategica sullo scacchiere geopolitico internazionale.
    Trump ha solo reso esplicito quello che Obama invece ha cercato di fare in maniera un po più surrettizia. Gli Stati Uniti hanno capito di non poter più sostenere il peso sia economico che politico di controllori degli equilibri geopolitici. Il cittadino medio americano non sopporta più che vengano privilegiate questioni di politica estera ben lontane dagli interessi legati alla economia al welfare alla sicurezza nazionale. La lotta la terrorismo non basta più per giustificare un simile gravoso impegno.
    L’Afghanistan è nata proprio a questo fine sulla scorta della grande spinta emotiva determinata dai drammatici  attacchi terroristici del 11 Settembre, ma aveva come fine principale quello di dare la caccia a chi questo attentato aveva preparato e finanziato Osama Bin Laden. L ‘Europa non ha potuto fare altro che allinearsi al volere del potente alleato atlantico, anche se vi erano stati alcuni distinguo all’epoca, anche da parte italiana. La gestione di questi venti anni di occupazione dell Afghanistan ha mostrato la sostanziale debolezza dei paesi europei sul piano organizzativo decisionale e politico. Basti pensare al fatto che i paesi europei impegnati militarmente in Afghanistan non siano stati in grado di evacuare i propri cittadini da Kabul, da soli o in uno sforzo coordinato dell’UE, senza l’assistenza degli Stati Uniti. Questo fatto da solo dimostra ulteriormente quale sia lo stato effettivo  delle capacità militari collettive dell’Europa
    Questo anche perché l’Europa nel conflitto ha sempre avuto un ruolo tutto sommato marginale e di appoggio a decisioni e strategie pensate a Washington. Malgrado ciò non si può non elogiare il lavoro svolto dai militari impegnati sul campo, a cominciare proprio da quello fatto dal contingente  italiano ad Herat.
    La terribile e disastrosa fine del conflitto con il ritiro unilaterale degli Usa, dopo i discutibili accordi di Doha, a cui gli europei nemmeno hanno partecipato, ha mostrato come sia necessaria che l Europa abbia finalmente una politica estera comune, che possa incidere sui principali teatri geopolitici in cui invece essa è sempre più marginale.
    Questo poi può rappresentare  il viatico per la costituzione di una sorta di esercito comune, che sia in grado di intervenire nei casi di crisi come quelli recentemente accaduti in Tunisia e Libia. In assenza di ciò potenze come Turchia e Russia potranno avere buon gioco nell’allargare la loro sfera di influenza anche in zone storicamente e geograficamente di primario interesse per l Europa. Il tempo delle scelte solitarie e non condivise è ormai antistorico e improduttivo, serve una chiara e definita azione comune che dia un senso ad una Europa sempre più ai margini del nuovo ordine mondiale.

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    Afghanistan, Borrell: “L’UE deve imparare la lezione. A novembre presenteremo le nuove forze a impiego rapido”

    Bruxelles – “La crisi e l’evacuazione dall’Afghanistan hanno dimostrato che non avere un’autonomia strategica sul fronte militare ha un prezzo“. Le parole dell’alto rappresentanti UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, sono il riassunto di una giornata di discussioni tra i 27 ministri della Difesa europei. Dalla riunione informale di oggi (2 settembre) a Kranj, in Slovenia, è emersa la necessità di “imparare la lezione e unire le nostre forze e la nostra volontà di agire”. Tradotto: bisogna accelerare sulla preparazione delle forze europee di impiego rapido.
    “Se non fossimo stati costretti a dipendere da decisioni di altri attori, anche se alleati, avremmo potuto sviluppare la nostra strategia e le nostre azioni per l’evacuazione dall’aeroporto di Kabul”, ha sottolineato Borrell. “Abbiamo le risorse e dobbiamo metterle insieme, altrimenti non potremo mai seguire una nostra strada autonoma”. Lo strumento delineato dall’alto rappresentante è quello della Bussola strategica per la sicurezza e la difesa, che “sarà presentata e spero approvata non oltre il 16 novembre dal Consiglio Affari Esteri”.
    Da sinistra: il ministro della Difesa sloveno, Matej Tonin, e l’alto rappresentante UE, Josep Borrell (2 settembre 2021)
    Nonostante oggi in Slovenia non sia stata trovata l’unanimità sulla formazione delle forze europee di impiego rapido, sono state poste le basi per una discussione strutturata. Si tratterà di “alzare il livello di preparazione con esercitazioni militari comuni” e “implementare nuove missioni che coinvolgano circa 5 mila soldati“. Ai giornalisti che in conferenza stampa hanno chiesto spiegazioni sulle voci di una forza da 50 mila unità, l’alto rappresentante UE ha risposto che “non è mai stato nella nostra agenda, 5 mila è un numero realistico e sufficiente”.
    Per quanto riguarda la situazione in Afghanistan, Borrell ha ricordato i numeri dell’evacuazione: 17.500 persone, di cui 520 dello staff UE e relative famiglie. “Tutti i Paesi membri sono stati coinvolti, ma ora è necessario aumentare il nostro impegno a supporto dei cittadini afghani che non hanno potuto lasciare il Paese“. Persone che, ha specificato Borrell, “sono richiedenti asilo, non migranti. Dobbiamo usare le parole giuste e comportarci di conseguenza”. In questo senso si inserisce la volontà di “impegnarsi con il governo dei talebani in una discussione basata su condizioni“, vale a dire uno sforzo diplomatico per lo sviluppo dell’assistenza umanitaria e il rispetto dei diritti umani.
    Le reazioni
    A dare i dettagli sulla discussione di oggi è stato il ministro della Difesa sloveno e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Matej Tonin: “L’iniziativa non è stata attivata perché manca l’unanimità, ma stiamo discutendo di un meccanismo a maggioranza“. Dopo un lungo stallo, l’accelerazione è stata frutto della “lezione afghana”, ha confermato Tonin: la forza di 5 mila unità “sarà composta dai Paesi membri più volenterosi, ma potrà agire a nome dell’intera Unione“. Secondo quanto spiegato dal ministro, “sarebbero le istituzioni europee a decidere quando attivare le truppe”. La presidenza di turno slovena sostiene la visione di un’Unione “che sia attore globale attraverso una difesa efficace e una diplomazia unita, non solo con un’economia forte”.

    Alla riunione dei Ministri della Difesa UE. È il momento di accelerare su autonomia strategica Europa. Epilogo impegno in #Afghanistan ci spinge ad agire su #Difesa comune e attraverso lo #StrategicCompass è necessario definire azione concreta #UE in sinergia con #NATO pic.twitter.com/lMWxfsRTeH
    — Lorenzo Guerini (@guerini_lorenzo) September 2, 2021

    Tra i favorevoli al progetto c’è l’Italia, rappresentata oggi dal ministro Lorenzo Guerini. “La crisi afghana rappresenta per l’Unione Europea un nuovo monito a compiere l’auspicato salto di qualità nella sua dimensione di difesa e nella gestione delle crisi”, ha comunicato attraverso una nota al termine dell’incontro in Slovenia. “Sono convinto che lo Strategic Compass debba essere un documento ambizioso e concreto“.
    In conferenza stampa a Roma dedicate alle misure di prevenzione del COVID, oggi il premier Mario Draghi ha anche sottolineato che “l’Unione Europea indubbiamente è stata abbastanza assente in Afghanistan, perché su certi piani non è organizzata”. Per questo motivo “c’è molto da fare”, in un momento storico in cui “si ripensano tutte le relazioni internazionali”, ha aggiunto il capo del governo. “Io non credo all’abbandono e nell’isolazionismo”.
    Anche la Germania sostiene l’idea di un rafforzamento della sicurezza e della difesa dell’UE: “Se stiamo affrontando un indebolimento permanente dell’Occidente dipende dalle conclusioni che possiamo trarre dalla pesante sconfitta in Afghanistan”, ha commentato senza mezzi termini la ministra tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer. “La nostra credibilità dipenderà dall’essere in grado di agire in modo più indipendente in futuro, anche e soprattutto come europei”.

    Alla riunione informale dei ministri UE della Difesa l’alto rappresentante UE ha ricordato che “non avere un’autonomia strategica sul fronte militare ha un prezzo”. Si cerca l’approvazione della Bussola strategica per la sicurezza e la difesa anche senza unanimità

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    La crisi in Afghanistan riaccende il dibattito sulla difesa comune europea

    Bruxelles – La crisi afghana è il filo rosso che lega i due appuntamenti strategici che l’Unione Europea ha in programma per questa settimana: la riunione informale dei ministri della Difesa che si terrà domani e dopodomani (1°e 2 settembre) e quella sempre informale dei ministri degli Esteri (chiamata Gymnich) che si terrà giovedì 2 e venerdì 3 settembre. Non mancherà “una discussione comprensiva” su quanto è accaduto dopo il rapido ritiro delle truppe occidentali da Kabul la scorsa settimana e su quali opzioni sono oggi sul tavolo dell’Unione Europea che si dice pronta a un dialogo necessario con i talebani, che, nel bene e nel male, faranno parte del futuro dell’Afghanistan.
    Entrambe le riunioni dei ministri europei si terranno a Kranj, in Slovenia, ospitate dall’attuale presidente di turno del Consiglio dell’UE e saranno presiedute dall’alto rappresentante UE per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell. La crisi in Afghanistan e gli sviluppi delle relazioni dell’UE saranno sul tavolo del vertice Gymnich, ma la discussione si interseca alla questione su come dare all’Unione Europea una difesa comune, che non significa solo un proprio contingente militare, forze armate a disposizione degli Stati membri, ma anche una comune visione strategica delle minacce dell’UE. Cosa che finora non è riuscita proprio perché gli Stati membri hanno opinioni diverse su quali siano le minacce per l’UE, ognuno con le proprie priorità strategiche.
    La riflessione innescata dalla crisi afghana farà breccia domani e dopodomani nella riunione dei ministri della Difesa, nel quadro della discussione sullo ‘Strategic compass’, la cosiddetta ‘bussola strategica’ a cui gli Stati membri stanno lavorando per orientare la rotta comune sulle minacce prioritarie alla sicurezza europea nell’arco del prossimo decennio. La crisi afghana e l’evidente disimpegno di Washington nelle dinamiche internazionali costringono a un’accelerazione della discussione e hanno riaperto a Bruxelles e dintorni il dibattito sulla necessità di rafforzare la capacità militare dell’UE e della propria autonomia strategica.
    E’ una delle lezioni dalla crisi in Afghanistan che l’UE dovrebbe imparare, ha affermato Borrell in una recente intervista al Corriere della Sera, parlando di “fallimento del mondo occidentale” ma anche di un momento spartiacque per le relazioni internazionali. Spartiacque perché costringe a una riflessione e porterà a dei cambiamenti. I lavori sulla bussola strategica “sono in corso” e si concluderanno durante il semestre di presidenza francese, presumibilmente a marzo del 2022, anche se “una prima bozza sarà disponibile già a novembre”, assicura un funzionario dell’UE che si occupa dei lavori.
    La posizione del capo della diplomazia europea è chiara: Borrell crede che i governi dell’UE debbano portare avanti una forza di reazione rapida europea per essere meglio preparati alle crisi future, come è successo in Afghanistan. La discussione va avanti da tempo: dal 2007 l’UE si è dotata di una capacità di intervento rapido per la gestione delle crisi, il cosiddetto ‘EU battle group’, che consiste in gruppi tattici o unità militari multinazionali, generalmente composte da 1.500 persone ciascuna. Come ogni decisione relativa alla politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) dell’UE, il loro dispiegamento però è soggetto a una decisione unanime del Consiglio e quindi non sono mai stati dispiegati perché di fatto manca l’unanimità in Consiglio su quali siano le priorità di dispiegamento. Oltre a una chiara mancanza di una cultura della difesa europea, c’è il tema dei numeri. Borrell ha proposto di portare a 5.000 unità il numero, perché l’Unione Europea “dovrebbe essere in grado di sviluppare una forza militare europea”: l’aumento della capacità è una delle possibili modifiche sul tavolo dei negoziati tra gli Stati membri, di cui vedremo una prima bozza già a novembre.
    La capitolazione di Kabul nelle mani dei talebani sarà dominante, ma non l’unico argomento all’ordine del giorno. Sul tavolo dei ministri degli Esteri ci sarà anche una discussione sull’Iran e sui rapporti di Bruxelles con la Cina, mentre al centro dei colloqui tra i ministri della Difesa ci saranno anche gli altri impegni geostrategici dell’UE (in Libia, nei Balcani Occidentali e in Mozambico, per citare qualche priorità indicata da funzionari europei) e infine uno scambio di vedute con la NATO e l’ONU sulle future “aree comuni” di interesse strategico.

    Il futuro delle relazioni dell’UE con Kabul in mano ai talebani e il rafforzamento dell’autonomia strategica del Continente irrompono nell’agenda della riunione informale dei ministri europei della Difesa (1° e 2 settembre) e dei ministri degli Esteri Gymnich (2 e 3 settembre). Per il capo della diplomazia europea non c’è dubbio che sia arrivato il tempo di dotarsi di una propria forza militare comune