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    Nord Stream 2, arriva la sentenza tedesca: al controverso gasdotto si applicano le regole antitrust dell’UE

    Bruxelles – La Russia dovrà applicare le regole europee antitrust al gasdotto Nord Stream 2, dividendone la gestione tra i proprietari del gasdotto e fornitori del gas che vi scorre per garantire una concorrenza leale. A stabilirlo, mercoledì 25 agosto è stata l’Alta Corte Regionale di Düsseldorf, in Germania, respingendo il ricorso presentato dalla principale società che si occupa della costruzione Nord Stream 2 AG contro il regolatore di rete tedesco (BNA -Bundesnetzagentur) che ha rifiutato di concederle un’esenzione dalle regole di concorrenza dell’Unione Europea.
    Questo significa che al controverso gasdotto destinato a collegare la Russia alla Germania attraverso il mar Baltico devono applicarsi le regole di diritto comunitario, inscritte nella direttiva UE sul mercato del gas. Nulla di nuovo, perché già la Commissione europea aveva chiarito che pur essendo un progetto “soggetto al diritto nazionale” tedesco, si inscrive nel quadro di diritto europeo di cui deve rispettare la conformità. L’unica competenza che spetta a Bruxelles sul futuro gasdotto è controllare il rispetto da parte degli Stati membri, e quindi in questo caso della Germania, della direttiva Ue sul mercato interno del gas.
    Il gasdotto Nord Stream 2 collegherà la Germania alla Russia
    La sentenza può essere impugnata dalla Nord Stream 2 AG, anche se potrebbe significare, come suggerisce Reuters, un ritardo nel completamento della rete e anche un aumento dei costi. Il controverso gasdotto guidato dalla compagnia energetica russa Gazprom, raddoppierà il volume di gas naturale trasportato dalla Russia alla Germania attraverso il mar Baltico. Replicando, nei fatti, il percorso del gasdotto gemello Nord Stream che è già in attività. Si parla di circa 55 miliardi di metri cubi all’anno di gas verso la Germania a capacità massima, raddoppiati a 110.
    Dopo varie tensioni tra Unione Europea e Stati Uniti – dovuta ai timori statunitensi di una maggiore influenza di Mosca sul vecchio Continente – a fine luglio Berlino e Washington hanno raggiunto un accordo di massima per ultimare i lavori del progetto, ormai quasi completo, promettendo sanzioni alla Russia in caso di pressioni sull’Ucraina, come l’annessione illegale della penisola di Crimea nel 2014. Il progetto vale almeno undici miliardi di dollari, e ha incontrato la resistenza non solo oltreoceano ma anche in Europa.
    La cancelliera Angela Merkel ha sposato la causa, impegnandosi a portarla a termine. Da quando a fine agosto di un anno fa l’oppositore russo Alexei Navalny è stato avvelenato sono però aumentate di molto le pressioni su Merkel per abbandonare il progetto. Pressioni che sono aumentate ancora con l’ulteriore incrinarsi dei rapporti di Bruxelles con Mosca, con i Paesi dell’Europa centrale e orientale che temono l’ulteriore dipendenza energetica dei Ventisette dal gas russo. Diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, si sono opposti al progetto perché temono l’ulteriore influenza geopolitica di Putin attraverso il gas naturale.

    Proprietari del gasdotto e fornitori del gas che vi scorre devono essere diversi per garantire una concorrenza leale, in linea con la direttiva europea sul mercato del gas. A stabilirlo è l’alta corte di Düsseldorf respingendo il ricorso della società Nord Stream 2 AG contro il regolatore di rete tedesco che ha rifiutato di concederle un’esenzione dalle regole di Bruxelles. La sentenza può essere impugnata ma rischia di rallentare il completamento del progetto

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    Afghanistan, al vertice straordinario del G7 l’UE chiederà l’estensione della scadenza del 31 agosto per l’evacuazione

    Bruxelles – La parola è d’ordine è “evacuazione”. Evacuazione del personale e dei cittadini afghani che hanno collaborato per vent’anni con le forze statunitensi, europee e della NATO, da completarsi quanto più possibile entro una settimana esatta a partire da oggi. Sarà questo il tema centrale del vertice straordinario dei leader del Gruppo dei Sette, che inizierà fra poche ore (15.30 italiane) in forma virtuale.
    Ma fa già discutere e preoccupare la scadenza fissata dal regime dei talebani per il ritiro delle truppe occidentali dal Paese. Dopo Francia, Germania e Regno Unito, anche l’Unione Europea chiederà al vertice del G7 di estendere la data oltre il 31 agosto, per portare a termine tutte le operazioni di evacuazione all’aeroporto internazionale di Kabul. Per il momento rimane contrario il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, anche considerate le minacce talebane di ritorsioni se dal primo settembre saranno ancora presenti contingenti militari stranieri in Afghanistan, come confermato ieri (23 agosto) da un portavoce ai microfoni di Sky News.
    A Bruxelles la questione crea particolare apprensione ed è probabile che durante il vertice del G7 i due rappresentanti dell’Unione – il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen – insisteranno su una linea comune di rafforzamento dell’impegno per mettere in sicurezza tutti i membri dello staff ancora sul territorio afghano. Funzionari UE hanno riferito che la priorità per l’Unione è che le operazioni di evacuazione e l’assistenza umanitaria possano continuare, anche se si dovesse andare oltre la data del 31 agosto.
    Circa 400 persone tra staff locale della delegazione UE e rispettive famiglie sono già state evacuate (il portavoce della Commissione, Eric Mamer, ha annunciato che tutto il personale afghano che ha collaborato con le delegazioni UE è in salvo), ma gli stessi funzionari non hanno voluto riportare quante ne rimangano ancora da imbarcare verso l’Europa.
    Sul tavolo ci sarà poi il tema di se e come affrontare le future discussioni politiche con il regime dei talebani. Sempre secondo le fonti europee, si dovrebbe impostare un dialogo su tre pilastri: rispetto dei diritti umani dei gruppi vulnerabili e delle donne, lotta alla corruzione interna e impegno a non fare di nuovo del Paese “terreno fertile” per terroristi e traffici illeciti. Su questo aspetto Bruxelles non nega che “Cina e Russia sono parte della questione“, dal momento in cui tutti gli attori internazionali hanno interessi per un Afghanistan stabile, “magari con obiettivi diversi”.

    At today’s @G7 Leaders call, I will announce an increase in the humanitarian support for Afghans, in and around the country, from #EU budget from over €50m to over €200m.
    This humanitarian aid will come on top of Member States’ contributions to help the people of Afghanistan.
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) August 24, 2021

    Un’altra priorità per l’Unione riguarda gli aiuti umanitari per i cittadini afghani “dentro e intorno al Paese”, come anticipato dalla presidente von der Leyen su Twitter. “Alla riunione del G7 annuncerò un aumento del sostegno dal bilancio dell’UE“, da 50 a oltre 200 milioni di euro. A questo sostegno comunitario si aggiungeranno i contributi dei singoli Stati membri UE.
    Qui si apre l’ultima questione, che interessa da molto vicino le istituzioni europee e che negli ultimi giorni ha già sollevato polemiche all’interno dell’Unione. Si tratta della gestione dei flussi migratori dall’Afghanistan che si intensificheranno con l’inizio del governo talebano. Non è un caso se la presidente della Commissione ha fatto riferimento ad aiuti “intorno al Paese”. Come riferiscono i funzionari UE, il primo obiettivo sarà quello di sostenere i programmi umanitari nei Paesi confinanti (in particolare Iran e Pakistan), per renderli “soluzioni più credibili” agli occhi degli afghani rispetto al “consegnarsi nelle mani di trafficanti”.
    Prima di discutere sulla possibilità di una ridistribuzione dei profughi tra Paesi membri UE (“la situazione è ancora troppo fluida per tracciare le dimensioni dei flussi”, riferiscono le fonti di Bruxelles), si guarda alla Turchia. Il presidente Recep Tayyp Erdogan ha già riferito che la capacità di ricezione del Paese “è limitata”, dal momento in cui è già ospitato un “gran numero” di migranti. Mentre il presidente del Consiglio UE Michel “rimane in contatto con Erdogan per discutere dei limiti di accoglienza di Ankara”, questo pomeriggio i leader del G7 proveranno a tracciare alternative percorribili.

    Per Bruxelles le priorità rimangono la messa in sicurezza di staff locale e delegazione europea anche oltre la scadenza fissata dai talebani, aiuti umanitari alla popolazione civile “dentro e intorno al Paese” e la gestione dei flussi migratori

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    Afghanistan, i corridoi umanitari UE restano un tabù: Austria, Slovenia e Ungheria vogliono frontiere chiuse ai profughi

    Bruxelles – L’Unione Europea si spacca e per l’ennesima volta dimostra di non essere in grado di trovare una linea comune sulla politica migratoria, anche quando si tratta di emergenze di portata storica. Si fanno sempre più insistenti le richieste di cittadini, di organizzazioni non governative e di deputati dei Paesi membri alle istituzioni europee di attivare corridoi umanitari per i profughi in arrivo dall’Afghanistan, a una settimana dalla presa di Kabul da parte dei talebani. Ma l’asse Lubiana-Vienna-Budapest fa muro contro quella che viene classificata come una riedizione della crisi migratoria di sei anni fa lungo la rotta balcanica.
    A sollevare le polemiche era stato ieri (22 agosto) il primo ministro sloveno, Janez Janša: “Non ripeteremo gli errori strategici del 2015, aiuteremo solo coloro che ci hanno supportato durante la missione NATO e i Paesi membri dell’UE che difendono i nostri confini esterni”. L’opposizione di Janša ha assunto particolare rilievo anche per il fatto che attualmente ricopre la carica di presidente di turno del Consiglio dell’UE (dal primo luglio fino a fine anno). “Non è compito dell’Unione o della Slovenia aiutare e pagare per tutti coloro che fuggono nel mondo“, ha rincarato la dose il premier sloveno, confermando di essersi completamente allineato alle posizioni del Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) per quanto riguarda le questioni migratorie.
    A nemmeno ventiquattr’ore di distanza è arrivata la sponda austriaca e ungherese, con un copione molto simile a quello del presidente di turno del Consiglio dell’UE. “Gli eventi in Afghanistan sono drammatici, ma non dobbiamo ripetere gli errori del 2015. La gente che esce dal Paese deve essere aiutata dagli Stati vicini”, ha commentato su Twitter il cancelliere austriaco, Sebastian Kurz. Per Vienna la priorità dell’UE deve essere “proteggere le frontiere esterne e combattere la migrazione illegale e i trafficanti di esseri umani“, anche considerata la situazione interna del Paese: “L’Austria ha accolto 44mila afghani, abbiamo una delle più grandi comunità pro-capite al mondo”, ha aggiunto il cancelliere. “Ci sono ancora grossi problemi con l’integrazione e siamo quindi contrari all’arrivo di altri profughi”.
    Da Budapest il premier ungherese, Viktor Orbán, ha fatto sapere che “proteggeremo l’Ungheria dalla crisi dei migranti” e che “deve essere evitato che i profughi lascino la regione”. Oltre a ciò, sarà poi necessario sostenere il ruolo “fondamentale” della Turchia e dei Paesi dei Balcani occidentali, per “evitare l’ingresso dei migranti nell’Unione Europea”.

    Österreich hat mit der Aufnahme von 44.000 Afghanen sehr viel geleistet. Wir haben pro Kopf eine der größten afghanischen Communities der Welt nach Iran, Pakistan & Schweden. Bei der Integration gibt es noch große Probleme & wir sind daher gegen eine zusätzliche Aufnahme.
    — Sebastian Kurz (@sebastiankurz) August 22, 2021

    In vista della riunione straordinaria del G7 convocata dal premier britannico, Boris Johnson, per domani (24 agosto), sembrano andare in frantumi le speranze dell’Unione Europea di presentarsi compatta di fronte agli interlocutori internazionali sulla questione dell’accoglienza dei profughi. Nel corso dell’audizione alla commissione Affari esteri (AFET) del Parlamento Europeo di lunedì scorso (16 agosto), l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, aveva aperto alla possibilità di applicare per la prima volta la Direttiva europea sulla protezione temporanea del 2001. Prima di essere immediatamente sconfessato proprio da un portavoce dell’esecutivo comunitario.
    Due giorni più tardi (mercoledì 18 agosto), al termine del vertice straordinario con i 27 ministri UE, la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson, aveva però ammesso che Bruxelles si sta preparando “a tutti gli scenari”. Durante il vertice si era parlato della “priorità immediata”, ovvero l’evacuazione del personale e dei cittadini comunitari e del personale locale che ha lavorato con gli Stati membri in Afghanistan (è notizia dell’ultim’ora l’imbarco di oltre 170 collaboratori UE all’aeroporto di Kabul grazie alle forze speciali francesi).
    Ma è anche stata considerata “l’instabilità che porterà probabilmente a un aumento della pressione migratoria”. In questo senso sarà necessario un sostegno ai Paesi vicini (Iran e Pakistan) e trovare una quadra a livello comunitario per i richiedenti asilo: “Allo stato attuale la situazione nel Paese non è sicura e non lo sarà per un po’ di tempo”, erano state le parole di apertura della commissaria Johansson. “Non possiamo costringere le persone a tornare in Afghanistan“.
    Reazioni da Bruxelles
    Le prese di posizione dei governi di Lubiana, Vienna e Budapest sono state accolte da durissime critiche a Bruxelles. Il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, dai microfoni di Rainews24 ha risposto seccamente a Janša, ricordandogli che “non spetta all’attuale presidenza del Consiglio dire cosa farà l’Unione Europea“. Dal momento in cui “tutte le nostre istituzioni stanno lavorando per vedere quale solidarietà è necessaria per coloro che sono a rischio dal nuovo regime”, il presidente del Parlamento UE ha invitato il premier sloveno a “discutere con le istituzioni europee” per decidere insieme a riguardo. “Tutti i nostri Paesi si sentono coinvolti nella situazione in corso in Afghanistan“.

    It is not up to the Slovenian Presidency to say what the position of the EU is on the humanitarian crisis in Afghanistan.
    We invite PM Janša to discuss with the EU institutions what the next steps should be but it’s clear we need to show solidarity. https://t.co/sK15X3Q2fZ
    — David Sassoli (@EP_President) August 22, 2021

    Posizione ribadita anche dal commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, che ha ricordato che il presidente di turno “coordina l’attività, non ha poteri decisionali di alcun tipo” a livello di politica estera europea (un incidente tra Lubiana e Bruxelles a riguardo si era già consumato a pochi giorni dall’avvio del semestre sloveno). Ma c’è di più: “L’Unione deve lavorare sull’accoglienza e sulle quote di immigrazione legale di rifugiati afghani e deve farlo anche togliendosi l’alibi della unanimità nelle decisioni“. Considerato il fatto che “so che l’unanimità non ci sarà mai”, il Consiglio dovrà agire “a maggioranza, se si vuole dare una mano ai rifugiati”.
    Dall’Italia, il presidente della commissione Esteri della Camera dei Deputati, Piero Fassino, ha fatto appello al presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, perché “richiami immediatamente il premier sloveno ad attenersi rigorosamente ed esclusivamente alle sue titolarità”. Ma dal Consiglio, per il momento, tutto tace e le uniche notizie che trapelano sono di una discussione con con il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan. “Si tratta di una sfida comune per la Turchia e l’Unione Europea”, ha commentato Michel su Twitter.
    Tuttavia, Ankara ha più volte ribadito che non diventerà il “deposito dell’UE per i rifugiati” e nega di aver ricevuto richieste per la creazione di hub per la prima accoglienza dei richiedenti asilo afghani sul suo territorio. A causa delle sue divisioni interne, l’Unione Europea sta rischiando di rimanere sempre più isolata sullo scacchiere internazionale.

    Credo che l’#UnioneEuropea abbia il dovere di lavorare sull’accoglienza e su quote di immigrazione legale dei rifugiati #afghani e abbia il dovere di farlo anche togliendosi l’alibi dell’unanimità nelle decisioni.@PaoloGentiloni al #meeting21. pic.twitter.com/WlNUqWWEAB
    — Meeting Rimini (@MeetingRimini) August 23, 2021

    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    In vista del vertice straordinario del G7 di domani, i primi ministri Janša (presidente di turno del Consiglio dell’UE) e Orbán e il cancelliere Kurz si sono opposti all’accoglienza per chi fugge dal regime dei talebani: “Non ripeteremo gli errori del 2015”

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    Bielorussia, tutti contro Lukashenko: UE e Stati Uniti tengono alta l’attenzione su repressioni interne e flussi migratori

    Bruxelles – Prosegue su due binari, quello della repressione dell’opposizione interna e quello della facilitazione del flussi migratori, la strategia del presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, per rafforzare la sua posizione nel Paese e sullo scacchiere internazionale. Nonostante le sanzioni economiche imposte a Minsk dall’Unione Europea e le condanne internazionali per la violenze nei confronti di attivisti e giornalisti indipendenti, l’ultimo dittatore d’Europa cerca di non mollare la presa, giocandosi le ultime carte per mettere a tacere le voci critiche.
    Da mesi si sta stringendo sempre più il cappio al collo dei media, come dimostrato anche dallo scandalo internazionale del dirottamento dell’aereo Ryanair Atene-Vilnius su Minsk per arrestare il giornalista Roman Protasevich, e la compagna, Sofia Sapega. Ieri (mercoledì 28 luglio) un tribunale della Bielorussia ha dichiarato “estremista” Belsat TV, televisione indipendente con sede in Polonia, dopo la minaccia del ministero dell’Interno di multare e incarcerare chiunque condivida informazioni provenienti da questo canale d’informazione.
    L’ingiunzione del Tribunale, che ha bloccato il sito web Belsat e tutti i suoi account social in Bielorussia, è l’ultimo atto di un’intensa azione di repressione dei media e della società civile: lo stesso Lukashenko ha affermato di voler “ripulire” il Paese da attivisti e media indipendenti, che a suo avviso hanno l’unico obiettivo di sovvertire l’ordine pubblico. Il vicedirettore della testata, Aleksy Dzikawicki, ha annunciato che il canale continuerà il suo lavoro in ogni caso: “Continueremo a portare informazioni indipendenti in bielorusso e senza censura”. Con un affondo al regime: “Chi detiene il potere in Bielorussia chiama ‘estremisti’ tutti coloro che si oppongono alla violenza e al terrore imposto dopo le elezioni truccate, cioè la stragrande maggioranza dei propri cittadini”.
    La situazione tragica del giornalismo bielorusso è stata recentemente descritta alla commissione Affari esteri (AFET) del Parlamento Europeo da Stanislav Ivashkevich, reporter di Belsat TV, ma risale già a cinque mesi fa la condanna a due anni di carcere per due colleghe della stessa emittente, Katsiaryna Andreyeva e Darya Chultsova, per aver ripreso la manifestazione in memoria dell’attivista Raman Bandarenka nel novembre dello scorso anno. Senza dimenticare il blocco di Tut.by, uno dei più importanti siti di informazione bielorussi, e l’arresto dei giornalisti della redazione lo scorso 18 maggio.
    Da Bruxelles è arrivata la ferma condanna della decisione del tribunale bielorusso: “È un altro esempio della repressione della libertà di espressione e di informazione sotto il regime di Lukashenko, che mira a mettere a tacere tutte le voci indipendenti”, ha accusato la portavoce della Commissione UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Nabila Massrali. Da Washington invece è arrivata la reazione della leader dell’opposizione bielorussa e presidente legittima riconosciuta dall’UE, Sviatlana Tsikhanouskaya: “I giornalisti sanno che stanno facendo la cosa giusta e stanno combattendo per la libertà del nostro Paese”.

    Belarus: EU deplores recent court decision declaring Belsat TV channel “extremist”. Another example of the crackdown on freedom of expression and freedom of information under the Lukashenko regime, aiming to silence all independent voices.
    — Nabila Massrali (@NabilaEUspox) July 28, 2021

    La dichiarazione di Tsikhanouskaya è arrivata durante il suo viaggio negli Stati Uniti, che l’ha portata a incontrare il presidente democratico, Joe Biden, il segretario di Stato, Antony Blinken, e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan. L’obiettivo è quello di raccogliere sostegno per un’azione più decisa contro il presidente Lukashenko, oltre a quello attuato – le sanzioni economiche – e promesso – il pacchetto di investimenti da 3 miliardi di euro per il futuro democratico del Paese – dall’Unione Europea. La leader dell’opposizione bielorussa ha esortato Washington a imporre misure restrittive alle aziende petrolifere, di potassio, dell’acciaio e del legno legate al regime. “Lukashenko capisce solo il linguaggio della forza. Ecco perché le sanzioni devono essere estremamente dure”.
    Il presidente Biden ha ribadito il suo sostegno alla società civile in Bielorussia nel corso del colloquio di ieri con Tsikhanouskaya alla Casa Bianca, definendosi “onorato” dell’incontro con la leader dell’opposizione: “Gli Stati Uniti sono al fianco del popolo bielorusso nella sua ricerca della democrazia e dei diritti umani universali”, ha fatto sapere via Twitter. Da parte sua, Tsikhanouskaya ha ringraziato Biden per il “potente segno di solidarietà con milioni di impavidi bielorussi” che stanno combattendo “pacificamente per la libertà”. Il Paese dell’Est Europa in questo momento “è in prima linea nella battaglia tra democrazia e autocrazia”, ha aggiunto su Twitter: “Il mondo è con noi, la Bielorussia sarà una storia di successo”.

    I was honored to meet with @Tsihanouskaya at the White House this morning. The United States stands with the people of Belarus in their quest for democracy and universal human rights. pic.twitter.com/SdR6w4IBNZ
    — President Biden (@POTUS) July 28, 2021

    Ma intanto a Bruxelles c’è apprensione anche su un altro fronte, quello del ricatto di Lukashenko all’Unione attraverso l’apertura della rotta bielorussa alle persone migranti verso la Lituania. La Commissione UE ha attivato il meccanismo europeo di protezione civile per aiutate il Paese membro ad affrontare un flusso che dall’inizio dell’anno conta oltre 2.100 migranti e richiedenti asilo, quasi tre volte in più di tutto lo scorso anno. I Paesi di provenienza sono soprattutto africani (Repubblica del Congo, Gambia, Guinea, Mali e Senegal) e mediorientali (Iraq, Iran e Siria).
    Non a caso l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, si è messo in contatto con il ministro degli Esteri iracheno, Fuad Hussein. “Ho avuto una buona conversazione su come affrontare l’aumento del numero di cittadini iracheni che attraversano irregolarmente la Bielorussia verso la Lituania”, ha fatto sapere su Twitter. “Questo è motivo di preoccupazione per l’intera UE. Contiamo sul sostegno dell’Iraq“. In aggiunta, la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, ha comunicato che sarà in visita in Lituania il primo e il 2 agosto, per ribadire l’opposizione del gabinetto von der Leyen “all’ondata di aggressione” di Minsk.
    Durante il punto quotidiano con la stampa il portavoce per gli Affari interni, la migrazione e la sicurezza interna, Adalbert Jahnz, ha confermato il supporto dell’esecutivo UE alla Lituania, negando qualsiasi tentativo di pushback alla frontiera con la Bielorussia (respingimenti illegali di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Unione Europea). “Dalla composizione dei gruppi di migranti arrivati è evidente che non si tratta di aventi il diritto di richiedere l’asilo e perciò diventa centrale il tema del rimpatrio di queste persone“. Desta però particolare perplessità tra i giornalisti a Bruxelles la decisione del governo lituano – non ostacolato nemmeno a parole dall’esecutivo comunitario – di costruire un muro lungo i 678,8 chilometri di confine tra la Lituania e la Bielorussia, per una spesa pari a circa 48 milioni di euro.

    Good conversation w/ Iraqi Foreign Minister @Fuad_Hussein1 yesterday on how to tackle increased number of Iraqi citizens irregularly crossing from Belarus into Lithuania.
    This is an issue of concern not only for one Member State but for the entire EU. We count on Iraq’s support.
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) July 28, 2021

    Mentre il sito di informazione indipendente Belsat è stato dichiarato “estremista” da Minsk, la leader dell’opposizione Tsikhanouskaya ha incontrato il presidente Biden a Washington. Bruxelles preoccupata per l’aumento dei migranti iracheni verso la Lituania

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    Stati Uniti: chi è Mark Gitenstein, il nuovo ambasciatore presso l’UE con l’occhio rivolto verso l’Est Europa

    Bruxelles – È l’uomo della continuità per i democratici statunitensi e il diplomatico chiamato a cancellare la triste parentesi repubblicana all’ambasciata presso l’Unione Europea. Dopo Ronald Gidwitz – che nel maggio 2020 aveva preso il posto di Gordon Sondland, “reo” di aver testimoniato nel processo per l’impeachment dell’allora presidente, Donald Trump – è l’avvocato Mark Gitenstein il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti a Bruxelles. La nomina è stata decisa ieri (martedì 27 luglio) dall’inquilino della Casa Bianca, Joe Biden.
    74 anni, origini ebraico-rumene (i nonni migrarono negli Stati Uniti dalla città di Botoșani alla fine dell’Ottocento), membro del consiglio della Biden Foundation ed ambasciatore statunitense in Romania dal 2009 al 2012 per volontà di Barack Obama. Gitenstein ha una lunga esperienza al fianco del presidente Biden: dal 1981 al 1989 è stato consigliere-capo presso la commissione giudiziaria del Senato, sotto la guida dell’allora senatore democratico, nel 2008 ha co-presieduto la transizione di Biden alla vicepresidenza nel gabinetto Obama e quest’anno ha fatto parte del comitato consultivo per la sua transizione presidenziale.
    Ma il nuovo ambasciatore statunitense presso l’UE è ben conosciuto anche sul territorio comunitario. Si deve a lui l’accordo di difesa dai missili balistici tra Stati Uniti e Romania, negoziato e firmato nel 2011 durante il suo mandato a Bucarest. Ma soprattutto va ricordato il lavoro del diplomatico democratico sulla lotta alla corruzione, sul miglioramento della trasparenza e sul rafforzamento dello Stato di diritto nel Paese membro UE, promuovendo un ambiente imprenditoriale equo per gli investitori internazionali e puntando sugli strumenti digitali per trovare soluzioni ai problemi di giustizia sociale.
    Tutte questioni di grande attualità non solo per la Romania, ma anche per la maggior parte dei Paesi dell’Europa centro-orientale. In particolare, Gitenstein cercherà di portare a Bruxelles la sua esperienza di mediazione per cercare di favorire il dialogo con i due governi UE che più stanno preoccupando le potenze occidentali sul fronte del rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto: Polonia e Ungheria. Se dovesse riuscirci, il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea potrà appuntare al petto ben più della Decorazione della Croce della Casa Reale di Romania.
    Un caloroso benvenuto a Gitenstein è stato riservato questa mattina dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel: “Abbiamo una grande agenda transatlantica e globale da portare avanti”, ha ricordato su Twitter, facendo riferimento al rinnovato impegno dell’amministrazione statunitense nelle relazioni con l’UE. “Abbiamo bisogno che tutti si mettano al lavoro e non vedo l’ora di lavorare con lui quando sarà confermato”.

    I welcome nomination by @POTUS of Mark Gitenstein to become US Representative to the EU.
    We have a big transatlantic and global agenda to take forward. We need all hands on deck, and I look forward to working with him when confirmed.
    — Charles Michel (@eucopresident) July 28, 2021

    Nominato ieri dal presidente democratico, Joe Biden, il diplomatico 74enne si è distinto durante il suo mandato in Romania per l’intenso lavoro sulla trasparenza, lo Stato di diritto e la lotta alla corruzione nel Paese

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    Covid, Cina rifiuta l’indagine sull’origine della pandemia. Appello dal mondo della scienza: “Cambi idea”

    Bruxelles – La Cina dice ‘no’ al piano dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di avviare una seconda fase di un’indagine sull’origine del Coronavirus ed ecco che il mondo della scienza si mobilita per convincere Pechino a cambiare idea. Unione europea, Australia, Stati Uniti e Giappone: l’appello arriva da qui, con la commissaria per l’Innovazione e la Ricerca, Mariya Gabriel, a farsi portavoce per Bruxelles insieme alla dottoressa capo scienziato australiano, Cathy Foley, a Eric Lander, Direttore dell’Ufficio per le politiche scientifiche e tecnologiche statunitense nominato da Joe Biden, al dottor Ueyema Takahiro, Membro Esecutivo del Consiglio per la Scienza, la tecnologie e l’innovazione del Giappone e a Matsumoto Yoichiro e Kano Mitsunobu, consiglieri per il ministro degli Esteri giapponese.
    Insieme chiedono a Pechino di “riconsiderare la decisione di non impegnarsi nella proposta dell’OMS di portare lo studio sulle origini del COVID alla fase successiva. La partecipazione della Cina è di importanza critica per il mondo”, si legge nella lettere pubblicata dalla commissaria bulgara.

    I join Dr. Cathy Foley, 🇦🇺 Chief #Scientist; 🇺🇸 @EricLander46; Dr. UEYEMA Takahiro, Executive Member, Council for #Science, #Technology, and #Innovation of 🇯🇵; and Drs. MATSUMOTO Yoichiro and KANO Mitsunobu, S&T Advisors to the 🇯🇵 Foreign Minister on the below letter 👇 pic.twitter.com/VLNGiaNnkY
    — Mariya Gabriel (@GabrielMariya) July 27, 2021

    L’OMS questo mese ha proposto una seconda fase di studi sulle origini del coronavirus in Cina, con analisi dei laboratori e dei mercati nella città di Wuhan, dove il primo focolaio è stato osservato ormai più di un anno fa, chiedendo trasparenza alle autorità cinesi. Una proposta che trova il consenso delle sette più grandi economie al mondo del G7 che un mese fa chiedevano una nuova “indagine trasparente e decisiva” per capire il perché dello sviluppo del virus, che da oltre un anno attanaglia l’Europa e il mondo. Non è difficile immaginare che si voglia smentire chi sostiene la tesi di una fuga del virus dal laboratorio cinese di Wuhan, da dove la pandemia ha avuto inizio, secondo l’OMS le indagini già compiute in Cina erano ostacolate dalla mancanza di dati grezzi nei primi giorni di diffusione del virus e per questo è necessario approfondire.
    “Non accetteremo un tale piano di tracciamento delle origini poiché, in alcuni aspetti, ignora il buon senso e sfida la scienza”, ha detto ai giornalisti Zeng Yixin, vice ministro della Commissione nazionale per la salute (NHC). Pechino si oppone a una politicizzazione di questa analisi, in altri termini. Secondo Reuters, Zeng avrebbe ribadito la posizione della Cina secondo cui alcuni dati non potrebbero essere completamente condivisi a causa di problemi di privacy. “Speriamo che l’OMS riesamini seriamente le considerazioni e i suggerimenti degli esperti cinesi e tratti veramente lo studio dell’origine del virus COVID-19 come una questione scientifica e si liberi delle interferenze politiche”.

    “La partecipazione di Pechino alle indagini è di cruciale importanza per il mondo”, scrivono la commissaria europea Mariya Gabriel insieme a scienziati o consiglieri scientifici di Stati Uniti, Australia e Giappone per convincere il governo. La Cina parla di strumentalizzazione politica delle indagini in corso da parte dell’OMS, che invece lamenta la mancanza di dati grezzi nei primi giorni di diffusione del virus a Wuhan

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    Montenegro, pagata la prima rata del debito da 809 milioni con la Cina grazie al supporto di tre banche occidentali

    Bruxelles – Dalle sabbie mobili del debito cinese il Montenegro potrebbe aver fatto il primo significativo passo per uscirne. Il condizionale è d’obbligo, perché la somma dovuta a Pechino è vertiginosa: 809 milioni di euro, un quinto del debito pubblico complessivo di 4,33 miliardi, il 103 per cento del prodotto interno lordo del Paese. Il governo di Podgorica ha annunciato mercoledì 21 luglio il pagamento della prima rata da 33 milioni all’Export-Import (Exim) Bank of China, ente di credito statale con vocazione internazionale, e spera di essersi messo alle spalle lo scenario peggiore: quello di cedere porzioni del territorio nazionale alla Cina.
    “L’incredibile successo”, come lo ha definito il ministro delle Finanze, Milojko Spajić, è un accordo di “copertura” con tre banche occidentali per proteggere il rischio valutario (perdita potenziale per chi investe all’estero) di un prestito contratto con la Cina nel 2014, che ha abbassato il tasso di interesse dal 2 allo 0,88 per cento (e scambiato da dollaro a euro). Il governo guidato da Zdravko Krivokapić non ha voluto rendere noto quali enti hanno sostenuto l’operazione, ma il ministro delle Finanze ha specificato che “il creditore è ancora la cinese Exim Bank, ma alla transazione hanno partecipato due banche americane e una banca francese“.
    Il percorso dell’autostrada A1 Bar-Boljare in costruzione, Montenegro (fonte: Il Post)
    Il finanziamento all’ente di credito cinese era stato chiesto sette anni fa dal governo di Milo Đukanović (allora premier, oggi presidente della Repubblica) per finanziare la costruzione del primo tratto dell’autostrada che collegherà il porto montenegrino di Antivari (Bar) alla località di Boljare, circa 160 chilometri dal Mar Adriatico al confine con la Serbia. I 41 chilometri in costruzione a nord di Podgorica costituiscono uno dei tratti autostradali più costosi al mondo: oltre 20 milioni di euro al chilometro, più di dieci volte il costo medio europeo.
    Gli altri 120 sono ancora da costruire e dipenderanno dalle capacità di Podgorica di ripagare il debito: la prossima rata è fissata a gennaio 2022, anche se potrebbe essere concessa una proroga per le difficoltà economiche causate dalla pandemia COVID-19. Secondo quanto riportato dal Financial Times, se Podgorica non fosse riuscita ad adempiere ai propri obblighi entro la fine di luglio, Pechino avrebbe avuto il diritto di acquisire il controllo di parte del territorio montenegrino, verosimilmente uno sbocco sul Mediterraneo.
    La notizia dell’intervento dei tre istituti di credito occidentali ha fatto tirare un sospiro di sollievo anche a Bruxelles, dove da mesi la questione è rimasta pendente. Le conseguenze di un’eventuale cessione parziale di sovranità da parte del governo di Podgorica alla Cina per insolvenza non coinvolgono direttamente l’Unione Europea, ma gli effetti indiretti sarebbero molto gravi sul piano dell’allargamento UE nella regione balcanica.
    Attualmente il Montenegro è il Paese allo stadio più avanzato nel processo di adesione all’UE tra i sei dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Serbia, Macedonia del Nord). Tuttavia, la presenza e il controllo diretto di una porzione del territorio nazionale da parte di uno degli avversari geopolitici più temuti dall’Unione nell’area balcanica potrebbe mettere a serio rischio l’intero progetto di fare del Montenegro il ventottesimo Paese membro UE. Rischio noto sia al Parlamento Europeo, che già a maggio chiedeva un intervento a sostegno del vicino balcanico, sia alla Commissione UE.
    Il ponte Moracica, presso Podgorica, lungo l’autostrada A1 Bar-Boljare, Montenegro
    La richiesta di assistenza inviata in primavera dal vicepremier del Montenegro, Dritan Abazović, è rimasta solo all’apparenza inascoltata (anche perché l’Unione non era tenuta a pagare di tasca propria il debito di un Paese non-membro). È già in campo uno schema di aiuti finanziari da 60 milioni di euro, oltre al Piano economico e di investimenti da 29 miliardi per la regione sbloccato dall’accordo sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III. Parallelamente, fonti a Bruxelles hanno fatto sapere che erano state sondate le piste del Kreditanstalt für Wiederaufbau (istituto di credito per la ricostruzione tedesco), dell’Agenzia di sviluppo francese e della Cassa Depositi e Prestiti italiana, per guidare gli aiuti finanziari europei. Tutto questo prima dell’intervento dei tre istituti di credito di cui ancora non si conoscono i dettagli.
    In attesa di avere più informazioni a disposizione, la Commissione Europea “continuerà a sostenere il Montenegro nel suo percorso verso l’adesione”, ha assicurato la portavoce per la Politica di vicinato e l’allargamento, Anna Pisonero. “In questo contesto lavorerà con il Paese per trovare soluzioni finanziarie per i suoi progetti di investimento e per garantire anche la sostenibilità del suo debito pubblico”. In cantiere per il governo Krivokapić c’è la rivalutazione dei beni dello Stato, con l’obiettivo di venderne alcuni per raccogliere soldi da destinare al ripianamento dei debiti.
    È comunque difficile che la sola vendita di asset statali – di cui il ministro delle Finanze non ha saputo dare una stima – e le privatizzazioni possano essere sufficienti per colmare il buco da 809 milioni di euro con Pechino. Ecco perché dovrà mettersi in moto un circolo virtuoso nell’economia del Paese. Le sabbie mobili del debito cinese non sono ancora superate e la strada verso l’adesione all’Unione Europea chiede continui sforzi politici e finanziari al Montenegro.
    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Podgorica ha raggiunto un accordo di “copertura” con due istituti di credito statunitensi e uno francese, rimettendosi sulla strada dell’adesione all’Unione Europea. Il prestito era stato chiesto nel 2014 per la costruzione dell’autostrada A1 Bar-Boljare

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    Nord Stream 2, da USA e Germania sì al completamento del gasdotto ma previste sanzioni alla Russia in caso di pressioni sull’Ucraina

    Bruxelles – Il Nord Stream 2 si farà, ma saranno previste sanzioni se la Russia dovesse usare il suo gas per fare pressioni sui Paesi dell’Europa centrale e orientale e in particolare sull’Ucraina. Dopo anni di posizioni inconciliabili, gli Stati Uniti e la Germania hanno rivelato mercoledì 21 luglio un accordo per portare a termine i lavori del gasdotto Nord Stream 2, ormai completo quasi al 98 per cento, ma contro cui gli USA si erano detti molto contrari per i timori di una maggiore influenza geopolitica e dipendenza energetica dell’Europa dal presidente russo Vladimir Putin, attraverso il gas naturale. Mosca è uno dei più grandi esportatori di gas naturale al mondo.
    Il gasdotto Nord Stream 2 collegherà la Germania alla Russia
    Il controverso gasdotto guidato dalla compagnia energetica russa Gazprom, raddoppierà il volume di gas naturale trasportato dalla Russia alla Germania attraverso il mar Baltico. Replicando, nei fatti, il percorso del gasdotto gemello Nord Stream che è già in attività. Si parla di circa 55 miliardi di metri cubi all’anno di gas verso la Germania a capacità massima. In una nota congiunta pubblicata ieri in serata, Berlino si è impegnata a rispondere a qualsiasi tentativo della Russia di usare l’energia come arma geopolitica contro l’Ucraina e altri paesi dell’Europa centrale e orientale.
    “Ci impegniamo a lavorare insieme per garantire che gli Stati Uniti e la Unione Europea possano rispondere insieme all’aggressione russa e alle attività maligne, compresi gli sforzi russi per usare l’energia come arma”, si legge nel comunicato. Se la Russia tenterà di utilizzare l’energia come arma o “commetterà ulteriori atti aggressivi contro l’Ucraina” come l’annessione illegale della penisola di Crimea nel 2014 “la Germania agirà a livello nazionale e premerà per misure efficaci a livello europeo, comprese sanzioni, per limitare le capacità di esportazione russa in Europa nel settore energetico, compreso il gas. “Questo impegno”, conclude la nota, “è progettato per garantire che la Russia non utilizzi impropriamente alcun gasdotto, incluso il Nord Stream 2, per raggiungere obiettivi politici aggressivi utilizzando l’energia come arma”.
    L’accordo tra Berlino e Washington cerca di rassicurare chi teme – anche negli Stati Uniti – i pericoli strategici del gasdotto da 11 miliardi di dollari. In caso di sanzione, Berlino promette dunque di limitare il flusso di gas russo in arrivo in Germania ed eventualmente trascinare il caso a Bruxelles per chiedere misure comuni europee. Le Istituzioni di Bruxelles per ora se ne sono chiamate fuori, il progetto è nazionale e riguarda solo la Germania e soprattutto l’UE ritiene che un nuovo gasdotto non sia necessario per l’approvvigionamento energetico del Continente. Negli ultimi dieci anni ha investito “in altri gasdotti, terminali di importazione di gas naturale liquefatto (GNL) e interconnettori in Europa che assicurano forniture sufficienti per soddisfare le esigenze energetiche del Continente”, ha chiarito Ditte Juul Jorgensen, direttore generale del dipartimento per l’energia della Commissione europea in audizione in Parlamento Ue qualche mese fa.
    Berlino prevede di nominare inoltre un inviato speciale incaricato di sostenere progetti energetici bilaterali con l’Ucraina, con un budget di 70 milioni di dollari e anche un Fondo verde per l’Ucraina per sostenere la transizione energetica, l’efficienza energetica e la sicurezza energetica dell’Ucraina con una dotazione iniziale di almeno 170 milioni di dollari. Nonostante le promesse, l’Ucraina non sembra aver preso bene la notizia definendo il Nord Stream 2 “un’arma geopolitica che sarà senz’altro usata contro l’Ucraina e contro l’Europa”, ha detto Andriy Yermak, il capo di gabinetto del presidente ucraino.

    Washington cede alla cancelliera Merkel e dà il suo via libera a completare la costruzione del controverso gasdotto per portare il gas naturale russo in Europa. Per rassicurare gli alleati, Berlino promette di limitare il flusso di gas russo in arrivo in Germania in caso di pressioni sull’Europa orientale e centrale ed eventualmente trascinare il caso a Bruxelles per chiedere misure comuni europee