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    COP26: il carbone frena le ambizioni di Glasgow, accordo sul clima al ribasso. L’UE: “Il lavoro non è finito”

    Bruxelles – Due settimane di negoziati intensi per arrivare a un accordo che va indiscutibilmente nella giusta direzione, ma non entusiasma proprio tutti. La Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) si è chiusa sabato sera (13 novembre) con la firma di un Patto per il clima di Glasgow, in cui gli oltre 190 Paesi partecipanti si sono impegnati a rafforzare i propri obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e a rivederli ogni anno a partire dal 2022 per “mantenere vivo” l’obiettivo di circoscrivere la temperatura globale entro i 1,5°C, in linea con quanto prescritto ormai sei anni fa dagli accordi di Parigi.
    Oggi le stime degli esperti parlano di una rotta globale che porterebbe a una temperatura compresa tra 1,8°C e 2,4°C, per questo nelle conclusioni i Paesi si sono impegnati a rivedere ogni anno (e non più ogni cinque, come accade ora) le loro traiettorie con un nuovo processo di revisione, per mantenersi sulla buona strada per 1,5°C di riscaldamento. Il tassello più rivoluzionario e allo stesso tempo più deludente per il mondo ambientalista dell’accordo di Glasgow è però il riferimento al carbone, tra i combustibili fossili il più inquinante e responsabile di circa il 40 per cento delle emissioni di CO2.
    L’accordo di Glasgow è considerato positivo a metà perché per la prima volta in un patto internazionale sul clima delle Nazioni Unite i Paesi si impegnano a “ridurre gradualmente” la parte di loro energia prodotta dal carbone, ma il testo finale è stato in parte annacquato all’ultimo quando l’India, sostenuta dalla Cina e da altri Paesi in via di sviluppo più dipendenti dal carbone, si è opposta alla dicitura “eliminazione graduale”, spingendo per sostituirla con un impegno più tiepido a “ridurre gradualmente” (“phase down”) il loro uso di energia prodotta da carbone. Il compromesso sul carbone è un netto passo avanti in termini di impegni rispetto a quanto le grandi potenze globali erano riuscite a ottenere, anche nel quadro dei negoziati G20, ma manca anche di un chiaro riferimento temporale a quando l’impegno dovrebbe attuarsi.
    Alok Sharma
    Ai Paesi è servito un giorno in più per chiudere l’accordo, facendo concludere il vertice sabato invece che venerdì. Il presidente della COP26, il britannico Alok Sharma, si è detto “profondamente dispiaciuto” per come si sono conclusi gli eventi, ma era necessario preservare l’accordo nel suo insieme e dunque arrivare a un compromesso con quelle economie che non si ritengono pronte ad abbandonare completamente l’uso del carbone per produrre energia. “I testi approvati sono un compromesso. Riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi”, ha ammesso anche Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite al termine della COP. “Fanno passi importanti, ma purtroppo la volontà politica collettiva non è bastata a superare alcune profonde contraddizioni”.
    Passi avanti si sono registrati sulla finanza climatica, ovvero il tentativo di ridurre il divario finanziario tra Paesi ricchi e poveri per la lotta ai cambiamenti climatici e anche l’adattamento ad essi (ad esempio la costruzione di infrastrutture protettive). Tutti i Paesi sviluppati si sono impegnati a raddoppiare la quota collettiva dei finanziamenti per l’adattamento entro il 2025 e a raggiungere l’obiettivo di 100 miliardi di dollari ai Paesi poveri “il prima possibile”. Le stime presentate proprio in occasione della COP26 dicono che l’impegno per 100 miliardi non sarà raggiungibile prima del 2023, con circa 3 anni di ritardo sulla tabella di marcia.
    In ultimo, ma non da meno, dopo due tentativi falliti alle precedenti COP di Katowice e Madrid, i Paesi hanno concluso un accordo sul regolamento dell’accordo di Parigi, compreso l’insieme delle regole (l’articolo 6 rimasto incompleto) che disciplina i mercati globali del carbonio e sugli obblighi di trasparenza e rendicontazione delle emissioni di CO2.
    Le reazioni europee
    Ursula von der Leyen
    L’Unione Europea – tra le potenze partecipanti più ambiziose in termini climatici – è contenta a metà di quanto raggiunto a Glasgow dopo due intense settimane di negoziati. “La COP26 è un passo nella giusta direzione. I 1,5 gradi Celsius rimangono a portata di mano; ma il lavoro è tutt’altro che finito”, riassume la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in una nota che fa seguito alla sigla del patto climatico. “Il minimo che possiamo fare ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e poi puntare più in alto”, aggiunge, dando appuntamento a tutti alla prossima COP che si terrà in Egitto nel 2022. L’augurio che “ci metta saldamente sulla buona strada per i1,5 gradi”.
    Pur non essendo un accordo perfetto, “mantiene vivo l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Ora, le promesse devono essere mantenute e gli impegni consegnati rapidamente. La lotta al cambiamento climatico non può subire ulteriori ritardi”, ha ammonito in un tweet il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli.

    Although not perfect, #COP26 Glasgow keeps the goal of limiting global warming to 1.5 degrees alive. Now, promises must be kept and commitments delivered on quickly. The fight against climate change cannot suffer any further delay.
    — David Sassoli (@EP_President) November 14, 2021

    Presente a Glasgow nella seconda settimana di lavori (8-12 novembre) anche una delegazione di eurodeputati. Per il francese Pascal Canfin (Renew Europe) – capo delegazione e presidente della commissione Ambiente (ENVI) – “l’accordo alla COP26 presenta alcuni buoni passi avanti sull’obiettivo di raccogliere 100 miliardi di dollari per i paesi in via di sviluppo vulnerabili e la coalizione per fermare il finanziamento pubblico di nuovi progetti di combustibili fossili all’estero. Tuttavia, dobbiamo ammettere che l’accordo si basa sul minimo comune denominatore. La priorità ora per tutti i più grandi emettitori è quella di condividere tabelle di marcia concrete e credibili verso emissioni nette zero”.
    Gli impegni collaterali alla COP26
    A margine delle discussioni vere e proprie della COP26, si sono tenute varie riunioni collaterali che hanno portato ad alleanze o impegni all’unanimità tra gruppi ristretti di Paesi. La COP26 si è aperta con un impegno di oltre 100 Paesi a fermare la deforestazione entro il 2030, compresi quelli come Brasile, Canada, Colombia e Russia che contano l’85 per cento delle aree forestali del mondo. Molti critici mettono in evidenza che l’impegno non è vincolante e che questa promessa era già stata fatta nel 2014 e gli obiettivi per il 2020 di ridurre il tasso di deforestazione al 50 per cento sono stati mancati con un enorme margine di difetto.
    Venticinque Paesi – compresa l’Italia – si sono impegnati poi a porre fine al finanziamento diretto internazionale con fondi pubblici per i sussidi ai fossili entro il 2022 e 103 Paesi hanno sottoscritto il Global Methane Pledge, l’alleanza lanciata da USA e UE per ridurre le emissioni globali di metano del 30 per cento entro il 2030. Segnali positivi (anche se poco concreti) di un avvicinamento tra Cina e USA, che hanno siglato un accordo per lavorare insieme sulla questione climatica. Nulla di molto concreto, ma è un segnale positivo che i due maggiori emettitori al mondo (rispettivamente il 31 e il 14 per cento delle emissioni al mondo) abbiano intenzione di discutere di prima, nonostante i loro rapporti diplomatici tesi.

    Luci e ombre di un compromesso che va senza dubbio nella giusta direzione, ma che in molti si aspettavano più ambizioso. Von der Leyen: “Il minimo ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e puntare più in alto”

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    La Lituania dichiara lo stato di emergenza sul confine bielorusso. Esercito in stato di allerta per la crisi migratoria

    Bruxelles – Dopo la Polonia, anche la Lituania ha dichiarato lo stato di emergenza in risposta alla crisi migratoria scatenata dal presidente bielorusso, Alexander Lukashenko. A partire dalla mezzanotte di oggi (mercoledì 10 novembre) e per i prossimi 30 giorni sarà limitato l’accesso ai non-residenti e il movimento di veicoli non autorizzati in un’area larga cinque chilometri lungo il confine sud-orientale con la Bielorussia.
    La misura promossa dalla ministra dell’Interno, Agnė Bilotaitė, è stata approvata nel tardo pomeriggio di ieri (9 novembre) dal Seimas, il Parlamento nazionale, con 122 voti a favore su 141. È la prima volta che in Lituania entra in vigore lo stato di emergenza, da quando il Paese ha dichiarato l’indipendenza dall’Unione Sovietica l’11 marzo del 1990. Oltre al divieto di ingresso nella zona di frontiera per i civili non autorizzati e la possibilità della guardia di frontiera di fare perquisizioni indiscriminatamente, il pacchetto di misure include l’uso di fondi di riserva del governo per rispondere alla crisi e limitazioni dei diritti dei richiedenti asilo già alloggiati nel Paese: per esempio, restrizioni nella comunicazione per iscritto o telefoniche verso l’estero e ilm divieto di assemblea nelle strutture di accoglienza dei migranti a Kybartai, Medininkai, Pabradė, Rukla e Vilnius.
    La ministra dell’Interno, Agnė Bilotaitė, e la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, in vista sul confine tra Lituania e Bielorussia
    “La situazione alla nostra frontiera è stabile e sotto controllo, ma osservando ciò che sta accadendo al confine bielorusso-polacco, dobbiamo essere preparati a diversi scenari“, è stato il commento della ministra dell’Interno. Spiegando la decisione di imporre lo stato di emergenza, Bilotaitė l’ha definita “proporzionata” rispetto alla “minaccia alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico” di un arrivo massiccio di richiedenti asilo dalla Bielorussia. Così come sta accadendo dallo scorso 2 settembre in Polonia, questa misura “ci permetterà di chiudere completamente il confine con la Bielorussia”, ha aggiunto la ministra. L’esercito è stato messo in stato si allerta.
    La scelta della Lituania di dichiarare lo stato di emergenza è arrivata dopo il precipitare della situazione alla frontiera polacca, con l’arrivo di centinaia di migranti (Varsavia parla di oltre 4mila) agevolato dal regime Lukashenko. Da mesi il presidente bielorusso sta utilizzando il flusso irregolare di migranti come “strumento di guerra ibrida” – parole delle istituzioni europee – in risposta alle sanzioni economiche imposte da Bruxelles. Ma nelle ultime settimane la situazione sembra essere sul punto di sfuggire dal controllo delle autorità di frontiera della Polonia. Questa mattina due gruppi di migranti, incalzati dalle forze dell’ordine bielorusse, hanno sfondato la barriera innalzata dall’esercito polacco nei pressi dei villaggi di Krynki e Bialowieza. In risposta, circa 50 persone sono state arrestate per attraversamento illegale del confine.

    A section of the barbed wire fence has been removed. Polish servicemen formed a human shield to cover the hole and are trying to scare migrants off with a helicopter. The crowd is chanting “Germany!” pic.twitter.com/P99Yd9SRdO
    — Tadeusz Giczan (@TadeuszGiczan) November 8, 2021

    È da lunedì (8 novembre) che oltre 12mila militari in assetto antisommossa si stanno opponendo all’ingresso dei richiedenti asilo in arrivo dalla Bielorussia, con scontri in cui sono rimasti feriti anche alcuni bambini. Nei fatti si tratta di pushback, respingimenti di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Unione Europea: secondo le regole comunitarie, sono pratiche illegali. Nonostante ciò, l’attenzione dell’UE è tutta focalizzata sul sostegno a Varsavia nel proteggere le frontiere (nazionali ed esterne dell’Unione) e sul denunciare “l’aggressione di un regime illegittimo e disperato”, come ha commentato la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson. Bruxelles vuole “evitare una nuova crisi umanitaria alle frontiere” e la priorità più urgente è “porre fine agli arrivi di migranti all’aeroporto di Minsk“, ha aggiunto la commissaria in audizione alla commissione per le Libertà civili (LIBE) del Parlamento UE. A questo scopo “stiamo intensificando i contatti con i Paesi partner” da dove il regime di Lukashenko organizza voli per richiedenti asilo (Iraq, Iran, Siria e Paesi africani della Costa d’Oro).
    Parallelamente, l’UE sta preparando un nuovo pacchetto di sanzioni (il quinto) contro la Bielorussia, per estenderle a individui e organizzazioni che contribuiscono alla strumentalizzazione della migrazione. La discussione è prevista per oggi al Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (Coreper), mentre alla mini-sessione plenaria del Parlamento UE che si aprirà questo pomeriggio è stata aggiunta in extremis una discussione sulla crisi migratoria al confine tra Polonia e Lituania. Ieri mattina il Consiglio dell’UE ha invece deciso di sospendere parzialmente l’accordo di facilitazioni per l’ottenimento dei visti sul territorio comunitario per chi proviene dalla Bielorussia.

    Con il precipitare della situazione in Polonia, Vilnius ha deciso di introdurre la misura che vieta l’accesso a un’area di 5 chilometri lungo la frontiera e limita i diritti dei migranti già presenti sul territorio nazionale

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    Da UE, USA e Regno Unito 8,5 miliardi di dollari per sostenere la decarbonizzazione del Sudafrica

    Bruxelles – Unione Europea, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania si sono uniti in un partenariato da almeno 8,5 miliardi di dollari (7,5 miliardi di euro) per aiutare il Sudafrica nella decarbonizzazione della propria economia. L’annuncio è arrivato oggi (2 novembre) a margine della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) in corso a Glasgow: il budget iniziale di 8,5 miliardi di dollari attraverso meccanismi di finanziamento, prestiti agevolati, investimenti e strumenti a rischio condiviso servirà per aiutare il Paese ad aggiornare i suoi impegni sulla riduzione di CO2, con particolare attenzione al sistema elettrico.
    L’obiettivo è quello di riuscire a sbloccare altri investimenti dal settore privato. Le previsioni dei 5 Paesi occidentali stimano che il partenariato preverrà fino a 1-1,5 miliardi di tonnellate di emissioni nei prossimi 20 anni e aiuterà il Sudafrica ad abbandonare in maniera definitiva il carbone. “Il Sudafrica accoglie con favore l’impegno assunto nella Dichiarazione politica a sostegno dell’attuazione del nostro contributo determinato a livello nazionale, che rappresenta l’ambizioso sforzo del nostro Paese per sostenere la battaglia globale contro il cambiamento climatico”, ha commentato il capo di Stato della Repubblica del Sudafrica, Cyril Ramaphosa. A sostegno della transizione del Paese “attendiamo con impazienza una partnership a lungo termine che possa fungere da modello appropriato di sostegno per l’azione per il clima dai Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo”.
    “Questa partnership è una novità globale e potrebbe diventare un modello su come supportare la giusta transizione in tutto il mondo”, ha aggiunto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. “Unendo le forze, possiamo accelerare l’eliminazione graduale del carbone nei paesi partner, sostenendo al contempo le comunità vulnerabili che dipendono da esso. Garantire una transizione giusta è una priorità per l’UE, sia in patria che all’estero”.

    A margine della COP26 di Glasgow, Bruxelles insieme a Francia, Germania, Regno Unito e USA lancia un’iniziativa finanziaria per la transizione energetica del Paese. Il presidente Ramaphosa: “Serve sostegno a lungo termine all’azione per il clima delle economie in via di sviluppo”

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    I negoziati di adesione UE di Albania e Macedonia del Nord dovrebbero iniziare “entro la fine del 2021”

    Bruxelles – C’è una nuova data-limite per l’apertura dei negoziati di adesione all’UE di Albania e Macedonia del Nord: il 31 dicembre 2021. Ma stavolta sarà bene che non si riveli l’ennesima promessa non mantenuta da Bruxelles, o il processo di allargamento dell’Unione nei Balcani Occidentali rischierà di essere compromesso alla radice.
    L’obiettivo è stato fissato dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, durante la prima conferenza stampa del suo viaggio di tre giorni nelle sei capitali balcaniche. Accanto a lei, sulla tribuna a Tirana, lo sguardo del premier albanese, Edi Rama, è uno di quelli ancora pieni di fiducia nella prospettiva europea del Paese, ma con una punta di frustrazione per i continui rinvii delle istituzioni UE, nonostante tutte le richieste per l’apertura dei capitoli negoziali siano già state soddisfatte.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il premier albanese, Edi Rama, a Tirana (28 settembre 2021)
    “Voglio essere molto chiara, io e il mio gabinetto siamo fortemente convinti che il futuro dell’Albania sia nell’Unione Europea”, ha esordito von der Leyen. “Per questo motivo vogliamo che le prime conferenze intergovernative si possano organizzare entro la fine dell’anno“. La presidente dell’esecutivo comunitario ha riconosciuto gli sforzi del Paese nell’intraprendere il cammino europeo – in particolare “sulla riforma del sistema giudiziario, la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata” – e ha definito il vertice UE-Balcani Occidentali in programma il prossimo 6 ottobre a Kranj (Slovenia) “un’occasione per dialogare direttamente con un futuro membro dell’Unione come è l’Albania”.
    Il premier albanese Rama ha dimostrato una particolare lucidità nel distinguere i problemi e le posizioni delle diverse istituzioni europee. “Io non scommetto più su nessuna data, ma aspetto in serenità ciò che succederà: ci vuole pazienza, noi siamo pronti, il resto dipende dai nostri interlocutori”, ha commentato sulla questione delle tempistiche per l’adesione all’UE. “Apprezzo l’obiettivo fissato dalla Commissione, ma capisco perfettamente cosa sta succedendo al Consiglio e nei singoli Paesi membri”, ha aggiunto Rama. Con un sorriso amaro, il primo ministro ha ricordato che “l’Albania è in una situazione assurda. Siamo ostaggio del veto della Bulgaria alla Macedonia del Nord, anche se potremmo già sederci al tavolo dei negoziati a Bruxelles”. Da Tirana non c’è comunque nessuna intenzione di tirarsi indietro: “Siamo fortunati a essere nati in questo continente e poter aspirare all’accesso all’Unione Europea, che è a servizio dei cittadini”, ha ribadito Rama.

    Delighted to start my visit to the Western Balkans in Albania.⁰My message is clear: Albania’s future is in the EU. The @EU_Commission stands firmly by this commitment. With good progress on justice reforms, Albania has clearly delivered. Now the EU should do too. pic.twitter.com/VLYjz7s8oU
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) September 28, 2021

    L’apertura dei negoziati di adesione all’UE per Albania e Macedonia del Nord passa però dalla questione scottante dello stallo imposto in seno al Consiglio dalla Bulgaria. Ed è proprio a Skopje che l’atmosfera si fa più pesante. “Il veto rischia di mettere in discussione la credibilità dell’Unione Europea come partner“, è stato il duro commento del premier macedone, Zoran Zaev, durante la conferenza stampa congiunta con von der Leyen, arrivata nella capitale della Macedonia del Nord nel primo pomeriggio. “Noi ci siamo impegnati a seguire i valori europei, ma con questo veto è la stessa Unione a metterli in discussione”, ha aggiunto.
    Anche per Skopje comunque non è in discussione il cammino europeo, almeno per il momento: “Questo processo non ha alternative e serve un nuovo impegno da parte di tutti, perché non si incoraggino le forze contrarie all’unità e ai valori europei”, ha ribadito con forza il premier macedone. Zaev ha espresso la sua gratitudine alla presidente von der Leyen per il “continuo impegno profuso per l’adesione della Macedonia all’UE” e ha chiesto che durante il summit in programma mercoledì prossimo a Kranj “i ventisette leader europei ribadiscano l’impegno per l’allargamento dell’Unione ai Balcani“.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il premier macedone, Zoran Zaev, a Skopje (28 settembre 2021)
    Il riferimento al veto della Bulgaria è stato esplicito: “Ci aspettiamo che Sofia approvi il quadro come gli altri ventisei Paesi membri“, è stata l’esortazione del primo ministro, che ha anche sottolineato che il via libera non può riguardare altro se non “i nostri successi sul piano delle riforme”. Per qualsiasi altra questione che sta bloccando l’avvio dei negoziati Zaev si è detto disponibile a impegnarsi in colloqui bilaterali “con il mutuo rispetto della dignità nazionale”.
    Anche a Skopje la presidente della Commissione Europea ha confermato che il suo obiettivo è quello di avviare i negoziati di adesione all’UE di Macedonia del Nord e Albania entro la fine del 2021: “Sarò sincera, adesso è compito dell’Unione Europea risolvere la questione dello stallo“. Anche per il popolo macedone “il futuro è nell’Unione Europea e il mio gabinetto è fortemente legato a questa promessa”, ha ribadito von der Leyen, che ha chiesto di “non perdere la pazienza e la fiducia” nell’Europa: “Avete il supporto di tanti a Bruxelles e non solo, arriviamo fino in fondo”.

    North Macedonia has made outstanding progress on EU-related reforms and taken courageous decisions. I support the formal opening of accession negotiations with North Macedonia & Albania, as soon as possible.  You will be part of the EU.
    It is not a question of if, but when. pic.twitter.com/LkOX9XBAH8
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) September 28, 2021

    Vaccini e investimenti
    Se gli ostacoli al processo di adesione all’UE di Albania e Macedonia del Nord sono stati inevitabilmente il tema cruciale nelle prime due tappe del viaggio di von der Leyen nei Balcani, la presidente della Commissione Europea ha voluto anche sottolineare il contributo dell’Unione alla ripresa economica e sociale della regione dopo la pandemia COVID-19.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Per quanto riguarda l’invio di vaccini, da maggio a oggi sono state donate 430 mila dosi a Tirana e 270 mila a Skopje grazie al pacchetto Team Europe, del valore di quasi 40 miliardi di euro: “Sappiamo di avere un inizio difficile, ma ora siamo in grado di aiutarvi nello sforzo di proteggere tutta la popolazione”, ha ribadito von der Leyen. Un’altra “notizia positiva” è l’adozione dell’equivalenza del certificato COVID digitale, “grazie alla quale è stata eliminata ogni restrizione di viaggio legata alla pandemia” tra l’Unione Europea e i due Paesi balcanici.
    Altro punto su cui ha insistito von der Leyen è il Piano economico e di investimenti da 29 miliardi di euro, annunciato il 6 ottobre dello scorso anno e sbloccato dall’accordo tra Parlamento e Consiglio dell’UE sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III. La presidente della Commissione Europea ha sottolineato che servirà a “sostenere la ripresa della regione dopo questa crisi, puntando su investimenti per il futuro digitale e sostenibile dei Balcani”. Inoltre, per rafforzare la convergenza economica a lungo termine con i Paesi membri dell’UE, “proporremo di aumentare il budget di altri 600 milioni di euro entro la fine dell’anno“, ha promesso von der Leyen.
    Il capitolo Serbia-Kosovo
    Un ultimo punto di confronto con i leader della regione balcanica ha riguardato la tensione crescente tra Belgrado e Pristina, scatenata dalla ‘battaglia delle targhe’. La leader dell’esecutivo UE si è detta “molto preoccupata per la situazione che si è creata” tra Serbia e Kosovo e ha chiesto “un immediato ritorno al dialogo”, portando l’esempio positivo della nascita dell’Unione Europea: “È un processo lungo, ma che conduce a un futuro di pace e di sviluppo”. L’unica soluzione per i due Paesi è “confrontarsi positivamente al tavolo dei negoziati”, ha sottolineato von der Leyen.
    Non è solo l’esecutivo comunitario a essere preoccupato per le implicazioni della nuova causa di conflittualità tra Pristina e Belgrado. “La Serbia e il Kosovo devono trovare urgentemente una soluzione pacifica e sostenibile per garantire la sicurezza di tutti i cittadini”, si legge in una dichiarazione firmata dai relatori del Parlamento UE per la Serbia, Vladimír Bilčík, e per il Kosovo, Viola von Cramon-Taubadel, e dai presidenti della delegazione alla commissione parlamentare di Stabilizzazione e associazione UE-Serbia, Tanja Fajon, e per le relazioni con Bosnia ed Erzegovina e Kosovo, Romeo Franz.
    Le richieste degli eurodeputati vanno dal “ritiro della polizia speciale e di qualsiasi unità dell’esercito” allo “smantellamento dei posti di blocco” in Kosovo. Ma “devono cessare” anche tutte le “azioni unilaterali, le provocazioni e la retorica infiammatoria, che aumentano le tensioni e colpiscono il benessere delle comunità locali”. Per i leader di Serbia e Kosovo l’esortazione è di “utilizzare la piattaforma del dialogo facilitato dall’UE per risolvere tutte le questioni aperte, comprese quelle relative alla libertà di movimento”.
    La questione ha un impatto diretto sulle stesse prospettive europee di Serbia e Kosovo, dal momento in cui “la normalizzazione delle relazioni è una precondizione per l’adesione all’UE“, hanno ricordato gli europarlamentari. “È essenziale per garantire la stabilità e la prosperità nella regione in generale” e per questo motivo le due parti devono “impegnarsi nuovamente in modo attivo e costruttivo” per cercare un accordo “globale, sostenibile e giuridicamente vincolante”.

    ‘Serbia and Kosovo must urgently find a peaceful and sustainable solution in order to ensure the security and safety of all citizens.’
    Joint statement with @VladoBilcik, @tfajon & @RomeoFranz1 👇 https://t.co/CvtB22zPFq
    — Viola von Cramon (@ViolavonCramon) September 28, 2021

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    L’UE è al centro della “battaglia delle targhe” tra Serbia e Kosovo

    Bruxelles – Ci risiamo, si è riacceso lo scontro diplomatico tra Pristina e Belgrado. Ma questa volta, al centro della “battaglia delle targhe” dei veicoli serbi in Kosovo, c’è anche l’Unione Europea e la sua strategia di equidistanza tra le due parti. Mentre Bruxelles sta tentando la ripresa di un dialogo decennale sempre più in salita, la nuova crisi sul confine settentrionale del Kosovo sta rischiando di minare definitivamente la credibilità delle istituzioni europee nel riuscire a portare a termine questo processo di mediazione.
    A far scoppiare le tensioni nella regione è stata la decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Ieri mattina (lunedì 20 settembre) i reparti speciali di polizia sono affluiti ai valichi di confine di Jarinje, Brnjak e Merdare, dove hanno fermato automobili, ciclomotori e camion e imposto l’applicazione di targhe di prova kosovare, il pagamento di una tassa di cinque euro e la stipulazione di contratti di assicurazione. La minoranza serba in Kosovo – concentrata proprio nel nord del Paese – ha protestato con forza, anche se dai suoi rappresentanti politici è arrivato l’appello a non esasperare la tensione e attendere l’intervento delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio.
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Stando a quanto dichiarato dal premier kosovaro, Albin Kurti, a imporre il cambio di targhe automobilistiche è stato il principio di reciprocità: da tempo vige l’obbligo per gli automobilisti del Kosovo di coprire la propria targa con una temporanea rilasciata dalle autorità serbe e di pagare una tassa di due euro, una volta superato il confine. Inoltre, lo scorso 15 settembre è scaduta l’intesa sulle targhe che era stata raggiunta tra i due Paesi nell’ambito dell’accordo di Bruxelles del 2013. Ecco perché, secondo il governo di Pristina, le nuove misure non sono dirette contro la popolazione serba né mirano a destabilizzare la situazione, ma sono un semplice adeguamento alla situazione creata proprio da Belgrado. Ma il rimpallo di accuse tra le due capitali sta mettendo l’Unione Europea al centro della battaglia delle targhe.
    La posizione ‘scomoda’ dell’UE
    Proprio l’Unione Europea è impegnata in questi giorni in una missione nella regione. Il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, si è recato prima nella capitale kosovara e poi in quella serba, dove ieri pomeriggio si è confrontato con il presidente Aleksandar Vučić. “Sono preoccupato e chiedo una de-escalation immediata“, è stato il commento del rappresentante UE. “È importante ridurre le tensioni, ripristinare un’atmosfera pacifica e consentire la libertà di movimento”, ha aggiunto, sottolineando che le istituzioni europee sono “pronte a facilitare i colloqui su tutte le questioni aperte nel dialogo”.
    Prima dell’incontro, il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano, aveva invitato “entrambe le parti” a utilizzare lo strumento del dialogo mediato dall’UE per risolvere le questioni aperte, “compresa la libertà di circolazione”. Nel caso specifico della battaglia delle targhe tra Serbia e Kosovo, “ci aspettiamo che entrambi i governi promuovano un clima che conduca a una riconciliazione“, aveva precisato Stano.
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Bruxelles con la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen
    Tuttavia, da ventiquattro ore Bruxelles sta ricevendo dure critiche per il suo atteggiamento attendista. Il presidente serbo Vučić si è detto “stufo di questi appelli alle due parti”, dal momento in cui il governo di Belgrado non avrebbe fatto “nulla di male”. La parte serba inizia a scalpitare sul rispetto delle condizioni stabilite dall’accordo del 2013 che non sarebbe mai stato rispettato da Pristina: “Qualcuno in Europa deve dirci una volta per tutte se esiste ancora, la nostra pazienza non è illimitata”, ha aggiunto Vučić. Al termine di una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale, questa mattina il presidente serbo ha aggiunto che “la risposta da Bruxelles dovrà arrivare entro un mese”.
    La cosiddetta battaglia delle targhe è solo la punta di un iceberg sullo status giuridico della minoranza serba in Kosovo. Tutto nasce dal rifiuto di Pristina di realizzare una misura che ritiene contraria alla sua Costituzione, vale a dire la Comunità delle municipalità serbe in Kosovo. L’associazione delle enclave serbe è prevista proprio dall’accordo dell’aprile 2013, che da allora è rimasta però solo sulla carta: per il governo kosovaro si tratterebbe di una “fase preliminare” della creazione di una nuova Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina). Belgrado insiste invece sul rispetto dei trattati: “Un silenzio europeo significherà che l’accordo di Bruxelles non esiste più e che non vogliono la creazione della Comunità delle municipalità serbe”, ha attaccato il presidente Vučić.
    La questione ha evidenti conseguenze sull’intero processo di mediazione facilitato dall’UE, che sarebbe dovuto riprendere a settembre a Bruxelles con un nuovo incontro tra Kurti e Vučić. “La condizione per continuare il dialogo è il ritiro di tutte le formazioni armate dal nord del Kosovo“, ha dichiarato il presidente serbo. “Solo dopo il ritorno allo status quo ci recheremo a Bruxelles”, è stata la precisazione da Belgrado. Se l’Unione Europea non cambierà atteggiamento, dimostrando che esistono ancora margini per rispettare le promesse fatte in questi anni, sarà sempre più difficile superare gli ostacoli sulla strada della normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo.

    I briefed EU HoMs on the situation in the north of Kosovo. I’m concerned & call for immediate deescalation. It’s important to reduce tensions, restore a peaceful atmosphere & allow for freedom of movement. We stand ready to facilitate talks on all open issues in the Dialogue. pic.twitter.com/2HvqC0ldmS
    — Miroslav Lajčák (@MiroslavLajcak) September 21, 2021

    Bruxelles ha invitato “entrambe le parti” alla moderazione e al ripristino della libertà di circolazione alla frontiera. Ma il governo di Belgrado protesta e chiede entro un mese una risposta sul rispetto degli accordi del 2013

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    Cina, la battaglia per i tre Imperi

    Siamo nel ventunesimo secolo, la Cina crea strategie politiche-economiche per sferrare attacchi mirati nello scacchiere della finanza mondiale. The trade winds, i venti del commercio orientale soffiano sempre in una precisa direzione, volti a tracciare un sentiero o un percorso nell’economia dei  tre ‘imperi’, Europa, America, Africa.
    Nell’attesissimo intervento a Davos, il presidente cinese, Xi Jinping, ha dichiarato che la Cina corre per la leadership. Di conseguenza, tutto il comparto economico cinese subirà un intervento statale con la conseguente regolamentazione, che coinvolgerà il settore finanziario, digitale, educativo, logistico e ferroviario.
    Un rapporto di Eurostat indica che gli scambi tra Cina ed Europa nel 2020 ammontano a 31 miliardi di euro rispetto agli USA, per un valore di mercato di 555 miliardi di euro. Con COSCO, il colosso statale definito da Xi Jinping “la testa del drago in Europa”, Pechino entra nelle infrastrutture UE. La compagnia statale di navigazione attualmente detiene il 51 per cento del Porto del Pireo (il più importante scalo della Grecia) e sta per rilevare un’ulteriore quota del 16 per cento dell’Autorità Portuale, raggiungendo una quota di maggioranza del 67 per cento.
    In Italia la Cina investe nella nuova ‘via della seta, Nola-Shanghai’’ attraverso un collegamento ferroviario diretto. La merce arriva via treno all’Interporto Campano di Nola (Napoli) senza nessun trasbordo intermedio, con tappe presso gli hub di Kaliningrad (Russia), Rostock (Germania) e Verona (Interterminal). L’obiettivo, il rilancio del polo logistico e del terziario avanzato dell’Interporto e un avanzamento internazionale del settore commerciale del Sud Italia. I vantaggi del servizio sono di tipo operativo, per il rapporto diretto con sdoganamento in importazione presso la dogana di Nola e per i ridotti rischi di dannosità della merce, e anche ambientali, specie in relazione alla riduzione di emissione di anidride carbonica, calcolata del 20 per cento. Già ad agosto 2019 il numero di treni merci Cina-Europa ha raggiunto i diecimila.
    Nodo cruciale è l’ampliamento delle infrastrutture cinesi, per lo più collegate a data center, cavi in fibra ottica, strutture attraverso cui scorrono le informazioni e reti Internet. Di conseguenza, porti, ferrovie e digitalizzazione sono interessi determinanti nella lotta per il dominio tecnologico, per cui lo scontro tra Stati Uniti e Cina subisce un’accelerazione. Altro tema caldo è la volontà di Pechino di rafforzare la presenza militare in Africa: l’esempio più eclatante è l’installazione militare di Gibuti, nel Corno d’Africa, proprio all’imbocco dello Stretto di Bab el-Mandeb davanti alla rotta dei flussi commerciali da e per il Canale di Suez.
    Misure in espansione sono nel settore militare. Il governo cinese, a conferma delle ambizioni globali, consolida le capacità di proiezione strutturale e rafforza la dimensione militare/strategica, sa perfettamente che laddove aumentano gli interessi economici, aumenta anche la necessità di tutelarli. La volontà d’espansione si proietta verso interessi diffusi della collettività indifferenziata. Pechino può contare su una presenza costante e assidua in campo economico/logistico, finanziario e militare nel territorio africano, partecipa a missioni di peacekeeping sotto le insegne dell’ONU.
    Altro aspetto è la situazione afghana. Il presidente Xi Jinping ha sottolineato che la Cina rispetta la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Afghanistan, persegue una politica di non interferenza negli affari interni del Paese e ha sempre svolto un ruolo costruttivo nella soluzione politica della questione afghana. Altrettanto, Putin ha dichiarato che la Cina e la Russia condividono posizioni comuni sull’Afghanistan e che i due Paesi potranno lavorare insieme per facilitare la transizione di governo in Afghanistan.
    Il confronto decisionale tra Xi Jinping  e Putin è avvenuto in seguito a un incontro del Gruppo dei Sette sull’Afghanistan. I leader del G7 hanno chiesto che venga garantita la sicurezza nel Paese, mentre l’amministrazione di Joe Biden sconta la decisione di Trump di ritirare le truppe americane dal territorio afghano durato vent’anni, anche se agli occhi del mondo appare una sconfitta dal sapore amaro.
    La rivalità tra le grandi potenze non si è attenuata nemmeno durante la crisi COVID-19. Nel 2021, il Paese del Sol Levante si apre con estremo scetticismo al dialogo con altre nazioni, nonostante la posizione di forza, ed è il primo Paese e riprendersi dal contagio e a riavviare l’economia. La Cina, attraverso una politica restrittiva e un’economia d’espansione, è stata l’unica nazione a registrare una crescita durante la pandemia dello scorso anno.
    Joe Biden, cavalcando l’onda pandemica, promuove le posizioni di coloro che sotto l’amministrazione Trump hanno sempre sostenuto di dover arginare l’espansione della Cina. L’ipotesi che il COVID-19 abbia avuto origine nell’Istituto di virologia di Wuhan consentì a Trump di dichiarare che aveva “enormi prove” che lo comprovavano. Altresì, nelle migliori delle ipotesi, gli USA sembrano intenzionati a “chiedere il conto” alla Cina.
    In attesa di nuovi sviluppi, Pechino sta contrastando le accuse al laboratorio Wuhan con una feroce propaganda anti-americana e una maggiore coercizione economica all’estero. Boicottaggio delle merci e dei servizi e dazi punitivi sono uno dei tanti mezzi utilizzati come forma di coercizione economica verso Stati terzi che intendono “appoggiare” le decisioni americane. La pandemia ha costretto i leader politici di tutto il mondo a fare i conti con una crisi economica senza precedenti, le loro decisioni appaiono irretite da un’irrazionalità politica, intrise da contraddizioni sociali. Prioritarie sono le scelte nel voler tirar fuori la propria nazione dalla recessione che, secondo questa logica, eviterebbero qualsiasi misura che porti a ulteriori restrizioni.
    Ovviamente la risposta americana non si è fatta attendere. Già da allora, l’amministrazione Trump si era mossa per imporre dazi sulle esportazioni cinesi, sanzionare i funzionari sulle mosse per limitare le libertà a Hong Kong e nello Xinjiang e negare la tecnologia vitale ad alcune delle più grandi aziende cinesi. In previsione di altri incontri in sedi più opportune, il presidente cinese Xi Jinping ha enfatizzato una politica di “doppia circolazione” che privilegia l’autosufficienza. Il team di Biden ha segnalato che continuerà a mantenere una linea dura con la Cina, mentre cerca la cooperazione verso temi che riguardano il cambiamento climatico.
    Nel tempo in cui i leader del mondo dettano le strategie, per resistere al conflitto economico tra Cina e Stati Uniti, l’Europa tenta di organizzare un controllo serrato sugli investimenti strategici provenienti dall’estero, migliorare la sua resilienza dagli attacchi diretti e indiretti e conseguentemente agli effetti collaterali della diatriba commerciale USA-Cina.
    In questi giorni si è realizzata una straordinaria alleanza indo-pacifica, che ha dato vita all’accordo AUKUS: l’acronimo riguarda i tre Paesi partecipanti, Stati Uniti-Gran Bretagna-Australia. La partnership “aggiornerà la nostra capacità condivisa di affrontare insieme il ventunesimo secolo e le sue minacce”, ha riferito Joe Biden parlando alla Casa Bianca durante la teleconferenza. Boris Johnson ha parlato di “un pilastro strategico” in quello che per Londra è il nuovo “centro geopolitico mondiale”. Ma per capire lo scopo strategico dell’accordo è necessario rileggere le parole di Johnson: “Stiamo inaugurando un nuovo capitolo della nostra amicizia e il primo compito sarà quello di sostenere l’Australia nell’acquisizione di una flotta di sottomarini a propulsione nucleare”.
    Il primo ministro australiano Scott Morrison ha replicato affermando che il Paese non porterà a completamento l’accordo da 90 miliardi di dollari australiani (66 miliardi di dollari) con la Francia per la fornitura di sottomarini, ma ne costruirà di propri, a propulsione nucleare, utilizzando la tecnologia statunitense e britannica. “La decisione che abbiamo preso di non continuare con il sottomarino Attack Class e di percorrere questa strada non è un voltafaccia ma una necessità”, ha aggiunto.
    AUKUS, soprannominato ‘patto contro la Cina’, scatena l’ira di Pechino e della Francia. Zhao Lijain portavoce del ministero degli Esteri, ha dichiarato che la Cina “monitorerà la situazione” e che “è un accordo irresponsabile”. Altrettanto dure sono le parole del ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian: “Sono veramente in collera. Avevamo instaurato un rapporto di fiducia con l’Australia’”. La ragione di tanto disappunto è la rescissione della  commessa pregressa tra Francia e Australia stipulata nel 2016, per costruire sottomarini nucleari, dal valore 31 miliardi di euro. L’UE invece ha rivelato che “non era stata informata” e che “siamo in contatto con i partner per saperne di più e ne dobbiamo discutere con gli Stati membri dell’UE per capirne le implicazioni”, ha detto il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano.
    Il giorno seguente alla pubblicazione dell’accordo, il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, ha tentato di rassicurare che “il nostro patto punta a garantire pace e stabilità”. All’unisono, il premier australiano, Scott Morrison, ha dichiarato che “i nostri sottomarini garantiranno sicurezza nella regione e saranno utili a tutti, compresa la Cina”. Ma il presidente cinese Xi Jinping, irritato, ha inviato le sue considerazioni ai tre Paesi: “Non permetteremo interferenze di forze straniere”. Su questo accordo si gioca una partita strategica per il futuro del mondo.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
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    Nord Stream 2, la costruzione del gasdotto è finita. Per Mosca sarà in funzione “nei prossimi giorni”

    Bruxelles – Sono giunti al termine ieri (6 settembre) i lavori di costruzione del controverso gasdotto da 11 miliardi di dollari Nord Stream 2, che raddoppierà la capacità di gas naturale (metano) in arrivo dalla Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico. Ad annunciarlo è la compagnia energetica russa Gazprom, che ne controlla le attività, a cui si aggiungono le parole del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov secondo cui il gasdotto Nord Stream 2 entrerà in funzione nei prossimi giorni, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Interfax.
    Il gasdotto Nord Stream 2 collegherà la Germania alla Russia
    L’ultima sezione del gasdotto è stata saldata e ora dovrà essere calato nel collegamento sottomarino sotto al Mar Baltico. Secondo Reuters, il gasdotto deve ancora ricevere la certificazione che potrebbe richiedere fino a quattro mesi di tempo. Entro fine anno dovrebbe essere pienamente operativo.
    Il percorso di Nord Stream 2 andrà a replicare quello del gemello Nord Stream che è già in attività. Si parla di circa 55 miliardi di metri cubi all’anno di gas verso la Germania a capacità massima, da raddoppiare fino a 110 miliardi di metri cubi di gas che consentono a Mosca di trasportare il gas in Europa senza passare per via terrestre attraverso l’Ucraina, come faceva prima, indebolendone la posizione strategica.
    La costruzione del gasdotto è stata fin dall’inizio osteggiata da molti Paesi, primi tra tutti gli Stati Uniti, per i timori di una maggiore influenza di Mosca sul vecchio Continente che ne dipende energeticamente. Solo a fine luglio, Berlino e Washington hanno raggiunto un accordo di massima per ultimare i lavori del progetto, promettendo sanzioni alla Russia in caso di pressioni sull’Ucraina, come l’annessione illegale della penisola di Crimea nel 2014.
    Un’opposizione che il progetto ha trovato anche in Europa, guidata in particolare dai Paesi dell’Europa orientale. Solo la cancelliera Angela Merkel ha sposato la causa, impegnandosi a portarla a termine. Da quando a fine agosto di un anno fa l’oppositore russo Alexei Navalny è stato avvelenato su iniziativa del presidente russo Vladimir Putin sono però aumentate di molto le pressioni su Merkel per abbandonare il progetto. Pressioni che sono aumentate ancora con l’ulteriore incrinarsi dei rapporti di Bruxelles con Mosca, con i Paesi dell’Europa centrale e orientale che temono l’ulteriore dipendenza energetica dei Ventisette dal gas russo.

    Saldata l’ultima sezione del gasdotto da 11 miliardi di dollari che raddoppierà la capacità di gas naturale in arrivo dalla Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico. Per il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov sarà in funzione nei prossimi giorni

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    Brexit, pressing britannico vuol rinegoziare il periodo di grazia nel Mare d’Irlanda. Ma per l’UE “il Protocollo non si tocca”

    Bruxelles – La guerra delle salsicce ricomincia. Il 30 settembre scade la proroga dell’Unione Europea al periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda e Londra è già in pressing. Il governo guidato da Boris Johnson è intenzionato a rinegoziare la durata della concessione temporanea ai controlli dei certificati sanitari per il commercio di generi alimentari refrigerati dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord da parte delle autorità UE (che nel contesto post-Brexit sono necessari per mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda).
    Il consigliere britannico per la Sicurezza nazionale, David Frost, ha annunciato ieri (6 settembre) di voler continuare a commerciare “sulla base delle pratiche attuali”, senza fissare una data di scadenza per la concessione temporanea. In realtà questo periodo di grazia sta assumendo i contorni di un tentativo di rinegoziare l’intero Protocollo sull’Irlanda del Nord dell’accordo di recesso tra UE e Regno Unito, siglato per garantire l’unità sull’isola. Lo stallo “fornirà spazio per ulteriori discussioni con Bruxelles”, ha spiegato Frost, in particolare sulle “profonde differenze” delle parti in merito all’accordo di divorzio.
    La richiesta di una “revisione totale” dell’accordo è stata già respinta a fine luglio dalla Commissione Europea. Anche questa volta la porta è rimasta chiusa: “Prendiamo atto della dichiarazione, ma non accetteremo una rinegoziazione del Protocollo“, si legge nella nota dell’esecutivo UE. “Continuiamo a sottolineare che l’accordo di recesso è un accordo internazionale e il Protocollo ne è parte integrante”. Gli sforzi di Bruxelles vanno nella direzione di identificare “soluzioni a lungo termine, flessibili e pratiche”, con l’obiettivo di “affrontare le questioni relative all’attuazione pratica del Protocollo” che stanno vivendo cittadini e imprese dell’Irlanda del Nord. Tuttavia, Unione Europa e Regno Unito sono “legalmente vincolati ad adempiere ai loro obblighi ai sensi dell’accordo“.
    Il periodo di grazia era entrato in vigore provvisoriamente all’inizio di quest’anno, con la firma dell’accordo di commercio e di cooperazione (TCA), e sarebbe dovuto scadere il primo aprile. Solo la proroga concessa dalle autorità europee il 30 giugno aveva momentaneamente risolto il conflitto diplomatico nato dalla decisione unilaterale di Downing Street di estendere il periodo di grazia fino a fine di ottobre.
    La porta sulla rinegoziazione dell’accordo rimane sigillata, ma l’Unione sembra voler evitare lo scontro frontale con Downing Street. Lo dimostra il fatto che la procedura d’infrazione avviata lo scorso 15 marzo per le presunte violazioni del Protocollo sull’Irlanda del Nord da parte di Londra è rimasta congelata (è stata momentaneamente sospesa lo scorso 28 luglio). “La Commissione si riserva i suoi diritti per quanto riguarda le procedure d’infrazione”, specifica la nota del gabinetto guidato da Ursula von der Leyen. Tuttavia, “per ora non stiamo passando alla fase successiva” all’invio della lettera di costituzione in mora.

    🇪🇺🇬🇧 Statement by @EU_Commission following today’s announcement by the UK government regarding the operation of the Protocol on Ireland / Northern Ireland 👇https://t.co/VMO4cDKzHM pic.twitter.com/JcIlGCZFLn
    — Daniel Ferrie 🇪🇺 (@DanielFerrie) September 6, 2021

    Il consigliere per la Sicurezza nazionale Frost ha annunciato che il commercio tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord deve continuare “sulla base delle pratiche attuali”. Bruxelles si oppone al disimpegno sull’accordo di recesso