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    La Commissione Ue punta a firmare un partenariato strategico con l’Egitto entro febbraio

    Bruxelles – Stiamo entrando in un “periodo d’oro” delle relazioni tra l’Ue e l’Egitto. In occasione del ventesimo anniversario dall’Accordo di associazione tra Bruxelles e il Cairo, il commissario europeo per l’Allargamento, Olivér Várhelyi, ha annunciato che “spera di ottenere entro il mese prossimo tutti i via libera dagli Stati membri e di arrivare alla firma” di un nuovo partenariato strategico.Il gabinetto von der Leyen è al lavoro già da tempo per replicare il modello di accordo applicato a luglio con la Tunisia in altri Paesi della regione. E ora sembra in dirittura d’arrivo il Memorandum d’Intesa ricamato sull’Accordo di associazione che lega l’Ue e l’Egitto dal 2004 e sulle priorità del partenariato firmate due anni fa. “Sono lieto che la nostra cooperazione abbia acquisito intensità e qualità”, ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, nella conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry.

    Da destra: il commissario Ue per l’Allargamento, Olivér Várhelyi, l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, e il ministro degli Esteri egiziano, Sameh ShoukryIl partenariato con l’Egitto si baserà su sei pilastri di “interesse reciproco”: relazioni politiche, stabilità economica, investimenti e commercio, migrazione e mobilità, sicurezza e demografia e “altri settori a cui stiamo lavorando”, ha spiegato Várhelyi. Già oggi Borrell e Shoukry hanno firmato un accordo che consentirà all’Egitto di partecipare ad alcuni programmi europei aperti a Paesi terzi, come Horizon Europe.A sostegno dell’idea che i tempi sono maturi per “elevare a partnership globale e strategica” la cooperazione con il Cairo, Várhelyi ha citato il “successo” del piano economico e di investimento per l’Egitto, che prevede la mobilitazione di 9 miliardi di euro in investimenti nei settori alimentare, idrico ed energetico, nel periodo 2021-2027. “Siamo orgogliosi di aver già mobilitato 5,8 miliardi di euro“, ha esultato il commissario ungherese. E poi la presenza sempre più importante delle aziende europee in Egitto, che forniscono “una parte significativa del motore dell’economia egiziana”. E il dato sugli scambi commerciali: l’Ue è il primo partner commerciale del Cairo, copre il 27 per cento di tutti gli scambi dell’Egitto.Se il Memorandum con la Tunisia ruota maggiormente intorno alla gestione delle frontiere e alla cooperazione in materia migratoria, per l’Egitto – un Paese che già ospita sul suo territorio oltre 9 milioni di migranti – le sfide e le opportunità sono differenti. Da un lato, come spiegato da Borrell, l’Ue si impegnerà a “sostenere lo sviluppo economico e sociale, accompagnare l’agenda di riforme dell’Egitto, dall’economia ai diritti umani, e attrarre investimenti cruciali” nel Paese. Dall’altro, Bruxelles è particolarmente interessata all’enorme bacino energetico del Paese nordafricano. “L’Egitto può diventare non solo un fornitore affidabile di gas, ma anche una fonte affidabile di energia rinnovabile. Il potenziale dell’Egitto in termini di elettricità verde è difficile da eguagliare”, ha dichiarato Varhelyi, a margine del confronto con Borrell e Shoukry.Ue e Egitto ribadiscono il sostegno alla Soluzione dei due Stati in Israele e PalestinaNell’agenda del decimo Consiglio di Associazione c’era anche la crisi in corso in Medio Oriente. L’Ue e l’Egitto hanno condiviso la loro preoccupazione per la disastrosa situazione umanitaria a Gaza, sollecitando “la massima moderazione e la protezione dei civili in conformità con i principi universali del diritto internazionale umanitario”.Borrell ha voluto sottolineare “il ruolo cruciale giocato dall’Egitto nel garantire assistenza alla popolazione palestinese e nel negoziare le pause umanitarie e il rilascio degli ostaggi”. I due partner hanno affermato il loro fermo rifiuto di qualsiasi forma di sfollamento individuale o collettivo, forzato o meno, di palestinesi da qualsiasi parte dei territori occupati. Compresa la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est.Ancora distanti sulla necessità di fermare le ostilità: l’Egitto chiede un cessate il fuoco immediato, mentre l’Ue ha sottolineato l’urgenza di pause umanitarie. Ma Bruxelles e il Cairo condividono la necessità di rilanciare la soluzione dei due Stati. “L’unica via verso una soluzione giusta, duratura e globale del conflitto in Medio Oriente è la soluzione dei due Stati che ponga fine all’occupazione e conduca alla creazione di uno Stato palestinese indipendente, contiguo, sovrano“, si legge nella dichiarazione congiunta pubblicata a margine dell’incontro.

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    Tunisia, la Commissione Ue rassicura sull’applicazione del Memorandum: “In caso di violazioni dei diritti bloccheremo i fondi”

    Bruxelles – Per la Commissione europea il Memorandum d’Intesa con la Tunisia “funziona benissimo”. Parola di chi quell’accordo l’ha firmato, il commissario per l’Allargamento, Olivér Várhelyi, e della responsabile Ue per gli Affari interni, Ylva Johansson. Che, interrogata dagli eurodeputati della commissione Libertà civili (Libe), ha rassicurato i più critici: “I nostri progetti hanno tolleranza zero verso le violazioni i diritti fondamentali”.I dati sugli sbarchi in Italia che arrivano dal Viminale danno per ora manforte all’esecutivo Ue, anche se la stessa Johansson ha ammesso che le cifre degli ultimi mesi “sono dovute anche alle condizioni meteorologiche”. Dallo scorso autunno infatti, i numeri degli arrivi di persone migranti sulle coste italiane sono costantemente più bassi di quelli dell’anno precedente: 10.277 a ottobre 2023 (erano 13.492 nel 2022), 8.317 a novembre (9.061 nel 2022), 5.237 a dicembre (10.788 nel 2022). E anche nel nuovo anno la tendenza sembrerebbe confermata: per ora nel 2024 il Ministero degli Interni italiano ha registrato 1.298 arrivi, contro i 3.035 dell’intero gennaio 2023.

    La commissaria Ue per gli Affari Interni, Ylva JohanssonSecondo la commissaria, dall’inizio di ottobre le partenze dalla Tunisia sarebbero diminuite addirittura dell’80-90 per cento. E – dalla firma del Memorandum avvenuta il 16 luglio – le autorità tunisine avrebbero arrestato 750 trafficanti di esseri umani e scafisti. “È estremamente importante prevenire queste pericolose partenze”, ha dichiarato Johansson. Dai dati raccolti dal Migrants Missing Project, sulla rotta del Mediterraneo centrale sarebbero morti e dispersi almeno 2498 migranti nel 2023. Di questi, dopo il picco di giugno in cui le vittime sono state 729, solo 665 nella seconda metà dell’anno. E 75 a gennaio 2024.La Commissione Ue respinge le accuse di violazioni dei diritti umani in TunisiaSe – con lo zampino delle cattive condizioni meteo – l’intensificazione dell’attività delle autorità tunisine ha effettivamente portato a un migliore controllo delle coste, questo non significa automaticamente che il Memorandum Ue-Tunisia sia vincente. All’audizione in Commissione Libe ha partecipato anche Hussein Baoumi, responsabile nella regione per Amnesty International: Baoumi ha denunciato le “continue espulsioni di massa” portate avanti dal governo di Kais Saied, che avvengono “sempre con lo stesso schema”. Quello già ampiamente documentato la scorsa estate, quando centinaia di migranti sub-sahariani erano stati caricati su pullman che da Sfax – principale località di partenza per l’Europa – li avevano abbandonati nel deserto al confine con la Libia.Inoltre, ha avvertito Amnesty International, “la polizia tunisina è estremamente corrotta” e “prende soldi anche da chi lavora con i trafficanti”. Ma Johansson non ne ha voluto sapere, la diminuzione delle partenze non è legata alle deportazioni nel deserto, ma al fatto che la guardia costiera e la polizia tunisine stiano combattendo i trafficanti. E per quel che riguarda le condizioni delle persone migranti che rimangono bloccate sulle coste del Paese nordafricano, “la Tunisia è sempre di più un Paese di transito e non è attrezzata per gestire la situazione, ci vuole tempo per costruire le capacità”, ha spiegato la commissaria.Secondo i dati citati da Johansson, in Tunisia c’è stato un aumento del 600 per cento dei richiedenti asilo negli ultimi anni. E l’Ue, nell’ambito del Memorandum d’intesa e attraverso la cooperazione con l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (Oim) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), sta cercando di rafforzare un sistema di asilo che non è mai esistito. La Commissione europea rispedisce al mittente le accuse di finanziare progetti che violano i diritti umani in Tunisia. “I fondi Ue per la Tunisia collegati alla migrazione non vanno ‘ad amici di amici’, vanno a organizzazioni internazionali”, ha dichiarato Johansson. L’Oim, l’Unhcr, la Croce rossa tunisina. “C’è controllo e valutazione su come vengono utilizzati e sono pronta a esplorare ulteriori meccanismi di monitoraggio per far sì che che i nostri fondi non siano usati da chi viola diritti umani“, ha promesso.Nonostante ci siano ancora numerose criticità sull’implementazione dei 5 pilastri del Memorandum con la Tunisia – che inserisce il capitolo gestione delle migrazioni in una “partnership comprensiva globale” – Johansson ha confermato che l’Ue è “vicina a un accordo su una dichiarazione congiunta con l’Egitto“, anticamera di un nuovo Memorandum d’Intesa sul modello di quello con la Tunisia. Un memorandum che dovrà rispondere ad altre sfide, perché l’Egitto “non è proprio un Paese di transito”. Proprio no, in Egitto ci sono oggi oltre 9 milioni di persone migranti.

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    Il Consiglio Europeo di marzo sarà decisivo per i negoziati di adesione Ue della Bosnia ed Erzegovina

    Bruxelles – Dopo un Consiglio Europeo di svolta, si attende un Consiglio Europeo risolutore. Le speranze della Bosnia ed Erzegovina di vedere avviati i negoziati di adesione Ue dipendono tutte dagli esiti del vertice dei capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri in programma il prossimo 21-22 marzo, sulla base di un report che la Commissione Europea sta stilando sui progressi dello stesso candidato perché questo traguardo cruciale del percorso di adesione possa realizzarsi. “Un Paese unico, unito e sovrano, questa è la nostra visione della Bosnia ed Erzegovina nell’Ue, presenteremo il report entro marzo e il Consiglio Europeo potrà discuterne”, ha messo in chiaro la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in un punto stampa a Sarajevo nel corso del suo viaggio insieme ai primi ministri della Croazia, Andrej Plenković, e dei Paesi Bassi, Mark Rutte.

    “Abbiamo discusso dei prossimi passi da fare, dobbiamo vedere progressi sui capitoli fondamentali, ha spiegato questa mattina (23 gennaio) la numero uno dell’esecutivo comunitario: “Più lo farete, più mi aiuterete con il report che dovrò presentare sui vostri progressi“. Il riferimento è alla decisione presa durante l’ultimo Consiglio Europeo di dicembre di avviare i negoziati di adesione con Sarajevo “una volta raggiunto il necessario grado di conformità ai criteri di adesione”. Parallelamente prosegue anche il lavoro sul Piano di crescita per i Balcani Occidentali e – dopo le minacce velate di von der Leyen durante l’ultimo viaggio a Sarajevo sulla redistribuzione delle risorse agli altri partner balcanici in caso di mancata implementazione delle riforme – oggi è arrivata la rassicurazione che “abbiamo disegnato il Piano perché nessun altro Paese lo possa bloccare, è solo una vostra decisione”.Ritornando alla questione dell’avvio dei negoziati di adesione Ue, la presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, ha voluto illustrare l’impegno delle autorità nazionali sia con “un lavoro legislativo in corso su 13 progetti di legge” sia con un “programma di riforme per tutto il 2024”. A Sarajevo “c’è ottimismo” sul fatto che “a marzo ci sarà una data per avviare i negoziati”, ha sottolineato Krišto, ricevendo una conferma dal primo ministro croato Plenković: “Il rapporto ci dovrà aiutare a trovare il consenso su una decisione positiva, usate questa finestra di opportunità per spingere le riforme che saranno incluse nel report“. Il leader croato è finito però al centro delle polemiche nell’opinione pubblica nazionale per aver disertato l’incontro con i tre esponenti della presidenza della Bosnia ed Erzegovina, in polemica per la presenza dell’esponente croato-bosniaco Željko Komšić (non considerato legittimo da Zagabria). Una dimostrazione che nel processo di allargamento Ue la Croazia non è uno dei Paesi membri Ue più trainanti senza interesse, perché sta giocando una parallela partita nazionalistica.

    Da sinistra: il co-presidente bosniaco, Željko Komšić, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il co-presidente bosniaco, Denis Bećirović, il primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, e la co-presidente bosniaca Željka Cvijanović (23 gennaio 2023)In ogni caso dalle parole del premier Plenković in conferenza stampa è emersa una questione particolarmente urgente per tutta l’Unione. “Se perdiamo l’occasione [di avviare i negoziati di adesione Ue, ndr] a marzo, il resto dell’anno andrà perso e si finirà quasi sicuramente a gennaio 2025“, è l’avvertimento a due mesi dall’appuntamento dei 27 leader: “Fra due mesi inizierà la campagna elettorale per le europee e poi si dovranno insediare le nuove istituzioni”. Una previsione non sconfessata da von der Leyen, di cui ancora non si conoscono le intenzioni su una possibile ricandidatura alla presidenza dell’esecutivo comunitario: “Dopo marzo, l’anno sarà pieno di temi come le elezioni e la nuova configurazione del Parlamento e della Commissione“. Senza frenare sulle possibilità di Sarajevo di aspirare all’avvio dei negoziati di adesione quanto prima, il premier olandese Rutte ha voluto comunque ribadire che “tutti i criteri devono essere rispettati, nella situazione corrente bisogna ammettere che c’è ancora molto lavoro da fare, ma siamo tutti disponibili ad aiutarvi”.Il percorso di adesione Ue della Bosnia ed ErzegovinaIl cammino di avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina all’Unione Europea è iniziato il 15 febbraio 2016, con la presentazione ufficiale della domanda di adesione. Per più di sei anni non è arrivata nessuna risposta positiva da parte delle istituzioni comunitarie, proprio per la situazione quasi disastrata del Paese sul fronte delle condizioni-base (i criteri di Copenaghen) per essere considerato un candidato formale. Tuttavia negli ultimi due anni si sono intensificati i segnali di fiducia soprattutto da parte dell’esecutivo comunitario e della sua presidente, anche considerati i rischi di destabilizzazione russa di un Paese e di una regione molto delicati nel cuore dell’Europa.

    È così che in occasione della presentazione del Pacchetto Allargamento 2022 è arrivata la raccomandazione al Consiglio di concedere alla Bosnia ed Erzegovina lo status di candidato all’adesione Ue, accompagnata da un discorso particolarmente appassionato a Sarajevo di von der Leyen durante il viaggio nelle capitali balcaniche per annunciare il supporto energetico di Bruxelles. Dopo aver valutato il parere della Commissione, il vertice dei leader Ue del 15 dicembre 2022 ha dato il via libera alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue, sottolineando allo stesso tempo la necessità di implementare le riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, del rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione.Dopo essere diventata l’ottavo Paese candidato all’adesione nel processo di allargamento Ue, la Bosnia ed Erzegovina ha continuato a spingere sul percorso di avvicinamento all’Unione. Grazie ai progressi (seppur limitati) registrati da Bruxelles, nel Pacchetto Allargamento 2023 la Commissione Ue ha deciso di includere la raccomandazione al Consiglio Europeo di avviare i negoziati di adesione per Sarajevo “una volta raggiunto il necessario grado di conformità ai criteri di adesione”. In altre parole, la raccomandazione c’è, ma era già scontato che la risposta del vertice dei leader avrebbe aspettato nuove notizie positive sul fronte delle 14 priorità indicate dalla Commissione (di cui solo 2 sono state completate). All’ultimo Consiglio Europeo di dicembre è andata esattamente così, con la decisione di avviare i negoziati con la Bosnia ed Erzegovina ma senza indicare un vero momento di inizio. Ecco perché il vertice del 21-22 marzo è considerato decisivo su questo fronte, anche considerati gli impegni a Bruxelles – elettorali prima e istituzionali poi – nei restanti nove mesi dell’anno.L’ostacolo Republika SrpskaEppure il percorso di avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina all’Unione è reso particolarmente ostico dal presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, che si è fatto promotore di un progetto secessionista dall’ottobre del 2021. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche e, dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme elettorali e costituzionali nel Paese balcanico.

    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)Ma le preoccupazioni si sono fatte sempre più concrete da fine marzo 2023, quando il governo dell’entità serbo-bosniaca ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero. La cosiddetta legge sugli ‘agenti stranieri’ è simile a quella adottata da Mosca nel dicembre 2022 ed è stata approvata a fine settembre dall’Assemblea nazionale di Banja Luka, tra le apre critiche di Bruxelles. Parallelamente è avanzato anche l’iter per l’adozione degli emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per diffamazione. Dopo la proposta – anch’essa a fine marzo – l’entrata in vigore è datata 18 agosto e ora sono previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”. Il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) e la delegazione Ue a Sarajevo hanno attaccato Banja Luka, mettendo in luce che le due leggi “hanno avuto un effetto spaventoso sulla libertà di parola nella Republika Srpska“.Alle provocazioni secessioniste si è affiancata la questione del rapporto con la Russia post-invasione ucraina. Già il 20 settembre 2022 Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale delle regioni ucraine occupate dalla Russia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio 2023 con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco. Come se bastasse, Dodik ha compiuto un secondo viaggio a Mosca il successivo 23 maggio, mentre a Bruxelles sono emerse perplessità sulla mancata reazione da parte dell’Unione con sanzioni. Fonti Ue hanno rivelato a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma l’Ungheria di Viktor Orbán non permette il via libera. Per qualsiasi azione del genere di politica estera serve l’unanimità in seno al Consiglio.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    La Turchia pronta a ratificare il protocollo di adesione Nato della Svezia. Ma manca ancora l’Ungheria

    Bruxelles – Si sta per chiudere uno dei capitoli più spinosi degli ultimi due anni all’interno della Nato: lo stallo turco sulla ratifica del protocollo di adesione della Svezia all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, ma un altro rischia di diventare ancora più imbarazzante. Mentre la Grande Assemblea Nazionale Turca è pronta a ratificare in settimana (tra oggi e giovedì) il protocollo di adesione di Stoccolma sei mesi dopo l’intesa decisiva tra i leader dei due Paesi al vertice Nato di Vilnius, il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán, ha reso noto di aver invitato il primo ministro svedese, Ulf Kristersson, a Budapest per “negoziare l’adesione della Svezia alla Nato“.

    Da sinistra: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoǧan, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, a Vilnius (10 luglio 2023)Quello turco sembrava l’ostacolo più arduo da superare per le aspirazioni della Svezia di diventare il 32esimo membro dell’Alleanza Atlantica, considerato il continuo rinvio imposto dal presidente Recep Tayyip Erdoǧan per una serie di criteri a suo avviso non rispettati secondo il memorandum d’intesa firmato alla vigilia del vertice di Madrid del 2022. Tra queste in particolare le richieste di estradare i membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). La posizione irremovibile del leader turco ha portato al punto più basso dei rapporti con gli altri alleati in occasione del via libera alla richiesta della Finlandia, quando è stato invece ribadito lo stop a Stoccolma: in questo modo è sfumato l’ingresso congiunto dei due Paesi scandinavi nell’Alleanza Atlantica nello stesso giorno (il 4 aprile 2023). Appena prima dell’inizio del vertice di Vilnius nel luglio dello scorso anno – e dopo aver minacciato di voler legare il percorso di allargamento della Nato a quello di adesione della Turchia all’Unione Europea – lo stesso Erdoǧan ha dato il via libera all’ingresso della Svezia in un trilaterale risolutorio con il premier Kristersson e il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. A distanza di sei mesi il Parlamento turco è pronto a rispettare l’impegno di ratificare il protocollo di adesione di Stoccolma, mettendo fine al suo ostruzionismo.

    Il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (credits: Javier Soriano / Afp)Ma ora tutti gli occhi sono puntati sull’Ungheria di Orbán, che si sta distinguendo in senso negativo a Bruxelles per i suoi continui ricatti non solo all’interno dell’Unione Europea (in particolare sulle questioni dei fondi Ue e del sostegno all’Ucraina) ma anche della Nato. Mentre l’attenzione era tutta rivolta ad Ankara e alle minacce esplicite di Erdoǧan di bloccare il processo in caso di non rispetto delle condizioni richieste, a Budapest il dossier della ratifica del protocollo di adesione della Svezia alla Nato non è mai avanzato soprattutto per il contrasto diplomatico tra i due Paesi membri Ue. Proprio durante il semestre di presidenza svedese del Consiglio dell’Ue (tra gennaio e luglio 2023), il premier Kristersson è stato particolarmente duro nelle sue critiche all’erosione dello Stato di diritto determinato dal governo Orbán e tutt’ora è uno dei leader più intransigenti sui ricatti del premier ungherese al tavolo del Consiglio Europeo. Il messaggio di Orbán sul “negoziare l’adesione della Svezia alla Nato” è anche un chiaro segnale di subordinazione del Parlamento ungherese alle decisioni del premier (così come successo in Turchia), considerato anche il fatto che a oggi non è in agenda un voto per la ratifica del protocollo di adesione di Stoccolma.I passi della Svezia per entrare nella NatoPer diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.

    La procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

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    UE e NATO ora preoccupati: “Dobbiamo essere pronti a un attacco della Russia”

    Bruxelles – La Russia minaccia sempre più reale e probabile, in grado di tramutarsi in un vero e proprio attacco alla NATO. In Europa iniziano a farsi ricorrenti gli allarmi e gli avvertimenti di possibili se non addirittura probabili aggressioni russe. Non da ultima quella del ministro delle difesa tedesco, Boris Pistorius, che considera lo scenario possa verificarsi tra 5-8 anni. Per la prima ministra dell’Estonia, Kaja Kallas, invece, potrebbe materializzarsi anche prima, nel giro di tre anni. Tre anni, esattamente quanto sostenuto da Eirik Kristoffersen, ministro della difesa della Norvegia.Una preoccupazione tutta interno ai membri UE della NATO, che plana prepotentemente sui tavoli di confronto, e non solo quelli politici. Perché l’ammiraglio Rob Bauer, capo del consiglio militare della NATO, ha messo in chiaro al termine dell’ultima riunione dell’organismo, giovedì scorso (18 gennaio), che “consideriamo la Russia una minaccia, e dobbiamo essere pronti per un attacco“. In questo contesto serve “un’industria che produca armi e munizioni più velocemente” rispetto a capacità e ritmi avuti prima dell’invasione dell’Ucraina.Dichiarazioni figlie di un mutato contesto, che vede la guerra allungarsi senza che se ne riesca ad immaginare il momento della fine, e la necessità che i Paesi dell’Unione tengano fede alle loro promesse ad esempio sulle munizioni all’Ucraina. Il sospetto che si voglia alzare la tensione per accelerare la produzione militare, come in realtà Bauer dice in maniera esplicita, c’è.Kallas vorrebbe sostituire Jens Stoltenberg alla guida dell’Alleanza atlantica e l’Estonia è attaccata alla Russia, dalla quale si sente da sempre minacciata, dunque è possibile che la premier sia guidata un po’ da preoccupazioni difensive e un po’ dalla volontà ri rinforzarsi come candidata alla Nato. D’altra parte è vero che dalla Russia ci sono continue azioni di disturbo sui confini estoni e finlandesi, ad esempio spingendovi dei migranti e molte sono anche le azioni realizzate con attacchi cibernetici.Il capo del comitato militare della Nato, nella stessa conferenza stampa, ha anche affermato che “non cerchiamo la guerra, ma dobbiamo essere pronti per la guerra“. Affermazione comprensibile. Eppure, a rileggere il discorso di Monaco pronunciato dal presidente russo Vladimir Putin alla conferenza sulla sicurezza globale del 2007, sembra che Europa e occidente abbiano colpevolmente ignorato le minacce di una Russia che chiedeva più meno NATO vicina ai suoi confini, annunciando passo passo le cose che poi ha fatto. Putin non ha mai fatto mistero di voler riprendere gli spazi di quello che fu l’impero russo e molti dei Paesi oggi confinanti ne erano parte.Dopo il discorso di Monaco del 2007 l’UE ha intensificato rapporti con Georgia, Ucraina, Kazakistan. La risposta russa, più o meno diretta, è stata l’intervento a fianco degli indipendentisti dell’Ossezia del sud, in chiave anti-georgiana (2008), l’annessione della Crimea (2014), l’aiuto militare per sedare proteste di piazza in Kazakistan, su richiesta del presidente kazako (gennaio 2022, poco prima dell’avvio delle operazioni in Ucraina). Tutti modi per ribadire che Mosca ha scelto una sua sfera d’influenza, sulla quali non vuole intromissioni. Neanche da parte dei governi legittimi di quei Paesi.La destabilizzazione è un’altra arma che Mosca ha usato spesso, armando e favorendo forze secessioniste quando ce ne sono, o esaltando fenomeni, esecrabili ma piccoli, come i partiti che si richiamano direttamente al nazismo o al fascismo indicando dunque quei Paesi come pericolosi.Di recente un drone russo è precipitato in Romania, ma si è deciso di tenere un profilo basso, di evitare di poter dare pretesti per un acuirsi del confronto.Non preoccuparsi di cosa potrebbe fare la Russia dunque, visti i precedenti, sarebbe, secondo molti osservatori “da sconsiderati”. Non c’è bisogno di invadere militarmente l’Estonia per creare un problema alla Nato, ci sono molte altre azioni che possono essere compiute, e che Mosca ha compiuto che possono essere viste come un attacco all’Alleanza, che difficilmente può essere un’invasione con i carri armati, anche perché la Russia si rende conto che un’azione del genere creerebbe una situazione di debolezza per il Cremlino. Almeno finché non arriva magari un Trump che negozia una sua pace con Mosca e abbandona la Nato e l’Europa a sé stesse.

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    L’Ue sanziona sei entità responsabili della guerra civile in Sudan

    Bruxelles – Il Consiglio dell’Ue ha adottato oggi (22 gennaio) misure restrittive nei confronti di sei entità “responsabili del sostegno ad attività che minano la stabilità e la transizione politica del Sudan“. Nel Paese più orientale del Sahel è in corso – dal 15 aprile 2023 – una guerra civile tra le forze armate sudanesi (Saf) e le forze di supporto rapido (Rsf).La decisione fa seguito all’istituzione, il 9 ottobre scorso, di un regime europeo di sanzioni dedicato alla crisi sudanese. Tra le entità inserite nel nuovo elenco figurano due società coinvolte nella produzione di armi e veicoli per l’esercito regolare, la Defence Industries System e la SMT Engineering, oltre alla Zadna International Company for Investment Limited, controllata da dalla Saf. Parallelamente, le misure restrittive toccheranno anche tre società coinvolte nell’approvvigionamento di attrezzature militari per la Rsf, la Al Junaid Multi Activity Co Ltd, la Tradive General Trading e la GSK Advance Company Ltd.Le società elencate sono soggette al congelamento dei beni sul territorio comunitario. Nei Paesi Ue sarà inoltre vietata la fornitura di fondi o risorse economiche , direttamente o indirettamente, a loro o a loro vantaggio . L’Ue “resta profondamente preoccupata per la situazione umanitaria in Sudan e riafferma il suo fermo sostegno e la sua solidarietà al popolo sudanese”, si legge in una nota pubblicata dal Consiglio dell’Ue.

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    L’Ue crede ancora nella soluzione dei due Stati respinta sia da Israele che da Hamas. E pensa a “condizionalità” per raggiungerla

    Bruxelles – Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato senza remore all’alleato americano che Israele si opporrà alla creazione di uno Stato palestinese alla fine della guerra contro Hamas. Ma l’Ue non si rassegna: al Consiglio Affari Esteri previsto lunedì 22 gennaio, i 27 cercheranno di rilanciare la soluzione dei due Stati in due discussioni separate con i ministri degli Esteri di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese.Nella capitale europea arriveranno, oltre all’israeliano Israel Katz e il palestinese Riyad al-Maliki, anche i ministri degli Esteri di tre Paesi chiave della regione: Arabia Saudita, Giordania ed Egitto. Ed il Segretario generale della Lega degli Stati arabi, Ahmed Aboul Gheit. Una “coreografia piuttosto complessa”, come l’ha definita un alto funzionario Ue ,su cui l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, “ha investito fortemente dal primo giorno” del conflitto.Gli argomenti principali del “balletto” saranno la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza e la necessità di un’ assistenza continua e senza ostacoli alla popolazione palestinese, un rinnovato appello per il rilascio degli ostaggi e la piena implementazione – da parte di Israele ed Hamas – delle risoluzioni delle Nazioni Unite, la situazione in Cisgiordania e i rischi di un’escalation regionale, anche nel Mar Rosso. Ma i ministri dei 27, insieme ai partner arabi, rifletteranno anche sul “giorno dopo”, su un possibile piano di pace e della necessità di passi concreti per rilanciare la soluzione dei due Stati, anche attraverso il continuo sostegno all’Autorità palestinese.Benjamin Netanyahu e il ministro Bezalel Smotrich del Partito estremista Sionismo Religioso  (Photo by RONEN ZVULUN / POOL / AFP)Gli obiettivi sono “una piena normalizzazione dei rapporti di Israele con i Paesi arabi, la sicurezza di Israele e uno Stato palestinese indipendente”. Una mission impossible, all’indomani della nuova chiusura di Netanyahu alla possibilità di lavorare per la creazione di uno Stato sovrano palestinese che coesista pacificamente con Israele. “Nessun diplomatico o politico israeliano ha mai parlato della soluzione dei due Stati dal 7 ottobre”, ammettono fonti europee. Anzi, diversi ministri – e ora anche il capo di governo – hanno pubblicamente rigettato quell’orizzonte.Orizzonte negato peraltro anche da Hamas, che aspira alla distruzione dello Stato d’Israele. Ma pe l’Ue è “molto difficile immaginare alternative, per il popolo palestinese l’unica possibilità di avere un futuro è di avere un proprio Stato che conviva di fianco a Israele“. Se con Hamas, che l’Ue riconosce come organizzazione terroristica, non esistono finestre di dialogo, Tel Aviv è uno strettissimo partner di Bruxelles, con cui l’Ue intrattiene dal 2000 un Accordo di Associazione. Un alto funzionario europeo ha aperto alla possibilità di fare pressione a Israele per sciogliere le resistenze vero la soluzione dei due Stati: “Stiamo proponendo alcune idee agli Stati membri, e parte di queste idee riguardano chiaramente anche come potremo usare le nostre condizionalità in futuro“.Dall’anno della sua istituzione, l’Accordo di Associazione Ue-Israele è stato spesso bersaglio di dure critiche. Un accordo che si fonda sui valori comuni condivisi di democrazia e rispetto dei diritti umani, dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali, che Israele calpesta sistematicamente non solo nell’attuale bombardamento massivo di Gaza, ma anche con l’occupazione progressiva della Cisgiordania e lo sfollamento forzato delle comunità palestinesi. Rimettere in discussione l’accordo significherebbe mettere sul tavolo una serie di agevolazioni commerciali che per l’economia di Israele – per cui l’Ue è il primo partner commerciale – sono di vitale importanza.A che punto sono i lavori sulla missione navale Ue nel Mar RossoSu un binario parallelo il Servizio Europeo d’Azione Esterna (Seae), è al lavoro per proporre ai 27 un regime di misure restrittive per i coloni israeliani estremisti: “Gli americani l’hanno fatto, il Regno Unito l’ha fatto, ora sta a noi sanzionare persone che sono un ostacolo alla pace”, ha dichiarato una fonte Ue. L’altro punto su cui si concentreranno gli scambi tra i ministri è l’allargamento delle tensioni al Mar Rosso, dove da ormai due mesi i ribelli Houthi – foraggiati dall’Iran – attaccano dallo Yemen le navi cargo che attraversano il canale di Suez.Mar Rosso, una guardia Houthi su una nave con bandiera della Bahamas, sequestrata in un porto yemenita (Photo by AFP)I 27 discuteranno della missione navale a guida europea che il Seae vorrebbe rendere operativa il prima possibile. Sicuramente non già lunedì, dove l’obiettivo è solo confermare che “il principio che l’Ue dovrebbe essere presente con un’operazione militare sia accettato” da tutti. Una missione difensiva, che implichi l’uso della forza per rispondere al “fuoco in arrivo” e che possa contare su almeno “tre navi” militari in grado di abbattere “missili, razzi o droni” lanciati contro le imbarcazioni dirette o provenienti dal Canale di Suez.L’idea è quella di allargare Agenor, un’operazione già esistente sullo stretto di Hormuz, nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano. Sarebbe la scelta più rapida, perché eviterebbe di passare dai parlamenti nazionali (quelli che lo richiedono): “Stiamo parlando con i Paesi membri che ne fanno parte”, ha spiegato la fonte. Della missione Agenor fanno parte Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Italia, Olanda e Norvegia. La missione, che non prevede “operazione a terra”, sarà infatti “aperta” alla partecipazione di Paesi non Ue, interessati a preservare la libertà di navigazione nel Mar Rosso. L’obiettivo resta approvare la missione nel Consiglio Affari Esteri del 19 febbraio.

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    L’estrema destra europea ha una visione distorta dei rapporti tra Unione Europea e Serbia (e Russia)

    Bruxelles – Viktor Orbán non è solo. Il più stretto alleato della Serbia di Aleksandar Vučić, il primo ministro che sta creando più problemi per l’unità dei Ventisette – e lo stesso che sta mettendo i bastoni fra le ruote di Bruxelles all’introduzione di misure contro Belgrado per il non rispetto degli impegni assunti per la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo – sta trovando buona compagnia nello schieramento di estrema destra al Parlamento Europeo. Destabilizzazione, ingerenze, tentativi di ricreare “una nuova Maidan”. Sono le accuse lanciate da alcuni esponenti del gruppo Identità e Democrazia (Id) all’indirizzo non della Russia o della Cina, ma contro l’Unione Europea, dopo il risultato quantomeno controverso delle elezioni anticipate del 17 dicembre scorso in Serbia.(credits: Andrej Isakovic / Afp)Le insinuazioni avanzate in particolare da due eurodeputati francesi di Rassemblement National sono state senza dubbio la nota più frizzante del dibattito di questa settimana alla sessione plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo a proposito della situazione in Serbia dopo le elezioni di dicembre (il voto sulla risoluzione è previsto per alla sessione di febbraio). Tutti i gruppi politici, compreso quello dei Conservatori e Riformisti Europei, si sono ritrovati d’accordo sul fatto che si sono registrate “gravi irregolarità e compravendita di voti” – come affermato dal croato Ladislav Ilčić (Ecr), anche se animato da ragioni puramente nazionalistiche – e che “i cittadini serbi meritano riforme europee e risultati concreti” (Vladimír Bilčík, Ppe), con critiche poco velate a Commissione e Consiglio sulla “reazione molto morbida” per la necessità di “pragmatismo a sostegno della stabilocrazia nel Paese, che però non porta ai risultati previsti” (Klemen Grošelj, Renew Europe). Tutti eccetto gli eurodeputati francesi intervenuti nell’emiciclo di Strasburgo a nome del gruppo Id, che hanno espresso il proprio dissenso con parole più controverse del previsto.“L’ideologia motiva questo dibattito, qual è il vostro problema? La vittoria di Vučić e la sconfitta dei vostri alleati politici di opposizione? È per questo che l’Ue cerca di destabilizzare la Serbia?“, ha attaccato il francese Jean-Lin Lacapelle (Id), accusando le istituzioni comunitarie di “ingerenze nella politica serba, perché ogni Paese è sovrano e indipendente, fino a quando le sue scelte democratiche non vi piacciono”. Ancora più esplicito il connazionale Thierry Mariani: “Sono preoccupato perché questa regione ha bisogno di riappacificazione, mentre questo dibattito farà sì che l’opposizione continui a smuovere le acque”. Fino alla chiusura più sibillina: “Vorrei capire qual è la ragione dietro questa discussione, stimolare una seconda Maidan?” Il riferimento è a uno dei fattori che ha scatenato la crisi tra la Russia e l’Ucraina nel 2013, e che per Kiev e Bruxelles è considerato il primo momento di espressione della volontà popolare di seguire la prospettiva europea per il Paese oggi invaso dall’esercito russo.Le parole dei due eurodeputati di estrema destra – e in particolare il riferimento alla “seconda Maidan” con accezione negativa – evidenziano non solo la visione distorta dei rapporti tra Ue e Serbia secondo una parte specifica dello spettro politico europeo, ma anche una strizzata d’occhio alla Russia di Vladimir Putin che non è mai stata rinnegata (ma diventata solo meno esplicita dopo lo scoppio della guerra in Ucraina). Parlare di “destabilizzazione” del sistema di potere del presidente Vučić da parte delle istituzioni comunitarie è fuorviante per due ragioni. In primis perché non fattuale: la Serbia è un Paese candidato dall’adesione all’Unione Europea, i cui impegni sanciti dai Trattati Ue (compreso il rispetto dei principi dello Stato di diritto messo in discussione dallo svolgimento delle ultime elezioni) sono stati sottoscritti volontariamente da Belgrado. In secondo luogo perché – ammesso e non concesso che a Bruxelles ci sia un disegno di pressioni illecite contro la Serbia – i meccanismi democratici dell’Unione consentono al premier Orbán di opporsi in sede di Consiglio all’introduzione delle misure “temporanee e reversibili” in discussione da mesi a Bruxelles (le stesse che invece sono in atto nei confronti del Kosovo) nonostante il via libera di tutti gli altri Paesi membri.Ancora più preoccupante è la visione dei rapporti alla luce del ruolo della Russia nella regione. In particolare va considerato il fatto che la Serbia di Vučić è l’unico partner dell’Unione che rivendica il non-allineamento alla Politica estera e di sicurezza comune, soprattutto sulle sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina (nemmeno a livello di principio) e che fino a oggi non ha mai voluto allontanarsi eccessivamente dal legame con il Cremlino. Al contrario, nonostante riceverà un pacchetto di sostegno energetico da Bruxelles pari a 165 milioni di euro, nel maggio 2022 Vučić ha siglato un’intesa con Putin per tre anni di gas russo a condizioni favorevoli. Per il Cremlino la Serbia è una sorta di testa di ponte nei Balcani Occidentali, tanto che Bruxelles continua a sollevare preoccupazioni sulla possibile destabilizzazione russa della regione dopo l’attacco armato all’Ucraina. A proposito di Ucraina, getta una luce inquietante il parallelismo fatto dai due eurodeputati di Rassemblement National tra il supporto di Bruxelles alle “legittime manifestazioni di piazza” a Belgrado (come le ha definite il commissario per la Giustizia, Didier Reynders) e a quelle del 2013 di Euromaidan. La critica nemmeno troppo velata di sostenere le richieste dei manifestanti – serbi oggi come ucraini allora – di maggiore trasparenza elettorale e contro le violazioni dello Stato di diritto è una potenziale cassa di risonanza della propaganda del Cremlino secondo cui le proteste popolari europeiste sono frutto di manipolazione delle potenze occidentali e richiedono un intervento più o meno diretto della Russia.Le tensioni in Serbia dopo le elezioni anticipateDa sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (credits: Andrej Isakovic / Afp)Nonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza rispondendo all’appello dei partiti e movimenti che avevano tradotto in istanze politiche (europeiste) le proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio. Anche la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) – a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo – ha rilevato “l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”. Dopo quasi un mese dalle elezioni anticipate continuano le proteste contro i brogli del partito al potere, in particolare a Belgrado.Proprio nella capitale la situazione rimane ancora tesa e non è da escludere che si possano ripetere le elezioni amministrative la cui vittoria è stata rivendicata dal Partito Progressista Serbo: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić ha conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović. La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. La stessa denuncia è arrivata dall’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale): “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska e di intimidazione dei votanti”.Le proteste di piazza dell’opposizione serba a Belgrado (credits: Miodrag Sovilj / Afp)A questo si aggiunge il caso che Bruxelles “sta seguendo da vicino” (parole della dalla portavoce della Commissione Ue responsabile per la politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero) sulle violenze subite dal leader del Partito Repubblicano di opposizione, Nikola Sandulović, prelevato dai servizi segreti serbi il 3 gennaio e duramente picchiato durante la detenzione per aver reso omaggio alla tomba di Adem Jashari, uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk). Membri dell’Agenzia serba per le informazioni sulla sicurezza (Bia) avrebbero sequestrato e torturato Sandulović, poi detenuto nella prigione centrale di Belgrado senza accesso a cure mediche indipendenti. Tra le persone responsabili per le violenze ci sarebbe anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić) che tra l’altro ha già ammesso di aver organizzato l’attacco armato nel nord del Kosovo a fine settembre dello scorso anno. L’ex-capo dell’intelligence serba (dimessosi due mesi fa), Aleksandar Vulin, ha riferito di aver personalmente ordinato l’arresto di Sandulović, ma l’avvocato della difesa ha puntato il dito contro il presidente Vučić.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews