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    La Danimarca convoca l’incaricato d’affari statunitense per presunti tentativi creare una rete per impossessarsi della Groenlandia

    Bruxelles – Il ministro degli Esteri della Danimarca, ha convocato il chargé d’affaires statunitense nel Paese per presunti tentativi di interferire con lo status della Groenlandia, da tempo oggetto di interesse per la nuova amministrazione statunitense di Donald Trump. Lo scrive oggi il quotidiano britanno Guardian.In un commento all’emittente pubblica DR, il ministro degli Esteri Lars Løkke Rasmussen ha affermato che “qualsiasi tentativo di interferire negli affari interni del Regno sarà ovviamente inaccettabile”.La mossa arriva dopo che il sito di DR ha riferito che i servizi segreti danesi hanno scoperto una rete di “almeno tre” persone che lavorano a “operazioni di influenza” in Groenlandia per creare una frattura tra la Danimarca e il territorio, nel tentativo di favorire “i piani del presidente Trump di acquisire la Groenlandia”DR scrive che le sue fonti istituzionali (ben otto) utilizzano termini come “infiltrazione” e “operazioni di influenza” e a ritenere che l’obiettivo delle operazioni sia quello di penetrare nella società groenlandese per indebolire il rapporto con la Danimarca dall’interno e indurre i groenlandesi a sottomettersi agli Stati Uniti.Secondo il sito, uno degli uomini si è recato in Groenlandia per partecipare a riunioni e compilare un elenco di potenziali alleati e oppositori dei piani di Donald Trump di conquistare il territorio.Egli avrebbe anche esortato i groenlandesi a “segnalare casi che potrebbero essere utilizzati per mettere la Danimarca in cattiva luce nei media americani”, ha affermato DR.Gli altri due uomini sarebbero stati coinvolti nella creazione di reti di contatti con politici, imprenditori e leader della comunità per perseguire i piani di Trump.L’incontro con il chargé d’affaires statunitense è previsto per oggi, ha detto Rasmussen.A maggio, il Wall Street Journal aveva riportato che gli Stati Uniti hanno intensificato le loro operazioni di intelligence per spiare la Groenlandia.

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    La battaglia delle ong belghe contro l’appalto ad un’impresa spagnola che opera in Cisgiordania

    Bruxelles – La società civile belga vuole impedire che i soldi dei contribuenti contribuiscano a sostenere i crimini commessi da Israele contro i palestinesi, dal genocidio in corso nella Striscia di Gaza all’apartheid in Cisgiordania. Nel mirino di una serie di gruppi per i diritti umani, supportati dalla relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese, è finita una commessa multimiliardaria affidata dalle ferrovie pubbliche nazionali ad un’azienda spagnola che fa affari con l’economia dell’occupazione israeliana.Durante un incontro con la stampa, una coalizione di organizzazioni non governative con sede in Belgio ha ribadito oggi (26 agosto) il proprio impegno per evitare che l’Sncb/Nmbs, il gruppo proprietario delle ferrovie federali, proceda con l’assegnazione alla spagnola Construcciones y Auxiliar de Ferrocarriles (Caf) di un contratto da 3 miliardi di euro per l’acquisto di 600 vagoni. La prima designazione della Caf come vincitrice del bando risale allo scorso febbraio: è stata poi sospesa ad aprile e successivamente riconfermata a luglio.L’appello lanciato da Al-Haq Europe, Intal, Vrede vzw e 11.11.11 è semplice: i soldi pubblici non devono finire nelle tasche di un’impresa che con le sue attività nei territori palestinesi occupati alimenta quella che la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, definisce la “economia del genocidio” dello Stato ebraico, basata sulla pulizia etnica, la distruzione, il furto di terre e, in definitiva, la violazione sistematica dei diritti umani e del diritto internazionale.Demolizioni israeliane supervisionate dall’Idf a Judeira, nella Cisgiordania occupata (foto: Zain Jaafar/Afp)Essendo coinvolta in dal 2019 nella costruzione e manutenzione di una linea tramviaria che collega la Gerusalemme Est occupata con gli insediamenti illegali in Cisgiordania, sostengono le ong, l’azienda basca va esclusa dalla gara d’appalto. “Non si può firmare un contratto con un’azienda profondamente coinvolta nella politica di occupazione”, osserva Willem Staes di 11.11.11.Staes e i suoi collaboratori spiegano che il Belgio, in quanto Stato membro dell’Ue, sostiene la soluzione a due Stati, ma che i legami economici di Bruxelles con le colonie israeliane illegali costituiscono de facto una violazione degli obblighi giuridici del Paese. L’Sncb, stando alla loro denuncia, non ha incorporato nella procedura d’appalto alcuna analisi del rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale da parte della Caf. Una mancanza che potrebbe configurare una “grave negligenza professionale” per le ferrovie federali ai sensi della normativa belga.Le quattro sigle della società civile hanno intrapreso un’azione legale contro l’Sncb di fronte al Consiglio di Stato, la più alta istanza di giudizio del Belgio in ambito amministrativo, che dovrebbe discutere la questione la prossima settimana ed emettere una sentenza entro tre settimane. Giustificano questo procedimento irrituale con la necessità di creare “un precedente cruciale per ritenere le istituzioni pubbliche responsabili dei loro legami economici con aziende coinvolte in gravi violazioni dei diritti umani“, come si legge in un comunicato congiunto delle associazioni.Pure Albanese ha ribadito la centralità del concetto di responsabilità, declinandolo su due piani distinti ma collegati. Da un lato la responsabilità pubblica, per cui è necessario chiedere conto a decisori politici e istituzioni dei loro legami con entità che si macchiano di crimini tanto efferati.“I doveri in capo agli Stati e le responsabilità in capo alle aziende sono due facce della stessa medaglia”, ragiona l’avvocata. La stessa Caf, ricorda, è già presente nel database dell’Onu dove sono registrate le aziende che coi loro affari alimentano le violazioni israeliane, incluse la segregazione e lo sfollamento forzato. L’impresa basca, sostiene, “è un attore chiave” negli sforzi per la “annessione permanente di terra palestinese“.La relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi occupati, Francesca Albanese (foto: Saverio De Giglio via Imagoeconomica)Albanese denuncia come “scioccante” l’immobilità dei governi mondiali, incapaci di mettere in campo “una risposta politica robusta” nei confronti di Israele. A partire da quelli dei Ventisette che, dopo oltre 22 mesi di sterminio quasi scientifico (accoppiato ad una carestia orchestrata in maniera artificiale, come certificato dall’Onu), rimangono divisi persino su una misura blanda come la sospensione parziale dei fondi Horizon+ per Tel Aviv.Iniziative come quella della Global Sumud Flotilla – forse la mobilitazione transnazionale più ampia di sempre, per rompere l’assedio di Gaza e far entrare nella Striscia gli aiuti umanitari – sono importanti, ragiona, “ma è responsabilità degli Stati” reagire in maniera strutturale. “L’Ue e i suoi Paesi membri non possono interagire con Israele come se nulla fosse“, incalza, evidenziando come lo Stato ebraico “si è spinto molto più in là” del Sud Africa nell’epoca dell’apartheid, finito giustamente nel mirino di sanzioni e boicottaggi internazionali.D’altra parte, la relatrice Onu ha rinnovato l’appello alla responsabilità individuale dei singoli cittadini in un momento storico in cui rimanere in silenzio è ormai un atto di complicità. E suggerisce tre livelli di azione che ogni persona può intraprendere autonomamente: informarsi sulla Palestina, con una prospettiva storica e senza fermarsi alla situazione attuale; fare pressione sul proprio governo tramite proteste e manifestazioni e, infine, fare pressione su aziende e imprese per mezzo di boicottaggi e abitudini d’acquisto e di consumo eticamente consapevoli.

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    Gaza, la Global Sumud Flotilla tenta di rompere l’assedio per portare gli aiuti umanitari

    Bruxelles – Nell’inazione dei governi di tutto il mondo nei confronti di Israele, tocca alla società civile mobilitarsi e cercare di fermare le atrocità commesse da Tel Aviv nella Striscia di Gaza. A fine mese, decine di imbarcazioni salperanno alla volta dell’exclave costiera, nel tentativo di rompere il blocco navale e far arrivare alla popolazione civile gli aiuti umanitari di cui ha disperatamente bisogno, ma che lo Stato ebraico continua a non lasciar passare.Il prossimo 31 agosto decine di barche e navi provenienti da 44 Paesi prenderanno il mare per raggiungere le coste di Gaza. Alcune partiranno dalla Spagna, mentre altre molleranno gli ormeggi il 4 settembre dalla Tunisia. È la Global Sumud Flotilla, un movimento transnazionale nato dall’unione di tre precedenti iniziative – la Freedom Flotilla Coalition, il Movimento Globale per Gaza e il Maghreb Sumud Convoy – con l’obiettivo di spezzare l’assedio totale con cui Israele cinge la Striscia per terra, mare e aria e consegnare gli aiuti umanitari vitali alla popolazione civile, ormai sull’orlo del collasso.All’appello globale alla solidarietà nei confronti del popolo palestinese lanciato dall’associazone stanno rispondendo decine di uomini e donne dal mondo della politica, dell’attivismo, della cultura e della musica che stanno usando le proprie piattaforme per diffondere il messaggio umanitario dell’iniziativa, oltre a migliaia di cittadini da tutti gli angoli del mondo, inclusi medici, giornalisti e avvocati. “Ogni barca rappresenta una comunità e il rifiuto di rimanere in silenzio di fronte al genocidio“, scrivono i promotori della coalizione internazionale.Anche diversi personaggi pubblici italiani hanno deciso di metterci la faccia e alzare la voce contro i crimini di guerra perpetrati da Tel Aviv, con l’obiettivo di tenere alta l’attenzione mediatica verso l’iniziativa: da Alessandro Gassman a Claudio Santamaria, da Alessandro Barbero a Zerocalcare. Affiancano volti noti a livello internazionale come Greta Thunberg, Mark Ruffalo, Susan Sarandon, Liam Cunningham e molti altri.Anche alla Mostra del Cinema di Venezia, diversi artisti italiani hanno scritto una lettera aperta chiedendo al festival di schierarsi contro il genocidio in corso. Tra i firmatari, nomi di spicco come Carolina Crescentini, Serena Dandini, Fiorella Mannoia, Gabriele Muccino, Alba e Alice Rohrwacher, Pietro Sermonti, Claudio Santamaria, Toni Servillo e Marco Bellocchio.La parola sumud in arabo significa “resilienza“. Una resistenza pacifica, nonviolenta, che fa ricorso alla disobbedienza civile – a cui si può prendere parte non solo tramite la partecipazione diretta a bordo di un vascello, ma in molti modi anche “a distanza” – per ribellarsi contro uno dei crimini più efferati ed abominevoli della contemporaneità. Nel solco di altre iniziative collettive messe in piedi nelle scorse settimane, come il viaggio del vascello Madleen, intercettato dallo Stato ebraico al largo delle coste di Gaza, in acque internazionali (fato toccato anche alla Handala, mentre la Conscience era stata attaccata da droni israeliani).La nave Madleen del collettivo Freedom Flotilla (foto dall’account X della Freedom Flotilla Coalition)E nel nome di un senso di umanità che a quanto pare non è condiviso dai governi mondiali: a partire da quelli europei che tanto amano dipingersi come difensori del diritto e dei diritti, ma che tuttavia non riescono nemmeno a mettersi d’accordo su una misura essenzialmente simbolica come la sospensione parziale dei fondi Horizon+ per Tel Aviv. In alcuni Paesi i governi sono entrati in crisi solo per aver contemplato come argomento di discussione politica il potenziale riconoscimento dello Stato di Palestina.Stato palestinese che, nei fatti, potrebbe presto non poter esistere più, cancellato per sempre dalla mappa. Da un lato, l’ecatombe nella Striscia non sembra conoscere fine. Le operazioni dell’Idf continuano a Gaza City mentre i civili palestinesi vengono assassinati quando tentano di raccogliere il cibo distribuito col contagocce dalle autorità di Tel Aviv (che assoldano influencer per diffondere la propria propaganda e addossare la colpa alle Nazioni Unite).Da oltre 22 mesi, il governo di Benjamin Netanyahu (sul cui capo pende un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale) sta deliberatamente sterminando tramite il combinato disposto di una violentissima campagna militare – bollata come genocidio anche dalle stesse ong israeliane – e di una carestia creata artificialmente per affamare gli oltre 2 milioni di civili ancora rimasti nell’area, come certificato dall’Onu. L’esecutivo di Tel Aviv pare intenzionato a rioccupare permanentemente l’exclave, 20 anni dopo essersi ritirato dall’area.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Charly Triballeau/Afp)Stamattina, un bombardamento israeliano presso l’ospedale Nasser di Khan Yunis ha ucciso almeno 20 persone, tra cui 5 giornalisti, con la tecnica del cosiddetto double tap: ad un primo attacco ne fa seguito un secondo contro lo stesso bersaglio, per massimizzare i danni colpendo le squadre di soccorso quando arrivano sul posto. Un metodo barbaro, utilizzato anche dalla Russia in Ucraina: in quel contesto, i governi occidentali si sperticano giustamente per denunciarne l’inumanità. In questo, invece, il loro silenzio è assordante.Dall’altro lato, continua a incancrenirsi pure il regime di apartheid messo in piedi da Israele nella Cisgiordania occupata, dove aumentano le demolizioni (anche di strutture scolastiche finanziate coi soldi europei) e le violenze dei coloni. E dove Tel Aviv potrebbe presto procedere con lo scellerato progetto noto come E1, che collegherebbe l’insediamento di Maale Adumim con Gerusalemme Est, tagliando de facto in due questa porzione di Palestina.

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    Serbia, Vučić tenta la carta del dialogo coi manifestanti: “Discutiamo insieme”

    Bruxelles – Aleksandar Vučić, l’autoritario presidente della Serbia al potere dal 2014, tenta l’azzardo per provare ad ammorbidire il movimento di protesta che sta scuotendo da mesi il Paese balcanico, che manifesta contro la corruzione e lo scivolamento verso l’orbita di Mosca. Ma la sua offerta di dialogo non sembra convincere studenti e opposizioni, che vogliono le dimissioni dell’uomo forte di Belgrado.Con una mossa piuttosto inaspettata, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha teso la mano ai manifestanti che da oltre nove mesi riempiono le piazze del Paese balcanico per chiedere la fine della corruzione dilagante e un generale ricambio della classe politica. Incluso il capo dello Stato: “Arrestate Vučić” è uno dei cartelli che capita di leggere alle proteste, scoppiate lo scorso novembre in seguito al crollo di una pensilina a Novi Sad, nel quale sono morte 16 persone.Così, in un discorso alla nazione trasmesso in tv oggi (22 agosto), il presidente ha azzardato la sua proposta, offrendosi di intrattenere “discussioni e dibattiti su tutte le nostre televisioni, su tutti i nostri siti, coi rappresentanti legittimi” del movimento di protesta. Vučić si dice intenzionato ad “affrontare le diverse visioni” allo scopo di “risolvere la questione attraverso il dialogo e il confronto” e con l’obiettivo ultimo di “ricostruire il Paese, per riportarlo alla situazione in cui si trovava nove mesi fa”.Fino ad oggi, l’autoritario leader sembrava avviato irrevocabilmente sulla strada della repressione, delegata a forze dell’ordine autorizzate a ricorrere anche a dispositivi illegali come i cannoni sonici per disperdere i contestatori. Negli ultimi giorni, la tensione era salita pericolosamente con scontri anche violenti tra manifestanti e fazioni filogovernative, conditi da assalti ad alcune sedi dei partiti che compongono l’esecutivo e diffusi abusi di potere commessi dagli apparati di sicurezza.Le proteste per le strade di Belgrado, il 15 agosto 2025 (foto: Marko Djoković/Afp)Ma i critici di Vučić – sia in piazza sia in Parlamento – non sembrano disposti a bersi la storia del suo improvviso ravvedimento. “Un presidente che ricorre alla violenza non è qualcuno con cui si può discutere di questioni politiche, questo è un governo corrotto che calpesta la democrazia e i diritti umani“, il commento caustico di Savo Manojlović, leader del partito centrista Kreni-Promeni.Opposizioni e studenti chiedono a Vučić di dimostrare la sua buona fede facendosi da parte e convocando al più presto elezioni presidenziali anticipate, prima del 2027 quando scadrà il suo secondo mandato (e anche l’ultimo, a rigor di Costituzione). Il capo dello Stato “non ha una risposta alla ribellione popolare“, si legge in una nota degli studenti dell’Università di Belgrado, in cui accettano di discutere ma solo “durante la campagna elettorale“.Finora, l’unico risultato concreto a cui hanno portato le oceaniche proteste popolari – probabilmente le più ampie nella storia del Paese balcanico da quando è implosa la Jugoslavia – è rappresentato dalle dimissioni dell’ex primo ministro Miloš Vučević, rassegnate a fine gennaio nel tentativo, egregiamente fallito, di placare i manifestanti.Da anni, l’uomo forte di Belgrado pone un dilemma geopolitico di non poco conto all’Ue. La Serbia è ufficialmente un Paese candidato all’adesione al club a dodici stelle ma, oltre alla repressione delle proteste e alle violazioni di massa dei diritti fondamentali, a provocare forti grattacapo a Bruxelles c’è anche l’imbarazzante vicinanza di Vučić a Vladimir Putin.Il presidente russo Vladimir Putin (foto: Vyacheslav Prokofyev/Sputnik via Afp)Incurante degli ammonimenti dell’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas, il presidente serbo si è recato a Mosca lo scorso 9 maggio per celebrare l’80esimo anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista, in tribuna d’onore sulla Piazza Rossa insieme allo zar e al premier slovacco Robert Fico, uno dei due enfants terribles dell’Unione. Con l’altro, il primo ministro ungherese Viktor Orbán, Vučić sta lavorando per prolungare l’oleodotto Druzhba e far arrivare fino in Serbia il greggio della Federazione, acuendo ulteriormente la frizione diplomatica tra Budapest e Kiev.Allo stesso tempo, tuttavia, Vučić si mostra ambivalente nei confronti dell’Ucraina. A giugno si è presentato a sorpresa a Odessa, dove ha partecipato ad una riunione convocata da Volodymyr Zelensky in persona, e da qualche tempo Mosca sta accusando Belgrado di aver tradito la tradizionale amicizia tra i due Paesi vendendo armi a Kiev.Le alte sfere di Bruxelles hanno sempre sostenuto di stare dalla parte degli studenti, ma nelle loro più recenti visite nella capitale serba tanto Kallas quanto António Costa, presidente del Consiglio europeo, sono stati piuttosto morbidi nel mettere Vučić di fronte alle proprie responsabilità. Per una curiosa coincidenza, del resto, la Commissione europea ha incluso la Serbia tra gli 11 Paesi terzi in cui finanzierà progetti per l’approvvigionamento delle materie prime critiche, essenziali per mantenere la competitività del Vecchio continente nel XXI secolo.

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    Gli alleati di Kiev cercano la quadra sulle garanzie di sicurezza. Doccia fredda da Mosca sul bilaterale Putin-Zelensky

    Bruxelles – Sono giorni frenetici per i partner occidentali dell’Ucraina, che stanno cercando di far accelerare la macchina diplomatica per raggiungere una soluzione negoziata della guerra con la Russia, nonostante le richieste del Cremlino rimangano irricevibili per Kiev. Nell’attesa di un faccia a faccia tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin, gli alleati transatlantici stanno discutendo di quali garanzie di sicurezza fornire al Paese aggredito una volta cessate le ostilità.Dopo lo storico incontro alla Casa Bianca tra Donald Trump e una mezza dozzina di leader europei, incluso Volodymyr Zelensky, i responsabili politici e militari della Nato e della coalizione dei volenterosi si sono confrontati in una serie di riunioni per provare a definire la forma concreta che potrebbero prendere le famigerate garanzie di sicurezza promesse tante volte a Kiev in termini fumosi.Stando alle ricostruzioni circolate sulla stampa internazionale, nella giornata di ieri (21 agosto) i capi di Stato maggiore degli alleati transatlantici hanno presentato ai rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale diverse opzioni, di cui cominciano ad emergere alcuni dettagli parziali. L’unica cosa certa, a questo punto delle discussioni, è che i Paesi del Vecchio continente dovranno fare “la parte del leone“, come sottolineato ripetutamente dall’amministrazione a stelle e strisce.Il presidente statunitense Donald Trump (foto: Brendan Smialowski/Afp)Per quanto Trump abbia espresso disponibilità a partecipare alle garanzie di sicurezza per l’Ucraina (un esito tutt’altro che scontato e dipinto dalle cancellerie del Vecchio continente come un grande successo), il tycoon ha messo in chiaro che Washington non manderà truppe, rimanendo ambiguo rispetto al tipo di supporto che gli Stati Uniti potranno fornire una volta cessate le ostilità sul campo.Ora, pare che gli europei stiano chiedendo allo zio Sam di continuare a condividere le preziose informazioni d’intelligence e, soprattutto, di garantire una qualche forma di copertura aerea. Che potrebbe declinarsi in vari modi: attraverso l’impiego diretto di piloti statunitensi, ad esempio, per facilitare eventuali operazioni di terra oppure per mettere in piedi una no-fly zone nei cieli ucraini, ma anche tramite la fornitura di ulteriori sistemi antiaerei a Kiev. Un’ulteriore ipotesi potrebbe comportare il comando Usa della missione terrestre europea.Nel solco delle discussioni che si protraggono da mesi, ad ogni modo, il nodo più delicato rimane l’invio di truppe in Ucraina. Secondo alcune stime, per proteggere un’eventuale tregua saranno necessarie svariate decine di migliaia di soldati (nell’ordine dei 30-40mila come minimo), che dovrebbero rimanere stazionati in Ucraina nel medio-lungo periodo ed essere pronti a intervenire tempestivamente in caso di necessità.Al momento attuale, tuttavia, solo la Francia sembra disposta a schierare un proprio contingente in Ucraina. Tra le altre potenze militari europee, l’Italia ha chiuso da tempo la porta a quest’opzione (a meno che non se ne parli all’interno di una cornice Onu), in Germania la discussione è accesissima (in ogni caso la Bundeswehr è tutt’altro che in buona salute), e persino il Regno Unito starebbe riconsiderando l’impiego di truppe, che pareva certo fino a poco tempo fa. La Polonia, tra i più fervidi alleati di Kiev, non intende sguarnire le sue frontiere orientali con la Bielorussia e l’exclave russa di Kaliningrad.Il presidente francese Emmanuel Macron (foto via Imagoeconomica)Di sicuro, tutti concordano nel considerare l’esercito ucraino la “prima linea” fondamentale per respingere una potenziale nuova aggressione. A questo obiettivo mirano in effetti gli aiuti militari e finanziari occidentali, e in tre anni e mezzo di guerra le forze armate di Kiev hanno aumentato sensibilmente la loro preparazione mentre l’industria bellica nazionale ha fatto progressi sostanziali, come dimostra il nuovo missile balistico Flamingo con gittata di 3mila chilometri.Ma è proprio sulla “forza di rassicurazione” internazionale che rischia di impantanarsi tutto, dal momento che il Cremlino si oppone nettamente alla presenza di truppe dell’Alleanza in Ucraina. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha dichiarato nei giorni scorsi che Mosca vuole essere consultata nella definizione delle garanzie di sicurezza per Kiev, e si è addirittura spinto a suggerire che tra i garanti della pace dovrebbero esserci i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, incluse la Cina e, appunto, la Russia.A proposito del Cremlino, in queste ore stanno circolando anche le precise richieste avanzate da Vladimir Putin durante il suo faccia a faccia con Trump ad Anchorage, in Alaska, lo scorso 15 agosto. Per porre fine alla propria aggressione, Mosca esige che Kiev ceda definitivamente la Crimea e l’intero Donbass alla Federazione (quest’ultimo, costituito dalle oblast’ di Donetsk e Luhansk, è occupato solo parzialmente dai russi), rinunci per sempre all’ingresso nella Nato, mantenga uno status di neutralità permanente e non ospiti sul proprio territorio truppe occidentali.Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Difficilmente la leadership ucraina potrà accettare tutti i desiderata di Putin, che pure ha ridimensionato le sue ambizioni rispetto all’anno scorso. All’epoca voleva anche le oblast’ di Kherson e Zaporizhzhia (anch’esse parzialmente occupate e, come Donetsk e Luhansk, annesse unilateralmente con un referendum farsa nel settembre 2022). Ora, lo zar sarebbe disposto a “congelare” il fronte in queste due regioni lungo l’odierna linea di contatto e a ritirare le proprie truppe da alcune aree nei dintorni di Kharkiv, Sumy e Dnipropetrovsk.Se è prevedibile che Kiev non aderisca all’Alleanza nell’immediato futuro (stante l’opposizione di svariati membri, a partire dagli Usa), Zelensky ha detto chiaro e tondo che qualunque cessione territoriale andrà discussa al massimo livello tra lui e Putin. Da giorni si parla di un possibile bilaterale tra i leader dei Paesi belligeranti, cui dovrebbe dar seguito un trilaterale con Trump, per raggiungere un accordo di pace complessivo. Finora, i tre round di colloqui tra Russia e Ucraina non hanno portato ad alcun progresso in tal senso.Del resto, lo stesso Lavrov nelle scorse ore ha raffreddato gli entusiasmi, avvertendo che per arrivare ad un simile risultato servirà una meticolosa preparazione e reiterando i dubbi sulla legittimità del presidente ucraino, il cui mandato è scaduto nel maggio 2024 (la legge marziale in vigore nel Paese impedisce tuttavia di tenere nuove elezioni). Mosca, insomma, non ha alcuna fretta e può permettersi di prendere in giro ancora un po’ il presidente statunitense e la sua megalomania, a partire dal disattendere l’ennesimo ultimatum di due settimane fissato dal tycoon.

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    Gaza, per l’Onu è “carestia interamente causata dall’uomo”

    Bruxelles – A Gaza è in atto una carestia “interamente causata dall’uomo”. Lo afferma un report  del  Comitato di revisione sulla carestia (Frc), agenzia dell’Onu, il quale afferma che “che nella provincia di Gaza è in atto una carestia (fase 5 della Classificazione integrata della sicurezza alimentare, Ipc, sviluppata dalla Fao anni fa). Inoltre, il Frc prevede che nelle prossime settimane la soglia della carestia (fase 5 dell’IPC) sarà superata nelle province di Deir al-Balah e Khan Younis”.Nelle 50 pagine del report si afferma che “poiché questa carestia è interamente causata dall’uomo, può essere fermata e invertita. Il tempo dei dibattiti e delle esitazioni è finito, la fame è presente e si sta rapidamente diffondendo”.Il documento ammonisce poi che “non ci dovrebbero essere dubbi nella mente di nessuno sulla necessità di una risposta immediata e su larga scala. Qualsiasi ulteriore ritardo, anche di pochi giorni, comporterà un aumento del tutto inaccettabile della mortalità legata alla carestia”. Dunque , se “non verrà attuato un cessate il fuoco per consentire agli aiuti umanitari di raggiungere tutti nella Striscia di Gaza e se non verranno ripristinati immediatamente i rifornimenti alimentari essenziali e i servizi sanitari, nutrizionali e idrici di base, i decessi evitabili aumenteranno in modo esponenziale”.Israele, mentre continua a bombardare, mentre annuncia il prossimo arrivo di un “inferno” di fuoco nella striscia nella quale impedisce l’arrivo di aiuti umanitari in maniera sistematica, nella più vergognosa delle ipocrisie tenta di accusare Hamas anche di questa situazione. Il Cogat l’agenzia militare israeliana che coordina gli aiuti, ha accusato Hamas di una “campagna di falsa fame” e ha affermato che l’Onu e altri stanno diffondendo affermazioni infondate sulla fame a Gaza.Intanto anche la Polonia si è unita ad altri 21 paesi nel condannare il nuovo piano illegale di Israele per la costruzione dell’insediamento E1 in Cisgiordania, definendolo una “flagrante violazione del diritto internazionale”.Il progetto di costruzione di 3.400 abitazioni è stato condannato a livello internazionale, anche dall’Italia, e taglierà fuori gran parte della Cisgiordania occupata da Gerusalemme Est, collegando migliaia di insediamenti israeliani illegali nella zona.

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    Nell’inerzia del mondo (e dell’Ue), Israele sta smantellando la Palestina

    Bruxelles – L’Europa e il mondo restano a guardare mentre Israele seppellisce definitivamente ogni prospettiva per la costruzione di uno Stato palestinese. E probabilmente, allo stesso tempo, anche la possibilità di una ricomposizione politica della decennale crisi mediorientale. Dopo aver approvato il controverso piano per la creazione dell’insediamento E1, che spezza la Cisgiordania in due, il gabinetto di Benjamin Netanyahu ha avviato stanotte un’offensiva terrestre su Gaza City.Approfittando della disattenzione dei partner occidentali, febbrilmente indaffarati a preparare il terreno per una potenziale soluzione negoziata della guerra in Ucraina, Tel Aviv sta premendo sull’acceleratore per distruggere completamente quel poco che resta della Palestina, conducendo in contemporanea due azioni diverse ma complementari tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata.Dopo giorni di intensi bombardamenti, nella notte tra il 20 e il 21 agosto sono iniziate le operazioni di terra dell’esercito israeliano (Idf) per la conquista definitiva di Gaza City, la capitale dell’exclave costiera ormai rasa quasi completamente al suolo dalla violentissima campagna militare avviata nell’ottobre 2023 in risposta agli attacchi dei miliziani di Hamas. La situazione umanitaria nell’area è gravissima, come denunciano quotidianamente le Nazioni Unite, le ong e associazioni internazionali e locali e gli stessi alleati dello Stato ebraico, e il numero dei morti ha superato le 62mile unità.La distruzione a Gaza City (foto: Omar Al-Qattaa/Afp)Ma il primo ministro Benjamin Netanyahu (ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità) tira dritto e procede coi suoi piani di rioccupare permanentemente la Striscia, dalla quale Israele si era ritirato nel 2005. Per portarli a termine, il suo gabinetto ha richiamato 60mila riservisti da impiegare in prima linea nelle prossime settimane. Diverse ong israeliane parlano ormai apertamente delle operazioni a Gaza bollandole come genocidio del popolo palestinese, condotto sia con mezzi militari sia tramite la strumentalizzazione della fame.Diventa peraltro sempre più difficile per il mondo esterno sapere cosa accade nella Striscia, dato che le Idf continuano a massacrare indiscriminatamente i giornalisti (oltre 240 in 22 mesi, secondo i dati dell’Onu), sospettati di connivenza con Hamas. Mentre il gruppo palestinese e il governo di Tel Aviv si stanno scambiando accuse reciproche di sabotaggio dei negoziati per una tregua, i cittadini israeliani riempiono le piazze per chiedere la fine delle ostilità e il rilascio degli ostaggi (una cinquantina, di cui una ventina ancora in vita) in una serie di mobilitazioni tra le più grandi nella storia del Paese.Parallelamente, la situazione sta precipitando anche in Cisgiordania, dove il dominio della potenza occupante ha da tempo assunto i connotati di un vero e proprio sistema di apartheid (come denunciato, ancora una volta, dalle ong israeliane). Qui da molti mesi si assiste ad una recrudescenza delle violenze dei coloni (spalleggiati dall’Idf) che fa il paio con le continue demolizioni di abitazioni e infrastrutture palestinesi.Giusto ieri, il governo israeliano ha dato il via libera definitivo al controverso progetto di espansione degli insediamenti nella cosiddetta area E1 (acronimo di East 1), tramite cui verrà costruito un nuovo corridoio tra la Gerusalemme Est occupata e la colonia già esistente di Maale Adumim. Con questa mossa – nel cassetto di Tel Aviv già dagli anni Novanta, ma mai attuata per l’opposizione degli alleati occidentali, inclusi gli Usa – verrà de facto tagliata in due la Cisgiordania, uno dei nuclei di un ipotetico Stato di Palestina, interrompendo la continuità territoriale tra Ramallah a nord (sede dell’Autorità nazionale palestinese) e Betlemme a sud.Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich descrive il progetto E1 con l’ausilio di una mappa (foto: Menahem Kahana/Afp)“Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo delle trattative non con slogan, ma con azioni concrete“, ha proclamato trionfalmente il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, uno degli uomini di punta dell’estrema destra messianica dalla quale dipende la sopravvivenza del sesto governo Netanyahu. “Ogni insediamento, ogni quartiere, ogni unità abitativa è un altro chiodo nella bara di questa idea pericolosa“, ha aggiunto.Lo stesso premier, visitando un insediamento della Cisgiordania fondato un quarto di secolo fa, ha rivendicato orgogliosamente la linea dell’esecutivo: “Venticinque anni fa ho detto che avremmo fatto di tutto per garantire il nostro controllo sulla Terra di Israele, per impedire la creazione di uno Stato palestinese, per impedire i tentativi di sradicarci da qui. Grazie a Dio, abbiamo mantenuto la promessa”.Queste azioni configurano violazioni eclatanti del diritto internazionale e, come confermato da dichiarazioni di simile tenore, stanno venendo perpetrate con l’esplicito intento di mettere una pietra tombale su ogni velleità di costruire uno Stato palestinese. Sempre Smotrich ha sottolineato che si tratta anche di una risposta all’intenzione di diversi Paesi occidentali di riconoscere la Palestina il mese prossimo e sancendo formalmente una realtà che era già sotto gli occhi di tutti da molti anni.Anche se le cancellerie mondiali faticano ad ammetterlo, la “soluzione a due Stati” è ormai diventata una formula priva di qualunque significato reale, dato che nessuno dei governi succedutisi a Tel Aviv negli ultimi trent’anni ha mai compiuto passi concreti per realizzare quanto pattuito col processo di Oslo ed avvicinare la formazione di uno Stato di Palestina autonomo e indipendente che vivesse “in pace e sicurezza” accanto a Israele.Demolizioni israeliane supervisionate dall’Idf a Judeira, nella Cisgiordania occupata (foto: Zain Jaafar/Afp)Da Bruxelles, tuttavia, giungono solo i soliti commenti retorici, ritriti e stucchevoli. I portavoce della Commissione continuano a rimandare i giornalisti ai post su X di Ursula von der Leyen e Kaja Kallas, ripetendo che “la diplomazia è lo strumento principale“. Ma a questo punto, espressioni come “situazione umanitaria spaventosa” e “protezione della popolazione civile” suonano quasi grottesche se affiancate alle immagini che arrivano dal terreno, con buona pace delle pretese comunitarie di proiettare una qualche forma di soft power nell’arena internazionale.“L’Ue rifiuta qualsiasi tentativo di modifica territoriale e demografica nella Striscia di Gaza“, ha ribadito per l’ennesima volta Anitta Hipper, portavoce dell’Alta rappresentante, evidenziando al contempo che il piano sull’E1 “mina la soluzione a due Stati e viola il diritto internazionale”. Peccato che all’orizzonte, in termini di azioni concrete ci sia poco o nulla. Le proposte di sanzioni contro Tel Aviv continuano a cadere nel vuoto, e i Ventisette non sono nemmeno in grado di mettersi d’accordo su una sospensione parziale dei fondi Horizon+ destinati a Israele nel bilancio 2028-2034.

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    Nell’inerzia del mondo (e dell’Ue), Israele sta smantellando la Palestina

    Bruxelles – L’Europa e il mondo restano a guardare mentre Israele seppellisce definitivamente ogni prospettiva per la costruzione di uno Stato palestinese. E probabilmente, allo stesso tempo, anche la possibilità di una ricomposizione politica della decennale crisi mediorientale. Dopo aver approvato il controverso piano per la creazione dell’insediamento E1, che spezza la Cisgiordania in due, il gabinetto di Benjamin Netanyahu ha avviato stanotte un’offensiva terrestre su Gaza City.Approfittando della disattenzione dei partner occidentali, febbrilmente indaffarati a preparare il terreno per una potenziale soluzione negoziata della guerra in Ucraina, Tel Aviv sta premendo sull’acceleratore per distruggere completamente quel poco che resta della Palestina, conducendo in contemporanea due azioni diverse ma complementari tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata.Dopo giorni di intensi bombardamenti, nella notte tra il 20 e il 21 agosto sono iniziate le operazioni di terra dell’esercito israeliano (Idf) per la conquista definitiva di Gaza City, la capitale dell’exclave costiera ormai rasa quasi completamente al suolo dalla violentissima campagna militare avviata nell’ottobre 2023 in risposta agli attacchi dei miliziani di Hamas. La situazione umanitaria nell’area è gravissima, come denunciano quotidianamente le Nazioni Unite, le ong e associazioni internazionali e locali e gli stessi alleati dello Stato ebraico, e il numero dei morti ha superato le 62mile unità.La distruzione a Gaza City (foto: Omar Al-Qattaa/Afp)Ma il primo ministro Benjamin Netanyahu (ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità) tira dritto e procede coi suoi piani di rioccupare permanentemente la Striscia, dalla quale Israele si era ritirato nel 2005. Per portarli a termine, il suo gabinetto ha richiamato 60mila riservisti da impiegare in prima linea nelle prossime settimane. Diverse ong israeliane parlano ormai apertamente delle operazioni a Gaza bollandole come genocidio del popolo palestinese, condotto sia con mezzi militari sia tramite la strumentalizzazione della fame.Diventa peraltro sempre più difficile per il mondo esterno sapere cosa accade nella Striscia, dato che le Idf continuano a massacrare indiscriminatamente i giornalisti (oltre 240 in 22 mesi, secondo i dati dell’Onu), sospettati di connivenza con Hamas. Mentre il gruppo palestinese e il governo di Tel Aviv si stanno scambiando accuse reciproche di sabotaggio dei negoziati per una tregua, i cittadini israeliani riempiono le piazze per chiedere la fine delle ostilità e il rilascio degli ostaggi (una cinquantina, di cui una ventina ancora in vita) in una serie di mobilitazioni tra le più grandi nella storia del Paese.Parallelamente, la situazione sta precipitando anche in Cisgiordania, dove il dominio della potenza occupante ha da tempo assunto i connotati di un vero e proprio sistema di apartheid (come denunciato, ancora una volta, dalle ong israeliane). Qui da molti mesi si assiste ad una recrudescenza delle violenze dei coloni (spalleggiati dall’Idf) che fa il paio con le continue demolizioni di abitazioni e infrastrutture palestinesi.Giusto ieri, il governo israeliano ha dato il via libera definitivo al controverso progetto di espansione degli insediamenti nella cosiddetta area E1 (acronimo di East 1), tramite cui verrà costruito un nuovo corridoio tra la Gerusalemme Est occupata e la colonia già esistente di Maale Adumim. Con questa mossa – nel cassetto di Tel Aviv già dagli anni Novanta, ma mai attuata per l’opposizione degli alleati occidentali, inclusi gli Usa – verrà de facto tagliata in due la Cisgiordania, uno dei nuclei di un ipotetico Stato di Palestina, interrompendo la continuità territoriale tra Ramallah a nord (sede dell’Autorità nazionale palestinese) e Betlemme a sud.Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich descrive il progetto E1 con l’ausilio di una mappa (foto: Menahem Kahana/Afp)“Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo delle trattative non con slogan, ma con azioni concrete“, ha proclamato trionfalmente il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, uno degli uomini di punta dell’estrema destra messianica dalla quale dipende la sopravvivenza del sesto governo Netanyahu. “Ogni insediamento, ogni quartiere, ogni unità abitativa è un altro chiodo nella bara di questa idea pericolosa“, ha aggiunto.Lo stesso premier, visitando un insediamento della Cisgiordania fondato un quarto di secolo fa, ha rivendicato orgogliosamente la linea dell’esecutivo: “Venticinque anni fa ho detto che avremmo fatto di tutto per garantire il nostro controllo sulla Terra di Israele, per impedire la creazione di uno Stato palestinese, per impedire i tentativi di sradicarci da qui. Grazie a Dio, abbiamo mantenuto la promessa”.Queste azioni configurano violazioni eclatanti del diritto internazionale e, come confermato da dichiarazioni di simile tenore, stanno venendo perpetrate con l’esplicito intento di mettere una pietra tombale su ogni velleità di costruire uno Stato palestinese. Sempre Smotrich ha sottolineato che si tratta anche di una risposta all’intenzione di diversi Paesi occidentali di riconoscere la Palestina il mese prossimo e sancendo formalmente una realtà che era già sotto gli occhi di tutti da molti anni.Anche se le cancellerie mondiali faticano ad ammetterlo, la “soluzione a due Stati” è ormai diventata una formula priva di qualunque significato reale, dato che nessuno dei governi succedutisi a Tel Aviv negli ultimi trent’anni ha mai compiuto passi concreti per realizzare quanto pattuito col processo di Oslo ed avvicinare la formazione di uno Stato di Palestina autonomo e indipendente che vivesse “in pace e sicurezza” accanto a Israele.Demolizioni israeliane supervisionate dall’Idf a Judeira, nella Cisgiordania occupata (foto: Zain Jaafar/Afp)Da Bruxelles, tuttavia, giungono solo i soliti commenti retorici, ritriti e stucchevoli. I portavoce della Commissione continuano a rimandare i giornalisti ai post su X di Ursula von der Leyen e Kaja Kallas, ripetendo che “la diplomazia è lo strumento principale“. Ma a questo punto, espressioni come “situazione umanitaria spaventosa” e “protezione della popolazione civile” suonano quasi grottesche se affiancate alle immagini che arrivano dal terreno, con buona pace delle pretese comunitarie di proiettare una qualche forma di soft power nell’arena internazionale.“L’Ue rifiuta qualsiasi tentativo di modifica territoriale e demografica nella Striscia di Gaza“, ha ribadito per l’ennesima volta Anitta Hipper, portavoce dell’Alta rappresentante, evidenziando al contempo che il piano sull’E1 “mina la soluzione a due Stati e viola il diritto internazionale”. Peccato che all’orizzonte, in termini di azioni concrete ci sia poco o nulla. Le proposte di sanzioni contro Tel Aviv continuano a cadere nel vuoto, e i Ventisette non sono nemmeno in grado di mettersi d’accordo su una sospensione parziale dei fondi Horizon+ destinati a Israele nel bilancio 2028-2034.