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    Clima, l’Eurocamera chiede ai leader riuniti alla Cop29 di sposare il principio “chi inquina paga”

    Bruxelles – Tutti i Paesi dovrebbero contribuire a finanziare la lotta ai cambiamenti climatici. È il messaggio ribadito con forza dall’Eurocamera, indirizzato ai leader riuniti a Baku, in Azerbaigian, per la 29esima Conferenza delle Parti (Cop).La linea guida emersa durante la sessione Plenaria in corso a Bruxelles conferma il principio “chi inquina paga”, verso un nuovo obiettivo post-2025 che sia socialmente equo e si basi su fonti di finanziamento pubbliche, private e innovative. Una delegazione del Parlamento parteciperà all’incontro tra il 18 e il 22 novembre e potrà portare la posizione europea comune su questo argomento.Il grande argomento sul tavolo della Cop29 riguarda proprio i finanziamenti. Dopo essersi impegnati durante la Cop28 per quanto riguardava l’eliminazione dei combustibili fossili, considerando l’allineamento con gli stessi obiettivi europei del Fitfor55, dalla Cop29 si vuole inviare un “segnale inequivocabile”.Nella risoluzione non legislativa approvata giovedì (14 novembre) con 429 voti a favore, 183 contrari e 24 astensioni, si invitano tutti i Paesi a concordare un nuovo obiettivo collettivo.  Lo scopo per i deputati europei è che tutte le principali economie emergenti, soprattutto quelle ad emissioni e Pil elevato, contribuiscano proporzionalmente all’azione globale per il clima.Nessuno degli emendamenti proposti da Patrioti per l’Europa e Europa delle Nazioni Sovrane ha raggiunto la maggioranza ed è stato accolto, tanto che la destra europea ha votato compattamente contro la risoluzione. Gli emendamenti di PfE e Esn, riassumendo, proponevano un impegno per il clima nettamente meno totalizzante di quello attuale. Uno di questi parlava chiaramente di “rivedere il Green Deal europeo” e invitava la Commissione europea a considerare meglio l’impatto sociale ed economico delle misure, altri chiedevano la revisione dei target per le auto (dibattuti in lungo ed in largo nell’Ue).Si chiede che la diplomazia climatica dell’Ue si intensifichi, contribuendo a creare delle condizioni di parità a livello internazionale, evitando che si rilocalizzino le emissioni di carbonio e si aumenti il sostegno pubblico per l’azione climatica.Non solo, visti anche gli obiettivi precedentemente stabiliti, l’Europarlamento si aspetta anche un impegno comunitario per incoraggiare meccanismi di fissazione del prezzo del carbonio per altri Paesi. Contemporaneamente, si dovrebbe anche migliorare il sistema di scambio di quote di emissione e il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere.Questi tre strumenti sono stati votati dal Parlamento europeo nel 2023 per contribuire in modo sostanziale alla neutralità climatica entro il 2050 e la riduzione delle emissioni del 55 per cento entro il 2030. Il principio “chi inquina paga” è alla base del sistema di scambio di quote di emissione (Ets), con l’obbligo per le industrie a comprare quote per ogni tonnellata di Co2 che emettono. Il meccanismo di adeguamento alle frontiere (la cui sigla è Cbam) prevede il pagamento di prezzo per il carbonio emesso durante la produzione di beni ad alta intensità di carbonio fuori dall’Ue, con lo scopo di tutelare i beni europei (la cui produzione green è più costosa) e incoraggiare una produzione industriale più pulita nei paesi terzi.Al di là degli obiettivi tecnici riguardo al cambiamento climatico, non sono passate inosservate le grandi assenze alla Cop29. A livello europeo, pesa il vuoto lasciato del presidente francese Emmanuel Macron, del cancelliere tedesco Olaf Scholz (alle prese col crollo del governo e le elezioni anticipate) e della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (anche lei alle prese con una maggioranza traballante).Dal gruppo dei Verdi/Ale arrivano critiche: “Anche l’Europa non deve sottrarsi alle proprie responsabilità: la Presidente von der Leyen, così come il cancelliere Scholz e il presidente Macron, hanno saltato la Cop quando avevano l’obbligo di essere presenti e di svolgere un ruolo di primo piano“, dice l’eurodeputato Michael Bloss, presente nella delegazione che nei prossimi giorni andrà a Baku. Stoccata al Ppe dalla relatrice ombra dei Verdi/Ale presso la Commissione Ambiente, Lena Schilling: “È deplorevole che il Ppe non sia riuscito ad accordarsi sull’obiettivo minimo di ridurre le emissioni del novanta per cento entro il 2040”.Per quanto la risoluzione sia passata, le scintille in seno al Parlamento europeo non accennano a spegnersi nemmeno per una risoluzione in cui tutti i gruppi dell’arco europeista hanno votato in modo unitario. Il Ppe resta al centro delle discussioni e delle perplessità della sinistra europea, a cui la moderazione (e una buona dose di ambiguità) non va bene più.

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    Controlli con droni e sanzioni sistematiche, l’Ue dice ‘stop’ alle navi fantasma della Russia

    Bruxelles – Stop alle navi fantasma che alimentano il giro d’affari della Russia e aggirano le sanzioni dell’Ue adottate in risposta all’aggressione dell’Ucraina. L’Aula del Parlamento europeo riunita a Bruxelles per la sessione plenaria ‘mini’, torna sul noto fenomeno di imbarcazioni che “non esistono” ma che solcano i mari europei consentendo a Mosca di continuare a finanziare la propria macchina da guerra.Il sistema già individuato dai servizi della Commissione europea è costruito sull’utilizzo di vecchie petroliere, spesso non assicurate e di proprietà poco chiara, usate per esportare il petrolio greggio e i suoi prodotti petroliferi all’estero. Così facendo i prodotti oggetto di sanzioni internazionali, Ue e G7 vengono commerciati aggirandole.Per questo motivo gli europarlamentari chiedono (testo votato per alzata di mano) di sanzionare sistematicamente le navi che attraversano le acque dell’Ue senza un’assicurazione. Si invita l’Unione europea e i suoi Stati membri a rafforzare le sue capacità di sorveglianza, “in particolare il monitoraggio mediante droni e satelliti“, oltre a condurre ispezioni mirate in mare. In tal senso i singoli governi dovrebbero designare strutture portuali in grado di gestire navi sanzionate che trasportano petrolio greggio e gas naturale liquefatto (Gnl).A proposito di Gnl, viene chiesta una stretta all’acquisto di ogni prodotto energetico russo. Sottolineando che “l’impatto delle sanzioni esistenti e del sostegno finanziario e militare all’Ucraina continuerà a essere compromesso finché l’Ue importa combustibili fossili russi”, l’Aula del Parlamento europeo invita tutti a vietare ogni importazione di combustibili fossili russi, compreso il gas naturale liquefatto. Serve, in sostanza, “un’applicazione molto più rigorosa delle attuali sanzioni dell’Ue”.

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    La presidenza Trump al centro del dibattito all’Eurocamera. Borrell: “Dobbiamo essere pronti”

    Bruxelles – Dopo l’elezione di Trump negli Stati Uniti, in Unione Europea “dobbiamo essere pronti”. Questo l’avvertimento dell’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, durante la plenaria del Parlamento europeo a Bruxelles.Il criptico messaggio arriva durante il dibattito riguardo le relazioni Ue-Usa. La vittoria di Trump, secondo Borrell, non è “casuale”, ma spiega un cambiamento sociale profondo nella società statunitense, che specularmente si trova anche nell’altra sponda dell’Atlantico. Le conseguenze di questa elezione si sentiranno nei prossimi anni, per l’Alto rappresentante.Borrell alla Plenaria di Bruxelles oggi (13 novembre). Credit: Multimedia CentreQualsiasi azione che Trump deciderà di intraprendere avrà un impatto sull’Ue, e “le parole chiave sono sicurezza, commercio, tecnologia”, aggiunge Borrell. Che siano i dazi sui prodotti europei o cinesi, le decisioni americane colpirano direttamente o indirettamente la competitività europea e l’equilibrio geopolitico in cui l’Ue si trova ad agire.Ucraina, Medio Oriente e il rapporto Cina e Taiwan sono le ‘patate bollenti’ del futuro. Per la prima, Borrell durante la sua visita a Kiev aveva chiaramente detto: “L’Ucraina sta lottando per ottenere l’indipendenza e per cercare uno spazio nel panorama geopolitico. E il posto per lei è stato deciso: è l’Unione Europea“. La promessa di entrare nell’Ue richiede una strategia che sia in grado di compensare un eventuale allontanamento statunitense, ripensando anche a come usare i fondi congelati russi.Borrell chiede di concentrarsi sulla “nostra sicurezza”, con delle azioni effettive (al contrario degli slogan conseguenti al Trump 1.0), relativamente, per esempio, ad aumentare la spesa militare. “L’Unione europea non è solo un’unione economica, ma anche politica”, nella quale rientra lo sviluppo della politica di sicurezza e difesa, ricorda l’Alto rappresentante, come con la Bussola strategica.Non di poco conto per l’Alto rappresentante è che l’Unione non è così compatta sulle reazioni a Trump. E il dibattito tra eurodeputati gli dà piena ragione.“Il risultato delle elezioni americani non ci ha detto nulla di nuovo”, esordisce l’eurodeputato Andrzej Halicki del Ppe, confermando le richieste dei cittadini sulla sicurezza, speculari anche in Ue. Il polacco prosegue ricordando l’importanza di una maggiore autonomia europea nell’ambito della difesa, che, come anche detto da Borrell, richiede maggiori investimenti. Halicki strizza l’occhio al progetto (nazionalista) “Scudo orientale” del suo Governo, che secondo lui andrebbe sostenuto e tenuto in considerazione per rafforzare le frontiere.Alla moderazione del Ppe, si affianca l’entusiasmo dei Patrioti per l’Europa. “L’Unione Europea deve trarre lezione e deve occuparsi delle nazioni che la compongono, commenta Jordan Bardella di PfE, comparando il nazionalismo trumpiano alla democratica Europa. Deve anche deve puntare sul non restare indietro economicamente, più di quanto già non lo sia, semplificando e aiutando le proprie industrie. Conclude con un avvertimento: “Svegliamoci oppure rischiamo di scomparire“.Non di diverso avviso, con meno contentezza, è la presidente del gruppo Renew, Valerie Hayer. Per l’Ue sarà importante difendere i propri interessi, uscire dall’attendismo e tutelarsi, soprattutto con un’Ucraina sempre più in bilico. “La posta in gioco è la nostra sicurezza“, aggiunge Hayer, su cui mancano investimenti e il mercato è troppo frammentato. Non solo, l’Ue deve pensare alla propria competitività e all’innovazione, come riguardo all’intelligenza artificiale su cui ancora arranca.Si mostra sicuro Nicola Procaccini di Ecr: “Il risultato delle elezioni americane non cambierà il rapporto tra Ue e Usa“. Fiducioso che le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico resteranno d’acciaio, anche se queste elezioni “hanno fatto scoppiare la bolla di Bruxelles“. Procaccini si riferisce alla sinistra europea (sulla cui frustrazione gongola un po’), che, secondo lui, non ha capito gli elettori e quello che veramente vogliono. Torna anche con Ecr il discorso sulla difesa e sulla necessità di rafforzarsi anche in seno alla Nato, ma, nel suo caso, con un sorriso sulla faccia.Decisamente poco sorridenti, al contrario, le parole dell’eurodeputato Yannis Maniatis di S&d. “L’Ue deve diventare strategicamente autonoma” dagli Usa, dal momento che il primo mandato ha dato una chiara impressione di come Trump si rapporta alle relazioni internazionali. No multilateralismo, poco diritto internazionale e la transizione verde che potrebbe andare in fumo, secondo Maniatis. Dall’Ue ora deve arrivare la spinta per essere indipendente ed autonoma davvero, visto che la posta in gioco è alta.“Gli Usa […] saranno governati da un antidemocratico professato“, dice Martin Schirdewan di La Sinistra. Critico nei confronti del duo Musk-Trump (a ragion veduta), riguardo a cui parla di un’oligarchia, soprattutto con i rischi derivanti dalle fake news che vengono diffuse. Batte anche lui sul punto della difesa e sui rischi per l’industria, che deve essere “pronta per il futuro”.Ad un’Unione europea più forte si appella Terry Reintke dei Verdi/Ale. Non si congratula con chi “farà danni nel mondo e all’Ue”, di cui l’estrema destra non sembra rendersi conto. Reintke chiede investimenti per “l’indipendenza europea dagli autocrati“, che siano Trump o Putin, con molta concentrazione sugli obiettivi globali europei, come quelli sul cambiamento climatico.Riassume bene il puzzle europeo Borrell nelle sue parole: “Questa situazione non è la fine del mondo ma è sicuramente l’inizio di un mondo diverso“. La domanda, di cui la risposta potrebbe scottare, è se l’Unione Europea sarà davvero capace di farne parte.

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    Kallas, la priorità Ue è l’Ucraina: “La Russia non può vincere”. E respinge le accuse di doppi standard in Medio Oriente

    Bruxelles – Due priorità urgenti, la guerra della Russia in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente. Sulla prima pochi dubbi, Kiev “deve vincere con l’assistenza militare ed economica necessaria“, sul secondo tante incognite. Kaja Kallas, indicata dai governi dei 27 per sostituire Josep Borrell come Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, si è sottoposta questa mattina (12 novembre) allo scrutinio dell’Eurocamera, in contemporanea con l’audizione di Raffaele Fitto. Insieme all’italiano e agli altri vicepresidenti esecutivi della Commissione europea designati, Kallas dovrà attendere fino a domani – o addirittura la settimana prossima – per conoscere l’esito del suo ‘esame’.Sulla vocazione europeista dell’ex eurodeputata liberale, che a Bruxelles fa parte della famiglia politica di Renew, e sulla conoscenza del palcoscenico internazionale acquisita nei quattro anni da primo ministro dell’Estonia, nessuna perplessità. Ma il via libera a Kaja Kallas non arriverà oggi: fonti parlamentari confermano che i gruppi politici hanno deciso di valutare le audizioni dei sei vice di von der Leyen a pacchetto, per scongiurare eventuali pugnalate alle spalle, in particolare su Fitto e sulla socialista spagnola Teresa Ribera.Per Kallas, quarantasettenne “cresciuta dietro la cortina di ferro”, nell’allora repubblica sovietica di Estonia, il nemico pubblico numero uno non può che essere la Russia di Vladimir Putin. Insieme a Cina, Corea del Nord e Iran, gli attori che “mirano a cambiare l’ordine internazionale“. In quattro, producono “più munizioni dell’intera alleanza euroatlantica”, ha evidenziato la liberale estone, annunciando la stesura di un libro bianco sulla difesa nei primi cento giorni del suo mandato e una stretta collaborazione con il futuro commissario Ue alla difesa.Sull’Ucraina, Kallas si pone in piena continuità rispetto alla linea tracciata dal predecessore Borrell, fatta di sostegno economico e militare da un lato, politico e diplomatico dall’altro. “La guerra finirà quando la Russia si renderà conto di aver commesso un errore“, ha affermato Kallas, fugando ogni dubbio sulla possibilità che l’Ue avalli una trattativa di pace con Mosca che non sia “una pace sostenibile”, alle condizioni di Kiev.Anzi, secondo l’ex premier estone il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, “dovrebbe preoccuparsi di come rispondiamo alla guerra della Russia in Ucraina”, perché strettamente legata all’antagonismo tra Washington e Pechino. Per Kallas, il legame transatlantico resterà imprescindibile, perché “siamo l’alleanza più forte e dobbiamo rimanere vicini”. Agli eurodeputati sovranisti della commissione Affari Esteri (Afet) che la incalzavano sulla politica definita “fallimentare” delle sanzioni europee a Mosca, Kallas ha risposto duramente: “State solo ripetendo le false narrazioni russe”.Per Kallas, la ragione per cui non l’Ue non deve cedere e fare concessioni a Mosca è naturale: “Se l’aggressione paga da qualche parte”, sarebbe “un invito ad altri a farlo altrove”. Se la Russia ottenesse qualcosa, allora “tutti potrebbero fare guerre e prendere ciò che vogliono“. Chiarendo questo punto, Kallas ha inevitabilmente prestato il fianco alle accuse di applicare doppi standard in Ucraina e in Medio Oriente.Kallas sulla sospensione dell’Accordo Ue-Israele: “Discuterne con Tel Aviv”Accuse prontamente respinte: “Siamo il più grande donatore per l’Autorità Nazionale Palestinese e in supporto al popolo palestinese”, ha rivendicato Kallas. L’impressione però è che, proprio sulla posizione rispetto alla sproporzionata risposta militare israeliana, possa consumarsi una rottura tra il corso di Borrell e quello di Kallas a capo della diplomazia europea. Il primo che dal 7 ottobre 2023 cerca di spingere costantemente gli Stati membri ad aumentare la pressione sul governo di Netanyahu, la seconda più prudente sulle critiche a Tel Aviv.L’ex premier estone ha elencato su quali punti si basa la posizione comune Ue -“il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, l’azione umanitaria, il sostegno all’Anp e il diritto di Israele a esistere, la soluzione dei due Stati” -, ma ha preferito non rispondere a chi le chiedeva quali strumenti ha in mano Bruxelles per fare sì che Israele metta fine alla mattanza a Gaza e all’occupazione coatta dei territori palestinesi.“Sono una forte sostenitrice del diritto internazionale e umanitario, che significa proteggere la popolazione e non attaccare le infrastrutture civili”, si è difesa Kallas, che ha poi proseguito: “Siamo concentrati nel portare aiuti umanitari a Gaza, ma stiamo anche sollevando la questione con Israele“. Di mezzo c’è l’Accordo di associazione Ue-Israele, uno dei più comprensivi mai siglati da Bruxelles con un Paese partner, che prevede chiari vincoli sul rispetto dei diritti umani. E che l’Ue potrebbe sospendere alla luce delle decine di rapporti di organizzazioni internazionali che documentano le atrocità di guerra israeliane.“Dovrebbe tenersi un Consiglio di associazione con Israele in cui tutti gli Stati membri possano sollevare la questione”, ha affermato Kallas. Omettendo che lo stesso Borrell sta spingendo per discuterne senza Tel Aviv, perché il governo di Benjamin Netanyahu si è già rifiutato di partecipare a un Consiglio di Associazione dedicato al rispetto dei diritti umani. Il momento forse più controverso è però stato quando Kallas – per ben due volte – ha scelto di citare David Ben Gurion, storico primo ministro dello Stato di Israele, per dimostrare il suo attaccamento ai diritti del popolo palestinese. Lo Stato di Israele si fonda “sulla sicurezza e sulla giustizia”, Kallas ha riportato da Ben Gurion. Che però, già dopo la Nakba palestinese, si rifiuto sempre di considerare definitive le frontiere dello Stato di Israele, aprendo la strada alle annessioni successive.

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    Israele ha messo sotto assedio quel che resta del nord di Gaza. L’appello di Borrell ai Paesi Ue: “Adottare misure urgenti”

    Bruxelles – Nell’elenco straziante senza fine di bombardamenti israeliani su Gaza – 75 mila tonnellate di esplosivo nel primo anno di conflitto – ce ne sono alcuni che fanno più rumore di altri. Come quello di ieri nel campo profughi di Jabalia, che ha completamente raso al suolo un edificio residenziale ed ucciso almeno 30 persone. E che rientra nell’assedio totale che Israele ha imposto nell’ultimo mese nel nord della Striscia di Gaza. Arriva puntuale la “ferma condanna” dell’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, che ha amaramente constatato: “Le parole ‘pulizia etnica’ sono sempre più utilizzate per descrivere ciò che sta accadendo nel nord di Gaza”.Le forze di difesa israeliane hanno motivato il raid con la presunta presenza di terroristi sul posto. Secondo quanto riportato da un testimone dell’attacco e familiare di alcune persone uccise alla Bbc le vittime non erano che “civili innocenti che non appartenevano ad alcuna organizzazione militare”. Nelle ultime settimane, l’offensiva israeliana si è inasprita ulteriormente, facendo ipotizzare diversi osservatori che Tel Aviv stia mettendo in atto un consapevole piano di sfollamento forzato e annessione di quella porzione di territorio. Non si tratta solo del bombardamento sistematico di tutti gli edifici, ma anche dell’interruzione totale dell’ingresso di cibo e aiuti umanitari e degli ordini continui di evacuazione alla popolazione stremata.“La realtà quotidiana degli sfollamenti forzati viola il diritto internazionale”, ha ricordato per l’ennesima volta Borrell in un post su X. Ed “anche l’uso della fame come arma di guerra è contrario al diritto internazionale umanitario”. È di pochi giorni fa infatti il rinnovato allarme dell’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc) delle Nazioni Unite, secondo cui “è molto probabile una carestia imminente nelle aree della Striscia di Gaza settentrionale”.Il bollettino di ottobre diffuso dall’Ufficio di Coordinamento per gli Affari Umanitari dell’Onu (Ocha) non lascia dubbi: le autorità israeliane hanno “chiuso il valico di Erez e imposto l’assedio su vaste aree del governatorato di Gaza Nord, tra cui Beit Lahia, Beit Hanoun e la maggior parte di Jabalia”. Su 98 tentativi di ingresso di aiuti umanitari da sud, attraverso il checkpoint lungo Wadi Gaza, l’85 per cento è stato “negato o impedito“. Dal 6 ottobre, sulle tre principali città del governorato di Gaza nord vige un “blocco dell’accesso delle missioni umanitarie, salvo rare eccezioni”.Il capo della diplomazia europea ha ricordato al partner israeliano che “in quanto potenza occupante, ha l’obbligo di agire facendo entrare gli aiuti”. E secondo l’Ipc è necessaria “un’azione immediata, entro pochi giorni e non settimane, da parte di tutti gli attori che partecipano direttamente al conflitto o che hanno influenza sulla sua condotta”, per scongiurare la carestia. La pulizia etnica.“Spetta alla comunità internazionale e ai principali alleati di Israele adottare misure urgenti per porre fine alle sofferenze dei palestinesi e liberare gli ostaggi”, ha dichiarato ancora Borrell, lanciando un disperato appello ai governi dei Paesi membri, di cui l’Alto rappresentante è quasi prigioniero ogni volta che propone di aumentare la pressione diplomatica sullo Stato ebraico. Sicuramente ne discuteranno i ministri degli Esteri dei 27 il prossimo 18 novembre a Bruxelles, nell’ultimo Consiglio Affari Esteri presieduto da Borrell prima di lasciare l’incarico all’estone Kaja Kallas: alla riunione, Borrell intavolerà una discussione approfondita sul rispetto degli obblighi sui diritti umani previsti dall’Accordo di associazione Ue-Israele e chiederà ai 27 di adottare nuove sanzioni contro i coloni israeliani estremisti. Manca una settimana: in quella appena passata, sono state uccise circa 330 persone a Gaza.

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    Alla Cop29 il focus è su chi paga per il cambiamento climatico. Da von der Leyen a Lula, i leader disertano

    Bruxelles – Comincia oggi (11 novembre) la 29esima Conferenza delle parti (Cop), il forum delle Nazioni unite dove si discute di come combattere il cambiamento climatico. I leader mondiali si riuniscono quest’anno a Baku, in Azerbaigian, ma l’edizione 2024 non si annuncia come risolutiva. Da un lato, non ci si aspettano grandi progressi nei negoziati tra i partecipanti, soprattutto quando si parlerà di chi dovrà pagare la transizione energetica. Dall’altro, nella capitale caucasica si registrano una serie di assenze di peso, dall’Ue al Brasile. Infine, aleggerà sui dibattiti il fantasma della prossima presidenza Trump, che ritirerà (di nuovo) gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, complicando ulteriormente il già difficile cammino globale verso la neutralità carbonica.Il nodo dei finanziamentiLa Cop29, iniziata ufficialmente oggi a Baku, durerà fino al 22 novembre, ma gli osservatori non si aspettano che dalla sessione di negoziati escano risultati particolarmente ambiziosi. L’argomento principale sul tavolo dovrebbe essere quello dei finanziamenti, vale a dire di chi metterà i soldi (e quanti) per tradurre in pratica le decisioni prese l’anno scorso alla Cop28 di Dubai, che in molti avevano definito “storica”. Tra gli accordi raggiunti a nel dicembre 2023 nella capitale emiratina c’era quello sull’introduzione di un fondo internazionale di compensazione per le perdite e i danni provocati dal cambiamento climatico, nonché per sostenere gli sforzi di adattamento e mitigazione.In teoria, dovrebbero essere i Paesi più ricchi e sviluppati a sostenere almeno in parte i costi della transizione ecologica nei Paesi in via di sviluppo e sottosviluppati, nonché a rimediare ai danni che l’inquinamento storico delle economie più avanzate ha causato nel sud del mondo. Uno dei punti più controversi riguarderà l’eventuale partecipazione di Pechino a questo fondo monstre – che era stato istituito con l’obiettivo di fornire 100 miliardi di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo, una cifra che i diretti interessati vorrebbero aumentare fino a 1000 miliardi. La Cina, pur essendo la seconda economia mondiale, viene ancora considerata un Paese in via di sviluppo, il che le permetterebbe di usufruire dei generosi finanziamenti climatici senza dovervi contribuire – un vantaggio che le cancellerie occidentali reputano indebito.Nel suo discorso alla cerimonia di apertura Simon Stiell, capo della Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc), ha tenuto a precisare che “il finanziamento degli aiuti climatici da parte dei paesi ricchi non è un beneficenza ed è nell’interesse di tutti”, poiché “nessuna economia, neanche quelle del G20, potrà sopravvivere a un riscaldamento globale fuori controllo”. Sulla falsariga di Stiell anche l’intervento di António Guterres, segretario generale dell’Onu: “Coloro che cercano disperatamente di ritardare e negare l’inevitabile fine dell’era dei combustibili fossili cercano di trasformare l’energia pulita in una parolaccia. Perderanno. L’economia è contro di loro. Le soluzioni non sono mai state più economiche e accessibili”.Il segretario generale dell’Onu António Guterres (foto: Joaquin Sarmiento/Afp)A supportare queste considerazioni c’è uno studio dello scorso settembre intitolato Why investing in climate action makes good economic sense (“Perché investire nell’azione climatica ha senso economicamente”) e condotto dal Boston consulting group insieme alla Cambridge judge business school e al Cambridge climate traces lab. Il dato evidenziato dalla rilevazione è che, se gli Stati non intervengono con azioni coordinate per contrastare il cambiamento climatico, le perdite economiche potrebbero ammontare al 10-15 per cento del Pil globale entro il 2100. Tali impatti potrebbero essere scongiurati con un investimento di meno del 2 per cento del Pil mondiale, che dovrebbe permettere di mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2ºC.L’ombra di TrumpA pendere sopra i negoziati sul clima come un’enorme spada di Damocle c’è l’indiscrezione dei media statunitensi che il giorno stesso del proprio insediamento Donald Trump ritirerà gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi del 2015, uno degli architravi della lotta al cambiamento climatico targata Onu, come aveva già fatto nel 2019 (prima che il suo successore Joe Biden riportasse dentro Washington nel 2021). Gli Usa sono il maggior produttore globale di petrolio e gas, e uno dei principali responsabili delle emissioni di CO2 a livello planetario (con quasi 15 tonnellate pro-capite nel 2022, contro le 8 della Cina).Il neo-rieletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump (foto: Mandel Ngan/Afp)Alla Cop21 ospitata nella capitale transalpina i leader mondiali erano riusciti a concordare degli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti per contenere il riscaldamento globale entro dei limiti che avrebbero dovuto impedire conseguenze catastrofiche per il pianeta: un amento di non oltre 2ºC rispetto all’era preindustriale (1850-1900), e possibilmente inferiore agli 1,5ºC. Ma quei target potrebbero ormai essere irraggiungibili. Stamattina, l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha dichiarato che quegli obiettivi “sono in grave pericolo” dopo aver annunciato che il 2024 è “sulla strada” per diventare l’anno più caldo mai registrato, con temperature medie di 1,54ºC superiori ai livelli preindustriali nel periodo tra gennaio e settembre.Ora che la partecipazione degli Usa è rimessa in discussione, secondo un alto funzionario Ue ci sarà “incertezza” nella cooperazione internazionale in ambito di contrasto al cambiamento climatico. John Podesta, l’inviato dell’amministrazione del presidente uscente Joe Biden, ha provato a gettare acqua sul fuoco: “Anche se il governo federale degli Stati Uniti sotto Donald Trump sospenderà l’azione sul clima, il lavoro per contenere il cambiamento climatico continuerà negli Stati Uniti con impegno, passione e fede”. Ma già dall’inizio del 2025 (l’inaugurazione del 47esimo presidente è in calendario per il 20 gennaio) questo impegno verrà meno.Assenze e contraddizioniA pesare sulla Cop29 ci sono poi una serie di assenze di peso tra i leader mondiali, cui è dedicata una sessione specifica tra martedì 12 e mercoledì 13. Mancheranno all’appello, tra gli altri, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz (alle prese con una crisi di governo che rischia di precipitare Berlino nel caos proprio nel momento in cui va approvato il bilancio per il 2025), la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (impegnata con la transizione istituzionale verso il suo secondo mandato, proprio mentre gli eurodeputati interrogheranno i suoi vicepresidenti esecutivi nell’ultimo giorno delle audizioni parlamentari dei commissari designati), il presidente russo Vladimir Putin e quello brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. A rappresentare l’Ue ci sarà, martedì 12 novembre, il commissario uscente al Clima Wopke Hoekstra, mentre oggi c’è il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel (sinistra) incontra il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ai margini della Cop29 a Baku (foto: European Union)Infine, la conferenza di Baku si terrà all’insegna di una lampante contraddizione: come già l’edizione dell’anno scorso negli Emirati Arabi Uniti, la Cop29 è ospitata da un grande produttore di petrolio e gas naturale (da cui Bruxelles sta acquistando ingenti quantità di metano per sostituire la propria dipendenza energetica da Mosca), che non brilla certo per gli impegni presi nella tutela dell’ambiente.E nemmeno, se è per quello, per il rispetto dei diritti fondamentali o della democrazia, a partire dalla libera espressione del dissenso: nei giorni e settimane precedenti alla riunione dell’Onu, nel Paese caucasico sono stati arrestati svariati attivisti ambientalisti. La co-capogruppo dei Verdi all’Europarlamento, Terry Reintke, ha scritto su X che i lavori della Conferenza sono ospitati “da un regime corrotto, che vive di petrodollari” e che “mette dietro le sbarre i critici”. Il tutto dopo che Baku ha ripreso il controllo, nell’autunno 2023, dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh con un’operazione militare che ha provocato una grave crisi umanitaria condannata da Bruxelles.

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    Kiev e l’Ue tentano di capire cosa succederà all’Ucraina con la rielezione di Trump

    Bruxelles – Ora che Donald Trump è stato rieletto alla Casa Bianca, l’Europa cerca di prevedere quali saranno le sue mosse su uno dei fronti internazionali più caldi, quello della guerra in Ucraina. Mentre a Bruxelles si teme che il sostegno militare e finanziario a stelle e strisce possa diminuire drasticamente o addirittura interrompersi, a preoccupare Kiev c’è soprattutto la promessa del presidente (ri)eletto di mettere fine al conflitto “in 24 ore”. Il capo dello Stato ucraino, Volodymyr Zelensky, sta lanciando messaggi decisamente eloquenti al suo omologo statunitense, per impedire che imponga all’ex repubblica sovietica un processo di pace accelerato che rischia di tramutarsi in una “sconfitta”.Zelensky a BudapestDopo essersi congratulato con Trump per la sua vittoria nelle urne, il presidente ucraino è tornato sulla questione del sostegno di Washington agli sforzi bellici di Kiev ieri (7 novembre) in occasione del quinto incontro della Comunità politica europea, ospitato a Budapest dal premier ungherese Viktor Orbán. Lì, parlando ai giornalisti, ha ammesso che “il presidente Trump vuole davvero una decisione rapida” su come giungere alla fine delle ostilità con la Russia, ma ha aggiunto che “ciò non significa che andrà in questo modo”. Perché, ha insistito, “tutti vogliamo che questa guerra finisca, ma con una fine giusta”: se il processo di pace “è troppo veloce, sarà una sconfitta per l’Ucraina”, ha detto chiaro e tondo.Anche il padrone di casa è apparso fiducioso sulle prospettive per una risoluzione diplomatica del conflitto aperte dal ritorno di Trump alla Casa Bianca. “Quelli che vogliono la pace sono sempre più numerosi”, ha dichiarato Orbán, rinnovando il suo appello per un cessate il fuoco immediato. “La precondizione per la pace è la comunicazione”, ha spiegato il leader magiaro, e “la condizione per la comunicazione è un cessate il fuoco”, il quale “può fornire margine e tempo alle parti in conflitto” per “cominciare a negoziare la pace”.Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán (foto: European Council)Appello immediatamente bollato come “pericoloso” e “irresponsabile” da Zelensky, secondo cui una tregua in questo momento – cioè con circa un quinto del territorio ucraino in mano alle forze di Mosca, che stanno peraltro avanzando anche sul fronte del Donbass – equivarrebbe a “distruggere la nostra indipendenza e la nostra sovranità”. “Abbiamo già provato” a raggiungere un cessate il fuoco nel 2014, ha ricordato il presidente ucraino, “e abbiamo perso la Crimea, e poi abbiamo avuto l’invasione su larga scala nel 2022”. Come a dire: non è possibile fidarsi di Vladimir Putin, perché non è realmente interessato alla pace.Qual è l’idea di pace secondo Trump?Cercare di capire l’idea di “pace” che avrebbe in mente Trump è dunque, comprensibilmente, la questione centrale che arrovella l’intera leadership ucraina. Per ora, il presidente eletto non ha fatto trapelare pubblicamente alcun dettaglio su come intende risolvere la crisi che da dieci anni tormenta l’ex repubblica sovietica, ma alcune indiscrezioni giornalistiche parlano di diverse opzioni sul tavolo del leader repubblicano.E tutte, allontanandosi dall’approccio seguito dall’amministrazione Biden (cioè quello di lasciar decidere a Kiev quando avviare le trattative), prevedono che l’Ucraina rinunci ad una parte del suo territorio riconosciuto internazionalmente, cioè quello disegnato dai confini del 1991. In alcune versioni si tratterebbe delle regioni occupate militarmente da Mosca, in altre di una sorta di zona cuscinetto demilitarizzata (sul modello delle due Coree) i cui contorni andrebbero negoziati a tavolino e che andrebbe pattugliata da truppe internazionali. Le quali, beninteso, dovranno essere europee e non statunitensi: “Non manderemo uomini e donne americani a difendere la pace in Ucraina”, ha dichiarato un membro dell’entourage di Trump, suggerendo di farlo fare “ai polacchi, ai tedeschi, agli inglesi e ai francesi”.Un altro elemento ricorrente sarebbe l’imposizione di una qualche forma di neutralità a Kiev, quella che veniva ironicamente chiamata “finlandizzazione” dell’ex repubblica sovietica prima che Helsinki decidesse di entrare nella Nato poco dopo l’avvio dell’invasione russa. Sempre secondo questi ipotetici piani, l’ingresso nell’Alleanza nordatlantica verrebbe congelato almeno temporaneamente per l’Ucraina, che in cambio continuerebbe a ricevere sistemi d’arma occidentali come deterrente contro un’eventuale nuova aggressione.L’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, celebra la rielezione il 6 novembre 2024 (foto: Jim Watson/Afp)Un’ulteriore opzione, ancora più radicale, proposta da alcuni collaboratori della prima amministrazione Trump per costringere Kiev a sedersi al tavolo delle trattative sarebbe invece quella di interrompere le forniture di armi alla resistenza ucraina. Si tratta dell’ipotesi peggiore per Zelensky e i suoi: non solo entrerebbero nei negoziati da una posizione di estrema debolezza, ma non riuscirebbero nemmeno a contenere ulteriori attacchi russi se Putin decidesse che, prima di trattare, vuole annettere alla Federazione qualche altro pezzo dell’ex repubblica sovietica. Si tratterebbe, in altre parole, di lasciare carta bianca al Cremlino.Visione strategicaPer Kiev, l’imperativo è far capire a Trump che sostenere l’Ucraina è nello stesso interesse di Washington. Da un lato, perché qualunque soluzione temporanea al conflitto che sia troppo vantaggiosa per la Russia rischia di trasmettere a Mosca il messaggio che, alla fine, l’ha avuta vinta e che quindi può ritentarci quando vuole. Che poi è quello che è successo quando, dieci anni fa, non ci sono state grosse conseguenze per l’annessione unilaterale della Crimea e lo stazionamento di truppe in Donbass, due violazioni della sovranità ucraina che hanno posto le basi per la guerra su larga scala del 2022.Dall’altro perché, se parti dell’Ucraina cadranno definitivamente in mano alla Russia, l’Europa e gli Stati Uniti perderanno l’accesso alle risorse naturali del Paese aggredito, nonché agli asset militari che Kiev ha sviluppato in due anni e mezzo di guerra e che potrebbero essere utilizzati per la sicurezza del Vecchio continente in sinergia con le forze Nato.È questo, in fin dei conti, il senso del “piano per la vittoria” che Zelensky ha presentato ai leader dei Ventisette il mese scorso: al netto della richiesta di far entrare l’Ucraina nell’Alleanza, il presidente ha messo nero su bianco quello che il suo Paese può offrire in cambio dell’aiuto internazionale. Per far passare il messaggio che l’investimento occidentale è strategico, a lungo termine, e che cedere a Putin ora significherebbe compromettere la sicurezza dell’Europa intera.Nel frattempo, l’Ue cerca di correre ai ripari come può. Proprio oggi (8 novembre) il Consiglio ha esteso di altri due anni – fino al novembre 2026 – il mandato della sua missione di assistenza militare all’Ucraina (Eumam Ukraine), dotandola di un budget da circa 409 milioni di euro. Un messaggio simbolico di sostegno a Kiev, ma poco più che noccioline se si considera l’entità delle spese che deve sostenere la resistenza. Allo stato attuale, difficilmente i Ventisette sarebbero in grado di mantenere a galla l’Ucraina da soli nel caso in cui dovessero realmente venire meno gli aiuti dall’altro lato dell’Atlantico.

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    A Budapest l’atto quinto della Comunità Politica Europea. Von der Leyen: “No a intimidazioni dagli autocrati”

    Bruxelles – I leader delle istituzioni Ue e i capi di stato e di governo di oltre 40 Paesi dell’Europa continentale si sono dati appuntamento a Budapest, ospiti del premier ungherese Viktor Orbán, per il quinto incontro della Comunità Politica Europea. Il protrarsi della guerra in Ucraina, la sicurezza economica e la difesa al centro del vertice: tutti temi che non possono che essere letti alla luce del prossimo ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump.Al suo arrivo alla Puskas Arena di Budapest – dove domani (8 ottobre) si terrà anche il vertice informale Ue -, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha ribadito le sue congratulazioni al tycoon “per la sua chiara vittoria” alle elezioni americane. “Non vedo l’ora di lavorare ancora con lui per rafforzare il legame transatlantico”, ha dichiarato la leader Ue, forte di “alcune esperienze dal suo (di Trump, ndr) precedente mandato”. Nessun allarmismo sull’agenda isolazionista trumpiana: “Sarà importante analizzare insieme quali sono i nostri interessi comuni e lavorare in base a questi”, ha indicato von der Leyen. Uno su tutti: “È nel nostro interesse comune non permettere agli autocrati di intimidire gli altri“.Charles Michel e Viktor Orban alla sessione inaugurale della Comunità Politica Europea a Budapet (Photo by Attila KISBENEDEK / AFP)Una mano tesa verso l’altra sponda dell’Atlantico, nel tentativo di assicurarsi che Trump non volti le spalle all’Ucraina e continui a sostenere una pace fondata sul diritto internazionale. Prendendo in prestito le parole di Charles Michel, presidente uscente del Consiglio europeo, che continui “la battaglia a favore della Carta delle Nazioni Unite e dell’integrità e della sovranità degli Stati”.Anche Mark Rutte, neo-segretario generale della Nato, al suo arrivo a Budapest si è congratulato con Trump per il “grande successo” elettorale e l’ha invitato a “sedersi al tavolo” per capire come affrontare “la Corea del Nord, che assieme alla Cina e alla Russia lavorano assieme contro l’Ucraina“. Nel 2019 Trump fu il primo presidente americano a varcare il confine della Corea del Nord e a incontrare Kim Jong-un, ma ora l’aiuto di Pyongyang a Putin “non è una minaccia solo alla parte europea della Nato, ma anche agli Stati Uniti”, ha avvertito Rutte.Al di là di quel che succederà a Washington dopo l’insediamento del nuovo presidente, Michel ha sottolineato che Bruxelles “ha un piano per un’Unione europea più stabile e prospera”, perché diventi maggiormente “padrona del proprio destino”. E sull’Ucraina, questo significa proseguire “con più equipaggiamento militare, più mezzi finanziari e più sostegno politico”. Non proprio l’idea del padrone di casa a Budapest: nel suo intervento d’apertura, di fronte anche al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, Orbán ha immediatamente colto l’occasione per rilanciare la sua personalissima missione di pace.“Ho lanciato una missione di pace e sono grato al presidente Erdogan per aver sostenuto i miei sforzi”, ha evidenziato Orbán, secondo cui il suo sforzo ha avuto il merito di innescare “la discussione sui modi per sostituire la strategia di guerra con una strategia di pace”. Secondo il premier magiaro non ci saranno alternative: “Continua a esserci una massiccia maggioranza pro-guerra nell’Unione europea nonostante gli esperti militari vedano una sconfitta della strategia europea sul campo di battaglia”, ha denunciato ai colleghi della Comunità Politica Europea.