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    Ucraina, scoppia il caso Nabu: opposizioni e attivisti denunciano la stretta sugli enti anti-corruzione

    Bruxelles – Sono giorni difficili per la democrazia ucraina. Il governo starebbe portando avanti un giro di vite contro i principali organi anti-corruzione del Paese, almeno a sentire le denunce di opposizioni, attivisti e società civile. Ufficialmente, la motivazione è che tali istituzioni siano oggetto di un’infiltrazione di una rete di spie al servizio della Russia. Ma ong e stampa indipendente denunciano una stretta autoritaria, che rischia di compromettere il percorso di Kiev verso l’adesione al club a dodici stelle.Far funzionare un Paese in guerra non è facile, soprattutto se si tratta di una democrazia. A maggior ragione se affetta storicamente da cronici e documentati problemi di corruzione. Uno dei rischi che si corrono in queste situazioni è che, mentre l’esercito combatte in trincea e sui civili piovono le bombe, i poteri speciali concessi dalla legge marziale vengano maneggiati dalle dirigenze politiche per forzare o manomettere le infrastrutture democratiche, mascherando queste azioni con la scusa della salvaguardia della sicurezza nazionale.Secondo i critici della leadership di Volodymyr Zelensky, un buon numero di organizzazioni della società civile nonché una parte della stampa indipendente locale, è esattamente quanto sta avvenendo in Ucraina in questo momento.Gli emendamenti al codice penaleLa Verchovna Rada, il Parlamento monocamerale di Kiev, ha approvato oggi (22 luglio) a larga maggioranza (263 voti a favore, 13 contrari e 13 astensioni) una serie di controversi emendamenti al codice penale con cui, denunciano diversi osservatori, viene fatta a pezzi l’indipendenza delle due principali istituzioni per il contrasto alla corruzione. La legge è ora al vaglio di Zelensky, che può promulgarla od opporvi il veto presidenziale. Una decisione che gli oppositori ritengono tuttavia scontata, dato che le modifiche legislative sono state introdotte dal suo stesso partito, Servitore del popolo (Sn), che controlla l’emiciclo ed esprime il governo.La cupola della Verchovna Rada, il Parlamento monocamerale di Kiev (foto: Roman Pilipey/Afp)Con le nuove norme, l’Ufficio nazionale anti-corruzione (Nabu) e l’Ufficio speciale del procuratore anti-corruzione (Sapo) finiranno sotto il controllo del procuratore generale, nominato direttamente dalla presidenza della Repubblica. Dal mese scorso, questo ruolo è ricoperto da Ruslan Kravchenko, considerato un fedele alleato di Zelensky. Se la legge entrerà in vigore, Kravchenko potrà intervenire nelle indagini del Nabu, riassegnarle ad altri uffici e finanche chiuderle direttamente, e allo stesso modo potrà delegare i poteri del Sapo ad altri procuratori.Le direzioni di entrambe le istituzioni in questione hanno contestato aspramente la legge, sostenendo che finirà per distruggere l’infrastruttura anti-corruzione del Paese messa faticosamente in piedi nel decennio post-Euromaidan, mettendo peraltro a repentaglio l’integrazione euro-atlantica dell’Ucraina. La deputata Anastasiia Radina, capo della commissione competente dell’Aula in quota Sn, ha detto che il voto odierno equivale allo “smantellamento del Nabu e del Sapo“.Le perquisizioni dei servizi ucrainiDiversi organismi di controllo hanno lanciato l’allarme circa il pericolo che il governo possa utilizzare strumentalmente queste nuove disposizioni per ostacolare le investigazioni in corso su entità, individui o gruppi vicini al presidente o all’esecutivo stesso. Proprio oggi, il Nabu e il Sapo hanno accusato un alto funzionario dei servizi di sicurezza ucraini (Sbu) di aver estorto una tangente da 300mila dollari insieme a due complici in cambio di agevolazioni per far espatriare illegalmente degli uomini in età militare.Nella sola giornata di ieri (21 luglio), l’Sbu e l’Ufficio investigativo statale hanno condotto oltre una settantina di perquisizioni nei locali di Nabu e Sapo, arrestando due dipendenti del primo ente per presunto spionaggio a favore della Russia e traffico internazionale di droga, e indagandone altri 15 per violazioni che vanno dalle infrazioni del codice della strada all’alto tradimento. Stando alle testimonianze, le autorità avrebbero fatto ricorso ad un uso sproporzionato della forza, finendo per ferire almeno tre persone.Il presidente russo Vladimir Putin (foto: Maxim Shemetov/Afp)Il Nabu sostiene che l’Sbu non avesse un regolare mandato del tribunale per perquisire le sue sedi e per accedere ai dati sensibili sulle investigazioni in corso, ma i servizi hanno rispedito le accuse al mittente giustificando l’assenza di mandati sulla base dei protocolli di sicurezza nazionale. L’Sbu ha detto di aver raccolto prove del trasferimento di informazioni riservate ai servizi russi (Fsb).Campagna di pressione?Secondo le opposizioni e le associazioni della società civile, la mossa rientra nel quadro di una più ampia campagna di pressione che ha messo nel mirino gli organismi anti-corruzione, gli attivisti e le ong e, più in generale, le stesse strutture democratiche del Paese.Lo scorso 14 luglio, l’attivista Vitaliy Shabunin, co-fondatore del Centro d’azione anticorruzione (AntAC), l’ong più in vista nel Paese nella lotta alla corruzione, è stato arrestato con l’accusa di frode e di evasione del servizio militare. Shabunin sostiene che si tratti di una mossa politicamente motivata, una posizione difesa, tra gli altri, anche dall’ong Transparency international.Il Kyiv Independent, tra i più rinomati media indipendenti ucraini a livello internazionale, parla senza mezzi termini del rischio di una “regressione democratica in stile russo” e del “sabotaggio dello Stato di diritto” da parte della leadership ucraina, adombrando l’ipotesi che il governo voglia garantire una sorta di “amnistia per la corruzione nell’industria della difesa” in un momento critico della guerra contro la Federazione.Le reazioni internazionaliMa gli ultimi sviluppi stanno creando crescenti grattacapi anche al di fuori dei confini nazionali. “L’Ue è preoccupata per le recenti azioni dell’Ucraina nei confronti delle sue istituzioni anticorruzione“, ha scandito stamattina il portavoce della Commissione Guillaume Mercier, sottolineando che Nabu e Sapo “sono fondamentali per il programma di riforme dell’Ucraina e devono operare in modo indipendente per combattere la corruzione e mantenere la fiducia dei cittadini”.Da sinistra: il presidente del Consiglio europeo António Costa, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (foto: Consiglio europeo)Se quella che parrebbe una crociata di Kiev contro lo Stato di diritto non dovesse placarsi, potrebbe venire rimessa in discussione la stessa prospettiva di ingresso nel club europeo. “L’Ue fornisce un’assistenza finanziaria significativa all’Ucraina, subordinata ai progressi in materia di trasparenza, riforma giudiziaria e governance democratica“, ha ricordato Mercier, ribadendo che “l’adesione dell’Ucraina all’Ue richiederà una forte capacità di combattere la corruzione e di garantire la resilienza istituzionale“.Anche gli ambasciatori dei membri del G7 a Kiev hanno espresso “seria preoccupazione“, dichiarando di “voler discutere questi sviluppi con la leadership del governo” e reiterando il proprio sostegno “alla trasparenza, alle istituzioni indipendenti e al buon governo” nonché alla prosecuzione del lavoro con l’Ucraina “per contrastare insieme la corruzione“.In effetti, lo scontro interno sembra solo all’inizio, e apre una questione fondamentale sulla solidità della democrazia ucraina dopo tre anni e mezzo di resistenza all’invasione russa. Domani (23 luglio) è previsto un nuovo round di colloqui a Istanbul tra le delegazioni di Kiev e Mosca, anche se nessuno si aspetta una svolta decisiva nei negoziati per un cessate il fuoco.

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    Zelensky annuncia nuovi colloqui a Istanbul tra Ucraina e Russia

    Bruxelles – Per la terza volta nell’arco di tre mesi, le squadre negoziali di Ucraina e Russia si incontreranno domani a Istanbul per tentare di rompere l’impasse diplomatica. In agenda nuovi scambi di prigionieri, la restituzione dei minori ucraini rapiti e un incontro al massimo livello tra i presidenti dei due Paesi belligeranti. Ma su quest’ultimo punto, così come sull’intesa per un cessate il fuoco, le aspettative sono piuttosto basse.L’annuncio è arrivato nella tarda serata di ieri (21 luglio) da parte di Volodymyr Zelensky. In un post su X, il presidente ucraino ha riportato il suggerimento di Rustem Umerov, ex ministro della Difesa e ora a capo del Consiglio nazionale di sicurezza, di “tenere una nuova riunione dei rappresentanti in Turchia” per ridare linfa alla pista negoziale tra Kiev e Mosca.“L’agenda da parte nostra è chiara: il ritorno dei prigionieri di guerra, il ritorno dei bambini rapiti dalla Russia e la preparazione di un incontro tra i leader“, ha specificato Zelensky, rivelando che l’incontro tra le delegazioni è stato fissato per domani (23 luglio) a Istanbul, nella stessa sede dei due precedenti round di colloqui svoltisi rispettivamente a metà maggio e a inizio giugno. Anche stavolta, a guidare il team ucraino sarà proprio Umerov.I held a meeting on the outcomes Ukraine needs from the negotiation efforts.Secretary of the National Security and Defense Council of Ukraine, Rustem Umerov, reported on the implementation of the agreements reached at the second meeting with the Russian side in Istanbul, as… pic.twitter.com/0JQ1fGyaPC— Volodymyr Zelenskyy / Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) July 22, 2025Da parte russa non è ancora giunta conferma ufficiale sulla data dei colloqui, anzi sono trapelate informazioni discordanti sui media nazionali. L’agenzia Tass ha diffuso la medesima versione ucraina, parlando di un solo giorno di negoziati previsto per domani, mentre la Ria ha riportato di colloqui previsti per giovedì e venerdì (24 e 25 luglio).Ad ogni modo, per quanto la notizia che gli emissari dei due Paesi belligeranti si siederanno nuovamente al tavolo delle trattative sia indiscutibilmente positiva di per sé, sono in realtà piuttosto basse le aspettative per una svolta decisiva sulla fine della guerra, a quasi tre anni e mezzo dal suo inizio nel febbraio 2022.I due precedenti incontri a Istanbul si sono risolti in altrettanti buchi nell’acqua, almeno per quanto riguarda la ricerca di un’intesa su un’eventuale tregua, dal momento che le posizioni rimangono inconciliabili sia nel merito sia nel metodo. Lo ha ribadito anche oggi, per l’ennesima volta, il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, sostenendo di non aspettarsi “progressi miracolosi” viste le rivendicazioni “diametralmente opposte” delle due cancellerie.Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Nel merito, i rispettivi desiderata sono vicendevolmente irricevibili: tra le altre cose, Kiev vuole un cessate il fuoco immediato e totale, delle garanzie di sicurezza e la libertà di poter entrare nella Nato e nell’Ue, laddove Mosca esige la smilitarizzazione e neutralizzazione dell’avversario, il ritiro delle truppe ucraine dalle quattro oblast’ parzialmente occupate (per annetterle al proprio territorio, insieme alla Crimea) e la cessazione degli aiuti militari occidentali.Quanto al metodo, è la stessa opportunità di sospendere al più presto i combattimenti come prerequisito per avviare i negoziati, come richiesto dal Paese aggredito, a non essere condivisa dalla Russia, la quale non ritiene di dover far tacere le armi finché non sia stato raggiunto un accordo di pace complessivo e duraturo che risolva quelle che la Federazione descrive come le “cause alla radice” della crisi.Un obiettivo, quello di un accordo globale, che continua però a rimanere una chimera. Per centrarlo servirebbe, come punto di partenza, un faccia a faccia tra Zelensky e Putin. Sul punto, da tempo il primo tira la giacca al secondo. Ma l’inquilino del Cremlino non vuole saperne, ritenendo illegittimo l’omologo perché, insiste, il suo mandato è scaduto nel maggio 2024 (peccato che, a causa dell’invasione russa, in Ucraina sia in vigore la legge marziale, che impedisce di indire nuove elezioni).Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Del resto, nei confronti del presidente russo sembra aver esaurito la pazienza persino Donald Trump. Dopo aver seguito per mesi un approccio decisamente morbido con Mosca, il capo della Casa Bianca ha recentemente minacciato di colpirla con “pesanti sanzioni” se non verranno fatti progressi significativi nei negoziati verso la pace entro la fine di agosto.Nel frattempo, il fronte degli alleati europei di Kiev mantiene la linea dura. Vinta l’opposizione della Slovacchia, l’Ue ha adottato la scorsa settimana il suo 18esimo pacchetto di sanzioni, con cui mira a colpire soprattutto i settori energetico e bancario russi. E nel nuovo progetto di bilancio comunitario post-2027, Ursula von der Leyen ha proposto la creazione di un fondo speciale da 100 miliardi di euro destinato al sostegno dell’Ucraina.Quanto ai colloqui di Istanbul in calendario per domani, il titolare degli Esteri francese Jean-Noël Barrot li considera potenzialmente “lodevoli”, ma solo “se porteranno ad un incontro a livello di capi di Stato, in vista della conclusione di un cessate il fuoco“. “Sono passati ormai cinque mesi da quando l’Ucraina ha accettato un cessate il fuoco incondizionato di 30 giorni che consenta l’apertura dei negoziati, perché non negoziamo sotto le bombe, e aspettiamo da cinque mesi che Vladimir Putin accetti lo stesso principio“, incalza il capo della diplomazia d’Oltralpe dall’Ucraina, dove si trova in missione.

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    Nucleare iraniano, Teheran annuncia nuovi colloqui con gli europei a Istanbul

    Bruxelles – La diplomazia ci riprova. Per la prima volta dalla fine della guerra lampo di Israele contro l’Iran (col supporto determinante degli Stati Uniti), la leadership della Repubblica islamica annuncia colloqui con le controparti europee il prossimo venerdì per discutere del proprio programma nucleare. Già domani, Teheran ospiterà le delegazioni di Cina e Russia per “coordinare” la sua posizione con gli alleati.La conferma ufficiale è arrivata oggi (21 luglio) dal ministero degli Esteri iraniano, guidato da Abbas Araghchi. A seguito dei contatti avvenuti la scorsa settimana tra Araghchi e gli omologhi di Francia, Germania e Regno Unito più l’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas, è stato fissato per il prossimo venerdì (25 luglio) un incontro a Istanbul, in Turchia, per riprendere i negoziati sul programma nucleare degli ayatollah. Stando alle indicazioni del portavoce di Araghchi, Esmail Baghaei, i colloqui avverranno al livello dei viceministri degli Esteri.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Consiglio europeo)Si tratta del primo faccia a faccia tra le squadre negoziali iraniana ed europee dallo scorso 20 giugno, quando i rispettivi ministri si erano incontrati a Ginevra nel tentativo di salvare la pista diplomatica, mentre sulla Repubblica islamica piovevano già da una settimana le bombe israeliane durante la cosiddetta guerra dei 12 giorni scatenata dal primo ministro di Tel Aviv, Benjamin Netanyahu.Nella capitale elvetica si era cercato di mantenere in vita il Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), l’accordo sul nucleare di Teheran del 2015 di cui fanno parte Francia, Germania e Regno Unito – il formato E3 – più Ue, Cina e Russia. Ma solo un paio di giorni dopo gli Stati Uniti avevano condotto un massiccio bombardamento dei siti atomici iraniani, facendo saltare il banco delle trattative.Gli Usa, che parteciparono allo storico accordo sotto la seconda presidenza di Barack Obama, si sono poi ritirati durante il primo mandato di Donald Trump nel 2018 reintroducendo alcune delle sanzioni sospese per effetto del trattato. Da allora, la Repubblica islamica ha ripreso ad arricchire l’uranio, raggiungendo – almeno secondo le accuse di Tel Aviv e Washington – il livello critico del 60 per cento, dal quale si sarebbe potuta avvicinare rapidamente alla soglia del 90 per cento, cioè quella necessaria a confezionare ordigni atomici.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Dopo la conclusione delle ostilità, mediata dall’inquilino della Casa Bianca in persona, l’Iran ha estromesso dal proprio territorio gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organo delle Nazioni Unite per il monitoraggio delle attività nucleari. L’Ue, così come l’intero campo occidentale, continua a mantenere la linea per cui l’Iran non deve possedere armi atomiche.Ora, coi colloqui di Istanbul sembra aprirsi un nuovo, timido spiraglio per la ripresa di un’iniziativa diplomatica, anche se per il momento nessuno sembra aspettarsi svolte decisive. L’incontro dovrebbe servire a Teheran per scongiurare l’attivazione del cosiddetto meccanismo snapback, tramite cui gli europei hanno minacciato di far ripartire le sanzioni pre-2015 contro la Repubblica islamica se non si compieranno sostanziali passi in avanti nei negoziati entro la fine di agosto.Nel frattempo, domani arriveranno nella capitale iraniana le delegazioni di Pechino e Mosca, gli alleati più stretti degli ayatollah. “Ci stiamo coordinando costantemente con questi Paesi su come prevenire lo snapback o su come mitigarne le conseguenze”, ha dichiarato Baghaei.In a letter addressed to UNSG @Antonioguterres, the President of the Security Council, EU High Rep Kaja and members of the UN Security Council, I have outlined why the E3 lacks any legal, political, and moral standing to invoke the mechanisms of the JCPOA and UN Resolution 2231…— Seyed Abbas Araghchi (@araghchi) July 20, 2025In una lettera al Segretario generale dell’Onu, António Guterres, Araghchi ha dichiarato che i membri dell’E3 “non hanno alcuna legittimità giuridica, politica o morale per invocare” nuove misure restrittive poiché, ha spiegato, avrebbero “rinnegato i propri impegni” previsti dal Jcpoa, fornendo peraltro “sostegno politico e materiale alla recente aggressione militare illegale e non provocata del regime israeliano e degli Stati Uniti”.Nelle scorse settimane, il ministro degli Esteri iraniano si è detto comunque disposto a intavolare nuove trattative con gli Usa, a patto che vengano fornite a Teheran delle “garanzie” che non si arriverà ad una nuova guerra in caso di ripresa dei negoziati. Ma ha anche sottolineato che per ora non sono in programma contatti tra le rispettive diplomazie. Prima dell’avvio dell’aggressione israeliana, Teheran e Washington avevano avuto cinque round di colloqui, giudicati infruttuosi da Trump.

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    Cessate il fuoco immediato a Gaza, 25 Paesi (tra cui l’Italia) contro Israele

    Bruxelles – Cessate il fuoco “immediato, incondizionato e permanente”, che consenta alla popolazione civile palestinese di ricevere cure e assistenza del caso e che ponga fine a una politica di Israele considerata come inaccettabile. La comunità internazionale prova a fare pressione sul governo di Tel Aviv in una dichiarazione congiunta firmata da 25 Paesi, 17 Ue (Italia, Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia) e 8 Paesi extra-Ue (Australia, Canada, Islanda, Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Svizzera e Giappone), a cui si aggiunge la commissaria europea le Gestione delle crisi, Hadja Lahbib.Non sfugge l’assenza, tra i firmatari della dichiarazione, di Stati Uniti e Germania. E’ soprattutto il sostegno incondizionato di Washington a permettere di Israele di fare ciò che vuole in tutto il Medio Oriente, persino bombardare Paesi indipendenti e sovrani. C’è però divisione su un tema che continua a infiammare il dibattito, con una vera e propria coalizione internazionale ‘anti-Netanyahu’ che ribadisce il fermo ‘no’ alle intenzioni espansionistiche del governo israeliano. “Ci opponiamo fermamente a qualsiasi iniziativa volta a modificare il territorio o la demografia nei Territori Palestinesi Occupati”, scandiscono i ministri degli Esteri dei 25 Paesi. E’ questo un nuovo monito contro le intenzioni già dichiarate da un anno di nuovi insediamenti, che stavolta potrebbe non limitarsi a un richiamo.Trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”. Il piano shock che Trump ha esposto a Netanyahu“Siamo pronti a intraprendere ulteriori azioni per sostenere un cessate il fuoco immediato e un percorso politico verso la sicurezza e la pace per israeliani, palestinesi e l’intera regione”, dicono i 25 Paesi, senza specificare azioni o misure. Quello che emerge è una parte di comunità internazionale che di fatto scarica lo Stato ebraico nella veste della sua leadership. “La costruzione di insediamenti in tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, è stata accelerata – denuncia ancora la dichiarazione – mentre la violenza dei coloni contro i palestinesi è aumentata vertiginosamente. Questo deve cessare”.Netanyahu è anche oggetto di censura per le proposte di trasferire la popolazione palestinese in una ‘città umanitaria’, considerate come “totalmente inaccettabili” in quanto “lo sfollamento forzato permanente è una violazione del diritto internazionale umanitario”. Ancora, “il modello di distribuzione degli aiuti del governo israeliano è pericoloso, alimenta l’instabilità e priva i cittadini di Gaza della dignità umana”. In questo contesto è unanime la condanna per “la distribuzione a goccia degli aiuti e l’uccisione disumana di civili, compresi bambini, che cercano di soddisfare i loro bisogni più elementari di acqua e cibo”.

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    L’intesa Ue-Israele sugli aiuti a Gaza è decisamente vaga. E salva gli interessi (e la faccia) dei 27

    Bruxelles – Il coniglio dal cilindro con cui l’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, ha risparmiato a Bruxelles la figuraccia di non riuscire a imporre sanzioni contro Israele, rischia nel medio termine di mettere ancor più in imbarazzo le istituzioni europee. I termini dell’accordo – o meglio, l’intesa – raggiunta il 10 luglio con Tel Aviv perché si impegni ad un aumento “sostanziale” degli aiuti umanitari a Gaza non sono stati resi noti e i 27 non torneranno sull’argomento almeno fino a fine agosto. Tra il 9 e il 16 luglio,  secondo i numeri riportati dall’Ufficio dell’Onu per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), sono stati uccisi più di 600 cittadini palestinesi nella Striscia.A quanto si apprende, Kallas ha intavolato le discussioni con le controparti israeliane non appena – lo scorso 23 giugno – è stato diffuso il rapporto del Servizio europeo di Azione esterna che certificava il mancato rispetto da parte di Israele dell’Accordo di associazione con l’Ue a causa delle violazioni dei diritti umani a Gaza. Un team di esperti, coordinato dal Rappresentante speciale Ue per il processo di pace in Medio Oriente, Cristophe Bigot, si sarebbe recato due volte in Israele. L’obiettivo: strappare un’intesa che permettesse a Bruxelles di dimostrare il proprio peso e contemporaneamente di non andare avanti sulla strada delle sanzioni contro l’alleato mediorientale.L’Ue avrebbe messo sul tavolo le richieste pervenute da diverse agenzie delle Nazioni Unite (Undp, Wfp, Unicef) e dai partner umanitari. Prima di tutto, l’esclusione della controversa Gaza Humanitarian Foundation dalle operazioni. E poi, le riaperture di diversi varchi – soprattutto nel nord – e corridoi per la distribuzione, l’aumento massiccio di ingressi di convogli con aiuti umanitari e alimenti, la ripresa delle forniture di carburante, la riparazione delle infrastrutture vitali, la protezione degli operatori umanitari.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas, al Consiglio Affari Esteri il 15/07/25 (foto: Consiglio europeo)La stessa Kallas, a margine del Consiglio Affari Esteri del 15 luglio, si è appigliata ai “segnali positivi” che arrivano dalla Striscia per spiegare il congelamento di tutte le dieci misure – economiche e politiche – presentate ai ministri per dare seguito alla revisione dell’Accordo di associazione. “Vediamo entrare più camion e rifornimenti, più varchi aperti e riparazioni alle linee elettriche”, aveva dichiarato il capo della diplomazia Ue.Bruxelles sta monitorando l’attuazione dell’intesa, lavorando attivamente con le agenzie Onu presenti sul campo. Non essendo presente né ai valichi di frontiera né all’interno della Striscia, deve fare affidamento sui loro rapporti, su quelli egiziani e giordani, oltre che su quanto sosterrà di aver fatto Israele stesso. L’intenzione è riferire numeri e avanzamenti nell’attuazione ai Paesi membri ogni due settimane. A quanto si apprende, il primo aggiornamento è previsto per la prossima settimana.I termini dell’intesa restano però off-limits. Prima del 10 luglio, i camion di aiuti umanitari delle Nazioni Unite e delle Ong che entravano a Gaza ogni giorno erano meno di 20. In questi giorni, la media si attesterebbe intorno agli 80. L’accordo tra Kallas e l’omologo israeliano, Gideon Sa’ar, ne prevederebbe una cifra maggiore. Prima del 7 ottobre, ogni giorno entravano a Gaza circa 500 camion carichi di generi alimentari, carburante, aiuti umanitari.Volontari palestinesi fanno la guardia per prevenire assalti su convogli umanitari al valico di Zikim (Photo by Bashar TALEB / AFP)Secondo l’ultimo rapporto pubblicato da OCHA, relativo alla settimana dal 9 al 16 luglio, le autorità israeliane “hanno consentito l’ingresso di due camion di carburante al giorno per cinque giorni alla settimana, attraverso il valico di Kerem Shalom”, nel sud della Striscia. Mentre è stato riaperto, nel nord, quello di Zikim, da dove l’11 e il 12 luglio sarebbero partiti 20 camion al giorno che trasportavano generi alimentari.Lo scorso 12 luglio, diverse agenzie delle Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale della Sanità hanno diffuso un comunicato congiunto in cui sostengono che la carenza di carburante “ha raggiunto livelli critici che minacciano il funzionamento continuo di tutti i servizi essenziali per la sopravvivenza”. E dei 40 camion che hanno attraversato Zikim, la maggior parte sono stati “intercettati da folle disperate”. Dal 13 luglio, sostiene OCHA, “la raccolta dei carichi è stata nuovamente sospesa”.Gocce d’acqua nel deserto, questa sembra essere la massima pressione che può esercitare l’Ue su Israele. Perché, a dire il vero, nessuna delle misure presentate da Kallas per sanzionare Tel Aviv avrebbe in ogni caso raccolto le adesioni necessarie tra i Paesi membri. Di fronte all’insistenza con cui le opinioni pubbliche nazionali chiedono una posizione decisa per il rispetto della legge internazionale, i governi europei hanno acconsentito a compiere un piccolo passo, quello della revisione dell’Accordo di associazione. Ma il passo successivo, quello di imporre sanzioni economiche, è proibitivo: gli interessi delle capitali europee sono enormi, e questo i cittadini non lo sanno.Secondo il Centro di ricerca sulle Multinazionali SOMO, l‘Unione europea è il principale investitore in Israele a livello mondiale, con un volume quasi doppio rispetto agli Stati Uniti. Nel 2023 gli Stati membri dell’Ue detenevano 72,1 miliardi di euro in investimenti esteri in Israele, contro i 39,2 miliardi di euro degli Stati Uniti. E nel 2024, nonostante i crimini perpetrati a Gaza e le violenze nei territori palestinesi occupati, l’Ue ha addirittura aumentato le esportazioni verso Israele di 1 miliardo di euro, raggiungendo un valore di 26,7 miliardi di euro.

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    Summit Ue-Cina, l’Europa prova a giocare la carta asiatica contro gli Usa di Trump

    Bruxelles – Alla ricerca di cooperazione con la Cina, ma pronti a fare a meno di Pechino se le relazioni non saranno possibili. L’Unione europea intravede nella Repubblica popolare la risposta all’America di Trump, in un vertice bilaterale che arriva in una congiuntura tanto delicata quanto potenzialmente strategica. I presidenti di Commissione e Consiglio europeo, Ursula von der Leyen e Antonio Costa, si recheranno in Asia la prossima settimana (24 e 25 luglio) per cercare di ridefinire relazioni con la Cina nel doppio tentativo di scrivere un nuovo capitolo di scambi commerciali e dotarsi di una leva di pressione per rispondere ai dazi Usa.La missione non è di quelle semplici, e a Bruxelles lo sanno bene. La Cina è un interlocutore scomodo, spigoloso, al cospetto del quale l’Ue si presenta oltretutto in una posizione poco confortevole e ancor meno invidiabile: il Paese è definito chiaramente una minaccia per l’Unione europea, i suoi interessi e la sua sicurezza, ed è stato inserito nella lista dei ‘cattivi’, ma si va a chiedere una sponda per uscire dall’angolo in cui la Casa Bianca ha spinto gli europei.Il freddo riavvicinamento tra Ue e Cina. Von der Leyen: “Rapporto complesso che dobbiamo far funzionare”Ci sono tensioni commerciali tra Bruxelles e Pechino: i dazi europei sull’auto elettrica cinese, la sovra-produzione cinese di acciaio con cui inonda i mercati globali di prodotti a basso costo e che si intreccia con le restrizioni imposte dagli Stati Uniti sullo stesso prodotto. E poi c’è la questione delle reciprocità, regole del gioco che sono ancora troppo diverse. La Cina non permette l’ingresso all’interno del proprio mercato, e distorce quello globale con sussidi pubblici. Ciò nonostante si vuole cogliere l’occasione del 25esimo summit Ue-Cina per provare quanto meno a gettare le basi per un nuovo corso, e dare anche messaggi a Trump.Von der Leyen e Costa andranno a Pechino da Xi Jinping (presidente) e Li Qiang (primo ministro) “con uno spirito positivo e costruttivo”, ammettono a Bruxelles. Del resto non avrebbe senso tenere un summit se le aspettative fossero minime e anche meno di minime. “Non siamo pronti a compromessi su valori, ma siamo pronti a commerciare se ce ne sono le condizioni“, ammettono gli addetti ai lavori a Bruxelles. “Ribadiremo che siamo un partner affidabile”, sottolineano funzionari Ue. L’obiettivo è segnare distanze e differenze con gli Stati Uniti. Certo, reciprocità e nessuna distorsione del mercato restano gli obiettivi da raggiungere, in assenza dei quali l’Ue è pronta a cercare altri mercati. “Diversificazione, e non riduzione dei rischi, è l’approccio da tenere con la Cina” in questo momento.Von der Leyen ora guarda a est: India e Cina come alternativa all’America di TrumpLo dimostra il summit con il Giappone che anticipa quello con la Cina. Von der Leyen e Costa voleranno prima a Tokyo (23 luglio) per discutere di tre argomenti principali di cooperazione: sicurezza e difesa, commercio e sicurezza economica, difesa del multilateralismo e dell’ordine internazionale fondato su regole. Gli ultimi due punti sono sempre in funzione di una risposta alle politiche degli Stati Uniti. Una logica che stride con la visita che seguirà a Pechino. Il summit Ue-Giappone sarà l’occasione per “fare pressione” sulla Repubblica popolare, ammettono a Bruxelles, su temi come ordine mondiale e regionale e divieto di sostegno alla Russia. Cose che non faranno piacere alla leadership cinese, mai favorevole a ingerenze nelle decisioni interne e alla manovre su un quadrante di mondo dove gli interessi del Dragone non sono pochi.Non c’è solo Taiwan nelle mire della Cina, che considera l’isola come parte del Paese. Nel mar cinese meridionale le isole Spratly sono oggetto di contese sino-filippine. De facto nella zona economica esclusiva di Manila,  per le contestazioni di Pechino. L’Ue ha rilanciato il partenariato con le Filippine, senza riconoscere le rivendicazioni territoriali cinesi, e di fatto riconoscendo le ragioni dell’altro. Un altro elemento che può essere usato contro l’Ue.

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    INTERVISTA / Oliver Röpke (Cese): “Dialogo sociale sia condizione necessaria per l’allargamento”

    Bruxelles – In una fase storica in cui si parla con insistenza di allargamento dell’Unione europea, è importante mettere al centro le componenti della società civile e le parti sociali. E che il cammino verso l’adesione di nuovi Paesi al progetto comunitario sia supportato da strutture efficaci e risorse finanziarie adeguate. È quanto spiega a Eunews il presidente del Comitato economico e sociale europeo (Cese), il sindacalista austriaco Oliver Röpke, durante un’intervista a margine dei lavori della plenaria in corso tra ieri e oggi a Bruxelles.Stamattina (17 luglio) si è tenuto il secondo forum di alto livello sull’allargamento (la prima edizione risale allo scorso ottobre, agli sgoccioli del primo mandato di Ursula von der Leyen al timone dell’esecutivo comunitario), focalizzato sull’importanza di istituzionalizzare un confronto strutturato tra le parti sociali e di creare uno spazio civico solido nella prospettiva dell’espansione del club a dodici stelle già entro la fine del decennio. Stavolta gli ospiti d’onore erano i ministri agli Affari europei di Spagna (Fernando Sampedro), Macedonia del Nord (Orhan Murtezani) e Montenegro (Maida Gorčević).Dialogo sociale e allargamento“Un forte dialogo civile e sociale è il dna del Comitato, dunque è la nostra principale richiesta anche quando si parla di allargamento”, ci spiega Röpke. Quello dell’allargamento, osserva, è un “processo aperto”, che rappresenta “non solo un imperativo geopolitico ma anche una promessa democratica, un impegno morale e sociale“.In effetti, il focus del presidente del Cese sulla società civile non è certo una novità. Così come non lo è l’attenzione verso l’integrazione graduale dei Paesi candidati – Albania, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina – verso l’Ue. Un approccio che prevede l’estensione a questi Stati di alcune politiche comunitarie (come il roaming o l’area dei bonifici Sepa) e l’introduzione di specifici strumenti di cooperazione (si veda il Piano di crescita per i Balcani occidentali) ancora prima del loro formale ingresso nel club europeo.Il presidente del Comitato economico e sociale europeo, Oliver Röpke (foto: Cese)Nel settembre 2023, pochi mesi dopo essere stato eletto a capo dell’organo consultivo, Röpke ha lanciato l’iniziativa Ecm – acronimo di Enlargement countries members – per coinvolgere i rappresentanti delle parti sociali (cioè lavoratori e datori di lavoro) e della società civile di questi Paesi nei lavori del Comitato. L’idea di fondo, rimarca il presidente, è che “l’integrazione deve chiamare in causa non solo le dirigenze politiche ma anche coloro che portano in ultima istanza il peso delle riforme, cioè la società civile, i lavoratori, i giovani”.Röpke definisce “un successo” l’iniziativa e assicura che rimarrà in piedi anche nel prossimo mandato del Cese, che inizierà il prossimo ottobre. Bisogna tuttavia fare attenzione a non confondere i mezzi coi fini, e a non creare surrogati de facto dell’allargamento: “L’Ecm è uno strumento che deve servire a facilitare l’adesione all’Unione – ammonisce – ma non può finire per sostituirla“, rischiando di lasciare i Paesi candidati in un limbo.Ad ogni modo, incalza il sindacalista, il confronto tra le componenti della società “non è un lusso ma una necessità strutturale per costruire democrazie resilienti prima che questi Stati entrino in Ue”. Al punto che il Comitato ha chiesto all’esecutivo Ue di includere formalmente il dialogo sociale come un criterio di condizionalità nei negoziati di adesione.Come si fa nel concreto a promuovere simili sviluppi? “Naturalmente non c’è un unico modello che vada bene per tutti, ma riteniamo che istituzionalizzare il dialogo sociale e dargli un quadro di riferimento chiaro, ad esempio nell’ottica di rafforzare la contrattazione collettiva, sia fondamentale“, ragiona Röpke. Per esempio, ci racconta non senza una punta di orgoglio, “alcuni Paesi candidati vogliono aggiornare i loro sistemi di dialogo e vogliono costruire qualcosa di simile al Cese“.La 598esima plenaria del Comitato economico e sociale europeo, il 17 luglio 2025 (foto: Cese)Il Comitato propone l’introduzione nei Paesi candidati di “comitati di monitoraggio nazionali“, composti da parti sociali e società civile con l’obiettivo di supervisionare non solo gli sforzi e le riforme pre-adesione ma anche la messa a terra dei vari piani di crescita.Progressi e regressiIl presidente del Cese considera positivamente gli sviluppi in corso. “Vediamo progressi in diversi Paesi“, ci dice, anche se rimane ancora “molto lavoro da fare”. Addirittura, in alcuni casi gli standard sono più elevati che negli Stati Ue. Se prendiamo l’indice relativo alla libertà di stampa, ad esempio, scopriamo che Macedonia del nord e Montenegro vanno meglio di Bulgaria, Cipro, Croazia, Grecia, Italia, Malta, Romania e Ungheria. Oppure, continua Röpke, sulla riforma del sistema giudiziario Paesi come l’Albania stanno facendo “passi da giganti“, per quanto rimangano problemi su altri aspetti come trasparenza e contrasto alla corruzione.Purtroppo, non si registrano progressi dappertutto. In alcuni Stati, riconosce Röpke, “le riforme sono deboli e procedono lentamente, mentre in altri si sono addirittura verificati dei contraccolpi“. È il caso della Georgia, dove da mesi il governo autoritario e filorusso sta reprimendo brutalmente il dissenso democratico, della Serbia di Aleksandar Vučić e della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, dove continua a contrarsi lo spazio civico.Manifestanti protestano contro il governo georgiano a Tbilisi (foto: Sebastien Canaud/Afp)Anche in Ucraina – cui pure il presidente del Cese tiene a ribadire il “pieno sostegno” del Comitato – si registrano dei problemi: “Pure in queste difficili circostanze Kiev deve procedere sulla strada delle riforme“, riflette, “ma abbiamo assistito a sviluppi preoccupanti come l’incarcerazione di diversi leader sindacali negli ultimi mesi”.Il nodo dei finanziamentiOra, è evidente che l’allargamento è risalito prepotentemente nell’agenda di Bruxelles negli ultimi anni. “Ho piena fiducia nella presidente von der Leyen e nella commissaria Marta Kos (la titolare del portafoglio Allargamento, ndr) per portare avanti un processo di allargamento basato sul merito e dargli nuova linfa”, confida Röpke a Eunews, dichiarandosi contento del fatto che tale percorso “sia stato accelerato per alcuni Paesi candidati” – soprattutto Albania, Montenegro e Ucraina – e auspicando che “se questi assolveranno ai loro impegni possano concludere i negoziati entro il 2028“.Del resto, è altrettanto chiaro che perché l’allargamento dell’Unione abbia successo servono risorse adeguate, oltre ad una reale volontà politica da parte dei Ventisette. Il Cese adotterà a breve la propria posizione sulla proposta di nuovo bilancio comunitario (il Qfp 2028-2034) targata von der Leyen e già bocciato dall’Eurocamera, dagli enti regionali e da una parte delle cancellerie.Röpke la considera “una buona opportunità per incorporare i finanziamenti pre-adesione nel bilancio Ue in maniera più strategica”, includendo oltre all’assistenza tecnica anche un più organico sostegno alle riforme nei Paesi candidati. E ribadisce un concetto basilare: “Non può esserci una politica di allargamento credibile senza un supporto finanziario sostenibile e mirato“, ricorda.La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Sicuramente, aggiunge il sindacalista, “chiediamo di proteggere ed espandere gli stanziamenti già esistenti per le riforme pre-adesione e per il sostegno alla società civile e la cooperazione transfrontaliera nel prossimo Qfp”. Parrebbe muoversi in questa direzione il fondo Global Europe voluto dalla timoniera del Berlaymont. Questo strumento è dotato complessivamente di 200 miliardi di euro, di cui 42,6 da destinarsi specificamente all’allargamento (un aumento del 37 per cento rispetto al budget dell’attuale Qfp, dove i miliardi a disposizione sono 31).Nel complesso, comunque, la valutazione di Röpke è positiva: “Sono contento che sia stato annunciato un bilancio per l’allargamento potenziato e in generale sono soddisfatto della cassetta degli attrezzi contenuta nel fondo Global Europe“, afferma. Ribadendo che, come dichiarato dalla stessa von der Leyen ieri, “non si tratta solo di un obiettivo politico ma di un investimento strategico nella stabilità e nella prosperità del continente“.

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    Germania e Regno Unito siglano un accordo di amicizia che le impegna a difendersi a vicenda

    Bruxelles – Ottant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, Germania e Regno Unito hanno siglato oggi (17 luglio) il primo accordo bilaterale della loro storia. Un trattato di amicizia, che impegna le due potenze del continente alla difesa reciproca in caso di crisi e individua diverse aree dove intensificare la cooperazione, in primis l’industria della difesa.Il Kensington Treaty è stato firmato e presentato al pubblico dal premier britannico Keir Starmer e dal cancelliere tedesco Friedrich Merz, in visita a Londra. Dopo la Brexit, Londra ha siglato dichiarazioni d’intenti a livello bilaterale con una sere di Paesi dell’Ue, Italia compresa. Ma una settimana dopo il patto tra Starmer e il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, sulla deterrenza nucleare, l’intesa con focus sulla difesa tra Londra e Berlino completa in qualche modo il triangolo dei trattati tra gli E3, il formato che riunisce Francia, Germania e Regno Unito.Prevede una stretta cooperazione in materia di sicurezza e difesa, compresa la deterrenza nucleare. E un impegno esplicito da parte di Regno Unito e Germania a considerare una minaccia contro uno come una minaccia contro l’altro, dichiarando che i due Paesi “si assisteranno reciprocamente, anche con mezzi militari, in caso di attacco armato“.Keir Starmer e Emmanuel Macron a Londra, il 10 luglio 2025. (Photo by Ludovic MARIN / POOL / AFP)Inoltre, “velocizzeremo la cooperazione sulle armi e l’equipaggiamento militare ad alta tecnologia“, ha dichiarato Starmer in conferenza stampa. Le due parti si sono impegnate a “promuovere campagne di esportazione” per garantire ordini internazionali per le attrezzature che producono congiuntamente, tra cui il jet Eurofighter Typhoon e il veicolo blindato Boxer.L’accordo – anche se in larga parte negoziato dal predecessore di Merz, Olaf Scholz – è in linea con la spinta del neo-cancelliere a discutere l’estensione della deterrenza nucleare franco-britannica al resto dell’Europa. A maggio, Merz e Macron avevano annunciato di voler creare un consiglio di sicurezza franco-tedesco di alto livello. Oggi, l’accordo con Starmer istituisce analoghi dialoghi strategici annuali tra i ministri degli Esteri dei due Paesi.“Non è un caso che io mi trovi qui una settimana dopo la visita di Stato del presidente francese a Londra”, ha dichiarato Merz, sottolineando che “Gran Bretagna, Francia e Germania stanno convergendo nelle loro posizioni sulla politica estera, sulla politica di sicurezza, sulla politica migratoria, ma anche sulle questioni di politica economica”.Starmer ha spiegato che l’accordo definisce “un piano di lavoro pratico” e “17 progetti principali”. Oltre a difesa e sicurezza, Londra e Berlino si impegnano a cooperare nella lotta al traffico di persone migranti, chiodo fisso della nuova amministrazione laburista britannica. Merz avrebbe promesso a Starmer una stretta legislativa in Germania contro le imbarcazioni degli scafisti che alimentano la migrazione irregolare attraverso la Manica, così come Macron ha acconsentito a riaccogliere sul suolo francese persone migranti espulse da Londra. Infine, il trattato di amicizia bilaterale copre prevede un nuovo collegamento ferroviario diretto tra i due Paesi e una maggiore cooperazione negli scambi giovanili.