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    Reuten (S&D): “Ucraina nell’Ue divisa come Cipro uno scenario che non mi piace”

    dall’inviato a Strasburgo – Non c’è nulla di definito, si rincorrono rumors e speculazioni, e certamente l’Ue è al fianco di Kiev in modo fermo, eppur tuttavia “non posso negare un scenario di un’Ucraina con cessione di territorio” all’interno dell’Unione europea. “In fin dei conti abbiamo l’esempio di Cipro…”. Thijs Reuten, europarlamentare olandese del gruppo socialista (S&D) membro della commissione Affari esteri, inizia a non escludere nulla per il futuro di un conflitto russo-ucraino, soprattutto alla luce delle intenzioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di una fine delle ostilità in tempi rapidi.A un ristretto numero di giornalisti, tra cui Eunews, Reuten ribadisce che un’Ucraina con confini diversi da quelli internazionalmente riconosciuti e quindi con perdita territoriale “non mi piacerebbe” così come non piacerebbe a molti, nell’Unione europea. Certo, aggiunge, “se il governo ucraino dovesse accettare un ridefinizione dei confini allora sarebbe diverso, ma non possiamo lasciare che a decidere siano la Casa Bianca o il Cremlino”. Però, per l’appunto si parla di scenari, “e non voglia fare speculazioni”.Per Reuten resta ferma la linea fin qui espressa a più riprese: a fianco dell’Ucraina in modo deciso, senza tentennamenti, e in modo da mettere l’Ucraina in una posizione di forza negoziale quando arriverà il momento di intavolare trattative.  Per questo l’invito è di “prestare poca attenzione a quello che si sente dalla Casa Bianca ma concentrarsi su quello che si deve fare come Unione europea”.Se ci sono lezioni da apprendere alla luce di quanto avvenuto in questi anni di guerra, continua l’europarlamentare socialista, è che “dal punto di vista militare è stato consegnato poco e in ritardo”, come visto con le promesse sulla fornitura di un milione di munizioni. Inoltre, lamenta ancora Reuten, come Unione europea “siamo stati troppo esitanti”.Da qui in avanti bisogna fare meglio e prima, e interrogarsi per bene sull’Ucraina. “Sono impressionato da quanti progressi siano stati raggiunti nonostante la guerra in corso”, riconosce Reuten parlando del processo di adesione di Kiev all’Ue. L’Ucraina “ha fatto più di quello che hanno fatto Serbia e Bosnia-Erzegovina negli ultimi dieci anni”. Un modo per dire che la promessa europea per Kiev si può mantenere. Anche con un’Ucraina in stile Cipro.

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    Il cessate il fuoco a Gaza sembra sul punto di saltare

    Bruxelles – Sembra già scricchiolare il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Tra piani surreali di deportazioni di massa e ostaggi che non vengono rilasciati, si moltiplicano i dubbi sulla capacità (o la volontà) di entrambe le parti coinvolte di tenere fede ai termini dell’accordo che ha posto temporaneamente fine a più di un anno di devastazione nell’enclave palestinese controllata da Hamas. Mentre Tel Aviv minaccia di riprendere le ostilità, a Gerusalemme Est la polizia israeliana fa irruzione nelle librerie, innescando le condanne degli eurodeputati.La fragilità della treguaNon è passato neanche un mese dalla stipula dello storico cessate il fuoco in tre fasi, siglato lo scorso 15 gennaio tra Israele e Hamas ed entrato in vigore quattro giorni dopo, che ha permesso la sospensione delle ostilità a Gaza – dove durava da oltre 15 mesi la sanguinosa offensiva scatenata da Tel Aviv in risposta agli attacchi del 7 ottobre 2023 – che già comincia a traballare pericolosamente.Ieri (10 febbraio) il gruppo militante palestinese ha annunciato l’intenzione di ritardare a tempo indeterminato il rilascio degli ostaggi israeliani ancora vivi, citando “violazioni” dell’accordo da parte dello Stato ebraico. Hamas si è dichiarato disponibile a proseguire con il prossimo scambio tra ostaggi e prigionieri, previsto per sabato (15 febbraio), e sostiene che l’annuncio di ieri serviva per mettere pressione su Tel Aviv “affinché adempia ai suoi obblighi”.אם חמאס לא יחזיר את חטופינו עד שבת בצהריים – הפסקת האש תיפסק, וצה”ל יחזור ללחימה עצימה עד להכרעה סופית של החמאס pic.twitter.com/4Cx30kHGvN— Benjamin Netanyahu – בנימין נתניהו (@netanyahu) February 11, 2025Per tutta risposta, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (sul cui capo pende un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale) ha ammonito oggi che, se gli ostaggi non saranno rilasciati entro sabato a mezzogiorno, “il cessate il fuoco finirà e l’Idf (l’esercito israeliano, ndr) riprenderà i combattimenti pesanti finché Hamas non verrà sconfitto”.Già ieri il titolare della Difesa Israel Katz aveva messo “in massima allerta” le forze armate con l’ordine di prepararsi a “qualunque scenario a Gaza”, mentre il responsabile delle Finanze Bezalel Smotrich ha ripetutamente minacciato di staccare la spina al governo di coalizione se la guerra non riprenderà dopo la restituzione degli ostaggi.Il ruolo di TrumpDel resto, con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca le posizioni di Washington sulla crisi in corso nel Levante si sono nettamente irrigidite – basti pensare al surreale piano di trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”, in quella che è suonata come l’invocazione di una vera e propria pulizia etnica – e a Bibi non sembra vero di poter contare su un tale livello di intransigenza da parte dell’onnipotente alleato a stelle e strisce.Giusto ieri, Trump ha esplicitamente rifiutato di riconoscere a quasi 2 milioni di profughi gazawi il diritto di tornare sulla propria terra, suggerendo al contrario di deportarli permanentemente in Egitto e Giordania, mentre gli Stati Uniti prenderebbero il controllo della Striscia per costruirci la Las Vegas del Mediterraneo.Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (foto: Imagoeconomica)Sabotaggio dei negoziati?Anche per questo, Hamas ritiene poco credibile l’impegno di Washington nel garantire il rispetto del cessate il fuoco da parte di Tel Aviv, a sua volta sospettata di non avere realmente intenzione di attuare il piano concordato faticosamente in sede negoziale. Gli stessi mediatori qatarioti stanno suonando l’allarme da giorni circa il pericolo che salti il banco a causa della retorica incendiaria di Netanyahu e dell’approccio eccessivamente muscolare adottato dalla delegazione israeliana nel concordare i dettagli della seconda fase (che dovrebbe prevedere la restituzione di tutti gli ostaggi ancora in vita e il ritiro completo dell’Idf da Gaza).Abu Obeida, portavoce del gruppo militante, ha accusato lo Stato ebraico di ostacolare il ritorno dei palestinesi nel nord della Striscia, di bloccare l’arrivo degli aiuti umanitari e di attaccare indiscriminatamente i civili. Non saranno rilasciati altri ostaggi finché Israele “non si adeguerà e non compenserà le scorse settimane”, ha dichiarato.Una lettura, quella del sabotaggio volontario da parte di Bibi, condivisa anche da alcuni tra i parenti degli ostaggi stessi: “La deliberata procrastinazione e le inutili dichiarazioni provocatorie di Netanyahu hanno interrotto l’attuazione dell’accordo“, sostiene Einav Zangauker, madre di un giovane ancora in prigionia. In base agli accordi, durante la prima fase del cessate il fuoco Hamas dovrebbe restituire 33 ostaggi. Di questi, 16 sono già stati liberati e otto sarebbero deceduti.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Charly Triballeau/Afp)Il raid a Gerusalemme EstE non va certo nella direzione di una distensione dei rapporti il raid, compiuto domenica (9 febbraio) dalle forze di polizia israeliane nella libreria palestinese Educational bookshop a Gerusalemme Est, con tanto di distruzione della merce in vendita, sequestro di un numero imprecisato di libri perché potenzialmente “inneggianti al terrorismo” e arresto del titolare Mahmoud Muna e del nipote Ahmed, infine rilasciati oggi pomeriggio.“Un fatto di emblematica gravità“, hanno commentato alcuni eurodeputati Pd (Lucia Annunziata, Annalisa Corrado, Sandro Ruotolo, Cecilia Strada e Marco Tarquinio). “La distruzione dei libri evoca inevitabilmente episodi simili di un’inaccettabile storia del passato“, prosegue il comunicato dei dem in riferimento ai roghi di libri nel Terzo Reich, per sottolineare ancora che si tratta di “un’azione incredibile”, come ne avvengono solo negli “Stati fascisti”.

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    Stefanchuk all’Eurocamera, l’Ue rinnova il supporto all’Ucraina verso una pace “giusta”

    Dall’inviato a Strasburgo – Ormai al terzo anniversario dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca spinge Kiev verso un negoziato con Mosca. Ma il neo presidente non conosce né il principio del “Niente sull’Ucraina senza l’Ucraina”, né la formula del supporto incondizionato a Kiev, senza ricevere nulla in cambio. Dal Parlamento europeo l’Ue, che rischia di essere tagliata fuori, prova ad alzare la voce: Roberta Metsola e il suo omologo ucraino, Ruslan Stefanchuk, hanno riaffermato insieme il proprio impegno per una “pace giusta“.Il presidente della Verchovna Rada è intervenuto all’emiciclo di Strasburgo, come già era accaduto nel giugno 2022, poco dopo l’avvio del percorso di adesione dell’Ucraina all’Unione europea. Introducendolo, Metsola ha avvertito l’Europa: “Non dobbiamo lasciar perdere ciò che intendiamo per pace”. Per arrivare a una pace che non sia una resa all’aggressore, “l’Ucraina deve essere in una posizione di forza“. Se Washington mette in dubbio il proprio impegno, “ciò significa che l’Europa deve fare di più”. In termini di sostegno finanziario, militare, umanitario. In termini di pressione diplomatica.Ruslan Stefanchuk, presidente della Verkhovna Rada, al Parlamento europeo di Strasburgo (11/02/25)Il momento è decisivo, “cruciale”, come ha sottolineato lo stesso Stefanchuk. E l’esercito di Volodymir Zelensky ci arriva “stanco ma imbattuto”. Il presidente del Parlamento ucraino ha ringraziato l’Eurocamera per il supporto mai mancato in questi tre anni, ribadito un’ennesima volta un mese dopo le elezioni europee dai nuovi eruodeputati, con una risoluzione del 17 luglio scorso. La stessa Eurocamera, ha chiesto poi a settembre di rimuovere le limitazioni all’utilizzo di armi occidentali in territorio russo. La fermezza del Parlamento europeo è stata determinante per garantire la protezione temporanea nei Paesi europei a oltre 4 milioni di sfollati ucraini, la mobilitazione di 50 miliardi di euro in assistenza militare, l’addestramento da parte dei Paesi membri di oltre 70 mila soldati dell’esercito di Kiev.Ma se Mosca continua a puntare verso Kiev, “significa che intende muoversi anche verso Varsavia, Strasburgo, Bruxelles”, ha avvertito Stefanchuk. E alla luce delle provocazioni e dei ricatti di Trump, che proprio oggi ha affermato che “un giorno l’Ucraina potrebbe essere russa” e ha chiesto a Zelensky che l’impegno americano venga ripagato con “l’equivalente di 500 miliardi di terre rare”, l’Ue è chiamata ad alzare ancora il livello della propria responsabilità nei confronti del popolo ucraino. Accelerando sul percorso di adesione di Kiev ai 27 – i negoziati di adesione potrebbero cominciare già a marzo – e assicurandole le garanzie necessarie per una pace duratura con il Cremlino. “In un contesto internazionale e geopolitico difficile, sottolineiamo l’importanza di mantenere la solidarietà transatlantica e globale con l’Ucraina“, affermano i leader dei gruppi politici del Parlamento europeo in una dichiarazione congiunta.Non si tratta solo di rafforzare la difesa aerea di Kiev e intensificare i rifornimenti di armi e missili a lungo raggio – Stefanchuk ha ringraziato la Francia per la consegna dei caccia Mirage perché “ci serve più difesa aerea per proteggere i nostri cieli perché è dal cielo che la Russia ci attacca” -, ma di insistere per “un percorso chiaro” verso l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, “la migliore garanzia di sicurezza” per il Paese. Secondo Stefanchuk, l’esercito ucraino è “di fatto già un esercito della Nato”. I soldati ucraini combattono con armi dell’Alleanza Atlantica, con le sue tecniche, e “difende il fronte orientale della Nato dal nemico della Nato: la Russia”.La durezza della situazione sul campo impone allo speaker della Verchovna Rada di mantenere quanto meno l’ottimismo. “In questi tre anni abbiamo trasformato dei ‘no’ categorici in dei solidi ‘si’. Si diceva no alle armi, no ai missili a lungo raggio, no agli aerei e ora sono diventati tutti dei sì”, ha sottolineato. Se i sì degli Stati Uniti sono in bilico, quelli di Bruxelles sono più fondamentali che mai.

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    Misure di ritorsione e negoziati con l’India, l’Ue si compatta contro i dazi di Trump

    dall’inviato a Strasburgo – Reagire con misure di ritorsione, e concludere nuovi accordi commerciali, a cominciare con l’India. La risposta dell’Ue alla decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di imporre dazi del 25 per cento all’acciaio e all’alluminio si produce nel dibattito d’Aula del Parlamento europeo, dove i principali gruppi si compattano, si crea una vera ‘maggioranza Ursula’ come mai prima dal post voto del 6-9 giugno. E’ la prova dell’emiciclo che sancisce un compattamento a dodici stelle contro le mosse di Washington, perché le reazioni preliminari non convincono.“Mi rammarico profondamente della decisione degli Stati Uniti di imporre dazi sulle esportazioni europee di acciaio e alluminio”, la reazione ufficiale della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, a pochi minuti della riunione d’Aula. Von der Leyen, non presente a Strasburgo per impegni istituzionali, promette che “i dazi ingiustificati sull’Ue non rimarranno senza risposta”, e annuncia “contromisure ferme e proporzionate”. Però dai banchi de laSinistra Rudi Kennes attacca: “Mi rammarico? E’ ridicolo. Trump ride di questo”. La collega e co-presidente del gruppo, Manon Aubry, rincara la dose: “La reazione dell’Ue è nulla. Continuiamo a essere il cagnolino degli Stati Uniti anche quando colpiscono i diritti della comunità Lgtbqi e attaccano gli interessi dell’Europa. Quante provocazioni ancora dovremo subire perché i leader si sveglino?“.Il commissario per il Commercio, Maros Sefcovic, prova a calmare un’Aula che chiede e pretende interventi. “L’Ue non vede alcuna giustificazione per questa decisione, e risponderemo in modo proporzionato e per difendere i nostri interessi”, assicura agli europarlamentari. Ammette che una guerra commerciale a colpi di dazi “non il nostro scenario preferito”, ma si andrà avanti con decisione. Comunque, precisa Sefcovic, “restiamo aperti a negoziare“. Contro le politiche di Trump e di quanti volessero seguirne l’esempio la risposta è più commercio, sottolinea ancora il commissario Ue. Ricorda e rivendica la chiusura degli accordi con i Paesi del Mercosur e l’aggiornamento dell’accordo con il Messico voluto proprio come scudo anti-Trump. Alla luce di quanto accaduto Sefcovic anticipa l’intenzione di accelerare con India, Filippine e Thailandia.Il commissario per il Commercio, Maros Sefcovic [Strasburgo, 11 febbraio 2025]Parole e strategia valgono a Sefcovic il sostegno dei popolari (Ppe). “Serve il Mercosur, e serve continuare con India e Indonesia”, sottoscrive Jorgen Warborn. Ma soprattutto occorre una risposta ferma e decisa, e perché “la frammentazione ci indebolisce”. Per la Commissione arriva però il suggerimento di “rispondere nel rispetto dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), altrimenti si creano ancora più incertezze”. Anche tra le fila dei liberali (Renew Europe) si invita a procedere con i negoziati con Nuova Delhi. “Più commercio è la risposta” ai dazi di Trump, sostiene Svenja Hahn, “e l’India è la risposta migliore” in tal senso.Socialisti (S&D), liberali (Re) e Verdi si uniscono nella richiesta di fermezza e contro-tariffe, come il Ppe. “Vogliamo che la Commissione europea risponda con misure di ritorsione“, taglia corto la socialista Kathleen Van Brempt. “Non si ferma un bullo dandogli ciò che vuole, perché altrimenti chiederà sempre di più”. Anche l’eurodeputato del Pd, Stefano Bonaccini, ritiene che “di fronte alla minaccia dell’arma protezionistica dovremo rispondere insieme, senza esitazioni”.Analoga la linea di Renew Europe, come spiegato da Karin Karlsbro: “Con gli Stati Uniti siamo pronti a rispondere”, per far capire che “Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti, non del mondo”. Niente tentennamenti, aggiunge la liberale Marie-Pierre Vedrenne: “Dobbiamo rispondere duramente”. Anche Anna Cavazzini, dei Verdi, esorta l’esecutivo comunitario a reagire: “L’Unione europea non può farsi ricattare”.Più timido il co-presidente del gruppo dei Conservatori e riformisti europei (Ecr) all’Eurocamera, Nicola Procaccini: “L’unico modo per affrontare questa nuova sfida è avere un approccio equo“, sostiene. Il che vuol dire che come Unione europea “dobbiamo essere pronti, non ci piacciono i dazi, ma sappiamo che fanno parte del commercio internazionale. Lo erano ieri, lo sono ora e lo saranno in futuro”.Sulla questione si esprime anche il presidente di Eurofer Henrik Adam, secondo il quale “l’ordine esecutivo  che impone una tariffa generale del 25 per cento su tutte le importazioni di acciaio è una radicale escalation della guerra commerciale lanciata sotto la sua prima amministrazione. Esso – rileva Adam – peggiorerà ulteriormente la situazione dell’industria siderurgica europea, esacerbando un contesto di mercato già in terribile difficoltà”.Il presidente Jeo Biden aveva ammorbidito le sanzioni imposte nella prima amministrazione Trump, ma, nonostante questo, afferma il presidente di Eurofer, “le importazioni di acciaio dell’UE negli Stati Uniti sono diminuite di oltre 1 milione di tonnellate all’anno”, e secondo i suoi calcoli se i dazi dovessero essere introdotti nella misura annunciata “l’Ue potrebbe perdere fino a 3,7 milioni di tonnellate di esportazioni di acciaio verso gli Stati Uniti, il secondo mercato di esportazione per i produttori di acciaio dell’Unione, che rappresenta il16 per cento delle esportazioni totali di acciaio dell’Ue nel 2024”. Secondo Adam, inoltre, “la perdita di una parte significativa di queste esportazioni non può essere compensata dalle esportazioni verso altri mercati”.

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    In Kosovo ha vinto di nuovo Kurti, ma governare sarà complesso

    Bruxelles – Come da aspettative, il primo ministro kosovaro uscente Albin Kurti ha di nuovo vinto le elezioni. Ma stavolta sarà più difficile governare, perché il suo partito non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti e dovrà formare una coalizione. Chiunque salga al potere a Pristina, uno dei nodi principali per i prossimi anni sarà quello delle relazioni con la vicina Serbia, che non sembrano tuttavia destinate a migliorare rapidamente.Non ci sono stati grandi colpi di scena – almeno rispetto a quanto anticipato dai sondaggi della vigilia – alle elezioni legislative tenutesi ieri (9 febbraio) in Kosovo, alle quali ha preso parte appena il 40,6 per cento degli aventi diritto contro quasi il 48,8 per cento del 2021. Nel Paese più giovane d’Europa hanno votato poco meno di 800mila elettori, mentre sarebbero oltre 14mila le schede raccolte dalle comunità della diaspora, anche se il loro conteggio verrà finalizzato con ogni probabilità domani.Con circa il 90 per cento dei voti scrutinati, stando ai dati della Commissione elettorale centrale è in testa il partito del premier uscente Albin Kurti, Vetëvendosje (abbreviato in Vv, letteralmente “Autodeterminazione”), con il 41,05 per cento dei consensi espressi. Al secondo posto, con distacco, c’è il Partito democratico del Kosovo (Partia Demokratike e Kosovës, Pdk) al 22,26 per cento e, dietro, la Lega democratica del Kosovo (Lidhja Demokratike e Kosovës, Ldk) al 17,6 per cento. Si tratta di una flessione di oltre 9 punti per il Vv di centro-sinistra, mentre il Pdk e l’Ldk (i due principali soggetti del centro-destra) sono cresciuti entrambi di circa 5 punti percentuali. Il quarto partito, l’Alleanza per il futuro del Kosovo (Aleanca për Ardhmërinë e Kosovës, Aak), ha preso poco meno del 7,6 per cento, migliorando leggermente il risultato del 2021.Il primo ministro uscente del Kosovo, Albin Kurti (foto: Armend Nimani/Afp)Pallottoliere alla mano ciò significa che, al contrario di quanto avvenuto negli ultimi quattro anni, Kurti non potrà governare da solo nella nuova legislatura poiché il suo Vv arriverà ben distante dai 61 seggi necessari per ottenere la maggioranza assoluta sui 120 totali del Kuvendi, il Parlamento monocamerale kosovaro, e avrà dunque bisogno di appoggiarsi ad un altro partito per dar vita ad un esecutivo. Lui stesso l’ha riconosciuto implicitamente ieri sera, sottolineando che “la nostra coalizione vincente formerà il nuovo governo“.Kurti ha anche minimizzato la possibilità, ipotizzata da alcuni analisti, che le tre forze dell’opposizione possano unirsi per escludere il Vv dal governo: “È chiaro a chiunque che (il Pdk e l’Ldk, ndr) sono al secondo e al terzo posto e anche se si uniscono non possono competere con Vetëvendosje“, ha dichiarato. D’altro canto, il leader dell’Ldk Lumir Abdixhiku ha pubblicamente ammesso la sconfitta: “Anche se abbiamo avuto un aumento considerevole” dei consensi rispetto al 2021, “questo risultato non è soddisfacente“, ha osservato, assumendosi le responsabilità per “un risultato che rispettiamo”.Come da previsioni, infine, la Lista serba (Srpska lista, Sl) otterrà tutti e 10 i seggi che la Costituzione kosovara riserva alla minoranza serba nell’emiciclo. Sl è politicamente vicina alle autorità di Belgrado e al presidente Aleksandar Vučić, che sta attualmente fronteggiando un’ondata di proteste di portata storica ma si è comunque congratulato per il risultato elettorale del partito.Dalla consultazione emerge così un Paese nel limbo, in cui l’acuta polarizzazione politica genera una situazione di incertezza che potrebbe tramutarsi in uno stallo prolungato. La scorsa legislatura, dominata dal Vv di Kurti, è stata la prima nella (breve) storia della nazione balcanica ad essere durata per l’intero mandato di quattro anni, ma non è affatto scontato che quella nata dal voto di ieri riesca a rimanere in carica fino al 2029.Un sostenitore della Lista Srpska (foto: Armend Nimani/Afp)Tanto il Pdk quanto l’Ldk (che dovrebbero ottenere 45 seggi in tutto) hanno escluso di allearsi con il Vv per formare un esecutivo, ma nemmeno per loro sarebbe facile mettere insieme una coalizione sufficientemente ampia per governare escludendo il partito del premier uscente (che, insieme agli alleati, di seggi dovrebbe ottenerne 47).Soprattutto, il principale problema per il nuovo esecutivo – qualunque sia il suo colore politico – sarà quello delle relazioni con Belgrado, che in questi anni sono state piuttosto complicate a causa della posizione marcatamente nazionalista di Kurti. L’annosa questione della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Kosovo e Serbia rimane al primo posto nell’agenda internazionale di Pristina, e le pressioni per raggiungere qualche tipo di risultato aumenteranno nei prossimi mesi a causa anche del congelamento dei finanziamenti allo sviluppo statunitensi voluto dal nuovo presidente Donald Trump, i quali fornivano ossigeno all’economia stagnante del Paese balcanico. In un simile contesto, peraltro, il dialogo Pristina-Belgrado mediato dall’Ue è in panne da due anni.Come sottolineato da alcuni osservatori, del resto, le idee sul tavolo per la ripresa dei rapporti tra i due Stati – ad esempio la creazione di un’associazione di comuni a maggioranza serba nel Kosovo settentrionale, o lo scambio di terre ipotizzato dallo stesso presidente Usa – appaiono elettoralmente poco remunerative, e difficilmente i leader di qualunque partito si assumeranno la responsabilità di tradurle in realtà. Considerata l’instabilità politica emersa dalle urne e la possibilità della convocazione di elezioni anticipate nel breve periodo (dalle quali l’opposizione uscirebbe verosimilmente rafforzata), gli incentivi per progredire sulla strada della normalizzazione sembrano piuttosto scarsi.

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    L’Ue attende Trump sui dazi: “Finora solo dichiarazioni, risponderemo a notifiche ufficiali”

    Bruxelles – L’Unione europea attende gli Stati Uniti e il suo presidente, Donald Trump. Sui dazi minacciati contro beni Ue, l’esecutivo comunitario sceglie la linea del silenzio. “Non risponderemo ad annunci generici privi di dettagli o chiarimenti scritti“, spiega il comunicato ufficiale diramato a Bruxelles, dove si fa presente che “in questa fase non abbiamo ricevuto alcuna notifica ufficiale in merito all’imposizione di tariffe aggiuntive sui beni dell’Ue“, e che questo fa dunque fede. Si risponderà se e quando arriverà il momento, in sostanza. Lo spiega chiaramente Olof Gill, portavoce dell’esecutivo comunitario responsabile per il Commercio: “Stiamo ancora parlando di minacce, non c’è niente di concreto, nessun dazio è stato ancora imposto”. Per questa ragione la linea dell’esecutivo comunitario è di evitare di concentrarsi su un tema ammantato da troppi punti interrogativi. Certamente, riconosce Gill, eventuali tariffe “metterebbero in discussione relazioni tra partner” di lungo corso. Fermo restando, aggiunge, che con dazi ai prodotti Ue “gli Stati Uniti tasserebbero i propri cittadini, aumentando i costi per le imprese e alimentando l’inflazione”.Olof Gill, portavoce della Commissione europea responsabile per questioni di commercio [Bruxelles, 10 febbraio 2025]In ogni caso, ribadisce la Commissione europea, “reagiremo per proteggere gli interessi delle aziende, dei lavoratori e dei consumatori europei da misure ingiustificate”. In tal senso il team von der Leyen sottolinea che alla luce degli annunci privi di documenti di accompagnamento e così come raccontati tramite dichiarazioni pubbliche, “l’Ue non vede alcuna giustificazione per l’imposizione di tariffe sulle sue esportazioni“, anche perché la bilancia commerciale non è così sbilanciata come sostiene la Casa Bianca.Secondo la Commissione europea l’Ue ha un surplus commerciale di 154 miliardi di euro in beni con gli Stati Uniti, mentre gli Stati Uniti mantengono un surplus di 104 miliardi di euro in servizi con l’Ue, con un conseguente surplus commerciale complessivo dell’Ue del tre percento su un flusso commerciale totale di 1,5 trilioni di euro. Nel 2023, gli Usa erano il principale partner per le esportazioni di beni dell’Ue e il secondo partner per le importazioni di beni dell’Ue.

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    Kosovo, il voto di domenica è un referendum sul premier Kurti

    Bruxelles – Kosovo alle urne. Le elezioni di domenica prossima (9 febbraio) segnano un momento chiave nella vita politica della giovane nazione balcanica e rappresentano di fatto un referendum personale sul premier Albin Kurti, sfidato dalle opposizioni parlamentari che però restano disunite. L’esito dell’appuntamento elettorale determinerà con buona probabilità l’allineamento internazionale di Pristina per i prossimi anni, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con Belgrado.Il primo ministro uscente Albin Kurti è il primo ad essere arrivato a fine mandato da quando il Paese ha dichiarato la propria indipendenza dalla Serbia nel 2008. Quattro anni fa, nel febbraio 2021, il leader del Movimento per l’autodeterminazione (Vetëvendosje, Vv) di centro-sinistra aveva travolto gli avversari ottenendo a sorpresa più del 50 per cento dei consensi. E ora vuole ripetere il colpo.Kurti è accusato da più parti di non aver lavorato abbastanza per ottenere un più ampio riconoscimento diplomatico per il Kosovo, soprattutto a causa delle tensioni con la vicina Serbia, che anzi secondo i critici il capo del governo di Pristina avrebbe intenzionalmente rinfocolato nel corso del suo mandato. Ha bollato Belgrado come proxy di Mosca, e si è lamentato dell’atteggiamento occidentale nei confronti delle autorità serbe, giudicato eccessivamente accomodante. La sua campagna elettorale è incentrata principalmente sul contrasto alla corruzione, sulla piena indipendenza nazionale e sul muro contro muro con la Serbia.I suoi principali sfidanti sono Bedri Hamza, candidato del Partito democratico del Kosovo (Partia Demokratike e Kosovës, Pdk), e il leader della Lega democratica del Kosovo (Lidhja Demokratike e Kosovës, Ldk) Lumir Abdixhiku. I liberal-conservatori del Pdk, che quattro anni fa ha ottenuto il 17 per cento, stanno puntando in campagna elettorale sulle riforme economiche e la necessità di rafforzare le relazioni internazionali di Pristina. Un approccio più equilibrato ai rapporti con Belgrado è proposto anche dall’Ldk di centro-destra (12,7 per cento del voto popolare nel 2021), con Abdixhiku che sostiene la necessità di ricostruire la credibilità del Paese in generale e i legami con l’Occidente in particolare.Le proteste oceaniche in Serbia contro il presidente Aleksandar Vučić (foto: Tadija Anastasijevic/Afp)Stando ai sondaggi, il Vv di Kurti è ancora saldamente in testa alle intenzioni di voto, con un virtuale 52 per cento dei consensi, mentre il Pdk e l’Ldk arrancano alle sue spalle ad oltre 30 punti, collocandosi rispettivamente al 19 e 15 per cento. Le forze dell’opposizione, inclusa l’Alleanza per il futuro del Kosovo (Aleanca për Ardhmërinë e Kosovës, Aak) che si aggira sull’8 per cento, non sono finora riuscite a dare vita ad un fronte comune contro il premier uscente, data la rivalità che persiste tra i partiti.Ora, se il Vv non dovesse ottenere la maggioranza assoluta, dovrebbe formare una coalizione, e in tal caso una pedina di scambio cruciale potrebbe diventare la presidenza della Repubblica. Attualmente la carica è occupata da Vjosa Osmani, compagna di partito di Kurti, ma il suo mandato scadrà nell’aprile 2026.Dei 120 seggi al Kuvendi, il Parlamento monocamerale di Pristina, 20 sono riservati alle minoranze etniche, tra cui 10 per quella serba. Lo scorso dicembre, la Commissione elettorale centrale kosovara aveva bandito la Lista serba (Srpska lista) dalla competizione di dopodomani, ma la decisione è stata successivamente annullata dalla Commissione elettorale per i reclami (Pzap).L’appuntamento con le urne arriva in un momento di particolare tensione geopolitica internazionale, che si riflette anche nella regione. Oltre alle massicce proteste in corso in Serbia, dove centinaia di migliaia di cittadini stanno chiedendo le dimissioni del presidente Aleksandar Vučić, ad aggiungere incertezza nel contesto dei Balcani occidentali è anche la nuova linea assunta in politica estera dalla Casa Bianca dopo il ritorno di Donald Trump. Con la decisione shock di congelare le operazioni dell’Usaid in giro per il mondo, viene messa in forte discussione la presenza statunitense in questo angolo d’Europa, dove l’integrazione euro-atlantica ha storicamente avuto un ruolo chiave per contrastare l’influenza di altri attori, soprattutto della Russia di Vladimir Putin.Belgrade-Pristina Dialogue: @EUCouncil appoints Peter Sørensen as EU Special Representative @EUSR_Dialogue, replacing @MiroslavLajcak as of 1 Feb. for initial 13 months, to achieve comprehensive normalisation of the relations between Serbia & Kosovo(*)https://t.co/rnhXhRtrar— EU Council Press (@EUCouncilPress) January 27, 2025A fine gennaio il diplomatico danese Peter Sørensen è stato nominato nuovo rappresentante speciale Ue per il dialogo Belgrado-Pristina. Il processo è in stallo da tempo, date le mosse tutt’altro che distensive compiute dal governo kosovaro nei confronti della minoranza serba che abita nel nord del Paese, che hanno contribuito ad un generale irrigidimento delle relazioni.Tra gli Stati membri dell’Unione, sono in cinque a non aver ancora riconosciuto il Kosovo come Paese sovrano e indipendente: Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna. Attualmente, Pristina è considerata una “potenziale candidata” per l’adesione al club europeo, ma finora la linea intransigente di Kurti non ha fatto compiere progressi al Paese balcanico nel cammino per avvicinarsi a Bruxelles. In Kosovo è tuttora presente la missione Nato Kfor, cui partecipano anche militari italiani.

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    Georgia, nuovo richiamo Ue: “Ulteriore allontanamento da democrazia ed Europa”

    Bruxelles – Unione europea e Georgia sempre più distanti e sempre più ai ferri corti. “Stiamo assistendo a ulteriori passi di allontanamento delle autorità georgiane dagli standard democratici” e di conseguenza dall’Ue, la denuncia dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Kaja Kallas, in risposta agli ultimi sviluppi nel Paese caucasico a cui è stato congelato il processo di adesione proprio per effetto del deterioramento della situazione.“L’adozione affrettata di emendamenti al Codice sui reati amministrativi, al Codice penale e alla Legge sulle assemblee e le manifestazioni avrà effetti di vasta portata sulla società georgiana”, lamenta ancora Kallas. Questi interventi legislativi “comprometteranno in modo significativo i diritti alla libertà di espressione, alla libertà di riunione e alla libertà dei media”. Da qui la richiesta ufficiale al governo di Tblisi di “sospendere queste misure, ad astenersi da ulteriori tensioni e ad attendere il parere dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Osce (Odihr)“.L’Alto rappresentante lo ribadisce un volta di più: così facendo la Georgia si gioca le sue chance di adesione all’Unione europea. “Questi sviluppi segnano una grave battuta d’arresto per lo sviluppo democratico della Georgia e non sono all’altezza delle aspettative di un paese candidato all’Ue“, continua Kallas, che esorta anche a “rilasciare tutti i giornalisti, gli attivisti e i detenuti politici detenuti ingiustamente”. Tra questi anche Mzia Amaglobeli, considerato a Bruxelles “un altro esempio del modo in cui le autorità trattano i giornalisti e chiunque parli liberamente”. Dall’Ue un nuovo invito anche ad “un dialogo con tutte le forze politiche e i rappresentanti della società civile”. Le pressioni dell’Unione europea sulla Georgia continueranno. L’Aula del Parlamento europeo ha in calendario (giovedì 13 febbraio) il voto della risoluzione di condanna per la repressione delle manifestazioni anti-governative e le voci critiche nei confronti dell’attuale leadership georgiana. Un testo non vincolante, ma che serve a mantenere pressioni e distanze con un partner che non c’è più.