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    Il Consiglio dell’Ue spera in un nuovo Erdoğan per ridare vigore alle relazioni con la Turchia

    Bruxelles – Se il vicino di casa ingombrante rinnova l’affitto, tanto vale provare a distendere i rapporti. Con la rielezione di Recep Tayyip Erdoğan alla guida della Turchia, all’ultimo Consiglio Europeo Bruxelles ha reinserito nelle priorità le relazioni con Ankara. A maggior ragione dopo il – seppur timido – segnale lanciato dal presidente turco, che ritirando il veto sull’adesione della Svezia alla Nato ha aperto uno spiraglio su un riavvicinamento con Bruxelles.
    Se non si tratta ancora di riprendere le redini di un processo di adesione all’Unione Europea congelato da ormai cinque anni, i ministri degli Esteri dei Paesi membri Ue hanno comunque indicato i primi passi da compiere per rendere quell’orizzonte credibile. “Non si tratta solo di quello che l’Ue si aspetta dalla Turchia, ma anche di quello che la Turchia si aspetta dall’Ue”, ha dichiarato l’alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a margine del Consiglio Affari Esteri tenutosi oggi (20 luglio) a Bruxelles. Da un lato Erdogan mette sul tavolo la finalizzazione dell’accordo sull’Unione doganale e la liberalizzazione dei visti, dall’altro l’Ue chiede garanzie su “due aspetti fondamentali di questo tentativo di stabilire nuovamente una relazione costruttiva con la Turchia”: una de-escalation nel Mediterraneo orientale e un serio impegno a riprendere le negoziazioni per risolvere la questione della sovranità di Cipro, in linea con le risoluzioni delle Nazioni Unite sul tema.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (20 luglio 2023)
    Perché dal 2019 Ankara continua a mettere in discussione i confini greci – e di conseguenza le frontiere esterne dell’Unione – a sud dell’isola di Creta. L’ultimo episodio di tensione risale all’ottobre dello scorso anno, quando la Turchia ha siglato un nuovo accordo preliminare sull’esplorazione energetica con la Libia e “le navi da guerra turche hanno ostacolato illegalmente le attività di rilevamento nella zona economica esclusiva cipriota”. Ma soprattutto perché dal 2017 sono fermi i tentativi di risolvere la controversia sulla divisione dell’isola di Cipro, dove solo la Turchia riconosce l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord. Come ricordato dal ministro degli Esteri cipriota, Constantinos Kombos, proprio oggi cade il 49esimo anniversario dell’invasione turca dell’isola. “Le aspirazione turche passano da Cipro, ci aspettiamo la ripresa rapida di negoziati sostanziali”, ha avvisato il ministro.
    Da riscrivere non c’è solo il capitolo sulle relazioni esterne e l’aggressiva politica estera portata avanti dalla Turchia nel Mediterraneo. Per rilanciare i negoziati per l’adesione all’Ue sarà essenziale anche il rispetto delle libertà e dei valori fondamentali definiti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo, di cui tra l’altro – ha ricordato Borrell – Ankara fa parte. Sulle violazioni dei diritti umani e dello stato di diritto si è espresso con toni durissimi il Parlamento europeo che, proprio in vista della riunione dei ministri di oggi, aveva messo in chiaro che “il processo di adesione non può riprendere, a meno che non ci sia un drastico cambio di rotta da parte del governo turco”, mentre si può ragionare su formule diverse come “partenariato più stretto” o “quadro parallelo e realistico per le relazioni Ue-Turchia”.
    Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan
    Il quadro più pragmatico è quello fornito dalla ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, secondo cui “dopo le elezioni turche, è importante riflettere ancora una volta su come continueremo a lavorare insieme non a un semplice vicino ma a un attore globale strategicamente importante”. Senza essere “ingenui”, ma tenendo a mente che “in questi tempi geopoliticamente difficili vogliamo lavorare insieme a un partner chiave nella nostra regione, anche se non è sempre facile”. Approccio condiviso dal vicepremier italiano, Antonio Tajani, che sottolineando “i tanti interessi economici” di Roma nel Paese ha suggerito di “discutere con spirito positivo per costruire”.

    I 27 ministri degli Esteri convinti “dell’interesse reciproco” su rapporti costruttivi con Ankara. Sul piatto la revisione dell’accordo sull’Unione doganale e la liberalizzazione dei visti, a patto che il presidente avvii una de-escalation nel Mediterraneo orientale e riprenda i negoziati con Cipro

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    Il dossier Turchia torna sul tavolo dei ministri Ue degli Esteri dopo il vertice dei 27 leader e le minacce di Erdoğan

    Bruxelles – Dopo le sbandate a margine del summit Nato a Vilnius, è tempo di fare ordine a Bruxelles. Il dossier Turchia torna sul tavolo del Consiglio Affari Esteri, per fare un punto della situazione dei rapporti tra l’Unione e Ankara, alla luce non solo delle conclusioni dell’ultimo vertice dei leader Ue, ma soprattutto delle piccole crepe emerse tra Consiglio e Commissione di fronte alle minacce – poi ritirate – del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, di vincolare l’adesione della Svezia alla Nato solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea.
    Da sinistra: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoǧan, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Nell’agenda delle discussioni in programma domani (20 luglio) tra i 27 ministri Ue degli Esteri è previsto verso ora di pranzo uno scambio di vedute sulle relazioni Ue-Turchia, considerata la necessità di muoversi in modo “strategico e lungimirante”. Il punto di partenza saranno le conclusioni dell’ultimo Consiglio Europeo del 29-30 giugno che – nel paragrafo dedicato al Mediterraneo orientale – invitavano l’alto rappresentante Ue e la Commissione a “presentare al Consiglio Europeo una relazione sulla situazione delle relazioni Ue-Turchia” in linea con le direttrici tracciate già nel 2021 dai Ventisette. L’Ue rimane impegnata a cercare di compiere progressi “nei settori in cui è possibile”, precisano funzionari europei, e le discussioni di domani andranno alla ricerca degli interessi comuni (anche alla luce delle recenti elezioni vinte di nuovo da Erdoğan) per provare a “colmare le lacune” esistenti.
    È proprio qui che si inserisce il punto più delicato: lo stallo ormai quinquennale del processo di adesione di Ankara all’Ue. Una questione che ha creato non pochi imbarazzi tra i leader delle istituzioni comunitarie, quando la scorsa settimana al summit Nato di Vilnius è tornata di strettissima attualità per il quasi ricatto (inaspettato) da parte dell’autocrate turco. Nonostante nella serata del 10 luglio alla fine sia stata trovata un’intesa all’ultimo minuto tra Ankara e Stoccolma per l’ingresso del Paese scandinavo nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, la minaccia di Erdoğan di voler legare i due processi l’uno all’altro – e dunque di ricattare Bruxelles per un’accelerazione dei negoziati di adesione Ue – ha aperto qualche divisione tra Consiglio e Commissione. Da una parte il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, dopo il bilaterale con l’uomo forte di Ankara ha fatto sapere che l’intenzione è quella di “rivitalizzare le nostre relazioni“, dall’altra l’esecutivo comunitario ha risposto seccamente che “non si possono collegare i due processi“.
    Da sinistra: il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, a Vilnius (10 luglio 2023)
    Anche se il dossier Turchia era da tempo nell’agenda del Consiglio Affari Esteri del 20 luglio, è inevitabile che questi sviluppi avranno un impatto sulle discussioni dei 27 ministri. Perché se è vero che la Turchia “è un partner fondamentale” per l’Unione Europea (in particolare per la politica migratoria di esternalizzazione delle persone migranti in arrivo), allo stesso tempo a Bruxelles non si può negare che “nelle attuali circostanze” i negoziati di adesione di Ankara all’Unione “si sono arenati”, ribadiscono le fonti. Durissimo è invece il Parlamento Europeo che, in vista della riunione dei ministri degli Affari Esteri di domani, ha messo in chiaro che “il processo di adesione non può riprendere, a meno che non ci sia un drastico cambio di rotta da parte del governo turco”, mentre si può ragionare su formule diverse come “partenariato più stretto” o “quadro parallelo e realistico per le relazioni Ue-Turchia”.
    La Turchia nel Pacchetto Allargamento Ue 2022
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei “continui gravi passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura”, come ripete dal 2020 il commissario responsabile per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Lo stato dei rapporti tra Bruxelles e Ankara – per quanto riguarda il percorso di avvicinamento del Paese del Vicino Oriente all’Unione – è definito nel Pacchetto annuale sull’allargamento (pubblicato ogni autunno dalla Commissione Ue), come tutti i Paesi terzi candidati o che hanno fatto richiesta di adesione. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultima relazione presentata nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”.
    Le questioni riguardano sia gli affari interni, sia le relazioni con l’Unione. “Il funzionamento delle istituzioni democratiche turche presenta gravi carenze”, si legge nel rapporto dell’esecutivo comunitario, con un chiaro riferimento alle politiche di Erdoǧan: “L’architettura costituzionale ha continuato ad accentrare i poteri a livello della Presidenza senza garantire una solida ed efficace separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario” e in assenza di un meccanismo di pesi e contrappesi “la responsabilità democratica del ramo esecutivo continua a essere limitata alle elezioni” (appena vinte dal leader al potere da 20 anni). La magistratura continua a prendere “sistematicamente” di mira i membri dei partiti di opposizione, mentre la democrazia locale nel Sud-est (dove vive una consistente minoranza curda) è “gravemente” ostacolata. La supervisione civile delle forze di sicurezza “non è stata consolidata” e non sono stati registrati progressi nel campo della riforma della pubblica amministrazione e della lotta anti-corruzione.
    Critico il rispetto dei diritti umani, con molte delle misure introdotte durante lo stato di emergenza del 2018 che rimangono in vigore: “La procedura d’infrazione avviata dal Consiglio d’Europa nel febbraio 2022 ha segnato l’ennesimo punto di riferimento dell’allontanamento della Turchia dagli standard per i diritti umani e le libertà fondamentali“. Un “grave arretramento” è stato registrato anche per la libertà d’espressione, considerate le cause penali e le condanne di “giornalisti, difensori dei diritti umani, avvocati, scrittori, politici dell’opposizione, studenti, artisti e utenti dei social media”, così come per la libertà di riunione e associazione. Fonte di “grave preoccupazione” è anche la violenza di genere, la discriminazione e i discorsi di odio contro le minoranze, in particolare quella Lgbtq+.
    Considerata la volontà di Ankara di modernizzare l’Unione doganale con l’Ue, spicca la poca preparazione sul “corretto funzionamento dell’economia di mercato turca” e l’inflazione ormai alle stelle, ma soprattutto le “ampie deviazioni dagli obblighi assunti” che “ostacolano gli scambi bilaterali”. Sono in “fase iniziale” i preparativi nei settori della libera circolazione dei lavoratori, del diritto di stabilimento e della libera prestazione di servizi, mentre “è proseguito l’arretramento della politica economica e monetaria, che riflette una politica inefficiente nel garantire la stabilità dei prezzi e nell’ancorare le aspettative di inflazione”. Al tema economico si connette anche la questione della guerra russa in Ucraina, nonostante il ruolo importante giocato da Ankara nello sblocco del grano ucraino e nella condanna dell’invasione: “Il mancato allineamento della Turchia alle misure restrittive dell’Ue” contro il Cremlino pone gravi problemi alla libera circolazione dei prodotti all’interno dell’Unione doganale, dal momento in cui “comporta il rischio di compromettere” le sanzioni Ue per i beni a duplice uso.
    Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan
    Durissimo il capitolo sulle relazioni esterne. “La politica estera unilaterale della Turchia ha continuato a essere in contrasto con le priorità dell’Ue”, in particolare per le azioni militari in Siria e Iraq e per il dispiegamento di soldati in Libia. A questo si somma la questione della delimitazione delle aree marittime nel Mediterraneo, con Ankara che dal 2019 continua a mettere in discussione i confini greci – e di conseguenza le frontiere esterne dell’Unione – a sud dell’isola di Creta. L’ultimo episodio di tensione risale all’ottobre dello scorso anno, quando Ankara ha siglato un nuovo accordo preliminare sull’esplorazione energetica con la Libia e “le navi da guerra turche hanno ostacolato illegalmente le attività di rilevamento nella zona economica esclusiva cipriota”. Nel contesto mediterraneo si inserisce anche la controversia diplomatica più che quarantennale sulla divisione dell’isola di Cipro, dove solo la Turchia riconosce l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord e dal 2017 sono fermi i tentativi di compromesso.
    Ultimo, ma non per importanza, il file sulla politica migratoria e l’asilo. Nonostante il quadro di rapporti tesi tra Bruxelles e Ankara, nel marzo 2016 il leader turco è riuscito a far pesare il proprio potere negoziale nell’accordo stretto tra l’Ue e la Turchia per bloccare e accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani in fuga dalla guerra in cambio di finanziamenti comunitari: “Del bilancio operativo completo di 6 miliardi di euro nell’ambito dello strumento per i rifugiati, oltre 4,7 miliardi di euro sono stati erogati entro giugno 2022“, ha reso noto la Commissione. Tuttavia per Bruxelles rimangono criticità sia sull’attuazione delle disposizioni sui cittadini di Paesi terzi contenute nell’accordo di riammissione Ue-Turchia, sia il rispetto dei parametri per la liberalizzazione dei visti ancora lontano.

    Nell’agenda del Consiglio Affari Esteri del 20 luglio è previsto anche uno scambio di vedute sul rapporto tra l’Unione e Ankara, in particolare sul processo di allargamento e sul modo di procedere “strategico e lungimirante”. Pesano gli sviluppi al margine del summit Nato a Vilnius

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    Le minacce di Erdoğan sull’adesione Ue della Turchia dividono Bruxelles. La Commissione frena, il Consiglio apre

    Bruxelles – Le minacce del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, di sbloccare lo stallo sull’adesione della Svezia alla Nato solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea alla fine hanno avuto qualche effetto. Nonostante nella serata di ieri (10 luglio) sia stata trovata un’intesa all’ultimo minuto tra Ankara e Stoccolma prima del vertice Nato in programma tra oggi e domani a Vilnius per l’ingresso del Paese scandinavo nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, il quasi ricatto di Erdoğan ha messo in luce qualche crepa tra le istituzioni comunitarie nell’approccio al percorso di avvicinamento della Turchia all’Unione. In particolare tra Consiglio e Commissione.
    Da sinistra: il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, a Vilnius (10 luglio 2023)
    A mostrare che non c’è totale allineamento tra l’istituzione presieduta dal belga Charles Michel e quella guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen sono state le dichiarazioni a sorpresa del primo, al termine di un incontro a Vilnius con il presidente turco a poche ore dalle minacce su un possibile legame tra il percorso di adesione della Svezia nella Nato e quello della Turchia nell’Ue. “Abbiamo esplorato le opportunità per riportare la cooperazione Ue-Turchia in primo piano”, ha reso noto il numero uno del Consiglio al termine del bilaterale, utilizzando l’espressione controversa “rivitalizzare le nostre relazioni” per riferirsi al rilancio del dialogo tra le due parti. Che non si tratti solo di parole di circostanza lo dimostrerebbe la precisazione fatta dallo stesso Michel che coinvolge anche la Commissione: “Il Consiglio Europeo ha invitato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza [Josep Borrell, ndr] e la Commissione Europea a presentare un rapporto per procedere in modo strategico e lungimirante“. La prossima settimana i ministri degli Esteri Ue si riuniranno per discutere anche delle relazioni tra Ue e Turchia (già in programma da tempo nell’agenda del Consiglio Affari Esteri).
    Non è chiaro al momento se il presidente Michel si sia consultato con i Ventisette e con von der Leyen prima dell’incontro con Erdoğan, né il valore concreto delle sue promesse in relazione allo sblocco dell’adesione della Svezia alla Nato. Sta di fatto che solo poche ore prima era arrivata dalla Commissione una risposta gelida all’indirizzo di Ankara: “I due processi che avvengono in parallelo – l’adesione di nuovi membri alla Nato e il processo di allargamento dell’Unione Europea – sono separati“, ha messo in chiaro la portavoce dell’esecutivo comunitario, Dana Spinant. L’Unione ha un processo di allargamento “molto strutturato” e misure “molto chiare”, che sono richieste a “tutti i Paesi candidati e anche quelli che desiderano diventarlo”, è stata la netta precisazione sul fatto che “non si possono collegare i due processi“.
    Da sinistra: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoǧan, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, a Vilnius (10 luglio 2023)
    Alcuni interrogativi su cosa abbia promesso Michel a Erdoğan si sono però sollevati a Bruxelles, dal momento in cui la decisione della Turchia di togliere il veto all’adesione della Svezia alla Nato è arrivata a stretto giro dal bilaterale con il numero uno del Consiglio Ue. Da tenere in considerazione c’è anche una condizione stabilita dall’accordo tra Turchia e Svezia proprio nel trilaterale con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il primo ministro svedese, Ulf Kristersson, in cui è stato sbloccato l’ingresso del nuovo membro nell’Alleanza Atlatica. Considerate le minacce di Erdoǧan, la risposta piccata della Commissione e il tweet di Michel, non è di poco conto il passaggio sul sostegno “attivo” che la Svezia si è impegnata ad assumere per “rinvigorire il processo di adesione della Turchia all’Unione Europea, compresa la modernizzazione dell’Unione doganale Ue-Turchia e la liberalizzazione dei visti“.
    La Turchia nel Pacchetto Allargamento Ue 2022
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei “continui gravi passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura”, come ripete dal 2020 il commissario responsabile per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Lo stato dei rapporti tra Bruxelles e Ankara – per quanto riguarda il percorso di avvicinamento del Paese del Vicino Oriente all’Unione – è definito nel Pacchetto annuale sull’allargamento (pubblicato ogni autunno dalla Commissione Ue), come tutti i Paesi terzi candidati o che hanno fatto richiesta di adesione. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultima relazione presentata nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”.
    Le questioni riguardano sia gli affari interni, sia le relazioni con l’Unione. “Il funzionamento delle istituzioni democratiche turche presenta gravi carenze”, si legge nel rapporto dell’esecutivo comunitario, con un chiaro riferimento alle politiche di Erdoǧan: “L’architettura costituzionale ha continuato ad accentrare i poteri a livello della Presidenza senza garantire una solida ed efficace separazione dei poteri tra esecutivo, legislativo e giudiziario” e in assenza di un meccanismo di pesi e contrappesi “la responsabilità democratica del ramo esecutivo continua a essere limitata alle elezioni” (appena vinte dal leader al potere da 20 anni). La magistratura continua a prendere “sistematicamente” di mira i membri dei partiti di opposizione, mentre la democrazia locale nel Sud-est (dove vive una consistente minoranza curda) è “gravemente” ostacolata. La supervisione civile delle forze di sicurezza “non è stata consolidata” e non sono stati registrati progressi nel campo della riforma della pubblica amministrazione e della lotta anti-corruzione.
    Critico il rispetto dei diritti umani, con molte delle misure introdotte durante lo stato di emergenza del 2018 che rimangono in vigore: “La procedura d’infrazione avviata dal Consiglio d’Europa nel febbraio 2022 ha segnato l’ennesimo punto di riferimento dell’allontanamento della Turchia dagli standard per i diritti umani e le libertà fondamentali“. Un “grave arretramento” è stato registrato anche per la libertà d’espressione, considerate le cause penali e le condanne di “giornalisti, difensori dei diritti umani, avvocati, scrittori, politici dell’opposizione, studenti, artisti e utenti dei social media”, così come per la libertà di riunione e associazione. Fonte di “grave preoccupazione” è anche la violenza di genere, la discriminazione e i discorsi di odio contro le minoranze, in particolare quella Lgbtq+.
    Al centro: l’autocrate russo, Vladimir Putin, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, all’inaugurazione del gasdotto TurkStream nel 2020
    Considerata la volontà di Ankara di modernizzare l’Unione doganale con l’Ue, spicca la poca preparazione sul “corretto funzionamento dell’economia di mercato turca” e l’inflazione ormai alle stelle, ma soprattutto le “ampie deviazioni dagli obblighi assunti” che “ostacolano gli scambi bilaterali”. Sono in “fase iniziale” i preparativi nei settori della libera circolazione dei lavoratori, del diritto di stabilimento e della libera prestazione di servizi, mentre “è proseguito l’arretramento della politica economica e monetaria, che riflette una politica inefficiente nel garantire la stabilità dei prezzi e nell’ancorare le aspettative di inflazione”. Al tema economico si connette anche la questione della guerra russa in Ucraina, nonostante il ruolo importante giocato da Ankara nello sblocco del grano ucraino e nella condanna dell’invasione: “Il mancato allineamento della Turchia alle misure restrittive dell’Ue” contro il Cremlino pone gravi problemi alla libera circolazione dei prodotti all’interno dell’Unione doganale, dal momento in cui “comporta il rischio di compromettere” le sanzioni Ue per i beni a duplice uso.
    Durissimo il capitolo sulle relazioni esterne. “La politica estera unilaterale della Turchia ha continuato a essere in contrasto con le priorità dell’Ue”, in particolare per le azioni militari in Siria e Iraq e per il dispiegamento di soldati in Libia. A questo si somma la questione della delimitazione delle aree marittime nel Mediterraneo, con Ankara che dal 2019 continua a mettere in discussione i confini greci – e di conseguenza le frontiere esterne dell’Unione – a sud dell’isola di Creta. L’ultimo episodio di tensione risale all’ottobre dello scorso anno, quando Ankara ha siglato un nuovo accordo preliminare sull’esplorazione energetica con la Libia e “le navi da guerra turche hanno ostacolato illegalmente le attività di rilevamento nella zona economica esclusiva cipriota”. Nel contesto mediterraneo si inserisce anche la controversia diplomatica più che quarantennale sulla divisione dell’isola di Cipro, dove solo la Turchia riconosce l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord e dal 2017 sono fermi i tentativi di compromesso.
    Da sinistra: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoǧan, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Ultimo, ma non per importanza, il file sulla politica migratoria e l’asilo. Nonostante il quadro di rapporti tesi tra Bruxelles e Ankara, nel marzo 2016 il leader turco è riuscito a far pesare il proprio potere negoziale nell’accordo stretto tra l’Ue e la Turchia per bloccare e accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani in fuga dalla guerra in cambio di finanziamenti comunitari: “Del bilancio operativo completo di 6 miliardi di euro nell’ambito dello strumento per i rifugiati, oltre 4,7 miliardi di euro sono stati erogati entro giugno 2022“, ha reso noto la Commissione. Tuttavia per Bruxelles rimangono criticità sia sull’attuazione delle disposizioni sui cittadini di Paesi terzi contenute nell’accordo di riammissione Ue-Turchia, sia il rispetto dei parametri per la liberalizzazione dei visti ancora lontano.

    Prima di sbloccare l’ingresso Nato della Svezia, il presidente turco aveva annunciato di volerlo legare al processo di allargamento dell’Unione ad Ankara. Gelida la risposta dal Berlaymont, ma il leader del Consiglio Ue, Charles Michel, ha chiesto un piano per “rivitalizzare le nostre relazioni”

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    L’intesa sul suono della sirena. Erdoğan dà il via libera alla Svezia nella Nato prima del vertice di Vilnius

    Bruxelles – Quando ormai sembrava tutto destinato a slittare dopo il vertice Nato di Vilnius, lo stallo sull’adesione della Svezia all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord si è sbloccato sul suono della sirena, la notte prima dell’inizio del summit nella capitale lituana. Dopo aver minacciato (solo 24 ore fa) di voler legare il percorso di allargamento della Nato a quello di adesione della Turchia all’Unione Europea, il presidente turco Recep Tayyip Erdoǧan, ha dato il via libera all’ingresso di Stoccolma nell’Alleanza Atlantica nel corso di un trilaterale risolutorio voluto dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, insieme al primo ministro svedese, Ulf Kristersson.
    Da sinistra: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoǧan, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, a Vilnius (10 luglio 2023)
    “Sono lieto di annunciare che dopo l’incontro che ho ospitato, il presidente Erdoǧan ha accettato di trasmettere il protocollo di adesione della Svezia alla Grande Assemblea Nazionale il prima possibile e di assicurarne la ratifica“, ha reso noto con un tweet il segretario generale Stoltenberg nella serata di ieri (10 luglio), parlando di “un passo storico che rende tutti gli alleati della Nato più forti e sicuri”. Con l’ingresso di Stoccolma nell’Alleanza, i Paesi membri saliranno a 32 (la Finlandia è già entrata lo scorso 4 aprile). La base di partenza delle discussioni sono stati i progressi svedesi proprio secondo la lista di condizioni definite il 29 giugno dello scorso anno nel memorandum tra Stoccolma, Ankara e Helsinki: emendamenti alla Costituzione, rafforzamento delle leggi anti-terrorismo, ripresa delle esportazioni di armi verso la Turchia, ampliamento della cooperazione con Ankara sulla lotta antiterrorismo contro il movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Considerato tutto questo lavoro, “Svezia e Turchia hanno concordato di stabilire un nuovo Patto di sicurezza bilaterale“.
    L’ennesimo sgarbo di Erdoǧan all’autocrate russo Vladimir Putin sul piano militare (il primo è stato un’apertura netta all’adesione dell’Ucraina alla Nato alla vigilia del vertice di Vilnius) si basa su un accordo di cooperazione “sia nell’ambito del Meccanismo congiunto trilaterale permanente” con la Finlandia istituito a Madrid, “sia nell’ambito di un nuovo Patto di sicurezza bilaterale che si riunirà annualmente a livello ministeriale e creerà gruppi di lavoro a seconda delle necessità“. Secondo quanto messo nero su bianco dalle due parti, nel corso della prima riunione Stoccolma presenterà una tabella di marcia “come base della sua lotta continua contro il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni verso la piena attuazione di tutti gli elementi” del memorandum: “La Svezia ribadisce che non fornirà sostegno alle Unità di Protezione Popolare (Ypg) e al Partito dell’Unione Democratica (Pyd) curdi e all’organizzazione movimento di Gülen (Fetö)”. Sempre sul piano della lotta anti-terrorismo – “che continuerà anche dopo l’adesione della Svezia alla Nato” – il segretario generale Stoltenberg ha promesso di istituire all’interno dell’Alleanza la nuova carica di Coordinatore speciale per la lotta al terrorismo.
    Tra le condizioni stabilite nel corso della riunione-fiume di ieri, è di non poca importanza – considerate le minacce di ieri di Erdoǧan e la risposta piccata della Commissione Europea – il passaggio sul sostegno “attivo” della Svezia a “rinvigorire il processo di adesione della Turchia all’Unione Europea, compresa la modernizzazione dell’Unione doganale Ue-Turchia e la liberalizzazione dei visti”. Stoccolma e Ankara si sono poi impegnate a “eliminare restrizioni, barriere o sanzioni al commercio e agli investimenti nel settore della difesa” tra gli alleati e hanno concordato di “intensificare la cooperazione economica” attraverso il Comitato economico e commerciale misto turco-svedese (Jetco): “Sia la Turchia sia la Svezia cercheranno di massimizzare le opportunità per aumentare gli scambi e gli investimenti bilaterali”. Messo infine sulla carta – come annunciato da Stoltenberg – il passaggio del Protocollo di adesione Nato della Svezia alla Grande Assemblea Nazionale turca, con l’impegno dell’uomo forte di Ankara di “lavorare a stretto contatto” per garantirne la ratifica. “Un passo storico a Vilnius, accolgo con favore l’importante passo che la Turchia ha promesso di compiere, ratificando l’adesione della Svezia alla Nato”, ha commentato su Twitter la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.
    Il veto di Erdoğan alla Svezia nella Nato
    La Svezia – insieme alla Finlandia – ha presentato domanda di adesione alla Nato nel maggio dello scorso anno, dando seguito alla più grande svolta strategica storica nella propria politica di sicurezza nazionale in risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. A sbarrare la strada a un percorso che sembrava essere destinato a procedere in modo spedito è stato proprio Erdoğan, a causa dei rapporti tesi sulla repressione della minoranza curda in Turchia. Le tensioni con Stoccolma e Helsinki sembravano essere diminuite con la firma del memorandum d’intesa alla vigilia del vertice di Madrid del 29 giugno 2022, in cui sono state definite le condizioni per lo sblocco dell’allargamento della Nato ai due Paesi scandinavi: tra queste in particolare le richieste di estradare i membri del movimento politico-militare curdo del Pkk.
    Da sinistra: il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan (credits: Adem Altan / Afp)
    La posizione irremovibile del leader turco non ha però portato a sostanziali progressi nella seconda metà dell’anno, in particolare per quanto riguarda la Svezia. Il punto più basso dei rapporti con gli altri alleati è stato raggiunto in occasione del via libera alla richiesta della Finlandia, quando è stato ribadito lo stop a Stoccolma: in questo modo è sfumato l’ingresso congiunto dei due Paesi scandinavi nell’Alleanza Atlantica nello stesso giorno. Il leader turco – fresco vincitore delle elezioni presidenziali di maggio – ha continuato a sostenere che il governo svedese non stesse facendo abbastanza contro quelli che Ankara definisce terroristi. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan è considerato un’organizzazione terroristica anche dall’Unione Europea – di cui Finlandia e Svezia fanno parte – ma l’attribuzione è controversa proprio per le persecuzioni messe in atto dal regime turco. Le minacce di ieri di Erdoğan sembravano far presagire il peggio, fino all’incontro risolutorio in serata che ha definitivamente spalancato le porte a Stoccolma per l’ingresso nell’Alleanza.
    Come si entra nella Nato
    Per diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.
    La procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.
    Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

    In un trilaterale con il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, e il premier svedese, Ulf Kristersson, il leader turco ha sbloccato lo stallo sull’adesione di Stoccolma, promettendo che trasmetterà il protocollo alla Grande Assemblea Nazionale per la ratifica

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    Stoltenberg spera nell’ingresso Nato della Svezia al vertice di Vilnius. Ma Erdoğan lo lega all’adesione Ue della Turchia

    Bruxelles – Una mossa a sorpresa, che sa di ricatto a due organizzazioni, una a cui appartiene a l’altra a cui vorrebbe aderire. Alla vigilia del vertice Nato di Vilnius il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha aggiunto una mezza minaccia alla propria opposizione all’ingresso della Svezia nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord: “Prima si aprano le porte alla Turchia verso l’Ue, poi apriremo la strada alla Svezia nella Nato come abbiamo fatto con la Finlandia”. Due processi che non hanno nulla a che fare uno con l’altro, ma che il leader turco sta cercando di collegare per aumentare il proprio potere negoziale con Bruxelles, sfruttando l’arma del veto che gli permette di continuare a tenere in ostaggio la richiesta di adesione svedese all’Alleanza Atlantica.
    Sbloccare il processo di adesione Ue per la Turchia nella speranza che la Nato possa portare a termine l’allargamento iniziato un anno fa al vertice di Madrid. Finora il veto di Erdoğan – che ha di fatto impedito al Parlamento turco di ratificare la richiesta di Stoccolma, come previsto dalla procedura per l’ingresso di un nuovo membro nell’Alleanza – è sempre stato legato alla questione curda. È per questo motivo che la nuova rivendicazione dell’autocrate turco ha spiazzato entrambe le organizzazioni, sia la Nato sia l’Unione Europea: “Sostengo le ambizioni della Turchia di diventare membro dell’Unione Europea, ma allo stesso tempo dobbiamo ricordare che la Svezia ha rispettato le condizioni concordate a Madrid“, ha voluto sottolineare alla stampa nel pre-vertice di Vilnius il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, a proposito della lista di richieste fatte a Stoccolma nella riunione dei leader della Nato del 2022: “Si trattava di rimuovere le restrizioni sull’export di armi, rafforzare la cooperazione con la Turchia per combattere il terrorismo, cambiare la Costituzione e rafforzare le leggi anti-terrorismo, e tutto questo la Svezia l’ha fatto”. Ecco perché – nonostante il nuovo ricatto di Erdoğan – il segretario generale Stoltenberg si mostra ancora positivo sull’ingresso della Svezia alla Nato: “È ancora possibile avere una decisione positiva, sfrutteremo lo slancio del vertice per garantire quanti più progressi possibili”.
    Non poteva essere più netta la risposta da Bruxelles. “I due processi che avvengono in parallelo – l’adesione di nuovi membri alla Nato e il processo di allargamento dell’Unione Europea – sono separati“, ha messo in chiaro la portavoce della Commissione Ue, Dana Spinant, nel corso del punto quotidiano con la stampa di Bruxelles. L’Unione ha un processo di allargamento “molto strutturato” e misure “molto chiare”, che sono richieste a “tutti i Paesi candidati e anche quelli che desiderano diventarlo”, ha aggiunto la portavoce dell’esecutivo comunitario, ribadendo con fermezza che “non si possono collegare i due processi“. Anche il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha voluto ricordare nella sua conferenza pre-vertice di Vilnius che non esistono legami tra i due allargamenti: “Non va considerato come un argomento correlato” e – fatta eccezione per le resistenze di Erdoğan – “nulla ostacola l’adesione della Svezia alla Nato”.
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati avviati nel 2005 durante il primo mandato di Erdoğan come primo ministro, ma ormai da anni sono “a un punto morto” a causa dei “continui gravi passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura”, ripete dal 2020 il commissario responsabile per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Nonostante il quadro di rapporti tesi tra Bruxelles e Ankara, nel marzo 2016 il leader turco è riuscito a far pesare il proprio potere negoziale nell’accordo stretto tra l’Ue e la Turchia per bloccare e accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani in fuga dalla guerra in cambio di finanziamenti comunitari.
    Il veto di Erdoğan alla Svezia nella Nato
    La Svezia – insieme alla Finlandia – ha presentato domanda di adesione alla Nato nel maggio dello scorso anno, dando seguito alla più grande svolta strategica storica nella propria politica di sicurezza nazionale in risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. A sbarrare la strada a un percorso che sembrava essere destinato a procedere in modo spedito è stato proprio Erdoğan, a causa dei rapporti tesi sulla repressione della minoranza curda in Turchia. Le tensioni con Stoccolma e Helsinki sembravano essere diminuite con la firma del memorandum d’intesa alla vigilia del vertice di Madrid del 29 giugno 2022, in cui sono state definite le condizioni per lo sblocco dell’allargamento della Nato ai due Paesi scandinavi: tra queste in particolare le richieste di estradare i membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan).
    Da sinistra: il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan (credits: Adem Altan / Afp)
    La posizione irremovibile del leader turco non ha però portato a sostanziali progressi nella seconda metà dell’anno, in particolare per quanto riguarda la Svezia. Il punto più basso dei rapporti con gli altri leader Nato e Ue è stato raggiunto in occasione del via libera alla richiesta della Finlandia, quando è stato ribadito lo stop a Stoccolma: in questo modo è sfumato l’ingresso congiunto dei due Paesi scandinavi nell’Alleanza Atlantica nello stesso giorno (il 4 aprile 2023). Il leader turco – fresco vincitore delle elezioni presidenziali di maggio – continua a sostenere che la Svezia non stia facendo abbastanza contro quelli che Ankara definisce terroristi. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan è considerato un’organizzazione terroristica anche dall’Unione Europea – di cui Finlandia e Svezia fanno parte – ma l’attribuzione è controversa proprio per le persecuzioni messe in atto dal regime turco. Nel pomeriggio di oggi si svolgerà un vertice trilaterale tra Erdoğan, Stoltenberg e il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, per cercare un punto d’intesa prima del vertice di Vilnius. Che è sempre più distante dopo l’ultimo ricatto dell’uomo forte di Ankara.

    Alla vigilia della riunione dei 31 leader dell’Alleanza Atlantica in Lituania, il segretario generale ricorda che Stoccolma “ha rispettato le condizioni concordate a Madrid”. Da Bruxelles i portavoce della Commissione respingono il ricatto inaspettato del presidente turco: “Sono processi separati”

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    Che cosa implicano le misure “temporanee e reversibili” (e non trasparenti) della Commissione Ue contro il Kosovo

    Bruxelles – Non una comunicazione, non una nota, non una pubblicazione scritta. Le misure “temporanee e reversibili” – perché la Commissione Europea è attenta che nessuno le chiami sanzioni – contro il Kosovo sono tutto fuorché trasparenti e solo analizzando pazientemente le parole dei funzionari e mettendo in fila i commenti rilasciati dai portavoce si può arrivare a ricostruire a grandi linee di cosa si tratta nel concreto. E di come l’azione di Bruxelles abbia un peso specifico – che va ben oltre le sole parole e minacce – al momento concentrato quasi solo su Pristina.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (22 giugno 2023)
    “La Commissione adotterà una serie di misure che saranno comunicate formalmente nel corso della settimana”, aveva annunciato martedì scorso (27 giugno) il direttore generale di Dg Near (direzione generale della Commissione responsabile per la Politica di vicinato e negoziati di allargamento), Gert Jan Koopman, nel corso di un’audizione alla commissione per gli Affari esteri (Afet) del Parlamento Ue. Misure comunicate effettivamente il 28 giugno al Kosovo – come ha reso noto a Eunews il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano – ma che non sono in nessun modo disponibili sul sito dell’esecutivo comunitario per la consultazione pubblica. “Voglio sottolineare molto chiaramente che non prendiamo queste azioni alla leggera e che devono essere viste come temporanee e reversibili, a seconda dei passi credibili, decisivi e tempestivi che ci aspettiamo che le autorità del Kosovo compiano per smorzare la situazione” nel nord del Paese, aveva affermato lo stesso Koopman, senza scendere nei dettagli con gli eurodeputati.
    È il portavoce del Seae a tratteggiare quanto è stato messo in atto contro il Kosovo per fare pressione su Pristina e arrivare a una de-escalation della situazione dopo lo scoppio delle violente proteste di fine maggio e le conseguenze socio-politiche del mese successivo. “Purtroppo il Kosovo non ha ancora preso le misure necessarie” richieste dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, nel corso riunione di emergenza a Bruxelles del 22 giugno, ed è per questo che Bruxelles è passata all’azione (coercitiva). Prima di tutto l’Ue ha “temporaneamente sospeso il lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione” avviato nel 2016, mentre sul piano diplomatico i rappresentanti del Kosovo “non saranno invitati a eventi di alto livello” e saranno sospese le visite bilaterali, “fatta eccezione per quelle incentrate sulla risoluzione della crisi nel nord del Kosovo nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue”, precisa Stano. Dure anche le due decisioni sul piano finanziario: sospesa la programmazione dei fondi per il Kosovo nell’ambito dell’esercizio di programmazione Ipa 2024 (Strumento di assistenza pre-adesione) e le proposte presentate da Pristina nell’ambito del Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) “non sono state sottoposte all’esame del Consiglio di amministrazione” riunitosi il 29-30 giugno.
    “Queste misure sono temporanee e completamente reversibili, a seconda degli sviluppi sul campo e delle decisioni di attenuazione prese dal primo ministro Kurti”, continuano a ripetere dal Berlaymont. Se al momento l’azione di pressione diplomatica si sta concentrando prevalentemente su Pristina, nemmeno Belgrado è esentata dal rispetto delle richieste di Bruxelles: “Stiamo monitorando attentamente e siamo pronti ad adottare misure contro la Serbia in caso di inadempienza“, ha spiegato sempre il portavoce del Seae parlando con Eunews. Lo stesso avvertimento è stato lanciato oggi (5 luglio) dal rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, in visita al presidente serbo, Aleksandar Vučić, nel corso della sua due-giorni tra Serbia e Kosovo per spingere il dialogo tra i due Paesi. La Serbia deve esentarsi dall’appoggiare i manifestanti violenti nel nord del Kosovo e di interferire in modo indiretto con la sicurezza del Paese vicino, anche attraverso l’aumento delle accuse e della retorica incendiaria contro Pristina.
    Cosa sta succedendo tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
    Proprio mentre il direttore di Dg Near Koopman informava gli eurodeputati sulle misure previste contro il Kosovo, l’alto rappresentante Borrell ha messo in guardia che “gli Stati membri stanno perdendo la pazienza davanti a una situazione che continua a deteriorarsi“. La questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i leader Ue hanno condannato “i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo” e hanno chiesto “un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione Europea il 3 giugno 2023″ (riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese). Entrambe le parti sono state invitate a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo“, con la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. La soluzione risiede sempre nella ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo), con l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.

    A causa della mancanza di “azioni necessarie” da parte di Pristina per diminuire la tensione nel nord del Paese, l’esecutivo comunitario ha deciso di sospendere “temporaneamente” le visite bilaterali, i fondi Ipa 2024 e il lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione

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    Prima del Consiglio Ue von der Leyen sente i leader di Kosovo e Serbia. Borrell: “Stati membri stanno perdendo la pazienza”

    Bruxelles – Scende in campo la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, per cercare di dare il colpo definitivo ai rischi dell’aumento delle tensioni tra Kosovo e Serbia. “Ho sottolineato l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo facilitato dall’Ue sulla normalizzazione delle relazioni con la Serbia”, ha reso noto oggi (27 giugno) in un tweet la stessa numero uno dell’esecutivo comunitario dopo la telefonata con il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e poco prima di fare lo stesso con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. Colloqui che arrivano alla vigilia del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri Ue troveranno anche la questione delle violenze degli ultimi mesi nel nord del Kosovo e della tensione tra Pristina e Belgrado sul tavolo delle discussioni.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (27 giugno 2023)
    È la seconda volta che la presidente von der Leyen affronta la questione da quando il 26 maggio sono scoppiate le violente proteste nel nord del Kosovo che hanno portato a un aggravamento della situazione nella regione. “Le recenti tensioni sono preoccupanti, mi associo agli appelli rivolti a tutte le parti ad abbandonare lo scontro e ad adottare misure urgenti per ristabilire la calma“, aveva messo in chiaro la leader della Commissione presentando il nuovo piano di crescita per i Balcani Occidentali lo scorso 31 maggio. Da allora però è passato quasi un mese e sono stati pochi i segnali di riduzione delle provocazioni tra Pristina e Belgrado. Ma – come ha messo in chiaro l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in un punto stampa con il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, al termine dell’incontro di oggi – “gli Stati membri stanno perdendo la pazienza davanti a una situazione che continua a deteriorarsi“. Della questione i 27 governi ne hanno discusso ieri (26 giugno) al Consiglio Affari Esteri, trovandosi d’accordo sul fatto che “le parti devono permettere la de-escalation della situazione e trovare una via basata sulla tabella di marcia proposta loro la settimana scorsa” alla riunione di emergenza a Bruxelles.
    A proposito delle discussioni a livello Ue, saranno proprio i 27 capi di Stato e di governo ad affrontare direttamente la questione tra giovedì e venerdì. Come emerge dall’ultima bozza delle conclusioni visionata da Eunews, il Consiglio Europeo “condanna i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo e chiede un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione europea il 3 giugno 2023″, in riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese. La specifica sulla data è una novità rispetto alla prima versione delle conclusioni, ma non è l’unica. Spicca in particolare l’esortazione a entrambe le parti a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo” (Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica), mentre rimane la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. Uguale il passaggio sulla necessità della ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo). Ma nell’ultima bozza è stato incluso anche l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.
    L’arresto/sequestro di tre poliziotti kosovari dai servizi di sicurezza serbi nell’area di confine tra Serbia e Kosovo (14 giugno 2023)
    Anche il premier albanese Rama da Bruxelles ha messo in guardia sugli “effetti devastanti che un’ulteriore deterioramento della situazione potrebbe avere non solo in Kosovo e Serbia, ma in tutta la regione” dei Balcani Occidentali. Parole di soddisfazione sono state rivolte a Belgrado per aver risolto l’ultimo episodio di tensione – la liberazione di ieri dei tre poliziotti kosovari arrestati/rapiti dalle forze di sicurezza serbe il 14 giugno – ma “ora è tempo per una de-escalation urgente e immediata”, ha rimarcato il primo ministro: “Questa situazione non può impattare in modo negativo la regione, abbiamo molto da fare dopo tanti progressi, non può cadere tutto come un castello di sabbia”. Ecco perché l’idea condivisa da Tirana è quella di “una conferenza di massimo livello con Ue e Stati Uniti, che porti i leader dei due Paesi allo stesso tavolo“, è quanto avanzato da Rama. Da quel tavolo il premier Kurti e il presidente Vučić “non devono andarsene prima di aver trovato un accordo, altrimenti rischieranno di incorrere in conseguenze negative e spiacevoli per tutti”.
    Cosa sta succedendo tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la tensione tra Pristina e Belgrado rimane ancora alta e per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.

    La presidente della Commissione Ue ha telefonato al premier kosovaro, Albin Kurti, e al presidente serbo, Aleksandar Vučić, per ribadire “l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo”. Nella bozze di conclusioni del vertice dei leader Ue inserito un punto specifico

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    I progressi a metà del guado. La Commissione Ue presenta il primo stato delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia

    Bruxelles – Il primo rapporto, un inedito che rompe la tradizione dei Pacchetti di allargamento Ue autunnali “su base eccezionale”. È il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a illustrare oggi (22 giugno) alla stampa dopo il Consiglio Affari Generali informale la presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia, i tre Paesi che per ultimi hanno intrapreso il percorso verso l’adesione all’Unione Europea (candidati i primi due, con la sola prospettiva europea il terzo). “Abbiamo ricevuto una chiara richiesta dai 27 Stati membri per un rapporto orale su come questi Paesi stanno progredendo sulle priorità stabilite dalla Commissione, non l’abbiamo mai fatto e ci focalizziamo solo su queste”, ha messo ben in chiaro lo stesso commissario, spiegando ai giornalisti quanto presentato poche ore prima ai ministri degli Affari europei a Stoccolma.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Una richiesta che – come sottolineato dalla ministra svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Jessika Roswall – parte dalla necessità di “iniziare le discussioni su come prepararci per un futuro allargamento”. Ed è per questo che la Commissione Ue ha deciso di sbilanciarsi prima dell’appuntamento atteso per il prossimo mese di ottobre, per “dare un incentivo positivo” ai tre Paesi, ha spiegato Várhelyi: “Hanno fatto molto lavoro, ma molto altro è ancora all’orizzonte e nel Pacchetto allargamento Ue non saranno questi gli unici criteri che prenderemo in considerazione“. A proposito dei criteri presi in considerazione, sono cinque le categorie considerate: nessun progresso (ovvero nessun passo intrapreso), progressi limitati (stadio preliminare), alcuni progressi (diverse riforme, ma alcune importanti ancora mancanti), buoni progressi (almeno metà delle richieste implementate) e completato. Va letto così – o ascoltato, considerato il fatto che si è trattato di un rapporto orale – quanto elencato dal commissario per l’Allargamento: Kiev ha completato 2 priorità su 7, Chișinău 3 su 9 e Tbilisi 3 su 12, ma l’attenzione va rivolta a quanto è “in corso”. Più o meno sulla buona strada.
    Per l’Ucraina sono 7 le priorità identificate, di cui 2 completate già ora: quella sulla riforma di due organi giudiziari (l’alto Consiglio della giustizia e l’alta Commissione per le alte qualifiche dei giudici) e quella sull’area dei media (legislazione “pienamente in linea” con la direttiva Ue sui servizi media). Buoni progressi sono stati identificati nell’ambito delle riforme della Corte Costituzionale (ancora in sospeso per la seconda lettura in Parlamento, per cui potrebbero arrivare emendamenti “entro il 24 giugno”). Per le restanti quattro priorità ci sono alcuni progressi: nell’area dell’anti-corruzione (con la nomina dell’ufficio del procuratore e dell’ufficio nazionale, “ma ora servono misure sistematiche”), nell’area dell’anti-riciclaggio (allineamento agli standard internazionali), nell’area della de-oligarchizzazione (implementazione del piano d’azione) e nell’area della tutela delle minoranze (“in particolare sull’uso delle lingue nella sfera pubblica, nell’amministrazione, nei media e nella stampa).
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e la ministra svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Jessika Roswall
    Per la Moldova sono 9 le priorità identificate, di cui 3 completate: quella sulle riforme giudiziarie (con il Codice elettorale), quella sul rafforzamento del coinvolgimento della società civile nel processo decisionale e quella sulla tutela dei gruppi vulnerabili e contro la violenza di genere. Per quanto riguarda le restanti 6, buoni progressi sono stati registrati in 3 priorità (riforma della giustizia, de-oligarchizzazione e riforme finanziamento dell’amministrazione pubblica) e alcuni progressi in altre 3 (anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata e anti-riciclaggio). Più complessa la situazione della Georgia, con 3 priorità completate su 12: quella sull’uguaglianza di genere e sulla lotta contro la violenza di genere, quella sull’implementazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei tribunali nazionali e quella sulla nomina di un difensore d’ufficio nei processi. In altre 7 priorità sono stati registrati alcuni progressi: impegno contro la polarizzazione politica, funzionamento delle istituzioni pubbliche e del sistema elettorale, adozione delle riforme giudiziarie, rafforzamento delle agenzie anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata, rafforzamento della difesa dei diritti umani e coinvolgimento della società civile nel processo decisionale. Solo progressi limitati nella de-oligarchizzazione, mentre nessun progresso sul pluralismo dei media e gli standard sui procedimenti contro i proprietari dei media.
    Ucraina, Moldova e Georgia verso l’Ue
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio dal presidente Volodymyr Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgiae Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano Irakli Garibashvili e della presidente moldava Maia Sandu. In soli quattro giorni (7 marzo) gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordatodi invitare la Commissione a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate dai tre Paesi richiedenti, da trasmettere poi al Consiglio per la decisione finale sul primo step del processo di allargamento Ue.
    Prima di dare il via libera formale, un mese più tardi (8 aprile) a Kiev la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, ha consegnato al presidente Zelensky il questionario necessario per il processo di elaborazione del parere della Commissione, promettendo che sarebbe stata “non come al solito una questione di anni, ma di settimane”. Lo stesso ha fatto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’11 aprile. Meno di settanta giorni dopo, il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde a tutti e tre i Paesi, specificando che Ucraina e Moldova meritavano subito lo status di Paesi candidati, mentre la Georgia avrebbe dovuto lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio di quest’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.
    Come funziona il processo di allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.
    Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.

    Illustrato dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, al Consiglio Affari Generali informale il rapporto orale dello stato di avanzamento dei percorsi verso l’Ue dei tre Paesi. Kiev ha completato 2 priorità su 7, Chișinău 3 su 9 e Tbilisi 3 su 12