More stories

  • in

    Il partito al governo in Georgia ha avviato la procedura di impeachment contro la presidente per i suoi viaggi nell’Ue

    Bruxelles – Non trova pace la Georgia sul piano politico, a pochi mesi da quello che potrebbe essere l’appuntamento decisivo per le speranze del Paese caucasico di fare il primo passo verso l’ingresso nell’Unione Europea. Il partito al governo Sogno Georgiano ha avviato la procedura di impeachment contro la presidente della Repubblica, Salomé Nino Zourabichvili, per una serie di viaggi nell’Ue che rappresenterebbero – secondo l’accusa – una violazione dei poteri della capa di Stato secondo la Costituzione nazionale. Al centro delle recenti visite di Zourabichvili a Berlino e a Bruxelles c’era proprio la raccolta di sostegno per la concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue per la Georgia, ma l’autonomia della presidente ha scatenato la dura reazione del controverso partito attualmente al potere.
    La presidente della Georgia, Salomé Nino Zourabichvili, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (31 maggio 2023)
    “Chiudere un occhio su gravi violazioni della Costituzione mina lo Stato di diritto di un sistema costituzionale democratico”, è l’attacco del presidente di Sogno Georgiano, Irakli Kobakhidze, che venerdì (primo settembre) ha annunciato di essere pronto ad avviare la procedura di impeachment per rivelare che “ancora una volta l’agenda comune dell’opposizione radicale e di Zourabichvili è diretta contro gli interessi della Georgia, compreso lo status di candidato” all’adesione all’Unione. La violazione “in modo flagrante” della Costituzione riguarderebbe la decisione della numero uno del Paese caucasico di effettuare una serie di viaggi diplomatici all’estero senza consultarsi con il governo, gli ultimi dei quali tra il 31 agosto e il primo settembre a Berlino (con il presidente tedesco, Frank-Walter Steinmeier) e a Bruxelles (con il leader del Consiglio Ue, Charles Michel). All’orizzonte c’è un cruciale Consiglio Europeo di dicembre, in cui i leader dei Ventisette dovranno decidere se concedere a Tbilisi lo status di candidato all’adesione, dopo aver ricevuto a ottobre il parere della Commissione Ue nel Pacchetto sull’Allargamento annuale.
    Il ruolo della figura presidenziale in Georgia è perlopiù cerimoniale, ma dallo scorso anno Zourabichvili si è ritagliata uno spazio sempre più ampio di autonomia nello spingere gli interessi filo-Ue di Tbilisi e proponendosi come punto di riferimento dell’opposizione popolare a un partito considerato – con tutte le eccezioni del caso in un Paese in cui la prospettiva di adesione Ue e Nato è scritta nella Costituzione – su molti aspetti filo-russo. Lo ha dimostrato sia nel rifiuto di firmare una controversa legge sugli agenti stranieri a inizio marzo (poi ritirata per la reazione di piazza di centinaia di migliaia di cittadini georgiani) sia nel suo appassionato discorso alla sessione plenaria del Parlamento Europeo a fine maggio, quando ha chiesto a Bruxelles di garantire alla Georgia lo status di candidato all’adesione Ue entro la fine del 2023 come “riconoscimento delle lotte del nostro popolo, dell’identità e dell’importanza dell’Ue”. Secondo quanto reso noto al termine del confronto tra Michel e Zourabichvili – in cui sono stati discussi gli “sviluppi più ampi” nel Caucaso meridionale della guerra russa in Ucraina – il numero uno del Consiglio Europeo ha non solo “ribadito l’impegno dell’Ue a sostenere la Georgia nel suo percorso europeo”, ma ha anche “elogiato l’impegno personale della presidente georgiana” in questo senso: “È stato particolarmente apprezzato il ruolo da lei svolto nel contribuire al controllo legislativo, nell’esercitare il suo diritto di grazia, che ha contribuito alla depolarizzazione, e la sua forte attenzione politica all’agenda Ue-Georgia”.
    Da sinistra: il primo ministro della Georgia, Irakli Garibashvili, e il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel (14 giugno 2023)
    Non è per niente chiaro come il comportamento della presidente “si oppone direttamente agli sforzi del governo georgiano per ricevere tale status” di candidato all’adesione Ue, come recita l’accusa di Sogno Georgiano. Lo stesso leader del partito ha però ammesso che l’impeachment “è impossibile nella situazione politica attuale”, dal momento in cui è necessario l’appoggio dei due terzi del Parlamento nazionale (di 150 seggi) e perciò “senza i voti dell’opposizione radicale non ha alcuna prospettiva di esecuzione”. Questo non ha tuttavia impedito l’avvio della procedura presso la Corte Costituzionale e l’invio di una lettera in cui viene negata l’autorizzazione a tenere in futuro altri incontri diplomatici alla presidente georgiana nata a Parigi nel 1952. La mossa politica di Sogno Georgiano potrebbe avere conseguenze pesanti su ciò che Michel ha definito “un’opportunità storica da non perdere”, ovvero la prospettiva europea a fronte di “riforme necessarie” da implementare su giustizia, deoligarchizzazione, lotta alla corruzione e pluralismo dei media”, ma soprattutto per “la depolarizzazione e la costruzione di una cultura politica inclusiva”.
    La situazione politica a Tbilisi
    Con il passare dei mesi e degli avvicendamenti politici a Tbilisi è sempre più evidente che per l’Unione Europea la Georgia rimane uno dei Paesi partner più complessi da gestire, a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo quantomeno controverso sulle tendenze filo-russe (anche se poi ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino). Tra le notizie che hanno sollevato più preoccupazioni a Bruxelles va ricordata la ripresa dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore, ma anche l’avvicinamento del premier Irakli Garibashvili (che da ancora membro osservatore del Partito del Socialismo Europeo ha partecipato alla convention di quest’anno dei conservatori europei e statunitensi a Budapest) all’omologo ungherese, Viktor Orbán, e alle sue politiche autoritarie e anti-Lgbtq+.
    Le proteste pro-Ue dei manifestanti georgiani a Tbilisi, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    La richiesta della Georgia di aderire all’Ue è arrivata il 3 marzo 2022, a una settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Mentre il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde alle richieste di Ucraina e Moldova, alla Georgia è stata indicata la necessità di lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati Paesi candidati, Tbilisi ha ricevuto solo la “prospettiva europea”. A causa di questo ‘fallimento’, nella capitale georgiana si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo. I tratti comuni di queste manifestazioni sono state le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia.
    Sei mesi fa sono poi scoppiate dure proteste popolari contro un controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria, voluta proprio dal premier Garibashvili per registrare tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo simile a quanto in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento decine di migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza con le bandiere della Georgia e dell’Unione Europea – gridando slogan come Fuck Russian law e tappezzando la città di insulti a Putin – sostenuti sia dalle istituzioni comunitarie sia dalla presidente Zourabichvili. Dopo due giorni di proteste ininterrotte il partito Sogno Georgiano ha ritirato il progetto di legge, ma senza sconfessare la propria iniziativa. Il fondatore del partito al potere è l’oligarca Bidzina Ivanishvili, che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo in cui è richiesto alla Commissione di imporre nei suoi confronti sanzioni personali.
    La Georgia verso il Consiglio Ue di dicembre
    In vista del Consiglio Europeo di dicembre in cui il dossier allargamento sarà prioritario sul tavolo dei 27 leader, la Commissione ha anticipato per la prima volta il suo consueto Pacchetto Allargamento con una presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia. Secondo quanto illustrato dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, lo scorso 22 giugno, al momento Tbilisi ha completato 3 priorità su 12: quella sull’uguaglianza di genere e sulla lotta contro la violenza di genere, quella sull’implementazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei tribunali nazionali e quella sulla nomina di un difensore d’ufficio nei processi. In altre 7 priorità sono stati registrati alcuni progressi: impegno contro la polarizzazione politica, funzionamento delle istituzioni pubbliche e del sistema elettorale, adozione delle riforme giudiziarie, rafforzamento delle agenzie anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata, rafforzamento della difesa dei diritti umani e coinvolgimento della società civile nel processo decisionale. Solo progressi limitati nella de-oligarchizzazione, mentre nessun progresso sul pluralismo dei media e gli standard sui procedimenti contro i proprietari dei media.
    Ora l’attenzione è tutta rivolta all’esito delle valutazioni della Commissione e alla decisione del Consiglio di dicembre sul percorso di allineamento di Tbilisi alle priorità per la candidatura all’adesione Ue. In caso di nuovo responso negativo si potrebbe assistere ad ancora più rabbia sociale contro il governo e al rischio di un crescente risentimento verso Bruxelles, con conseguenze al momento non prevedibili sull’appuntamento elettorale per il rinnovo del Parlamento georgiano nel 2024.

    Le recenti visite a Berlino e Bruxelles di Salomé Nino Zourabichvili per raccogliere sostegno sulla concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue ha scatenato la dura reazione del partito Sogno Georgiano, che accusa la leader di violare la Costituzione con la sua autonomia

  • in

    Una data per l’allargamento Ue ai Balcani Occidentali. Michel: “Entrambe le parti devono essere pronte entro il 2030”

    Bruxelles – Ora la data è fissata, anche se la questione davvero complessa sarà convincere gli attuali 27 Paesi membri Ue a navigare tutti nella stessa direzione. “Se vogliamo essere credibili mentre prepariamo la nostra agenda strategica, dobbiamo parlare di tempistiche: credo che dobbiamo essere pronti, da entrambe le parti, ad allargarci entro il 2030“. Parola del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. Al Bled Strategic Forum (in Slovenia), la conferenza internazionale annuale che ospita i leader dell’Europa centrale e sudorientale, il numero uno dell’istituzione comunitaria ha messo sul tavolo ciò che fino a due anni fa – prima dello stravolgimento della guerra russa in Ucraina e delle conseguenze geopolitiche che ha scatenato – non si poteva nemmeno nominare, ovvero una data-limite entro cui aver compiuto tutti i passi necessari per l’allargamento Ue ai Balcani Occidentali.
    Al vertice Ue-Balcani Occidentali del 2021 – svoltosi allora per pura coincidenza proprio in Slovenia – non era passata la richiesta di Lubiana di inserire nel testo della dichiarazione il 2030 come “data ultima su cui basare il calendario dei negoziati”, mentre oggi (28 agosto) a Bled proprio il presidente del Consiglio Ue ha fornito un’indicazione temporale precisa che coincide con la fine del decennio. “L’Europa deve mantenere le sue promesse“, iniziate ufficialmente al vertice di Salonicco del 2003. Come ricordato la scorsa settimana alla cena informale di Atene, “la lentezza di questo cammino ha deluso molti, sia nella regione sia nell’Ue” e per Michel “è tempo di sbarazzarsi delle ambiguità e affrontare le sfide con chiarezza e onestà”. Perché i Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – sono una regione “nel cuore dell’Europa, circondata dall’Ue” e per i Ventisette è arrivato il momento di un cambio di paradigma: “Ci accontentiamo di un’Unione che si limita a gestire le crisi o vogliamo essere un attore globale che plasma il futuro? Vogliamo essere più influenti per dare forma a un mondo migliore”. E questo riguarda anche la sfida dell’allargamento Ue: “Lo dobbiamo fare sia per noi sia per i futuri Stati membri, sì, è così che dovremmo chiamare così i Paesi che hanno confermato la prospettiva europea“.
    Mantenere le promesse significa spingere un processo di allargamento Ue che “non è più un sogno”, considerato quanto accaduto al Consiglio Europeo di giugno 2022: “Abbiamo conferito lo status di candidati all’Ucraina e alla Moldova, lo stesso attende la Georgia quando avrà completato i passi necessari”. Anche se “c’è ancora molto lavoro da fare” per i Sei balcanici la strada è più tracciata, con obiettivi che possono essere fissati a rialzo: “Il prossimo budget pluriennale Ue dovrà includere obiettivi comuni, servirà per spingere le riforme e generare interesse negli investimenti”. Sarà un tema di confronto tra i Ventisette ai prossimi Consigli di ottobre e dicembre, ma anche in occasione del nuovo vertice Ue-Balcani Occidentali che “si terrà a dicembre a Bruxelles e servirà per affiancare il Consiglio Europeo”. A questo punto però si attendono soprattutto proposte concrete su quello che più di un anno fa lo stesso Michel aveva presentato come “un processo più rapido, graduale e reversibile” all’allargamento Ue e che oggi è stato riproposto: “Un’integrazione dei Paesi candidati all’adesione in campi specifici, con vantaggi tangibili una volta che sono rispettate le condizioni di base“. Per esempio, “partecipare allo specifico Consiglio una volta che sono conclusi i negoziati in quel capitolo negoziale”.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, al Bled Strategic Forum (28 agosto 2023)
    A fare i “compiti a casa” per raggiungere l’obiettivo 2030 sull’allargamento Ue dovranno essere sia i Paesi dei Balcani Occidentali sia l’Unione Europea. Per i primi sarà necessario continuare sulla strada delle riforme e dello Stato di diritto, ma anche ricordando che “non c’è cooperazione senza riconciliazione, non c’è spazio per i conflitti del passato all’interno dell’Ue“. Un avvertimento colto soprattutto da Serbia e Kosovo, anche considerato come Michel ha continuato il suo discorso: “L’ideale sarebbe un ingresso contemporaneo, ma i futuri Stati membri si trovano in fasi diverse” e per evitare stalli da parte dei primi privati “una soluzione potrebbe essere aggiungere la cosiddetta clausola di fiducia nei Trattati di adesione, per garantire che i Paesi che hanno appena aderito non possano bloccare quelli futuri”. Parallelamente anche i Ventisette devono prepararsi all’allargamento Ue e “non riformarci prima sarebbe uno sbaglio enorme”. Perché non sarà indifferente l’impatto su “politiche, programmi e fondi, il budget dovrà aiutare tutti”, ma anche il processo decisionale “ha mostrato alcune falle”. Ed è qui che rientra superamento del voto all’unanimità, su cui Michel si è tolto qualche sassolino dalla scarpa: “Abolirla completamente significherebbe gettare il bambino con l’acqua sporca, perché l’unità è al centro della forza dell’Ue”. E perciò bisognerà piuttosto ragionare su “come e quando utilizzare” sia la maggioranza qualificata sia “l’astensione costruttiva”.
    Il panel dei leader dei Balcani Occidentali al Bled Strategic Forum (28 agosto 2023)
    Fiduciosi ma cauti i sei leader dei Paesi balcanici, intervenuti in un panel dedicato al Bled Strategic Forum. “Non credo che saremo dentro l’Ue nel 2030, ma se ci saranno passi in avanti sarà ottimo“, è l’augurio del primo ministro dell’Albania, Edi Rama. Per l’omologo montenegrino, Dritan Abazović, “il 2030 è troppo distante, noi sappiamo bene cosa vogliamo”. Il premier macedone, Dimitar Kovačevski, ha invece fatto notare che “c’è frustrazione per i blocchi che arrivano uno dopo l’altro per questioni domestiche” degli Stati membri. La presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, Borjana Krišto, ha voluto mettere in chiaro che “nonostante siamo uno Stato complesso a livello di eticità ed entità, speriamo di iniziare quanto prima i negoziati” per l’adesione. Duro scambio di battute tra i premier di Kosovo, Albin Kurti, e Serbia, Ana Brnabić, sulla normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado, anche se il focus singolarmente rimane sull’accesso all’Unione. “Ci sono piccoli passi concreti perché si uniscano alla maggioranza dei Paesi membri”, è il commento del primo sul non-riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da parte di Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia. “C’è molto euroscetticismo in Serbia, perché ormai sono passati 10 anni dall’avvio dei negoziati”, ha commentato la premier Brnabić, sottolineando un elemento spesso poco considerato quando si parla dei Balcani Occidentali: “Noi siamo Paesi europei e siamo al centro del continente, questo non è un allargamento ma un’inclusione“.
    A che punto è l’allargamento Ue
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è tornato sul tavolo dei 27 ministri degli Esteri Ue del 20 luglio.
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, e della presidente moldava Sandu. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio dell’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.

    Al Bled Economic Forum il presidente del Consiglio Europeo ha anticipato i temi di confronto sull’assorbimento dei “futuri Paesi membri” al prossimo vertice con i Sei balcanici in programma a Bruxelles a dicembre: date-limite, ‘clausola di fiducia’ e riforme dell’Unione (unanimità inclusa)

  • in

    L’Ue contro le sanzioni penali per diffamazione in Republika Srpska: “Non in linea con lo status di candidato della Bosnia”

    Bruxelles – Gli avvertimenti delle istituzioni comunitarie non hanno sortito alcun effetto e ora nella Republika Srpska gli emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per diffamazione sono entrati in vigore. Ma questo non significa che Bruxelles molli la presa per riportare Banja Luka su un percorso più coerente con lo Stato di diritto: “La legge va contro le aspettative che hanno accompagnato la concessione dello status di candidato all’Ue e contro gli interessi di tutti i cittadini della Bosnia ed Erzegovina, compresi quelli residenti nella Republika Srpska”, è la condanna del portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, all’ultima sfida portata dal presidente dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico, Milorad Dodik.
    Il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik (credits: Elvis Barukcic / Afp)
    Secondo l’Ue “queste modifiche legislative impongono restrizioni inutili e sproporzionate ai media indipendenti e alla società civile” e la nuova legge ha “un forte impatto sull’ambiente della società civile”, dal momento in cui “limita la libertà di espressione e dei media nella Repubblica Srpska”. In altre parole, “si tratta di un deplorevole e innegabile passo indietro nella tutela dei diritti fondamentali“, mette in chiaro Stano. Gli emendamenti al Codice Penale in questione erano stati adottati a fine marzo – con 48 voti a favore e 21 contrari all’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska – e dopo un periodo di consultazione pubblica di 60 giorni è stato avviato l’iter per l’adozione definitiva. Ora nell’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina sono previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”.
    Ignorata la richiesta di Bruxelles di ritirare gli emendamenti, a questo punto “l’Ue si aspetta che tutte le autorità lavorino in modo costruttivo” per affrontare le priorità-chiave delineate dalla Commissione Europea perché venga raccomandata al Consiglio l’apertura dei negoziati di adesione con la Bosnia ed Erzegovina. In particolare la priorità numero 12, secondo cui il Paese candidato all’adesione Ue dal 15 dicembre 2022 deve “garantire la libertà di espressione e dei media e la protezione dei giornalisti“. Il tempo scorre e, con la misura adottata dal più controverso partner dell’Ue, sembra essere sempre più difficile che nel Pacchetto Allargamento 2023 (atteso per ottobre) il gabinetto von der Leyen sblocchi la via per i negoziati di adesione di Sarajevo in vista del Consiglio Europeo di dicembre, quando il dossier sarà analizzato dai 27 leader Ue. Ecco perché l’esortazione da Bruxelles non cambia: “Siamo impegnati a sostenere i media e la società civile in Bosnia ed Erzegovina, in particolare nell’entità della Republika Srpska”, ha ribadito il portavoce del Seae.
    La Republika Srpska tra secessionismo, Russia e sanzioni
    È dall’ottobre del 2021 che Dodik è diventato una spina nel fianco dell’Ue, facendosi promotore di un progetto secessionista in Republika Srpska. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche (le stesse che le fonti precisano essere in stallo) e dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme necessarie sul piano elettorale e costituzionale nel Paese balcanico.
    Alle provocazioni secessioniste si è affiancato dal 24 febbraio dello scorso anno il non-allineamento alla politica estera dell’Unione e alle sanzioni internazionali contro il Cremlino: insieme alla Serbia la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo a non aver adottato le misure restrittive Ue a causa dell’opposizione della componente serba della presidenza tripartita. Già il 20 settembre dello scorso anno Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale da parte del Cremlino delle regioni ucraine Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio di quest’anno con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 20 settembre 2022 (credits: Alexey Nikolsky)
    Parallelamente sono continuati i tentativi di imporre un sistema di controllo sui media e la libertà di stampa che ricorda molto da vicino quello russo. A fine marzo l’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska ha votato a favore di emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per la diffamazione, entrati in vigore cinque mesi più tardi. Allo stesso tempo il governo dell’entità serba della Bosnia ed Erzegovina ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero: il modello è simile a quello adottato a Mosca dal primo dicembre dello scorso anno, che ha ampliato l’utilizzo politico dell’etichetta ‘agente straniero’ già utilizzata dal 2012 per colpire media indipendenti e Ong.

    Da Bruxelles nuove dure critiche dopo l’entrata in vigore degli emendamenti al Codice Penale dell’entità a maggioranza serba: “Restrizioni inutili e sproporzionate ai media indipendenti e alla società civile, è un deplorevole e innegabile passo indietro nella tutela dei diritti fondamentali”

  • in

    Un colpo al cerchio ucraino e uno alla botte russa. La Serbia di Vučić tenta uno spericolato equilibro tra Mosca e Kiev

    Bruxelles – Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, si muove sui cristalli, ma nessuno dei cocci che rompe fanno piacere a Bruxelles. Perché il leader del Paese candidato all’adesione Ue dal 2012 sembra avere una propensione naturale al cerchiobottismo, sfidando sempre un po’ di più i limiti che l’Unione può tollerare. Ma il rischio che si sta assumendo dopo lo scoppio della guerra russa in Ucraina sta diventando sempre più grosso e l’equilibrio sempre più delicato, volendo barcamenarsi in una presunta “equidistanza” non solo tra Bruxelles e Mosca, ma ora anche tra Kiev e il Cremlino, e tirando in ballo un’altra questione molto delicata per l’Ue: convincere altri Paesi a non riconoscerei il Kosovo.
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ad Atene (21 agosto 2023)
    A mettere in luce la nuova spericolata avventura di Vučić è stata la cena informale di lunedì (21 agosto) ad Atene tra i leader delle istituzioni comunitarie, dei Balcani Occidentali, dell’Ucraina e della Moldova, in cui sono andati in scena anche una serie di incontri bilaterali su allargamento Ue e invasione della Russia. Proprio uno dei punti, quest’ultimo, su cui Vučić ha dovuto più destreggiarsi. Il leader serbo non è nuovo alle critiche dell’Unione per il mancato allineamento alla Politica estera e di sicurezza comune, soprattutto sulle sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina (unico in Europa a non averlo fatto nemmeno a livello di principio), ma fino a oggi non ha mai ceduto ad allontanarsi eccessivamente dal legame con il Cremlino. Al contrario, nonostante riceverà un pacchetto di sostegno energetico da Bruxelles pari a 165 milioni di euro, nel maggio dello scorso anno ha siglato un’intesa con Vladimir Putin per altri tre anni di gas russo a condizioni favorevoli.
    La vera novità dalla cena di Atene è – come lo stesso Vučić ha dichiarato oggi (23 agosto) nel corso di una conferenza stampa – l’opposizione esplicita a inserire riferimenti alle sanzioni e ai crimini di guerra di Putin nella Dichiarazione di Atene, il tutto allo stesso tavolo di Zelensky: “Per noi sono condizioni molto difficili”, anche se ha concesso molto vagamente che “non può esserci impunità per la guerra e altri crimini, come gli attacchi contro i civili e la distruzione delle infrastrutture”. Il ministro degli Esteri serbo, Ivica Dačić, nel celebrare pomposamente la “vittoria diplomatica da soli contro 13 Paesi” in un’intervista a Kurir Tv, ha rivelato un dettaglio di non poco conto: il presidente serbo avrebbe usato “la sua influenza politica” per modificare il testo della dichiarazione ufficiale, “in modo da eliminare il paragrafo che menzionava le sanzioni contro la Russia“, perché “contrario ai nostri interessi nazionali”. Da Bruxelles nessun commento sulla questione, ma in ogni caso non si tratta di segnali incoraggianti sullo spirito che anima l’establishment politico di Belgrado a un anno e mezzo dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina.
    L’Ucraina tra Serbia e Kosovo
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, ad Atene (21 agosto 2023)
    Per cercare di non tagliare i ponti con l’Ucraina, il leader serbo ha cercato di spostare la discussione su un altro livello: quello dell’integrità territoriale, che interessa tanto Kiev quanto Belgrado. “Un incontro aperto, onesto e proficuo”, lo ha definito il presidente Zelensky, riportando i temi di discussione all’incontro bilaterale di Atene: “Rispetto della Carta delle Nazioni Unite e inviolabilità dei confini, futuro comune delle nostre nazioni nella casa europea e relazioni reciproche nel mutuo interesse”. Perché se per l’Ucraina integrità territoriale significa Donbas e Crimea all’interno dei confini nazionali, per la Serbia significa non accettare l’indipendenza del Kosovo proclamata nel 2008. “Sto cercando di ottenere il meglio per la Serbia”, ha dichiarato alla stampa il presidente serbo, parlando delle conversazioni che ha avuto con quattro leader presenti ad Atene i cui Paesi non riconoscono la sovranità di Pristina: due membri Ue (Grecia e Romania) e due non-Ue, Bosnia ed Erzegovina e Ucraina, appunto. Facendo riferimento alle “pressioni” esercitate da Bruxelles su questi Stati, la missione di Vučić ad Atene è stata quella di spingere il leader ucraino a non cedere, facendo leva con tutta probabilità sull’invio di armi per la difesa dall’invasione russa.
    Eppure questo atteggiamento di Vučić si potrebbe scontrare presto non solo con l’irritazione di Mosca per il supporto all’esercito ucraino, ma soprattutto con la posizione dell’Unione Europea per la violazione di accordi precedentemente presi. Secondo l’accordo di Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo firmato sotto l’egida Ue lo scorso 27 febbraio “nessuna delle due Parti bloccherà, né incoraggerà altri a bloccare i progressi dell’altra Parte nel rispettivo cammino verso l’Ue sulla base dei propri meriti”, recita l’articolo 5, riferendosi implicitamente alla sovranità di Pristina (un Paese non indipendente non può fare ingresso nell’Ue). A questo si aggiunge il punto 4 dello stesso accordo, già violato da Belgrado in occasione della votazione sulla richiesta di Pristina di aderire al Consiglio d’Europa: “La Serbia non si opporrà all’adesione del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale“. Secondo quanto confermato dallo stesso presidente serbo, Belgrado chiederà che si tenga “quanto prima” una sessione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni sulla situazione nel nord del Kosovo. Perché la strada di Vučić ormai è tracciata, per quanto spericolato sia l’equilibrio cercato tra Mosca e Kiev e a prescindere dagli avvertimenti di Bruxelles.

    Il presidente serbo sostiene di essere riuscito a modificare la bozza della Dichiarazione di Atene, rendendo meno duri i punti sui crimini di guerra e sanzioni. Ma intanto stringe i rapporti con Zelensky sull’integrità territoriale per impedire che Kiev riconosca la sovranità del Kosovo

  • in

    “Obiettivo allargamento e rafforzamento dell’Ue”. Bruxelles ribadisce la duplice linea nel confronto con i Paesi partner

    Bruxelles – Un incontro informale per ribadire che la strada dei Paesi che hanno fatto richiesta di adesione è tracciata verso l’ingresso, ma che l’allargamento Ue è legato in ogni caso al rafforzamento dell’Unione stessa. Le modalità per renderlo realtà sono tutte da tracciare – considerate anche le difficoltà nel ragionare sulla riforma dei Trattati – ma per il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, è fuori discussione che “l’obiettivo non è solo l’allargamento, ma anche il rafforzamento dell’Ue“. È il riassunto di una cena informale svoltasi ieri sera (21 agosto) ad Atene per iniziativa del premier greco, Kyriakos Mitsotakis, a 20 anni dal vertice di Salonicco in cui per la prima volta veniva messa nero su bianco l’inevitabilità della strada verso l’adesione Ue dei Balcani Occidentali. Con lo scoppio della guerra russa in Ucraina altri tre Paesi attendono lo stesso destino, ma gli ultimi due decenni e tre allargamenti hanno messo in luce la necessità per l’Unione di riorganizzarsi e rinnovarsi.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro della Grecia, Kyriakos Mitsotakis, ad Atene (21 agosto 2023)
    “Il dibattito sull’allargamento è molto vivo e dobbiamo sfruttare questo slancio“, ha messo in chiaro lo stesso Michel al termine dell’incontro con i leader di Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Moldova e Ucraina, oltre a quelli di quattro Paesi membri Ue interessati da vicino dal processo: Bulgaria, Croazia, Romania e Slovenia. Come spiegano fonti Ue, i punti principali emersi durante la cena hanno riguardato il sostegno “incrollabile” alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina, ma anche l’allargamento Ue stesso, considerato “una strada a doppio senso” in cui i Paesi candidati “devono riformarsi” ma anche l’Ue “deve prepararsi” a questi ingressi. Un riferimento implicito al difficilissimo tema della riforma dei Trattati e del superamento del voto all’unanimità in seno al Consiglio, per ampliare le aree in cui si vota a maggioranza qualificata anche su politica estera e fiscalità. Parallelamente “l’allargamento rimane una priorità assoluta per l’Ue, uno strumento forte per promuovere la pace, la sicurezza e la prosperità nel nostro continente”, ha ribadito Michel: “Dobbiamo trovare la strada da percorrere per trasformare questa visione dell’Europa in realtà“.
    Diversi i temi sul tavolo ad Atene. Le stesse fonti Ue fanno riferimento alle discussioni volte a risolvere le controversie bilaterali, “in particolare quelle relative ai diritti delle minoranze”. Anche se non esplicitata, la questione ha riguardato più di recente i rapporti tra Grecia e Albania, il cui premier Edi Rama non è stato invitato ieri per le tensioni causate dalla detenzione dallo scorso 14 maggio del sindaco di etnia greca della città albanese Himarë, Fredi Beleri. Il primo cittadino della cittadina costiera è stato arrestato per una presunta compravendita di voti e da tre mesi è in atto un braccio di ferro diplomatico tra il governo Rama e il governo Mitsotakis: il primo accusa Atene di voler influenzare un’indagine indipendente, il secondo punta il dito contro Tirana per quella che considera una detenzione motivata politicamente. A proposito di controversie bilaterali, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, si è congratulata con il premier macedone, Dimitar Kovačevski, per la presentazione degli emendamenti costituzionali in Parlamento sulle minoranze etniche nel Paese: “Spero che tutti i partiti lo sostengano per far progredire il percorso europeo della Macedonia del Nord“.
    La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, ad Atene (21 agosto 2023)
    Un altro tema caldo ad Atene è stato quello delle tensioni tra Kosovo e Serbia e la ripresa del dialogo mediato da Bruxelles. La numero uno dell’esecutivo comunitario ha discusso con entrambi i leader – il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić – sulla necessità di “un impegno costruttivo per smorzare la situazione nel nord del Kosovo” dopo gli scontri violenti di fine maggio e i continui scontri diplomatici di giugno. La presidente von der Leyen ha chiesto in particolare al premier Kurti di “attuare gli accordi sulla normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia” come parte del piano per la de-escalation concordato con Bruxelles. Con il presidente Vučić si è invece concentrata sui “progressi della Serbia nel suo percorso verso l’Ue”, in particolare sull’integrazione e l’allineamento delle due parti “di fronte alla guerra russa contro l’Ucraina“. E proprio a proposito del sostegno a Kiev, von der Leyen ha discusso ad Atene con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, sia del “continuo sostegno” – che ha visto ad Atene nuovi confronti sugli F-16 – sia dell’assistenza economica e del lavoro per “portare il grano ucraino sui mercati mondiali”. Ultimo, ma non per importanza il percorso di adesione Ue di Kiev, a meno di due mesi dalla pubblicazione dell’annuale Pacchetto di allargamento Ue (sulla base della presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia).
    A che punto è l’allargamento Ue
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, e della presidente moldava Sandu. In soli quattro giorni (7 marzo) gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordato di invitare la Commissione a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate dai tre Paesi richiedenti, da trasmettere poi al Consiglio per la decisione finale sul primo step del processo di allargamento Ue.
    Prima di dare il via libera formale, un mese più tardi (8 aprile) a Kiev la presidente dell’esecutivo comunitario von der Leyen ha consegnato al presidente Zelensky il questionario necessario per il processo di elaborazione del parere della Commissione. Lo stesso ha fatto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’11 aprile. Meno di settanta giorni dopo, il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde a tutti e tre i Paesi, specificando che Ucraina e Moldova meritavano subito lo status di Paesi candidati, mentre la Georgia avrebbe dovuto lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio di quest’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è tornato sul tavolo dei 27 ministri degli Esteri Ue del 20 luglio.

    Ad Atene è andata in scena la cena informale tra i vertici delle istituzioni comunitarie e i leader dei Balcani Occidentali, Ucraina e Moldova. Per il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, il dibattito sull’adesione di nuovi membri “è molto vivo e dobbiamo sfruttare questo slancio”

  • in

    Una cena ad Atene con i leader dei Paesi candidati, a 20 anni da Salonicco. La Grecia torna al centro dell’allargamento Ue

    Bruxelles – Vent’anni dopo, la Grecia vuole tornare protagonista della politica di allargamento Ue. La tavola è apparecchiata per l’appuntamento che questa sera (21 agosto) porterà ad Atene i vertici delle istituzioni comunitarie e i leader dei Paesi candidati all’adesione all’Unione Europea, con un assente eccellente e una strategia ancora tutta da definire, dopo gli ultimi tre vertici Ue-Balcani Occidentali in meno di due anni e tre richieste di ingresso arrivate a seguito dello scoppio della guerra russa in Ucraina. L’ospite della cena informale – il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis – ha ricordato che quest’anno cade il ventesimo anniversario di quel cruciale vertice di Salonicco, quando per la prima volta volta i leader degli allora 15 Paesi membri riuniti in Grecia sancivano ufficialmente la rotta per la futura adesione dei Balcani Occidentali.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro della Grecia, Kyriakos Mitsotakis
    Alla cena di questa sera saranno presenti i presidenti della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e del Consiglio Europeo, Charles Michel, insieme con i leader di Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Moldova e Ucraina, oltre a quelli di quattro Paesi membri interessati da vicino dall’allargamento Ue nei Balcani Occidentali e nell’Europa orientale: Bulgaria, Croazia, Romania e Slovenia. Mentre ad Atene dovrebbe recarsi anche il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, a pesare sulla cena è però un assente eccellente tra i Paesi candidati all’adesione Ue: il premier albanese, Edi Rama, non invitato all’evento a causa delle recenti tensioni tra Atene e Tirana per la detenzione dallo scorso 14 maggio del sindaco di etnia greca della città albanese Himarë, Fredi Beleri. Il primo cittadino della cittadina costiera è stato arrestato per una presunta compravendita di voti, ma da tre mesi è in atto un braccio di ferro diplomatico con il governo Mitsotakis, accusato di voler influenzare un’indagine indipendente. Atene rietine che l’arresto sia motivato politicamente e potrebbe utilizzare la leva dell’adesione all’Ue come strumento di ricatto verso Tirana per mettere fine a quella che il governo greco considera una “violazione dei diritti umani”. Al posto di Rama – il politico più influente in Albania, padrone di casa dell’ultimo vertice Ue-Balcani Occidentali – alla cena di questa sera era stato invitato il presidente albanese, Bajram Begaj (il cui ruolo è principalmente cerimoniale). Invito comunque declinato per “impegni precedentemente presi”.
    La foto di famiglia del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre 2022 a Tirana, Albania
    Attraverso il braccio di ferro con l’Albania e con la decisione di convocare tutti i leader – delle istituzioni comunitarie e dei Paesi partner – ad Atene per una cena informale, la Grecia di Mitsotakis sta cercando di rimettersi al centro del progetto di allargamento Ue e soprattutto della stabilità, pace e sicurezza energetica nella penisola balcanica. Era il 21 giugno 2003 quando i leader Ue dichiaravano a Salonicco che “il futuro dei Balcani è all’interno dell’Unione Europea” e decidevano di tenere vertici periodici sui Balcani Occidentali per accelerare questo processo. Vent’anni più tardi i progressi si registrano a singhiozzo e il rischio di perdere la fiducia di popolazioni europeiste accompagna puntualmente ogni appuntamento politico sulla questione.
    La cena di questa sera sarà un’altra occasione per un confronto informale sul percorso di adesione dei Paesi partner, che precede la pubblicazione dell’annuale Pacchetto di allargamento Ue (atteso per ottobre) e arrivato a due mesi dalla presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia. Al Consiglio Europeo di dicembre dovrà essere deciso se avviare i negoziati di adesione con le prime due (più la Bosnia ed Erzegovina) e se concedere lo status di Paese candidato alla terza. “Dobbiamo avvicinare i nostri amici, gli aspiranti membri dell’Ue, molto più rapidamente“, ha commentato su X la presidente von der Leyen al suo arrivo ad Atene, promettendo che “continueremo ad abbattere le barriere tra le nostre regioni”.
    A che punto è l’allargamento Ue nei Balcani Occidentali
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.
    Il processo di allargamento Ue in cui sono impegnati i sei Paesi dei Balcani Occidentali inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.

    Il premier greco, Kyriakos Mitsotakis, ha invitato anche i vertici delle istituzioni comunitarie alla discussioni informale con i partner sulle prospettive di adesione dei Balcani Occidentali, Ucraina e Moldova. Giallo sull’assenza del premier albanese, Edi Rama, per le recenti tensioni bilaterali

  • in

    Il piano per la de-escalation in Kosovo e il ritiro delle misure restrittive Ue sta procedendo molto lentamente

    Bruxelles – Il piano estivo procede, ma non veloce abbastanza per mettere fine alle misure restrittive imposte da Bruxelles quasi due mesi fa. L’Unione Europea “accoglie con favore” i passi in avanti del Kosovo “nella giusta direzione” per la de-escalation della tensione nel nord del Paese, ma “sono necessari altri passi” per far rientrare la situazione alla normalità e riportare le relazioni con Pristina al business as usual. A confermarlo e Eunews è il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, che ha precisato lo stato dell’arte del piano in 4 punti concordato tra l’Unione e il governo kosovaro lo scorso 10 luglio e cosa ancora manca da fare per revocare le misure “temporanee e reversibili” e convocare il prossimo incontro nell’ambito del dialogo Pristina-Belgrado facilitato dall’Ue.
    Dopo il primo annuncio a metà luglio di una riduzione del 25 per cento della presenza di forze dell’ordine all’interno e nei pressi dei municipi di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica (nel nord del Kosovo), l’Ue ha accolto positivamente l’annuncio più recente del governo guidato da Albin Kurti di “un’ulteriore riduzione del 25 per cento” delle forze dell’ordine. Una decisione “presa a seguito di un incontro a livello tecnico” tra la polizia kosovara e la missione civile dell’Ue Eulex, “volto a definire parametri comuni per valutare la situazione della sicurezza nei comuni del nord”, ha spiegato Stano. Si tratta dei primi due punti previsti dalla tabella di marcia con le quattro tappe per la de-escalation nel nord e la normalizzazione delle relazioni con la Serbia, concordata un mese fa tra il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e il premier Kurti. Queste azioni dovevano essere intraprese a partire dalla prima settimana dall’accordo del 10 luglio e – considerato il fatto che la valutazione con Eulex è “su base continuativa” – si può dire che Pristina abbia fin qui rispettato le richieste.
    Quello che però preoccupa è il mancato allineamento sul terzo punto, quello su cui tutto il processo di revoca delle misure restrittive si sta bloccando. Entro il 17 luglio – e con “finalizzazione il prima possibile” – il governo del Kosovo avrebbe dovuto rilasciare una dichiarazione pubblica sullo “svolgimento di elezioni locali anticipate nei quattro comuni del nord dopo l’estate“, accompagnata dall’impegno a “predisporre la base giuridica necessaria per l’organizzazione” della nuova tornata elettorale anticipata. Al momento questa dichiarazione non è arrivata, anche se la presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, martedì (15 agosto) ha dichiarato che “è una questione di giorni” per il completamento degli statuti sulle scadenze e le questioni tecniche che apriranno la strada alla petizione per la destituzione dei quattro sindaci nel nord del Kosovo e all’annuncio di nuove elezioni: “Una volta completati i regolamenti, spetterà ai cittadini decidere se avvalersi o meno di questo diritto“, ha precisato Osmani. Con il terzo punto ancora non implementato, rimane in stallo anche l’ultimo: secondo la tabella di marcia entro il 24 luglio l’Ue avrebbe dovuto invitare i due capi negoziatori di Serbia e Kosovo a Bruxelles per “finalizzare il piano di sequenza dell’Accordo sul percorso di normalizzazione delle relazioni“. Al momento nulla si muove e il portavoce del Seae non si sbottona: “Lo annunceremo al momento opportuno”.
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Solo con la messa a terra del piano in quattro tappe il Kosovo riuscirà a convincere Bruxelles a ritirare le misure restrittive comunicate a Pristina il 28 giugno per la mancanza di “passi necessari” per la riduzione della tensione nel nord del Paese. Come appreso da Eunews, l’Ue ha temporaneamente sospeso il lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione avviato nel 2016. Sul piano diplomatico i rappresentanti del Kosovo non saranno invitati a eventi di alto livello e saranno sospese le visite bilaterali, fatta eccezione per quelle incentrate sulla risoluzione della crisi nel nord del Kosovo nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue. Dure anche le due decisioni sul piano finanziario: sospesa la programmazione dei fondi per il Kosovonell’ambito dell’esercizio di programmazione Ipa 2024(Strumento di assistenza pre-adesione) e le proposte presentate da Pristina nell’ambito del Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) non sono state sottoposte all’esame del Consiglio di amministrazione riunitosi il 29-30 giugno.
    Le tensioni tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
    La questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i leader Ue hanno condannato “i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo” e hanno chiesto “un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione Europea il 3 giugno 2023″ (riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese). Entrambe le parti sono state invitate a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo“, con la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. La soluzione risiede sempre nella ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo), con l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.

    Bruxelles accoglie alcuni “passi nella giusta direzione” da parte di Pristina, come la riduzione della presenza della polizia all’interno e intorno ai quattro municipi nel nord del Kosovo. Ma si attende ancora l’annuncio sulle elezioni anticipate a Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica

  • in

    I fondi di cooperazione Ue cambiano destinazione: 135 milioni di euro riorientati da Russia-Bielorussia a Ucraina e Moldova

    Bruxelles – Dagli aggressori agli aggrediti, per tagliare completamente ogni legame con i responsabili diretti e indiretti dell’invasione dell’Ucraina scatenata il 24 febbraio dello scorso anno. La Commissione Europea ha annunciato oggi (16 agosto) che 135 milioni di euro inizialmente previsti per i programmi di cooperazione regionale con Russia e Bielorussia hanno cambiato destinazione, passando al rafforzamento della collaborazione con Ucraina e Moldova.
    La commissaria per la Coesione e le riforme, Elisa Ferreira
    “La decisione di cancellare la cooperazione originariamente prevista con la Russia e la Bielorussia attraverso i nostri programmi Interreg è il risultato della brutale guerra della Russia contro l’Ucraina”, ha commentato la commissaria per la Coesione e le riforme, Elisa Ferreira: “Sono lieta che i fondi che avevamo inizialmente previsto per questa cooperazione andranno ora a beneficio dei programmi dell’Ue con l’Ucraina e la Moldova”. Per la commissaria europea questo “contribuirà a rafforzare la collaborazione tra le regioni dell’Ue e gli attori locali con i partner ucraini e moldavi“.
    I 135 milioni di euro ri-orientati facevano parte dei programmi Interreg Next 2021-2027 con Mosca e Minsk, all’interno dello Strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale. Già con l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina la Commissione aveva deciso di sospendere la cooperazione con la Russia e l’alleato bielorusso nei programmi Interreg, determinando un’immediata ridistribuzione di 26 milioni di euro (sempre verso Ucraina e Moldova) e congelando i restanti. Con la decisione di oggi è stata completata la procedura finanziamenti rimanenti del periodo 2021-2027, compresa la possibilità per le regioni di Finlandia, Estonia, Lettonia e Polonia che avrebbero dovuto partecipare ai programmi Interreg con Russia e Bielorussia di cambiare in corsa la destinazione di cooperazione.
    Il Collegio dei commissari a Kiev (2 febbraio 2023)
    Mentre da Bruxelles è arrivata la proposta di modifica del regolamento per le reti transeuropee del trasporto (Ten-t) – per estendere quattro corridoi al territorio ucraino e moldavo ed escludere quello russo e bielorusso – nel concreto i finanziamenti Interreg ri-orientati potranno sostenere attività come corsie preferenziali e lo sviluppo di collegamenti di trasporto transfrontalieri. A queste si aggiungono anche quelle per i servizi sanitari, i progetti di istruzione e ricerca, i programmi di inclusione sociale e il rafforzamento della capacità istituzionale delle autorità pubbliche ucraine e moldave. “La partecipazione ai programmi Interreg apporta anche vantaggi in termini di capacità amministrativa ed esperienza a entrambi i Paesi nella gestione e nell’attuazione dei fondi Ue”, sottolinea l’esecutivo comunitario a proposito dei percorsi di integrazione europea dei due candidati all’adesione all’Unione.

    La Commissione ha deciso di trasferire i finanziamenti rimanenti dei programmi Interreg Next 2021-2027 con Mosca e Minsk (previsti dallo Strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale) per rafforzare la collaborazione tra le regioni europee con Kiev e Chișinău