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    A pochi giorni dalle elezioni presidenziali, il Parlamento del Montenegro è stato sciolto. Ritorno alle urne anticipato

    Bruxelles – Dopo le elezioni presidenziali, quelle parlamentari, per tentare di rimettere il Montenegro su una strada più stabile nel suo cammino verso l’adesione all’Unione Europea. Con un decreto presidenziale il leader del Paese balcanico, Milo Đukanović, ha sciolto ieri (16 marzo) il Parlamento nazionale a soli tre giorni dal primo turno di voto per eleggere il nuovo presidente della Repubblica – in cui proprio Đukanović cerca la riconferma – e oggi ha fissato le elezioni anticipate per l’11 giugno.
    “L’Assemblea è sciolta con decreto del Presidente del Montenegro, il decreto diventa effettivo il giorno in cui viene dichiarato”, si legge in un comunicato dell’ufficio di presidenza diffuso alla stampa. La decisione di emanare il decreto sulla base dell’articolo 92 della Costituzione nazionale è stata presa dopo il fallimento del primo ministro incaricato di formare un governo, Miodrag Lekić (leader dell’Alleanza Democratica Demos), che nei 90 giorni di tempo a sua disposizione non è riuscito a mettere insieme una maggioranza parlamentare (di 41 deputati su 81).
    Il tentativo di mettere fine alla crisi politica e istituzionale – invocato da mesi dal presidente Đukanović e in linea con il mandato iniziale del poi sfiduciato governo di Dritan Abazović – nel Paese considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Ue arriva a ridosso delle presidenziali programmate per domenica (19 marzo). Il leader del Partito Democratico dei Socialisti (Dps), eletto numero uno del Montenegro cinque anni fa, tenterà di sfruttare il proprio credito europeista per conquistare un secondo mandato, ma dovrà fronteggiare non solo i candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento – il leader del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić, e quello del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić – ma anche Jakov Milatović, il candidato del nuovo movimento europeista Europe Now, al primo vero banco di prova nazionale dopo il secondo posto alle amministrative dell’ottobre 2022 nella capitale Podgorica. Il sistema elettorale è a doppio turno: se nessun candidato otterrà la maggioranza dei voti domenica, si terrà il ballottaggio tra i due più votati il 2 aprile.
    In occasione delle elezioni presidenziali in Montenegro, anche una delegazione di sei eurodeputati guidata dal croato Tonino Picula (S&D) sarà presente nel Paese balcanico da oggi a lunedì (20 marzo). La delegazione di osservazione elettorale del Parlamento Europeo sarà inquadrata nella missione internazionale dell’Ufficio per le istituzioni democratiche per i diritti umani (Odihr) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Come reso noto dai servizi dell’Eurocamera, i sei eurodeputati incontreranno i candidati dei partiti politici, i rappresentanti delle autorità nazionali, della società civile e dei media nazionali, mentre domenica osserveranno le elezioni dall’apertura dei seggi fino alla chiusura, e successivamente seguiranno lo spoglio.
    I due anni e mezzo di crisi in Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via a un governo di minoranza guidato da Abazović.
    Da sinistra: il primo ministro ad interim del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stata appoggiata dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettata, perché considerata un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue.
    Mentre da allora Abazović è premier ad interim, a partire dal settembre dello scorso anno si è aggravata anche la crisi istituzionale. A sparigliare le carte è stato il via libera a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, che permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi.
    Il vero problema si è però innestato con la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Senza la sua piena funzionalità non è stato possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (si rimane ancora in attesa del quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese.

    La legislatura si chiude con un anno e mezzo di anticipo, dopo che il leader del Paese alla ricerca di riconferma, Milo Đukanović, ha sciolto per decreto l’Assemblea nazionale, per mettere fine alla crisi politica. La tornata elettorale sarà organizzata per l’11 giugno

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    L’Ue al fianco della Moldova nella lotta contro i disordini sobillati dalla Russia: “Supporto incrollabile a Chișinău”

    Bruxelles – Dopo l’allarme, la reazione. Le autorità della Repubblica di Moldova hanno annunciato di aver arrestato sette persone con l’accusa di favoreggiamento di disordini durante le proteste antigovernative filo-russe di ieri (12 marzo). Una rete “orchestrata da Mosca” per destabilizzare la situazione interna al Paese candidato all’adesione all’Unione Europea, di cui farebbero parte cittadini moldavi e “agenti russi” inviati direttamente dal Cremlino per organizzare “disordini di massa” a Chișinău.
    Proteste anti-governative a Chișinău, Moldova, il 12 marzo 2023 (credits: Daniel Mihailescu / Afp)
    “Congratulazioni alla polizia moldava, che ha arrestato persone sospettate di aver pagato per promuovere disordini filorussi e antigovernativi”, è il commento della commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, ricordando che “il sostegno dell’Ue alla Moldova rimane essenziale“. Una dimostrazione è stata la riunione di venerdì (10 marzo) del Nucleo di sostegno Ue insieme alla ministra degli Interni moldava, Ana Revenco, in cui è stata firmata una lettera di intenti con Europol per garantire un supporto nella lotta al crimine organizzato. A margine dello stessa riunione a Bruxelles la ministra Revenco ha avvertito che “la Repubblica di Moldova è la seconda linea dell’aggressione russa contro l’Ucraina”. Nel corso della giornata di ieri migliaia di manifestanti filo-russi hanno marciato nella capitale del Paese, guidati da esponenti di Șor, il partito di Ilan Shor, oligarca moldavo sanzionato nell’ottobre dello scorso anno dagli Stati Uniti per la sua vicinanza al governo russo (la stessa cosa il governo moldavo chiede a Bruxelles di fare) e oggi in esilio in Israele per proteggersi da un furto bancario da 1 miliardo di dollari.
    Prima della riunione con la commissaria Johansson la ministra Revenco aveva fatto un riferimento implicito alle responsabilità anche di Shor nel rischio di colpo di Stato in Moldova, parlando di “sforzi e risorse di Mosca, gruppi di interesse e oligarchi fuggiti per aumentare il livello di destabilizzazione nel Paese”. Le autorità di polizia hanno anche informato che nell’ultima settimana è stato negato l’ingresso in Moldova a 182 cittadini stranieri – tra cui un “possibile rappresentante” del gruppo militare privato russo Wagner – mentre l’agenzia anti-corruzione ha effettuato un sequestro pari a oltre 200 mila euro per un presunto finanziamento illegale di Șor da parte di un gruppo di criminalità organizzata legato a Mosca. “La Moldova è uno dei Paesi più negativamente colpiti dalle conseguenze della guerra russa in Ucraina, negli ultimi mesi è diventato sempre più target degli attacchi ibridi e della disinformazione russa”, ha ricordato alla stampa il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano: “L’obiettivo è chiaro, minare e destabilizzare il Paese e le sue riforme anti-corruzione del governo pro-Ue”.
    Nelle ultime settimane si sono svolte diverse proteste da parte del gruppo Movimento per il Popolo – che riunisce diversi gruppi, associazioni e partiti filo-russi come Șor – per spingere la presidente europeista Maia Sandu a rassegnare le dimissioni. Non è un caso se poco meno di un mese fa Sandu ha confermato un report dell’intelligence ucraina, secondo cui il Cremlino ha messo in atto un piano per “rompere l’ordine democratico e stabilire il controllo” russo sul Paese candidato all’adesione Ue: l’obiettivo sarebbe “un cambio di potere a Chișinău”, attraverso “azioni violente, mascherate da proteste della cosiddetta opposizione“, con il coinvolgimento di “cittadini stranieri”. Per sostenere la leadership moldava, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha telefonato ieri alla presidente Sandu: “Il sostegno dell’Ue è incrollabile“, ha confermato il numero uno del Consiglio, precisando che è necessario “continuare a lavorare insieme in questa nuova fase di relazioni strategiche”. La conversazione telefonica è stata anche un’occasione per discutere della seconda riunione della Comunità Politica Europea, che il primo giugno porterà i capi di Stato e di governo dei Paesi proprio a Chișinău, ma anche della “determinazione della Moldova a portare avanti le riforme e gli sforzi per avanzare sulla strada Ue”.
    Le tensioni interne in Moldova
    Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina il 24 febbraio 2022 sono aumentate le tensioni nella Repubblica di Moldova e in particolare nell’autoproclamata Repubblica filo-russa della Transnistria, nell’est del Paese, con attacchi a Tiraspol e lungo il confine con l’Ucraina (primi segnali di strategia di destabilizzazione russa e di tentativo di trovare un pretesto per un possibile intervento armato). Nell’ultimo mese si sono registrati sempre più numerosi atti di provocazione palese di Mosca, con missili che attraversano lo spazio aereo della Repubblica di Moldova in direzione del territorio ucraino, mentre lo scorso 9 febbraio il presidente Volodymyr Zelensky ha informato per primo i 27 leader Ue (come poi confermato dalla presidente Sandu) del piano del Cremlino per “rompere l’ordine democratico e stabilire il controllo” russo sul Paese che ha ottenuto lo status di candidato dal 23 giugno dello scorso anno.
    Sul piano politico la situazione è particolarmente delicata, con le dimissioni dimissioni a sorpresa dello scorso 10 febbraio da parte della prima ministra europeista, Natalia Gavrilița. A succederle è stato scelto l’ex-segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza ed ex-ministro degli Affari Interni, Dorin Recean, che ha subito tranquillizzato sul fatto che sicurezza, economia e integrazione Ue saranno le priorità del governo, a partire dalla “realizzazione di tutte le condizioni per l’adesione all’Unione Europea” nel più breve tempo possibile. La Moldova aveva fatto richiesta formale per aderire all’Ue il 3 marzo dello scorso anno, a una settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ricevendo il via libera della Commissione tre mesi più tardi e il successivo benestare del Consiglio Ue alla concessione dello status di Paese candidato il 23 giugno.

    La polizia ha arrestato sette persone legate al Cremlino durante le proteste antigovernative guidate da Șor, il partito filo-russo dell’oligarca Ilan Shor. Colloquio telefonico tra i presidenti del Consiglio Ue, Charles Michel, e del Paese candidato all’adesione Ue, Maia Sandu

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    Il partito di governo in Georgia ritirerà il progetto di legge sugli agenti stranieri dopo due giorni di proteste

    Bruxelles – Dopo due giorni di proteste e manifestazioni di piazza da parte di decine di migliaia di cittadini, la Georgia sta vivendo la sua Maidan. Come l’Ucraina nel 2014, i georgiani si sono opposti con la forza delle proprie speranze europeiste e con le bandiere dell’Unione Europea a un progetto di legge dai tratti spiccatamente filo-russi. E i risultati si stanno vedendo, con l’annuncio – ancora non formalizzato con un passaggio legale – da parte del partito al governo Sogno Georgiano sul ritiro del controverso progetto di legge sulla “trasparenza dell’influenza straniera”, approvato martedì (7 marzo) dal Parlamento in prima lettura.
    Le proteste dei manifestanti georgiani a Tbilisi contro il progetto di legge sulla “trasparenza dell’influenza straniera”, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    A rendere nota la decisione del governo guidato da Irakli Garibashvili è stato lo stesso partito Sogno Georgiano, con una nota pubblicata in risposta alla seconda serata di proteste davanti alla sede del Parlamento nazionale e all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sempre più marcata, in particolare nell’Unione a cui la Georgia ha chiesto formalmente di aderire il 4 marzo dello scorso anno. Il ritiro della legge “senza condizioni” si è reso necessario secondo il partito di governo per “senso di responsabilità” nei confronti della società georgiana, a fronte di una tensione interna in aumento. Gli esponenti del partito fondato e presieduto dall’oligarca Bidzina Ivanishvili – che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo sull’imposizione di sanzioni personali – si sono però lamentati del fatto che la proposta è stata etichettata “ingiustamente” come filo-russa e hanno ribadito che, non appena “l’emotività si sarà placata”, spiegheranno ai cittadini l’importanza della legge sulla trasparenza dei finanziamenti esteri.
    Scritte contro la Russia durante le proteste a Tbilisi (7 marzo 2023)
    In sostanza c’è stato l’annuncio di un passo indietro del governo, ma non uno sconfessamento della legge che prevede la registrazione di tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo sinistramente simile a quella in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Ed è per questo motivo che le opposizioni e la società civile georgiana hanno annunciato di voler proseguire le proteste – almeno fino a quando non saranno chiarite le modalità di ritiro del progetto di legge – mentre l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito “un buon segno” la decisione del governo, ma “ora devono seguire passi legali concreti“. Lo stesso Borrell ha definito “forte e commoventi” le proteste pacifiche nella capitale Tbilisi: “I georgiani sono scesi in piazza per esprimere la loro aspirazione alla democrazia e ai valori europei”.
    Ad accogliere per prima il ritiro del progetto di legge è stata la delegazione Ue in Georgia, che ha incoraggiato “tutti i leader politici” a “riprendere le riforme europee, in modo inclusivo e costruttivo e in linea con le 12 priorità per ottenere lo status di candidato” all’adesione all’Unione Europea. Se alle parole seguiranno i fatti, “la Georgia può continuare a contare sul nostro sostegno nel suo percorso verso l’Ue”, ha promesso il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Vàrhelyi.

    Georgians took the streets to express their aspiration for democracy and European values. These peaceful protest were strong and moving to see.
    Announcement to withdraw the draft law on “transparency of foreign influence” is a good sign, now concrete legal steps need to follow. pic.twitter.com/Zi4NJST6iZ
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) March 9, 2023

    Il sostegno degli eurodeputati ai manifestanti in Georgia
    I più sensibili alle proteste dei cittadini georgiani sono stati i membri del Parlamento Europeo, in modo trasversale e in particolare nella delegazione italiana. “Una vittoria per la democrazia, le libertà e per l’Europa“, ha esultato il capo-delegazione del terzo polo, Nicola Danti (Italia Viva), “ma non è finita, dobbiamo continuare a sostenere chi vuole il percorso europeista senza abbassare la guardia”. Il collega del gruppo liberale ed ex-premier del Belgio, Guy Verhofstadt, ha sottolineato che le manifestazioni dimostrano “quanto le persone abbiano a cuore la democrazia liberale quando e dove è minacciata”.

    Wow.
    This is how much people really care about liberal democracy whenever and wherever it’s under threat. Full support to democratic Georgia ! 🇪🇺✊🏻 pic.twitter.com/988goSbH2Y
    — Guy Verhofstadt (@guyverhofstadt) March 9, 2023

    Dopo le parole di sostegno della vicepresidente del Parlamento Ue, Pina Picierno, dalle fila del Partito Democratico anche Camilla Laureti ha messo in evidenza come “la forza dell’Europa non sono astratti convegni e seminari”, ma “la forza dell’Europa è essere simbolo e pratica di libertà“, come dimostrano le immagini della donna che sventola in piazza a Tbilisi la bandiera con le dodici stelle su campo blu, non cedendo ai getti dei cannoni ad acqua. Il collega olandese del gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D) al Parlamento Ue Thijs Reuten ha ribadito che “Georgia è Europa” e che “il popolo georgiano non potrebbe essere più chiaro: no alla legge russa”. Per questo motivo il gruppo S&D ha chiesto di inserire un dibattito alla sessione plenaria della settimana prossima sull’impatto della legge sugli agenti stranieri sulla prospettiva europea di Tbilisi, che sarà discussa nel pomeriggio di martedì (14 marzo) a Strasburgo.
    Dalle fila del gruppo dei Verdi/Ale Ignazio Corrao ha messo in guardia dal “disegno di Putin, il metodo è lo stesso”, come dimostrano le immagini da Tbilisi che “ci riportano indietro negli anni a quello che è successo in Ucraina“. Per questo motivo da Bruxelles arriva “sostegno e solidarietà al popolo georgiano che in questi giorni sta lottando in piazza per il suo futuro”.

    La forza dell’#Europa non sono astratti convegni e seminari.La forza dell’Europa è essere simbolo e pratica di #libertà #Georgia pic.twitter.com/ijKY72QhNf
    — Camilla Laureti (@camillalaureti1) March 9, 2023

    A Bruxelles accolta con favore la decisione di Sogno Georgiano di non dare seguito alla legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’, osteggiata dai manifestanti europeisti. L’alto rappresentante Ue Borrell: “È un buon segno, ora devono seguire passi legali concreti”

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    Cosa prevede la proposta Ue in 11 punti accettata da Serbia e Kosovo per la normalizzazione dei loro rapporti

    Bruxelles – C’è il via libera delle parti, ora servirà un intenso lavoro per l’implementazione e la firma dell’accordo definitivo. A Bruxelles è scattato ieri sera (27 febbraio) il semaforo verde all’ultimissima versione di quella che fu la proposta franco-tedesca per la normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia e che oggi è a tutti gli effetti una proposta Ue perché, come puntualizzato dall’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, “tutti i 27 Paesi membri l’hanno appoggiata”. Compresi i cinque che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia).
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti (27 febbraio 2023)
    Un totale di 11 punti, due in più rispetto alla versione di partenza dello scorso settembre, che dovranno regolare i rapporti futuri tra i due Paesi balcanici. L’intesa politica tra il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti – esplicita a Bruxelles, ma più o meno tacita in patria per tutte le sue implicazioni nei due Paesi – è sicuramente un passo in avanti rispetto agli altri sei vertici di alto livello svoltisi a Bruxelles dal 2019 a ieri. Tuttavia l’attenzione è già rivolta al prossimo incontro di metà marzo, quando si dovranno prendere decisioni pratiche per mettere a terra gli impegni di principio sanciti negli 11 punti della proposta Ue dal titolo Agreement on the path to normalization between Kosovo and Serbia.
    Il testo della proposta Ue sui rapporti Kosovo-Serbia
    Leggendo il testo della proposta Ue è palese la ripresa della base di partenza franco-tedesca, sviscerata con i risultati di cinque mesi di confronto diplomatico tra Bruxelles, Pristina e Belgrado. L’articolo 1 si imposta sull’incipit originario “le Parti sviluppano tra loro relazioni normali e di buon vicinato sulla base della parità di diritti”, ma aggiunge che i due Paesi dovranno anche “riconoscere reciprocamente i rispettivi documenti e simboli nazionali, compresi passaporti, diplomi, targhe e timbri doganali”. Un evidente richiamo a quanto accaduto rispetto alle tensioni nel nord del Kosovo tra fine luglio e dicembre per l’imposizione delle targhe kosovare alla minoranza serba.
    Sparito dall’articolo 2 il riferimento alle reciproche aspirazioni all’adesione all’Ue, sostituito dagli “obiettivi e principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, in particolare quelli dell’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati, del rispetto della loro indipendenza, autonomia e integrità territoriale, del diritto all’autodeterminazione, della tutela dei diritti umani e della non discriminazione”. Rimane implicito il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia (in vigore unilateralmente dal 17 febbraio 2008), rafforzato dal punto 4: “Le Parti partono dal presupposto che nessuna delle due può rappresentare l’altra nella sfera internazionale o agire per suo conto”. La nuova aggiunta di peso è il paragrafo che precisa senza ambiguità che “la Serbia non si opporrà all’adesione del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale“. Eventuali controversie dovranno essere risolte “esclusivamente con mezzi pacifici” e astenendosi “dalla minaccia o dall’uso della forza”, precisa l’articolo 3.
    Il riferimento al ruolo dell’Ue trova invece spazio nei due punti successivi. L’articolo 5 mette nero su bianco che “nessuna delle due Parti bloccherà, né incoraggerà altri a bloccare” – un richiamo tra le righe ai membri Ue contrari all’adesione del Kosovo, ma anche allo stretto rapporto tra Serbia e Ungheria – “i progressi dell’altra Parte nel rispettivo cammino verso l’Ue sulla base dei propri meriti”. L’articolo 6 aggiunge che Pristina e Belgrado “proseguiranno con nuovo slancio il processo di dialogo guidato dall’Ue che dovrebbe portare a un accordo giuridicamente vincolante sulla normalizzazione globale delle loro relazioni“. Più nello specifico serviranno “accordi aggiuntivi” sulla “futura cooperazione nei settori dell’economia, della scienza e della tecnologia, dei trasporti e della connettività, delle relazioni giudiziarie e delle forze dell’ordine, delle poste e delle telecomunicazioni, della sanità, della cultura, della religione, dello sport, della tutela dell’ambiente, delle persone scomparse, degli sfollati “.
    I comuni interessati dall’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, come previsto dall’accordo del 2013
    L’articolo 7 sviluppa il punto precedente, ma focalizzandosi sui diritti della minoranza serba in Kosovo. Anche in questo caso non è esplicito il riferimento all’Associazione delle municipalità serbe nel Paese prevista dall’accordo del 2013 (mai implementato), ma non è difficile leggere le condizioni che Pristina dovrà accettare. Gli “accordi e garanzie specifiche” per “assicurare un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo e la capacità di fornire servizi in settori specifici” si baseranno su “strumenti pertinenti del Consiglio d’Europa e attingendo alle esperienze europee esistenti”. È prevista anche la possibilità di un “sostegno finanziario da parte della Serbia e un canale di comunicazione diretto per la comunità serba con il governo del Kosovo”, ma anche una formalizzazione dello status della Chiesa serbo-ortodossa in Kosovo e un “forte livello di protezione ai siti del patrimonio religioso e culturale serbo” nel Paese confinante.
    L’articolo 8 riprende integralmente lo stesso punto della proposta franco-tedesca: “Le Parti si scambiano missioni permanenti, che saranno istituite presso la sede del rispettivo governo” e “le questioni pratiche relative all’istituzione delle missioni saranno trattate separatamente”. Prima della precisazione all’articolo 10 che Pristina e Belgrado “confermano l’obbligo di attuare tutti i precedenti accordi di dialogo, che restano validi e vincolanti” sotto l’egida di un “comitato congiunto presieduto dall’Ue per il monitoraggio dell’attuazione del presente accordo” – che riprende e amplia l’ultimo punto della versione di partenza della proposta di mediazione – a Bruxelles è stato deciso di inserire un altro articolo. Quello che ricorda e rafforza “l’impegno dell’Ue e di altri donatori a creare un pacchetto speciale di investimenti e di sostegno finanziario per i progetti comuni delle Parti in materia di sviluppo economico, connettività, transizione ecologica e altri settori chiave”.
    L’ultimo punto è quello su cui ci sarà più da lavorare, perché è la vera chiave di volta di tutta l’intesa: “Le Parti si impegnano a rispettare la tabella di marcia per l’attuazione allegata al presente Accordo“. Il testo dell’allegato non è pubblico, fonti diplomatiche a Bruxelles spiegano a Eunews che al momento dovrebbe rimanere riservato per una serie di motivazioni non meglio specificate (ma intuibili, considerato il delicato equilibrio per raggiungere un accordo definitivo tra Pristina e Belgrado). È certo però che sui dettagli di questo documento di implementazione dell’intesa si concentrerà il lavoro delle prossime settimane, in attesa del nuovo faccia a faccia tra Vučić, Kurti e i negoziatori Ue a metà marzo.

    Rimangono impliciti (ma evidenti nelle implicazioni pratiche) il riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da Belgrado e l’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Sarà decisivo il rispetto della tabella di marcia allegata per l’implementazione dell’accordo

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    I leader di Serbia e Kosovo hanno accettato la proposta Ue per normalizzare i rapporti. Ora dovrà essere implementata

    Bruxelles – È l’ultimo chilometro, quello in cui la meta si vede, sembra vicinissima, ma allo stesso tempo quello più difficile, in cui fallire può diventare la più grande débâcle. Questo è il punto in cui si trova il dialogo mediato dall’Unione Europea per la normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, proprio oggi (27 febbraio) in cui si è assistito a uno dei momenti più decisivi degli ultimi anni. Perché per la prima volta da quando esiste il dialogo Pristina-Belgrado i leader dei due Paesi balcanici hanno accettato la proposta di mediazione dell’Ue che spiana la strada verso un accordo definitivo.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti (27 febbraio 2023)
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, “hanno concordato che non serviranno altre discussioni sulla proposta dal titolo Agreement on the path to normalization between Kosovo and Serbia” è l’annuncio soddisfatto alla stampa dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al termine degli incontri durati tutto il pomeriggio. Dopo la presentazione per la proposta franco-tedesca nel settembre dello scorso anno, “ci siamo impegnati in un’intensa diplomazia navetta” a Bruxelles, con il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, volato “dieci volte a Pristina e otto a Belgrado”. Oggi si può parlare di una proposta Ue – il cui testo “sarà pubblicato a breve” dal Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) – perché “tutti i 27 Paesi membri l’hanno appoggiata al livello più alto possibile all’ultimo Consiglio Europeo” e i due leader balcanici “si sono mostrati favorevoli ad accettare soluzioni sostenibili”.
    Siamo ancora all’ultimo chilometro, e non al traguardo, perché ciò che manca è l’implementazione di un accordo politico a tutti gli effetti. “Abbiamo una lunga storia di accordi non implementati, ma le parti hanno confermato di essere pronte a farlo in modo rapido”, ha rassicurato l’alto rappresentante Ue, con implicito riferimento all’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo stabilita nell’accordo di Bruxelles del 2013 e ancora al centro delle polemiche per la mancata istituzione: “L’Ue ha ricordato l’obbligo di implementare tutti gli accordi già firmati, che rimangono validi e vincolanti”. Nel frattempo “la diplomazia navetta continuerà”, con il rappresentante speciale Lajčák che “continuerà le discussioni a Belgrado e Pristina” e Borrell che convocherà “un nuovo incontro di alto livello tra i due leader a metà marzo“. L’obiettivo è proprio quello di “completare le discussioni” sulla chiave di volta di tutta l’intesa raggiunta oggi: “L’allegato di implementazione, che è parte dell’accordo, ma deve ancora essere finalizzato“.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    La parola d’ordine di Borrell è “fiducia reciproca”, soprattutto sulle promesse di astenersi da “azioni non coordinare che potrebbero portare nuove tensioni sul campo e far deragliare i negoziati” sull’accordo definitivo di normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. L’intesa “non è utile tanto per l’Ue, quanto piuttosto per i cittadini di Kosovo e Serbia”, è l’ennesimo esortazione di Borrell al buon senso. Si parla di “libertà di movimento utilizzando il proprio passaporto e le proprie targhe, reciprocamente riconosciuti”, di “possibilità economiche, assistenza finanziaria, cooperazione imprenditoriale e nuovi investimenti”. Di più “opportunità di lavoro, senza burocrazia inutile, e di commercio, perché i certificati di import ed export non saranno più un problema”. Di più “sicurezza, certezza e prevedibilità” sulla protezione dei diritti della minoranza serba in Kosovo, “compresa la Chiesa ortodossa e i siti culturali e archeologici”. Di un nuovo futuro di rapporti pacifici tra i due vicini balcanici, dopo la tragedia del conflitto etnico tra il 1998 e il 1999.
    I 12 anni di dialogo tra Kosovo e Serbia
    Era l’8 marzo 2011 quando le delegazioni della Serbia e del Kosovo si sedevano per la prima volta al tavolo del dialogo dell’Ue, per trovare una soluzione sul mantenimento della stabilità dei Balcani occidentali dopo lo scossone della dichiarazione di indipendenza unilaterale di Pristina da Belgrado di tre anni prima. In sette mesi di negoziati a Bruxelles si è arrivati a una serie di accordi: fine dell’embargo commerciale, riconoscimento dei timbri doganali kosovari, possibilità di varcare il confine tra i due Stati per i cittadini e condivisione dei registri catastali e dei documenti su nascite, morti e matrimoni. È seguito poi un altro altro anno e mezzo di accordi tecnici, per risolvere le questioni più urgenti a livello commerciale, burocratico e diplomatico.
    Il 2013 ha segnato l’inizio del dialogo Serbia-Kosovo di alto livello. A due anni dall’inizio dei negoziati si è arrivati al successo della firma dell’Accordo sui principi che disciplinano la normalizzazione delle relazioni, il 19 aprile del 2013. Da quel momento sono potuti così iniziare i lavori per siglare l’Accordo di stabilizzazione e associazione con Pristina e i negoziati di adesione all’Unione per Belgrado. Non sono stati affrontati però i due temi più urgenti per implementare l’accordo di Bruxelles: il riconoscimento della sovranità del Kosovo da parte di Belgrado e la creazione della Comunità delle municipalità serbe nel Paese con il benestare di Pristina. Dal 2014 è iniziato un periodo di tensione e interruzioni continue dei lavori, fino al congelamento del dialogo nel novembre del 2018 a causa della decisione del governo kosovaro di introdurre dazi maggiorati del 100 per cento sulle merci provenienti da Serbia e Bosnia ed Erzegovina.
    Lo stallo per le relazioni tra i due Paesi è durato 20 mesi, fino a quando il presidente serbo Vučić e l’ex-premier kosovaro, Avdullah Hoti, sono tornati per tre volte ai tavoli dei negoziati tra il 12 luglio e il 7 settembre del 2020. A esacerbare nuovamente i rapporti tra le due parti ha contributo l’elezione del governo nazionalista di Kurti nel febbraio del 2021, che ha alzato il livello di tensione retorica con l’altrettanto nazionalista Vučić. Ecco perché dopo due infruttuosi vertici a Bruxelles il dialogo si è bloccato di nuovo sotto i colpi della cosiddetta battaglia delle targhe tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro.
    Una questione che ha infiammato anche la seconda metà del 2022, con blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara a fine luglio, altre due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles e le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali a inizio novembre. Parallelamente agli intensi colloqui per trovare una soluzione di compromesso sulle targhe (raggiunta nella notte tra il 23 e il 24 novembre), Francia e Germania hanno dato una spallata decisiva per portare a termine il dialogo Pristina-Belgrado con la proposta in 9 punti (aggiornata e assorbita dai negoziatori europei alla vigilia del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana). Le continue fiammate tra le due parti negli ultimi mesi – sia sul piano diplomatico, sia con nuove barricate a inizio dicembre – hanno suggerito che l’accordo era sempre più vicino: entrambi gli attori politici – marcatamente nazionalisti – hanno esasperato la propria retorica per uscire dai negoziati con un compromesso più favorevole. Il via libera all’intesa definitiva tra Kosovo e Serbia a Bruxelles oggi ha confermato pienamente questo scenario, in attesa di portare a termine l’ultimissimo chilometro.

    Il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, hanno dato il via libera alla proposta avanzata Bruxelles e sostenuta da tutti i Paesi membri dell’Unione. A metà marzo un nuovo vertice di alto livello per portare a termine gli allegati all’accordo ancora non finalizzati

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    L’Ue accoglie la nomina di 3 giudici della Corte Costituzionale del Montenegro: “Riforme per avanzare sul percorso europeo”

    Bruxelles – Un passo in avanti per scongiurare una crisi istituzionale cronica che porterebbe a un pericoloso stop del Montenegro nella sua strada verso l’adesione all’Unione Europea. Dopo mesi di stallo, l’Assemblea del Montenegro è riuscita oggi (27 febbraio) a eleggere tre dei quattro giudici della Corte Costituzionale vacanti, condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese. Un accordo arrivato al termine di un “dialogo politico duro, lungo ma fruttuoso, che ha prodotto oggi dei risultati”, ha sottolineato con forza la presidente dell’Assemblea nazionale, Danijela Đurović, esultando per la “ripartenza del nostro viaggio nell’Ue, perché il Montenegro vi appartiene”.
    Da sinistra: il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    “Accolgo con grande favore la nomina dei giudici della Corte Costituzionale mancanti da parte dell’Assemblea del Montenegro, è un passo davvero importante verso un sistema giudiziario pienamente funzionante“, è il commento del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel: “Garantire istituzioni adeguate e stabili è fondamentale, così come lo sono riforme credibili dell’Ue, in modo che il Montenegro possa avanzare sul percorso europeo”. Analisi simile quella presentata dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, che ha voluto anche ricordare che “ora ci sono tutte le condizioni per organizzare le elezioni presidenziali e generali“. Proprio a questo proposito è utile ricordare che il prossimo 19 marzo gli elettori montenegrini si recheranno alle urne per scegliere il prossimo presidente della Repubblica, carica ricoperta dal 2018 da Milo Đukanović (e precedentemente dal 1998 al 2022).
    “Questo è il primo passo per risolvere la crisi costituzionale del Paese, invitiamo tutti gli attori politici a lavorare insieme per il futuro europeo del Montenegro”, è l’esortazione del relatore del Parlamento Europeo per il Montenegro, Tonino Picula (S&D), a cui ha fatto eco il presidente della delegazione alla commissione parlamentare di stabilizzazione e associazione Ue-Montenegro, Vladimír Bilčík (Ppe): “La cultura del dialogo e del compromesso al di là delle linee di partito è l’unica strada da percorrere per progredire sulla via dell’Ue”. L’obiettivo ora deve essere “l’elezione rapida del quarto giudice” mancante, ha precisato l’eurodeputato slovacco.
    La crisi istituzionale in Montenegro
    Da sinistra: il primo ministro del Montenegro, Dritan Abazović, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    La nomina dei giudici è di cruciale importanza se si considera lo scenario istituzionale particolarmente critico nel Paese che a Bruxelles è considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Ue tra i 10 che sono coinvolti nel processo di allargamento dell’Unione. La vacanza dei membri della Corte Costituzionale si accompagna da mesi a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo. Considerato il fatto che la Corte Costituzionale è l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge, senza la sua piena funzionalità non è possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei.
    Eppure l’iter di approvazione della legge è proseguito lo stesso a Podgorica. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi. La legge permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato: in caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese Đukanović ha proposto di tornare alle urne, dopo essersi rifiutato di confermare come nuovo primo ministro il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno.
    La crisi politica a Podgorica
    Tutto questo mentre dal 2020 il Paese vive in una costante crisi politica. Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni per la primavera del 2023, esattamente ciò che continuano ad augurarsi le istituzioni comunitarie.
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue. Da allora Abazović è premier ad interim, mentre si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare la maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne. Alle prossime elezioni presidenziali ci sarà da fare attenzione al nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, Europe Now, al primo vero banco di prova nazionale dopo il secondo posto alle amministrative di ottobre 2022 a Podgorica (21,7 per cento dei voti e 13 seggi su 58 in Assemblea cittadina).

    Dopo mesi di stallo e crisi istituzionale, è arrivato il via libera del Parlamento nazionale: ora manca l’intesa per il quarto (e ultimo) posto vacante per rendere “pienamente funzionante” l’organo costituzionale. E il 19 marzo si terranno le cruciali elezioni presidenziali

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    Cos’è l’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo al centro dell’anno cruciale per il dialogo Pristina-Belgrado

    Bruxelles – Non c’è speranza di chiudere nel 2023 un accordo definitivo per la normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, se non si raggiunge un’intesa vincolante per l’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, come previsto dall’accordo di Bruxelles siglato esattamente 10 anni fa. Passano da qui gli sforzi diplomatici di Unione Europea e Stati Uniti per quanto riguarda il dialogo Pristina-Belgrado, entrato nel suo tredicesimo anno di vita e diventato ormai l’unica soluzione per chiudere contese e tensioni tra i due vicini balcanici.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (13 novembre 2022)
    Mentre le pressioni della diplomazia europea e statunitense rimangono particolarmente forti su Belgrado – per l’adozione delle sanzioni internazionali contro la Russia e l’allineamento alla politica estera dell’Ue – non sono da meno quelle nei confronti di Pristina, proprio sulla questione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Già nel dicembre del 2021 l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, aveva avvertito il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, che è imperativo il rispetto di tutti gli accordi sottoscritti con Belgrado, ma nel corso delle ultime settimane le missioni diplomatiche di Bruxelles e Washington – spinte anche dal tridente Francia-Germania-Italia – hanno puntato con forza su questo punto, per sgombrare il campo da ripensamenti o passi indietro rispetto agli impegni presi nel contesto del dialogo mediato dall’Ue.
    Lo dimostra in tutta la sua evidenza la nota del consigliere del Dipartimento di Stato americano, Derek Chollet, e dell’inviato speciale degli Stati Uniti per i Balcani Occidentali, Gabriel Escobar, pubblicata oggi (30 gennaio) a proposito delle “condizioni per una relazione sana, pacifica e sostenibile tra Serbia e Kosovo”. La proposta di mediazione franco-tedesca – ormai divenuta a tutti gli effetti la proposta di mediazione europea – è studiata per “interrompere la spirale di crisi e scontri e far progredire con decisione l’integrazione” dei due Paesi nell’Unione, ma per l’amministrazione Biden “uno dei compiti più critici” è sempre quello che riguarda l’attuazione dell’accordo sull’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo. Un “obbligo internazionale, giuridicamente vincolante, che richiede un’azione da parte del Kosovo, della Serbia e dell’Unione Europea”, ma che allo stesso tempo “non mina la Costituzione né minaccia la sovranità, l’indipendenza o le istituzioni democratiche” del Kosovo.

    As Kosovo’s closest friend & ally, we believe that by working to establish the ASM, Kosovo will realize a critical element needed to build its rightful future as a sovereign, multiethnic, and independent country, integrated into Euro-Atlantic structures. https://t.co/iFfSYo2Qao pic.twitter.com/c8yGJYVeHl
    — U.S. Embassy Pristina (@USEmbPristina) January 30, 2023

    Il nodo tra Serbia e Kosovo
    Secondo quanto sottoscritto dalle due parti nell’accordo di Bruxelles del 2013, per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi balcanici dopo la dichiarazione di indipendenza unilaterale del Kosovo dalla Serbia il 17 febbraio 2008 è prevista l’istituzione di “un’associazione/comunità di comuni a maggioranza serba in Kosovo”, aperta a “qualsiasi altro comune, purché i membri siano d’accordo”. Un’Associazione creata “da uno statuto”, con un suo presidente, vicepresidente, Assemblea e Consiglio e la possibilità di “cooperare nell’esercizio dei loro poteri in modo collettivo” nei settori dello “sviluppo economico, istruzione, sanità, pianificazione urbana e rurale“. Forze di polizia e autorità giudiziarie saranno uniche per tutto il Kosovo, ma con l’autorizzazione alla formazione di un comando regionale di polizia per le quattro municipalità settentrionali a maggioranza serba (Mitrovica settentrionale, Zvecan, Zubin Potok e Leposavic) e un collegio di giudici istituito dalla Corte d’Appello di Pristina per occuparsi di tutte le municipalità a maggioranza serba del Kosovo.
    A 10 anni dall’accordo di Bruxelles non sono stati compiuti progressi sostanziali per l’implementazione sul campo dei 15 punti, mentre si sono acuite nell’ultimo anno le tensioni nel nord del Kosovo sia sulla questione delle targhe per i veicoli sia per le conseguenze delle dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia serbo-kosovari dalle rispettive istituzioni nazionali. L’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo è considerata da Belgrado un’entità di governo che deve essere istituita proprio a partire dall’intesa giuridicamente vincolante di Bruxelles, ma è anche una potenziale leva politica in mano del presidente della Serbia, Aleksander Vučić, per continuare a controllare indirettamente una zona contesa (l’intero Kosovo è tutt’ora considerato parte del Paese). Quello che invece contesta Pristina – dopo il deciso cambio di rotta del governo nazionalista di Kurti dall’elezione del 2021 – è che la nuova Associazione in Kosovo non sia nient’altro che una replica della fallimentare Republika Srpska in Bosnia ed Erzegovina, l’entità a maggioranza serba nel Paese che negli ultimi anni ha portato a una destabilizzazione sempre maggiore del Paese proprio per l’eccessiva autonomia garantita a un establishment politico filo-russo.
    “Siamo assolutamente contrari alla creazione di qualsiasi entità che assomigli alla Repubblica Srpska in Bosnia ed Erzegovina“, hanno assicurato i due diplomatici statunitensi nella nota, chiedendo invece a Pristina di “fornire la propria visione di questa associazione”. Secondo quanto emerge dalle parole di Chollet ed Escobar, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, avrebbe fatto notare al premier Kurti che “esistono 14 accordi simili all’interno dell’Unione Europea, nessuno dei quali viola i sistemi europei di governo effettivo”, che garantiscono autonomie specifiche all’interno del quadro degli Stati nazionali. L’associazione “non sarebbe mono-etnica” e “non aggiungerebbe un nuovo livello di potere esecutivo e legislativo al governo del Kosovo”, assicurano i mediatori, mentre l’aspetto più positivo potrebbe essere il fatto che “i comuni che condividono interessi, lingua e cultura potrebbero lavorare insieme in modo più efficace per affrontare le sfide comuni” negli ambiti autorizzati dall’accordo di Bruxelles del 2013.

    Unione Europea e Stati Uniti stanno cercando di mediare tra Serbia e Kosovo su uno dei punti più divisivi dei negoziati. La creazione della comunità è prevista dall’accordo di Bruxelles del 2013, ma il rischio è quello di istituzionalizzare la divisione etnica, come con la Republika Srpska in Bosnia

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    Edi Rama sbeffeggia l’Ue sul Qatargate. Ma dovrebbe prima preoccuparsi per il livello di corruzione in Albania

    Bruxelles – Con un sorriso sornione e la classica loquela tra lo scherzoso e il cinico, il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, si toglie un sassolino dalla scarpa con la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, al World Economic Forum di Davos: “Quando lo scandalo di corruzione [Qatargate, ndr] è emerso, ho pensato subito che karma is a bitch“. Un’espressione piuttosto colorita – almeno per un forum internazionale come Davos – per sottolineare che il destino talvolta sa essere beffardo e che, dopo anni a chiedere all’Albania e agli altri Paesi dei Balcani Occidentali maggiori sforzi sullo Stato di diritto, è proprio Unione Europea a dover fare i conti con le falle nel sistema di integrità e trasparenza delle sue stesse istituzioni.
    La presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola (a sinistra), e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (a destra), al World Economic Forum di Davos (19 gennaio 2023)
    Nel suo intervento di ieri pomeriggio (19 gennaio) al panel ‘Widening Europe’s Horizons‘ organizzato da Politico al World Economic Forum, il premier albanese Rama ha lanciato più di una provocazione a Bruxelles, senza però strappare con il partner “a cui apparteniamo” e che dopo anni di attesa ha aperto le porte dei negoziati per l’adesione. “Dall’Ue ci è stato chiesto  di fare passi avanti contro la corruzione nel sistema giudiziario”, ha voluto ricordare l’uomo forte di Tirana: “Noi siamo stati radicali e abbiamo imposto le dimissioni di 9 giudici della Corte Costituzionale su 11 perché non potevano giustificare la propria ricchezza, ma poi ci è stato rinfacciato di non avere più una Corte Costituzionale”. Allo stesso tempo Rama ha voluto porre l’accento sul fatto che “il processo di allargamento è diventato nevrotico e ingiusto” e, se oggi Bruxelles trattasse nello stesso modo i suoi stessi Stati membri, “molti non sarebbero più in grado di entrare” nell’Unione: “E non parlo solo dei Paesi ex-comunisti, ma anche dei fondatori”.
    La presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, al World Economic Forum di Davos (19 gennaio 2023)
    Annuisce e si lascia sfuggire un “è vero” la presidente Metsola, incassando la provocazione di Rama e probabilmente pensando a Paesi come Ungheria e Polonia e alle accuse arrivate proprio ieri dagli avvocati dell’ex-vicepresidente dell’Eurocamera, Eva Kaili, sullo stato di detenzione dell’eurodeputata nella capitale del Belgio (uno dei Paesi fondatori dell’Unione, appunto). Parlando dello scandalo QatarGate, la numero uno del Parlamento Ue l’ha definito “un pugno nello stomaco” e ha assicurato che “è mia responsabilità fare in modo che i campanelli di allarme suonino prima e le contromisure vengano prese immediatamente”. Il piano in 14 punti approvato dalla Conferenza dei presidenti la settimana scorsa rappresenta “una serie di misure immediate per garantire l’integrità, la responsabilità e l’indipendenza” dell’istituzione comunitaria, che dovranno essere accompagnate da “riforme già necessarie prima”, come confermato anche dalla commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson.
    Dietro le parole di Rama: lo Stato di diritto in Albania
    Ma rinfacciare all’Unione Europea lo scoppio di uno scandalo all’interno di una delle sue istituzioni è una coperta molto corta per il premier Rama. Come emerge dal rapporto 2022 dell’organizzazione internazionale World Justice Project, l’Albania è all’87esimo posto su 140 Paesi per il livello di rispetto dello Stato di diritto, ultima in Europa a pari merito con la Serbia (se non si tengono in considerazione le paria internazionali di Russia e Bielorussia). I Paesi membri dell’Ue peggiori sono Bulgaria e Ungheria, ma comunque rispettivamente al 30esimo e 31esimo posto in classifica nel 2022. Il trend in Albania è di leggero ma costante declino della situazione negli ultimi anni, con le criticità maggiori registrate proprio nell’ambito della corruzione, della giustizia criminale e dell’applicazione delle normative.
    Il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (a destra), al World Economic Forum di Davos (19 gennaio 2023)
    A questo si aggiunge quanto messo nero su bianco dalla Commissione Europea nel dossier Albania del Pacchetto Allargamento 2022, pubblicato nell’ottobre dello scorso anno. “Nonostante alcuni progressi, l’aumento degli sforzi e l’impegno politico nella lotta alla corruzione, questa rimane un’area di grave preoccupazione“, si legge nel documento. La questione si pone “in molti settori della vita pubblica e imprenditoriale”, come dimostrato da alcune “condanne definitive di funzionari statali di alto livello”. Secondo l’esecutivo comunitario “i settori più vulnerabili alla corruzione richiedono valutazioni del rischio mirate e azioni specifiche”, in particolare sul fatto che i procedimenti penali siano avviati “in modo coerente e sistematico” contro gli accusati di condotta criminale: “Bisogna garantire che la Struttura specializzata per la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata si occupi ulteriormente della corruzione ad alto livello”.
    Per quanto riguarda specificamente il sistema giudiziario – citato da Rama – l’analisi della Commissione Ue evidenzia che “l’Albania è moderatamente preparata”, grazie ai “buoni progressi sul proseguimento dell’attuazione della riforma della giustizia” e le “nuove nomine di giudici dell’Alta Corte, che ha raggiunto il quorum per effettuare le nomine di giudici alla Corte Costituzionale, procedendo a una di queste”. Tuttavia, l’efficienza del sistema giudiziario “è influenzata negativamente dalla lunghezza dei procedimenti, dal basso tasso di liquidazione e dall’ampio arretrato di cause”. Senza cercare scuse nel QatarGate per abbassare gli standard anti-corruzione durante i negoziati di adesione all’Ue, la raccomandazione per il 2023 a Tirana rimane il “consolidamento degli sforzi per migliorare l’efficienza e la trasparenza di tutti i tribunali e le procure”.

    Al World Economic Forum di Davos il premier albanese ha punzecchiato la presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola: “Karma is a bitch”. La lotta alla corruzione rimane però di “grave preoccupazione” per Bruxelles sul piano dello Stato di diritto nel Paese in via di adesione