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    Dazi, per Sefcovic (ancora) niente intesa Ue-Stati Uniti. Giovedì Meloni a Washington

    Bruxelles – Nessun accordo commerciale con gli Stati Uniti, non ancora almeno, e neppure un accordo su un regime di dazi zero per l’industria. Il commissario europeo per il Commercio, Maros Sefcovic, non riesce nell’impresa di eliminare definitivamente lo spettro di una guerra dei dazi con la controparte americana. La sua missione a Washington serve per ribadire la disponibilità a dodici stelle a negoziare e trovare un accordo condiviso, amichevole, tale da evitare l’imposizione delle tariffe sui rispettivi beni da esportare da una sponda all’altra dell’Atlantico. Per ora però niente da fare. L’amministrazione Trump non cede, ma l’Ue non demorde.Non è una missione semplice quella di Sefcovic, e lui stesso ne è ben consapevole. Trovare un’intesa al primo tentativo negoziale sarebbe stato un enorme successo, e dunque si mantengono calma e determinazione. “L’Ue rimane costruttiva e pronta a raggiungere un accordo equo, che preveda anche la reciprocità attraverso la nostra offerta tariffaria 0 a 0 sui beni industriali e il lavoro sulle barriere non tariffarie”, sottolinea Sefcovic, conscio del fatto che “raggiungere questo obiettivo richiederà un significativo sforzo congiunto da entrambe le parti”. Certo, adesso che gli Usa hanno respinto le offerte di pace dell’Ue, dovrà essere la Casa Bianca ad avanzare una controproposta.In D.C., met with Secretary @howardlutnick and Ambassador @jamiesongreer for negotiations, seizing the 90-day window for a mutual solution to unjustified tariffs. 1/2 pic.twitter.com/P0eMgZSudQ— Maroš Šefčovič (@MarosSefcovic) April 14, 2025A Bruxelles non si fanno drammi. Ci sono 90 giorni di tempo a partire da ieri (15 aprile) per tentare di trovare un’intesa. Bocche cucite quindi, e non sorprende. Il momento è tanto delicato quanto decisivo, e si preferisce lavorare con chi di dovere – gli Stati Uniti – senza mettere tutto sulla pubblica piazza. Il messaggio ribadito è che “ci si muove lungo due binari: negoziati e preparazione al peggio qualora i negoziati non dovessero produrre un accordo”, la specifica di Olof Gill, portavoce dell’esecutivo comunitario per le questioni commerciali. Non è cambiato nulla, in sostanza, rispetto all’approccio già trovato.Un contributo in questa delicata materia potrebbe arrivare da Giorgia Meloni, che in questi giorni ha sentito spesso Ursula von der Leyen, secondo quanto è stato fatto trapelare a Roma. La presidente del Consiglio domani (16 aprile) è attesa a Washington, dove incontrerà il presidente Usa. Inevitabile un confronto sui dazi, con la Commissione che guarda all’appuntamento istituzionale e precisa che il capo di governo italiano non ha ricevuto alcun mandato. “Ogni contributo è benvenuto, ma la competenza sul commercio è della Commissione europea, come previsto dai trattati“, taglia corto Gill.

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    L’Ue mette sul piatto un miliardo e mezzo in tre anni per l’Autorità Palestinese. Ma il nodo è il riconoscimento politico

    Bruxelles – Con un maxi pacchetto del valore massimo di 1,6 miliardi di euro in favore dell’Autorità palestinese, l’Unione europea “ribadisce il suo incrollabile sostegno al popolo palestinese e il suo impegno per una pace duratura e sostenibile basata sulla soluzione dei due Stati”. Nel primo dialogo ad alto livello Ue-Palestina, l’Unione lancia un segnale forte al premier Mohammad Mustafa. Ma perde contemporaneamente un’altra occasione per fare un passo più lungo, più incisivo. Accanto al supporto economico, Ramallah ha bisogno di riconoscimento politico. E se già 150 Paesi nel mondo riconoscono lo Stato di Palestina, tra i 27 Ue si contano ancora 15 défaillance.Il programma di sostegno messo sul tavolo dall’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, è concepito per accompagnare l’Autorità palestinese in una serie di riforme e nel frattempo affrontare le esigenze più urgenti della popolazione della Cisgiordania. È un programma triennale, fino al 2027, strutturato su tre pilastri: sostegno ai servizi per la popolazione, sostegno alla ripresa e alla stabilizzazione della Cisgiordania e di Gaza, sostegno al settore privato. “Ciò rafforzerà la capacità dell’Autorità palestinese di soddisfare le esigenze del popolo palestinese in Cisgiordania e la preparerà a tornare a governare Gaza non appena le condizioni lo permetteranno”, ha affermato il capo della diplomazia Ue.La fetta più sostanziosa è composta da 620 milioni di euro in sovvenzioni per l’assistenza diretta al bilancio dell’Autorità Palestinese, che daranno ossigeno alla pubblica amministrazione e faranno sì che Ramallah possa continuare a fornire servizi alla popolazione. La “maggior parte” dei versamenti, si legge nella nota della Commissione europea, “sarà legata ai progressi dell’Autorità palestinese in merito a riforme chiave in materia di sostenibilità fiscale, governance democratica, sviluppo del settore privato e infrastrutture e servizi pubblici”.Il dialogo di alto livello Ue-Palestina a Lussemburgo, 14/04/25Il secondo pilastro prevede sovvenzioni per 576 milioni di euro a sostegno di progetti sul campo – infrastrutture energetiche e per l’acqua su tutti – per promuovere la riprese economica in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e a Gaza. In quest’ultima, “non appena la situazione sul campo lo consentirà”. In questo capitolo di spesa la Commissione ha inserito anche lo stanziamento di 82 milioni all’anno per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa). C’è infine l’impegno della Banca europea per gli investimenti (Bei), la cui presidente Nadia Calviño è presente oggi al vertice con i ministri degli Esteri dell’Ue e il premier palestinese, a finanziare con prestiti fino a 400 milioni di euro il settore privato palestinese.Secondo la strategia della Commissione europea, concordata con l’Autorità Palestinese in una lettera d’intenti siglata lo scorso luglio, questo programma pluriennale contribuirà “alla costruzione di uno stato sostenibile in tutti i territori palestinesi”. Da ciò consegue l’idea che, finché Ramallah non dimostrerà di riuscire a dotarsi di una solida impalcatura per governare nei propri territori, lo Stato di Palestina continuerà a essere rimandato nel tempo.Viceversa, in ordine di tempo, sono stati Spagna, Slovenia e Irlanda gli ultimi tre Paesi Ue a voler lanciare un forte messaggio politico in supporto all’Autorità Palestinese. Si sono aggiunti a Bulgaria, Cipro, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Svezia e Ungheria, che già riconoscevano la Palestina secondo i confini del 1967 (Cisgiordania, striscia di Gaza e Gerusalemme est). Per farlo, l’Ue avrebbe prima bisogno del riconoscimento formale di tutti gli altri. Ma il tema finora non è nemmeno mai stato messo in agenda alle riunioni del Consiglio dell’Ue.Il primo ministro dell’Autorità Palestinese, Mohammad Mustafa, al dialogo di alto livello Ue-Palestina, 14/04/25La Commissione europea lo mette per iscritto: la dicitura Ue-Palestina “non deve essere interpretata come un riconoscimento di uno Stato di Palestina e non pregiudica le posizioni individuali degli Stati membri su questo tema”. Bruxelles si smarca dallo spinoso problema, riportato nel dibattito solo una settimana fa dall’annuncio di Emmanuel Macron, che in visita in Egitto ha affermato che la Francia potrebbe finalmente riconoscere lo Stato palestinese entro l’estate.Il punto è che, per promuovere di fatto la soluzione dei due Stati, l‘assistenza economica e il supporto diplomatico a Ramallah non bastano. C’è bisogno, appunto, di due Stati. Perché, altrimenti, le costanti aggressioni israeliane alle comunità palestinesi e le rivendicazioni territoriali di Tel Aviv non si configureranno mai come violazioni della sovranità di uno Stato. Il paradosso è che l’Ue, come sottolineato dalla Commissione europea, continua a essere “il maggiore fornitore di assistenza esterna ai palestinesi“, con uno stanziamento di risorse di circa 1,36 miliardi di euro per il triennio 2021-2024, che ora verrà incrementato. Ma contemporaneamente, dei circa 50 Paesi in tutto il mondo che ancora non riconoscono la Palestina come Stato, 15 sono proprio Paesi membri dell’Ue.

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    Ucraina, i Ventisette al lavoro sul 17esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca

    Bruxelles – Mentre la Russia continua a bombardare l’Ucraina, l’Ue non ha ancora trovato la quadra per imporre nuove sanzioni su Mosca, mentre il sostegno a Kiev procede ancora a singhiozzo. Le cancellerie stanno lavorando al 17esimo pacchetto di misure restrittive, che potrebbe essere pronto il mese prossimo, ma le difficoltà maggiori si riscontrano ancora sull’utilizzo dei proventi dai capitali russi congelati.È di almeno 34 morti e oltre 110 feriti il bilancio dell’ultimo attacco russo sulla città ucraina di Sumy, poco distante dal confine con la Federazione, condotto ieri (13 aprile) mentre la cittadinanza era riunita per celebrare la domenica delle Palme, ad appena un paio di giorni dalla visita a Mosca dell’inviato speciale della Casa Bianca, Steve Witkoff. L’ennesima strage di civili ha aumentato la pressione politica sui ministri degli Esteri dei Ventisette, riuniti stamattina a Lussemburgo, ma non è stata sufficiente per imprimere una svolta decisiva. Il 17esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca è ancora in preparazione e non sarà ultimato prima del mese prossimo, come sottolineato dalla stessa Kaja Kallas.Sanzioni e beni congelati“Tutti gli Stati membri vogliono la pace e tutti appoggiano il cessate il fuoco” accettato dall’ex repubblica sovietica quasi un mese fa, ha dichiarato l’Alta rappresentante (alla sua prima missione nel Granducato). Ma il bombardamento di Sumy “dimostra che i russi non vogliono la pace“, e dunque “l’unico modo per portare la Russia a negoziare è aumentare la pressione“. L’ultimo round di misure restrittive contro la Russia è stato approvato lo scorso febbraio in occasione del terzo anniversario dell’invasione su larga scala dell’Ucraina del 2022.“Stiamo lavorando all’imposizione di sanzioni sul petrolio e sul gas“, ha aggiunto l’ex premier estone auspicando “un pacchetto il più forte possibile“. Stavolta, tra le maglie delle sanzioni potrebbero finire intrappolate anche le navi della cosiddetta “flotta ombra” della Federazione (utilizzata fin qui per aggirare le sanzioni già esistenti) e le importazioni di gas naturale liquefatto (gnl), nonché la società atomica statale Rosatom. Questi, almeno, sarebbero i desiderata dei baltici e degli scandinavi, i più vocali sostenitori dell’Ucraina e i più accaniti detrattori della Russia.Una volta confezionate, ad ogni modo, le nuove misure restrittive dovranno passare per le Forche Caudine dell’unanimità tra le cancellerie. Che, in termini pratici, significa esporle al veto del primo ministro ungherese Viktor Orbán, il cavallo di Troia del Cremlino in seno all’Ue che si è sempre messo di traverso per quanto riguarda il sostegno a Kiev, tanto da far parlare il ministro lituano Kęstutis Budrys di “un’umiliazione per tutti coloro che si impegnano diplomaticamente per fermare questa guerra”.Il primo ministro ungherese Viktor Orbán (foto: European Council)Una questione ancora più spinosa è quella relativa all’utilizzo degli extraprofitti generati dagli interessi sui capitali russi immobilizzati nella giurisdizione dell’Unione (un tesoretto che ammonta a qualcosa come 210 miliardi di euro) per finanziare la resistenza ucraina e la futura ricostruzione del Paese aggredito. La ministra svedese Maria Palmer Stenergard, ad esempio, vorrebbe spingersi fino a sequestrare gli stessi beni congelati.La faccenda è complessa tanto dal punto di vista politico quanto da quello giuridico e in Ue se ne discute da parecchio tempo, ma il tema ha guadagnato nuova urgenza dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, data la prospettiva di una chiusura dei rubinetti a stelle e strisce e l’alleggerimento delle sanzioni a Mosca ventilato recentemente dal tycoon newyorkese.Aiuti militariSul tavolo dei titolari degli Esteri c’erano anche gli aiuti militari a Kiev. “Abbiamo discusso dell’espansione delle missioni già in corso“, ha spiegato il capo della diplomazia a dodici stelle, ma anche di quella “forza di rassicurazione” di cui si sta occupando la coalizione dei volenterosi a egida franco-britannica. In termini finanziari, ha osservato Kallas “quest’anno gli Stati membri hanno già contribuito oltre 23 miliardi di euro”, una cifra superiore a quella versata dai Ventisette nel 2024 (circa 20 miliardi).Ad oggi, ha annunciato, sono stati consegnati circa due terzi dei 2 milioni di proiettili (per un valore totale di 5 miliardi) promessi all’Ucraina dagli Stati membri in quello che resta dell’ambizioso “piano Kallas” da 40 miliardi affossato qualche settimana fa da Italia, Francia e Spagna. L’Alta rappresentante spera di poter arrivare al 100% “nel più breve tempo possibile”.È peraltro di stamattina la notizia che il cancelliere tedesco in pectore, il conservatore Friedrich Merz, sarebbe propenso ad inviare all’ex repubblica sovietica i missili Taurus a lunga gittata, superando il netto rifiuto del Bundeskanzler uscente Olaf Scholz e innescando la risposta del Cremlino che condanna l’ennesima “pericolosa escalation”.Following yesterday’s horrific Russian attack on Sumy, I addressed the EU Foreign Affairs Council online upon @kajakallas invitation.This weekend was Passover and Palm Sunday, and now the Holy Week begins. This should have been a time for peace, but Putin made it a time of… pic.twitter.com/2VVTXzSAPp— Andrii Sybiha (@andrii_sybiha) April 14, 2025Stamattina, il ministro degli Esteri ucraino Andrij Sybiha (collegato da remoto al Consiglio in corso a Lussemburgo) ha invitato i suoi omologhi Ue a recarsi a Kiev in occasione della giornata dell’Europa il prossimo 9 maggio. Da un paio d’anni, l’Ucraina ha anticipato le celebrazioni per la fine della Seconda guerra mondiale dal 9 maggio – data in cui si festeggiava nell’Urss e si festeggia ancora in Russia – all’8, mentre il giorno successivo ricorda la dichiarazione Schuman del 1950 (considerato l’avvio del progetto comunitario) come fanno i Ventisette.Ma sul punto Kallas è stata evasiva: “Ho chiesto a tutti gli Stati membri e alle istituzioni dell’Unione di visitare Kiev quanto più possibile per mostrare la nostra solidarietà”, ha dichiarato ai giornalisti rispondendo ad una domanda sul tema, specificando invece che “non vogliamo che nessun Paese candidato partecipi alle celebrazioni del 9 maggio a Mosca“.

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    Le incomprensioni tra gli alleati di Kiev fanno il gioco di Mosca

    Bruxelles – Mentre l’inviato speciale della Casa Bianca incontra Putin a Mosca, in Europa gli alleati dell’Ucraina continuano a discutere su come garantire il mantenimento della pace nell’ex repubblica sovietica quando si raggiungerà una pausa nei combattimenti. Ma non tutti sono sulla stessa lunghezza d’onda, né tra le due sponde dell’Atlantico e nemmeno, a quanto pare, all’interno del Vecchio continente.Ad esempio, non sembrava esserci grande sintonia questa mattina (11 aprile) tra Kaja Kallas e John Healey, almeno a giudicare dalle riflessioni condivise separatamente dai due con la stampa. L’Alta rappresentante Ue per la politica estera ha sostenuto di non aver ottenuto la “chiarezza” che si aspettava dall’incontro dei ministri della Difesa della coalizione dei volenterosi, tenutasi ieri al quartier generale della Nato a Bruxelles. “Diversi Stati membri hanno opinioni diverse“, ha spiegato l’ex premier estone, “e le discussioni stanno andando avanti”.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: European Council)Un’osservazione che ha spinto il titolare della Difesa britannico a offrire una precisazione qualche ora più tardi: i piani in via di definizione a livello della coalizione sono “reali, sostanziali e in fase avanzata“, ha dichiarato Healey, aggiungendo che “l’Ue non fa parte di tale pianificazione“. In effetti, le redini del gruppo – composto da una trentina di Paesi di cui fanno parte molti membri dell’Ue (ma non tutti), e di cui non fanno parte gli Stati Uniti – sono saldamente in mano a Londra e Parigi.Quanto ai contenuti di tali piani, dalla riunione di ieri sono emersi i quattro punti cardine intorno a cui si dovranno imperniare le operazioni della cosiddetta “forza di rassicurazione” (che non sarà una forza di peacekeeping): sicurezza nei cieli, sicurezza nel Mar Nero, fine dei combattimenti terrestri e rafforzamento delle forze armate ucraine. Queste ultime, ripetono da settimane gli alleati di Kiev, costituiranno l’elemento centrale della deterrenza contro potenziali nuove aggressioni russe.Il principale problema, in questa fase, è che per procedere con la definizione dei dettagli occorre conoscere i termini di un potenziale cessate il fuoco. Mancando quest’ultimo, è difficile per i vertici militari elaborare piani precisi. Inoltre, tutti i “volenterosi” continuano a ribadire la necessità che Washington fornisca un qualche tipo di asset – condivisione dell’intelligence, copertura aerea o addirittura truppe di terra – per garantire ulteriormente il mantenimento della pace, ma finora l’amministrazione a stelle e strisce ha rifiutato categoricamente ogni coinvolgimento militare nell’ex repubblica sovietica.In Brussels today, Defence Ministers and military leaders came together to build the momentum and progress of our Coalition of the Willing.We stand by Ukraine in the fight, and we will stand by Ukraine in the peace. pic.twitter.com/Y0mJkTRH5u— John Healey (@JohnHealey_MP) April 10, 2025Sia come sia, Healey ha presieduto oggi la riunione di un’altra formazione, il cosiddetto Gruppo di contatto per l’Ucraina (altrimenti noto come gruppo Ramstein), che di membri ne conta una cinquantina inclusi gli Usa, anche se il meeting odierno è stato il primo in cui Washington non faceva da padrone di casa (il capo del Pentagono, Pete Hegseth, era collegato da remoto). Al termine dell’incontro, il segretario alla Difesa di Sua Maestà ha annunciato nuovi aiuti a Kiev per un totale di oltre 21 miliardi di euro, definiti “un aumento record nel finanziamento militare per l’Ucraina”.Nel frattempo, in queste stesse ore è arrivato al Cremlino Steve Witkoff – il capo-negoziatore designato da Donald Trump per condurre le trattative tra Washington, Kiev e Mosca (nonostante il suo titolo ufficiale sia quello di inviato speciale per il Medio Oriente) – per incontrare personalmente Vladimir Putin. Prima di atterrare nella capitale della Federazione, Witkoff ha incontrato a San Pietroburgo Kirill Dmitriev, l’inviato di Putin per gli investimenti.L’inviato speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente, Steve Witkoff (foto: Mandel Ngan/Afp)Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha dichiarato che durante il faccia a faccia i due “potrebbero discutere” di un prossimo incontro tra Putin e Trump, ma non ha fornito ulteriori dettagli e ha anticipato che dalla visita odierna “non ci si dovrebbe aspettare alcun passo avanti” significativo. Sul suo social Truth, intanto, l’inquilino della Casa Bianca ha scritto che “la Russia deve darsi una mossa“.Le trattative diplomatiche per un cessate il fuoco sono sostanzialmente congelate da quando il presidente russo ha posto una serie di condizioni massimaliste per accettare una pausa nelle ostilità, che di conseguenza non si sono mai interrotte, nonostante Kiev si fosse dichiarata disponibile (in linea di principio) ad una tregua. Sul campo, la situazione volge da tempo a favore dell’esercito di Mosca, al punto che diversi analisti concordano nel ritenere imminente il lancio di una nuova offensiva primaverile da parte della Federazione, per far avanzare ulteriormente la linea del fronte e presentarsi al tavolo negoziale da una posizione ancora più forte.

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    Eurodeputati del Pd: “Stop all’accordo di associazione tra Ue e Israele”

    Bruxelles – “Se aspettiamo ulteriormente a intraprendere azioni concrete per fermare il governo di Netanyahu, non sarà rimasto nulla da salvare”. Lo affermano gli eurodeputati del Pd Cecilia Strada, Annalisa Corrado, Alessandro Zan, Camilla Laureti, Sandro Ruotolo, Brando Benifei e Marco Tarquinio, in un comunicato che chiede a gran voce la cessazione del sostegno europeo ad Israele.Sottolineando che il Paese impedisce l’accesso degli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza da oltre un mese e continua a mietere vittime nella popolazione civile, il gruppo ha fatto appello alle istituzioni europee, invitandole ad “intervenire immediatamente con tutti gli strumenti a disposizione per far valere il diritto internazionale e supportare la popolazione civile palestinese, a partire dall’immediata sospensione dell’Accordo di cooperazione con Israele e l’embargo sulle armi verso Israele”, richiesta condivisa dalla capogruppo del gruppo Socialisti & democratici Iratxe Garcia Perez e dalla segretaria del Pd Elly Schlein.I deputati hanno inoltre attaccato l’atteggiamento del governo italiano nei confronti del mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Netanyahu: “Riteniamo gravissimo che l’aereo con a bordo il Presidente Netanyahu” diretto a Washington “abbia sorvolato il suolo italiano deviando la rotta di viaggio per evitare lo spazio aereo di alcuni Paesi che avrebbero potuto applicare il mandato d’arresto emesso dalla Cpi nei suoi confronti” proseguono gli europarlamentari. In merito al sorvolo, questa mattina (10 aprile) il Partito democratico ha presentato a Roma una interrogazione parlamentare per chiedere al governo di Giorgia Meloni attraverso quali procedure questo sia stato autorizzato.

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    Von der Leyen: Importante lo stop di Trump ai dazi, ma continuiamo a diversificare

    Bruxelles – Ursula von der Leyen è contenta della sospensione dei dazi decisa da Donald Trump, ma avverte che l’Unione europea continuerà nel suo lavoro di diversificazione dei partner commerciali. Insomma, la fiducia nel partner statunitense oramai è sfumata, anche se di certo si vuol continuare a negoziare con Washington.Il messaggio del presidente statunitense di ieri sera non è chiarissimo, la sospensione sembra riguardare i dazi “reciproci” imposti il 2 aprile e non l’insieme di quelli posti dagli Usa, come su alluminio e acciaio.Comunque la presidente della Commissione europea in una nota dice di accogliere “con favore l’annuncio del presidente Trump di sospendere le tariffe reciproche. È un passo importante verso la stabilizzazione dell’economia globale“. Secondo von der Leyen “condizioni chiare e prevedibili sono essenziali per il funzionamento del commercio e delle catene di approvvigionamento”.La leader europea ribadisce che “le tariffe sono tasse che danneggiano solo le imprese e i consumatori. Ecco perché ho sempre sostenuto un accordo tariffario zero per zero tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti”, verso i quali, sottolinea l’Ue continuerà “a impegnarsi in negoziati costruttivi, con l’obiettivo di realizzare scambi commerciali senza attriti e reciprocamente vantaggiosi”.Però il mondo non è più lo stesso, i rapporti sono stati stravolti, e dunque “allo stesso tempo, l’Europa continua a concentrarsi sulla diversificazione dei suoi partenariati commerciali, impegnandosi con paesi che rappresentano l’87 per cento del commercio globale e condividono il nostro impegno per uno scambio libero e aperto di beni, servizi e idee”, annuncia von der Leyen.Poi il messaggio all’interno dell’Unione, dove “stiamo intensificando il nostro lavoro per eliminare le barriere nel nostro mercato unico. Questa crisi ha chiarito una cosa: in tempi di incertezza, il mercato unico è la nostra ancora di stabilità e resilienza”.Ed in fine le parole per i cittadini: “io e il mio team continueremo a lavorare giorno e notte per proteggere i consumatori, i lavoratori e le imprese europei. Insieme, gli europei usciranno più forti da questa crisi”.

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    Dazi: Trump li “sospende” per 90 giorni mettendoli al 10 per cento. Ma per la Cina vanno al 125

    Bruxelles – Ennesima giravolta del presidente statunitense Donald Trump, che ha oggi deciso di “sospendere” per 90 giorni i dazi a tutti i Paesi, confermandoli però al 10 per cento in questo periodo, e di aumentare quelli verso i prodotti cinesi al 125 per cento.“In considerazione della mancanza di rispetto mostrata dalla Cina nei confronti dei mercati mondiali, con la presente aumento al 125 per cento le tariffe doganali imposte alla Cina dagli Stati Uniti d’America, con effetto immediato”, scrive Trump sul suo social Truth. “A un certo punto, si spera in un futuro prossimo – continua il presidente -, la Cina si renderà conto che i giorni in cui derubava gli Stati Uniti e altri Paesi non sono più sostenibili o accettabili”.Al contrario, continua Trump nel sul messaggio, “sulla base del fatto che più di 75 Paesi hanno chiamato i rappresentanti degli Stati Uniti, compresi i Dipartimenti del Commercio, del Tesoro e l’USTR, per negoziare una soluzione alle questioni in discussione relative al commercio, alle barriere commerciali, alle tariffe, alla manipolazione valutaria e alle tariffe non monetarie, e che questi Paesi non hanno, su mio forte suggerimento, preso alcuna ritorsione contro gli Stati Uniti, ho autorizzato una PAUSA (maiuscolo nell’originale, ndr) di 90 giorni e una tariffa reciproca notevolmente ridotta durante questo periodo, del 10 per cento, anch’essa con effetto immediato”.E conclude: “Grazie per l’attenzione prestata a questa questione!”.

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    All’Europarlamento, Basel Adra denuncia le violenze dei coloni israeliani in Cisgiordania

    Bruxelles – La denuncia delle atrocità dell’occupazione israeliana in Palestina e delle violenze dei coloni trova spazio al Parlamento europeo. Il regista palestinese Basel Adra è nella capitale Ue per promuovere la diffusione di No other land, il documentario recentemente premiato agli Oscar che getta luce sui soprusi subiti dalla comunità palestinese di Masafer Yatta.Durante una conferenza stampa tenuta oggi (7 aprile) all’Eurocamera di Bruxelles, il giornalista e attivista palestinese Basel Adra ha parlato del lavoro portato avanti per cinque anni (tra il 2019 e il 2023) con gli altri tre co-registi – Hamdan Ballal, palestinese, e due israeliani: Yuval Abraham e Rachel Szor – per documentare “la brutale occupazione della mia comunità a Masafer Yatta“, e che verrà proiettato proprio al Parlamento dopodomani (9 aprile) in presenza dell’autore.La pellicola, spiega Adra, ritrae le demolizioni di case e di scuole, la distruzione delle tubature per l’acqua, la violenza contro gli abitanti e tutti i soprusi che le comunità palestinesi autoctone subiscono continuamente da parte dei coloni israeliani, spalleggiati direttamente dall’Idf, l’esercito di Tel Aviv. E testimonia l’espansione incontrollata (anzi incentivata dal governo) degli insediamenti, illegali sotto il profilo del diritto internazionale.Le riprese del film – premiato come miglior documentario agli Academy awards di quest’anno – sono terminate nel 2023, “ma ora la situazione sul terreno è almeno il doppio più grave di quella che si vede sullo schermo”: dallo scorso gennaio, ha dichiarato il regista, “sono stati condotti oltre un centinaio di attacchi contro i nostri villaggi e almeno una ventina di case sono state demolite”.Il regista palestinese Basel Adra (foto: Laurie Dieffembacq/EP)Masafer Yatta è un centro abitato composto da una ventina di piccoli villaggi al confine meridionale della Cisgiordania, nella cosiddetta area C: una delle zone in cui gli accordi di Oslo degli anni Novanta avevano diviso l’enclave palestinese, dove Israele detiene sia il controllo politico-amministrativo sia il monopolio della sicurezza e che costituisce circa il 61 per cento della Cisgiordania.Il 28enne palestinese ha quindi parlato degli attacchi di cui lui stesso e i suoi colleghi sono rimasti vittime. Adra è stato aggredito a febbraio da dei coloni in Cisgiordania, mentre il 24 marzo è toccato al co-regista Hamdan Balla. “Dei coloni mascherati insieme alla polizia israeliana hanno fatto irruzione nel suo villaggio”, ha raccontato, e “l’hanno picchiato coi calci dei fucili e a mani nude“. Dopo l’aggressione l’hanno prelevato e mantenuto per una ventina di ore in custodia, bendato e ammanettato, per poi tradurlo in una stazione di polizia dove è stato accusato “di aver attaccato i coloni che avevano invaso il suo villaggio”.Il regista ha raccontato di un’altra incursione lo scorso 28 marzo, quando una ventina di coloni hanno attaccato Masafer Yatta e “rapito tutti e 26 gli uomini presenti”, prima che un centinaio di soldati ritornassero nella notte “facendo irruzione in una scuola costruita coi fondi europei“, dove hanno danneggiato la struttura e l’arredamento.Da sinistra: i co-registi di “No other land” Basel Adra, Rachel Szor, Hamdan Ballal e Yuval Abraham alla premiazione dei 97esimi Academy awards (foto: Frederic J. Brown/Afp)Non si tratta di casi isolati, assicura Adra. I palestinesi vengono attaccati sistematicamente in tutta la Cisgiordania come parte di una “politica dello Stato ebraico volta a prendere la nostra terra ed espandere gli insediamenti per impedire la formazione di un futuro Stato palestinese”. “Ma siccome non tutti i palestinesi hanno vinto dei premi Oscar, allora non ricevono attenzione mediatica“, ha osservato riferendosi al clamore provocato dall’aggressione al collega Balla. In effetti, la stessa Academy di Hollywood ci ha messo un po’ a esprimere pubblicamente il proprio supporto al co-regista assalito dai coloni, innescando un’ulteriore spirale di polemiche internazionali.Il problema, sottolinea Adra, è che tutti i soprusi, le violazioni, i crimini di guerra e contro l’umanità commessi da parte israeliana vengono di fatto coperti da una coltre di impunità mentre “le relazioni diplomatiche rimangono solide, con gli europei che continuano a comprare prodotti dai coloni estremisti e gli Stati Uniti che continuano a consegnare armi e finanziamenti”.“Non è un gioco”, ammonisce, “c’è un regime che sta violando il diritto internazionale e che discute pubblicamente di pulizia etnica“. Il diritto internazionale viene violato in continuazione, ma il premier israeliano Benjamin Netanyahu “è libero di circolare in Ungheria e potenzialmente in altri Paesi europei” nonostante sulla sua testa penda un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale (Cpi).Il regista 28enne parla di “doppi standard” tra il trattamento riservato ai criminali di guerra in Ucraina e in Palestina. Nella guerra nell’ex repubblica sovietica, dice, “tutto è detto chiaro e tondo, nessuno si nasconde, si boicotta la Russia e si impongono sanzioni, mentre c’è sempre qualche scusa quando si tratta di Israele“. “La Corte di giustizia internazionale ha già riconosciuto che l’occupazione è illegale“, incalza Adra, ma “sono gli Stati che fanno parte della Corte che devono applicarne le sentenze“. Per farlo, serve una volontà politica che non si scorge all’orizzonte.Il primo ministro ungherese Viktor Orbán (sinistra) e il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Attila Kisbenedek/Afp)Quello che si sente dall’Europa, continua il regista, “sono solo parole” ma l’annessione dei territori occupati è un processo che “sta già accadendo” e che “dev’essere fermato applicando il diritto internazionale”. Come minimo, aggiunge, “gli Stati europei, soprattutto i più grandi come Germania, Francia e Italia, dovrebbero riconoscere lo Stato di Palestina“. E poi Bruxelles dovrebbe “proteggere quantomeno i progetti umanitari che finanzia“, facendo capire a Tel Aviv che “non può distruggere le strutture costruite dall’Ue altrimenti ci sarà una reazione”.Dopodiché, ribadisce Adra, andrebbero comminate sanzioni contro i responsabili delle violazioni e andrebbe bloccato il commercio con gli insediamenti illegali. “Sono i giorni più bui per la causa palestinese”, confessa il regista. “Ci sentiamo impotenti e chiediamo al mondo di agire”, soprattutto i Paesi occidentali poiché “se qualcosa potrà cambiare dovrà iniziare da qui o dagli Stati Uniti”.Negli scorsi giorni sono emerse prove audiovisive dell’uccisione, da parte dei militari di Tel Aviv, di 15 operatori di soccorso della Mezzaluna rossa, avvenuta verso fine marzo e per la quale lo Stato ebraico aveva precedentemente negato ogni responsabilità parlando di un’azione legittima contro dei “terroristi”. Solo nelle prime ore di oggi, i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza hanno ucciso oltre una trentina di persone.A Khan Yunis, una tenda che ospitava gli operatori dei media è stata colpita dalle bombe dell’Idf. Adra ha ricordato i giornalisti palestinesi attivi a Gaza, gli unici occhi attraverso cui il mondo può seguire la tragedia in corso. “Oggi contare i giornalisti ancora in vita è più facile che contare quelli uccisi“, ha detto, citando un collega. Secondo le cifre fornite dal Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), dall’ottobre 2023 ad oggi sono stati uccisi nella Striscia oltre 170 giornalisti, il numero più alto mai registrato in qualunque conflitto armato.