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    UE e Indonesia chiudono l’accordo di libero scambio ‘anti-Trump’

    Bruxelles – Riduzione dei dazi sull’export, accesso a materie prime fondamentali per la doppia transizione verde e digitale, sviluppo dell’auto elettrica, accesso al mercato delle telecomunicazioni, più export agro-alimentare con protezione dei ‘made in’ proprie delle eccellenze europee. Unione europea e Indonesia trovano l’accordo di libero scambio – inyesa di partenariato economico globale – che e apre una nuova pagina non solo commerciale, quanto geo-strategica. E’ questa una risposta alle tensioni e alle pulsioni degli Stati Uniti di Donald Trump, e una prima vera risposta concreta al nuovo regime di dazi e guerre tariffarie innescate dalla Casa Bianca.Proprio l’abolizione dei dazi è, in questo senso, la principale – anche se normale – novità prodotta dell’intesa raggiunta tra le parti. L’intesa determina una riduzione del 50 per cento dei dazi doganali attuali sulle automobili europee vendute in Indonesia, un taglio delle tariffe del fino al 15 per cento sui macchinari e i prodotti farmaceutici esportati, e un ribasso del 25 per cento delle tariffe sui prodotti chimici.Più in generale il 98,5 per cento dei dazi doganali indonesiani sui prodotti dell’UE sarà rimosso. Inoltre la suddetta riduzione delle tariffe settoriali e dei dazi individuali fino al 150 per cento consentirà agli esportatori dell’UE di risparmiare oltre 600 milioni di euro in dazi doganali pagati sulle loro merci che entrano nel mercato indonesiano.Dall’accordo Ue-Mercosur una strada per l’accesso alle materie prime utili al Green Deal“Eliminando gradualmente i dazi doganali del 50 per cento dell’Indonesia sulle importazioni di automobili, l’accordo crea nuove opportunità per le esportazioni automobilistiche dell’UE e per gli investimenti nei veicoli elettrici”, in linea con gli impegni annunciati dall’esecutivo comunitario, sottolinea Maros Sefcovic, commissario per il Commercio e negoziatore capo dell’UE. “Sono convinto che la conclusione odierna dei negoziati sia solo l’inizio di un nuovo entusiasmante capitolo”, aggiunge, per poi lanciare un frecciata a chi di dovere: “Nell’imprevedibile economia globale di oggi, le relazioni commerciali non sono solo strumenti economici, ma risorse strategiche“. Un messaggio per il Parlamento che contesta l’operato della Commissione in materia di commercio, soprattutto sul Mercosur, e un un pro-memoria per l’amministrazione Trump, in risposta alla quale si spiega questo accordo.Auto elettrica e materie prime, l’UE ‘salva’ il Green DealL’intesa raggiunta prevede l’eliminazione dei dazi sui beni ecologici, oltre a nuove regole per consentire più investimenti europei in settori come le energie rinnovabili e i veicoli elettrici. Per quanto riguarda l’auto elettrica, fondamentale l’accesso dell’UE alle materie prime, in particolare nichel e cobalto di cui è ricca l’Indonesia e che sono necessari per la batterie. Non solo, perché il cobalto viene impiegato in soluzioni utili per lo stoccaggio dell’energia da fonti rinnovabili (eolico e solare).Non finisce qui, però. In ambito industriale il nichel può essere impiegato nella produzione di leghe metalliche e componenti in acciaio inossidabile. L’accordo tra le parti permette accesso a una materia prima utile anche per la siderurgia europea.Esulta, e non potrebbe essere diversamente, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen: “Il nostro accordo con l’Indonesia ci garantisce anche un approvvigionamento stabile e prevedibile di materie prime essenziali, essenziali per l’industria europea delle tecnologie pulite e dell’acciaio”.Un’automobile elettrica [foto: imagoeconomica]Telecomunicazioni e e-commerce, tutti i vantaggi dell’intesaL’Accordo di partenariato economico globale include un pacchetto completo di facilitazione del commercio digitale, che semplifica le transazioni elettroniche (ad esempio, firme e autenticazione elettroniche), promuove un ambiente online sicuro per i consumatori e migliora la prevedibilità e la certezza del diritto (ad esempio, la protezione del codice sorgente del computer), e prevede il divieto di dazi doganali sulle trasmissioni elettroniche (come software, messaggi, media digitali),  una novità assoluta per l’Indonesia. Inoltre, per la prima volta, l’Indonesia consentirà la proprietà straniera al 100 per cento nei settori delle telecomunicazioni e dei servizi informatici.Novità per l’agrifoodL’accordo di cooperazione commerciale UE-Indonesia eliminerà i dazi sui principali prodotti di esportazione dell’Unione europea tra cui latticini, carni, frutta e verdura e alimenti trasformati. Previsto il divieto di imitazione dei 221 prodotti tipici riconosciuti come Indicazioni Geografiche, con l’UE che riesce a mantenere chiuso il mercato unico all’Indonesia per prodotti agroalimentari sensibili come riso, zucchero, uova, banane fresche o etanolo, e quote limitate per aglio, funghi, mais dolce, amido di manioca e prodotti ad alto contenuto di zucchero.

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    Marta Kos in Bosnia ed Erzegovina: “Se non accelerate sulle riforme, rischiate di perdere i fondi europei”

    Bruxelles – Spronare la Bosnia ed Erzegovina a procedere ventre a terra con le riforme pre-adesione. Questa la missione di Marta Kos, la commissaria all’Allargamento, durante il suo viaggio di tre giorni che prende il via oggi (22 settembre) nel Paese balcanico, mentre si acuiscono le tensioni con la minoranza serba.Il tour di Kos è cominciato stamattina a Sarajevo, dove ha incontrato la premier Borjana Krišto e i leader della presidenza tripartita della Bosnia ed Erzegovina, cioè i rappresentanti eletti delle tre comunità nazionali: bosgnacchi, croati e serbi. “Credo nel futuro europeo di questo Paese“, ha esordito Kos parlando accanto a Krišto in una conferenza stampa congiunta.La commissaria ha reiterato il sostegno di Bruxelles per gli sforzi di Sarajevo verso l’ingresso nel club a dodici stelle, ma ribadendo la necessità di superare l’opposizione di una parte della complessa macchina statale bosniaca, cioè quella serba. “Abbiamo visto alcuni passi positivi“, ha continuato, per ammonire però sulle “rinnovate sfide poste dalla legislazione incostituzionale e secessionista adottata dalla Republika Srpska“, l’entità della comunità serbo-bosniaca che insieme alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina – quella delle comunità bosgnacca e croata – costituisce la Repubblica federale in base agli accordi di Dayton del 1995.I met chairwoman @KristoBorjana to discuss how to advance Bosnia and Herzegovina’s EU accession path: judicial reforms, adoption of the Reform Agenda still this month & appointment of a chief negotiator. The EU needs a counterpart in BiH to move forward with technical work. pic.twitter.com/qlHPujQqUn— Marta Kos (@MartaKosEU) September 22, 2025“Le istituzioni democratiche devono essere rispettate“, ha scandito la commissaria prima di esortare l’esecutivo di Krišto a “riprendere il percorso delle riforme“, a cominciare da quella del sistema giudiziario, e a mettere in campo “tutte le misure necessarie” a far partire la prima conferenza intergovernativa e aprire formalmente i primi capitoli negoziali con l’Ue.Sarajevo, dice, “deve inviare al più presto l’Agenda delle riforme per non perdere i fondi del Piano per la crescita“, lo strumento da 6 miliardi con cui la Commissione sta cercando di stimolare l’economia dei Balcani occidentali per creare uno slancio propedeutico all’adesione di questi Paesi candidati. Un appello, quello ad accelerare sulle riforme, tutt’altro che nuovo da parte dell’esecutivo comunitario, che ha già congelato l’anno scorso alcuni fondi destinati alla Bosnia ed Erzegovina proprio per l’incapacità di sbloccare questo punto.La padrona di casa si è detta “ottimista” sulla possibilità di fare presto progressi sul dossier delle riforme, ma ha riconosciuto che finora il Consiglio dei ministri non è riuscito a trovare alcun accordo. “Le riforme sono nell’interesse di tutti”, ha osservato, “e dobbiamo portarle a termine”. Soprattutto, ha evidenziato, “i rappresentanti politici devono mostrare un approccio responsabile e funzionale“: “Dobbiamo smetterla con gli alibi, dobbiamo prenderci le nostre responsabilità di fronte ai nostri elettori”, ha rimarcato.Ma potrebbe non essere così semplice. Milorad Dodik, ex presidente della Republika Srpska e leader del partito di governo Snsd, ha annunciato che lui e il suo partito boicotteranno tutti gli incontri con Kos, incluso il discorso finale al Parlamento bicamerale di Sarajevo (in calendario per dopodomani). La stessa commissaria, del resto, considera Dodik un “separatista” e rifiuta di interloquire con chi mina l’unità del Paese balcanico.L’ex leader serbo è stato recentemente raggiunto da una sentenza del tribunale federale bosniaco che lo ha condannato ad un anno di carcere per inadempienza ai suoi doveri istituzionali nel quadro della leale collaborazione tra le entità federate, dichiarandolo ineleggibile alla carica di presidente della Republika Srpska per sei anni. Il suo mandato è dunque decaduto e sono state indette nuove elezioni per il prossimo 23 novembre.La scorsa settimana, Dodik ha visto il titolare degli Esteri russo, Sergei Lavrov, per cercare la sponda di Mosca con l’obiettivo di mantenere il potere. Verso fine agosto, l’Snsd ha votato nell’assemblea nazionale della Republika Srpska per indire un referendum sulla decadenza dell’ex presidente dalla carica, nonché sulla sua estromissione dai pubblici uffici. La consultazione popolare – che tecnicamente non potrebbe modificare la decisione della corte – è stata fissata per il 25 ottobre.Da diverso tempo, la Bosnia ed Erzegovina è attraversata da una crisi politica legata principalmente all’irrigidimento delle posizioni della Republika Srpska, che sta ponendo in discussione l’autorità di Sarajevo. E mettendo a repentaglio, di riflesso, l’avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina al club a dodici stelle. Nel marzo 2024 il Consiglio europeo ha dato il via libera politico all’avvio dei negoziati, ma non è ancora stata convocata la prima conferenza intergovernativa per l’apertura formale dei capitoli negoziali.

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    INTERVISTA / Nataša Kovačev: “In Serbia, i manifestanti si sentono abbandonati da Bruxelles”

    Bruxelles – Da una decina di mesi, la Serbia è sconvolta dalle proteste popolari più partecipate della sua storia recente. In gioco, nelle strade dove gli studenti vengono manganellati e i giornalisti assaliti, non c’è solo la tenuta democratica di un Paese che, sulla carta, è candidato ad entrare nell’Unione europea. C’è anche la credibilità della stessa Ue, che rischia di sgretolarsi sotto il peso dell’inazione. La giornalista serba Nataša Kovačev ha condiviso con Eunews le sue riflessioni sulle dinamiche perverse che si stanno innescando nel suo Paese, alimentate anche dalla freddezza della reazione comunitaria.“Le persone che stanno protestando da oltre 10 mesi – cioè da quando una quindicina di persone sono rimaste uccise nel crollo di una pensilina a Novi Sad (la città natale di Kovačev) lo scorso novembre, scatenando una risposta popolare mai vista dall’implosione della Yugoslavia – si aspettavano una reazione più decisa da parte dell’Ue“, scandisce Kovačev. Invece, negli ultimi mesi, sono arrivati solo mezzi silenzi: come quello del presidente del Consiglio europeo António Costa e quello dell’Alta rappresentante Kaja Kallas.Nataša Kovačev (foto: Nataša Kovačev/LinkedIn)Quello che arriva da Bruxelles, continua, è invece un desolante combinato di “reazioni tiepide e segnali contrastanti“, una cacofonia politica che confonde e scoraggia chi ha creduto in un futuro europeo per la Serbia. E che ora ci crede sempre meno. “Se guardiamo i sondaggi, notiamo che oggi solo il 33 per cento degli intervistati sostiene convintamente la prospettiva dell’adesione” al club a dodici stelle, illustra la giornalista. Nel 2015, l’anno dopo l’apertura dei primi capitoli negoziali con Belgrado, questa cifra si aggirava intorno al 59 per cento.Gli studenti e i loro alleati nel movimento di protesta, già impegnati a resistere coi propri corpi (timpani inclusi) alla brutale repressione messa in campo dall’autoritario presidente Aleksandar Vućič, temono ora di venire abbandonati anche da quelle stesse istituzioni a cui hanno rivolto accorati appelli, affinché li aiutassero a difendere quanto rimane della democrazia e dello Stato di diritto in Serbia.Lo spettacolo che arriva dai rappresentanti comunitari, in effetti, è tutt’altro che edificante. “Durante l’ultima plenaria a Strasburgo, abbiamo sentito cose piuttosto diverse”, spiega: “Marta Kos (la commissaria all’Allargamento, ndr) ha parlato chiaramente della situazione in Serbia e ha preso una posizione netta al riguardo”, ragiona Kovačev, mentre la numero uno del Berlaymont, Ursula von der Leyen, “non si è neanche disturbata a menzionare quello che succede nel suo discorso sullo stato dell’Unione”.D’altro canto, concede la giornalista, Manfred Weber – capo-padrone del Partito popolare europeo, la più potente forza politica del Vecchio continente, da cui proviene anche la presidente della Commissione – “ha ventilato l’ipotesi di sospendere l’Sns (il Partito progressista serbo di Vućič, ndr) dal Ppe”, nel quale è attualmente un membro osservatore. Tuttavia, puntualizza, “è una decisione unilaterale di un partito politico, non una mossa comune dell’Unione”.Il presidente serbo Aleksandar Vućič (foto: Alex Halada/Afp)“Forse qualcosa sta iniziando a muoversi“, rileva con cautela Kovačev, “e pare che tra i vertici comunitari si cominci ad avvertire la necessità di una risposta più incisiva“. “Spero che questo si traduca presto in un’azione concreta, soprattutto per ridare speranza a chi continua a scendere in piazza“, osserva. Auspica un segnale inequivocabile per mettere in chiaro che, oltre alla retorica stucchevole, Bruxelles intende davvero “tutelare lo Stato di diritto ovunque, a maggior ragione in un Paese candidato“.Finora, sotto il regime illiberale di Vućič la spirale di violenza non sembra accennare a fermarsi. In diverse occasioni, spiega Kovačev, il presidente si è dichiarato disponibile a discutere direttamente coi leader della protesta. “Ma i manifestanti non vogliono parlare con lui, vogliono che le istituzioni facciano il loro lavoro, che la corruzione finisca, che lo Stato serbo funzioni“, dice. Invece, ammette, “la repressione del dissenso si fa più asfissiante e si moltiplicano le detenzioni arbitrarie ed extragiudiziali“.Peraltro, aggiunge, “ogni qualvolta Vućič apre a qualche forma di dialogo, si registrano nuovi incidenti“. Come quello dello scorso gennaio, quando a Novi Sad alcuni uomini affiliati all’Sns hanno rincorso degli studenti che stavano affiggendo manifesti, aggredendoli fisicamente. “Hanno tirato fuori una mazza da baseball e li hanno picchiati, rompendo la mascella ad una ragazza“, racconta. Così, alla successiva mano tesa fintamente dal capo dello Stato ai manifestanti, questi hanno risposto per le rime: “Difficile parlare con la mascella rotta”, si leggeva nei comunicati dell’epoca.Poliziotti in tenuta antisommossa a Belgrado (foto: Marko Djokovic/Afp)Il problema, nota Kovačev, è “l’impunità pressoché assoluta” di cui godono le forze dell’ordine. Nel caso di gennaio, ricorda, “quegli uomini furono arrestati e processati, ma a processo ancora in corso Vućič li graziò, prima che venisse emessa qualunque sentenza”. Anche lei ha visto coi propri occhi queste dinamiche, dato che, ci dice, “il dibattito pubblico e lo spazio mediatico sono estremamente polarizzati e ci sono frequenti attacchi contro giornali e giornalisti”.Come certificato da Media freedom rapid response nel suo ultimo rapporto, la situazione in Serbia è “emergenziale”. Nei primi sei mesi di quest’anno si sono verificate 96 aggressioni contro operatori mediatici: una dozzina in più di quelle commesse nell’arco di tutto il 2024 (84) e quasi il doppio del 2023 (49). “Persino se documenti gli attacchi, se li riprendi, non accade nulla“, lamenta Kovačev. Lo scorso novembre, ci racconta, il suo cameraman è stato scaraventato a terra di fronte agli uffici dell’Sns a Novi Sad mentre stava filmando le proteste.Ad aggredirlo era stato un uomo uscito dall’edificio stesso, dopo aver confabulato con alcuni membri della sezione locale del partito. “Avevamo l’incidente sul nastro“, sottolinea la giornalista, “e lo portammo alla polizia e al procuratore, ma nulla si mosse per mesi”. Poi, quando Kovačev e colleghi riuscirono a dimostrare che l’aggressore era uno stretto alleato del sindaco, furono chiamati a testimoniare dal procuratore. Eppure, alla fine, tutto si risolse in una bolla di sapone e gli inquirenti “derubricarono l’incidente ad un banale alterco tra privati, anziché considerarlo un reato penale”.In Serbia, come in altri Paesi candidati (su tutti la Georgia), l’impunità di un potere che prevarica i suoi stessi cittadini è un problema urgente e gravissimo. Da un’Ue che tanto ama dipingersi come paladina del diritto e dei diritti, illudendosi di poter ancora proiettare all’esterno qualche tipo di soft power, ci si aspetterebbe un intervento risoluto contro lo scivolamento autoritario delle fragili democrazie ai suoi stessi confini.Tanto più che, spesso, nell’allontanarsi da Bruxelles questi Paesi si avvicinano a Mosca, a Pechino e ad altri attori geopolitici che l’Europa considera come antagonisti. Magari, ipotizza Kovačev, è precisamente la consapevolezza di trovarsi su un piano inclinato così ripido a “innervosire le gerarchie comunitarie“. “Sanno benissimo che in Serbia le violazioni sono estese, ma forse l’assenza di reazioni deriva dalla paura di spingere Vućič ancora di più tra le braccia della Russia o della Cina“, ragiona.

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    Pronto il 19esimo pacchetto di sanzioni Ue alla Russia. Von der Leyen: “Le minacce aumentano, aumentiamo la pressione”

    Bruxelles – Energia, banche e criptovalute. Nel 19esimo pacchetto di sanzioni europee alla Russia c’è tutto quello che Ursula von der Leyen aveva anticipato pochi giorni fa al presidente statunitense Donald Trump, a partire dal cambio di marcia verso l’abbandono del gas naturale liquefatto russo. “Negli ultimi mesi la Russia ha dimostrato tutto il suo disprezzo per la diplomazia e il diritto internazionale”, ha affermato la leader Ue. Oltre ai pesanti raid su abitazioni civili e edifici governativi in Ucraina, il presunto disturbo al Gps dell’aereo della presidente della Commissione europea e le violazioni dello spazio aereo polacco e rumeno.Se “le minacce alla nostra Unione aumentano, noi rispondiamo aumentando la pressione”, ha proseguito von der Leyen. Alla fine, la stretta sugli import energetici dalla Russia arriva: “È ora di chiudere il rubinetto. Siamo pronti a farlo. Abbiamo risparmiato energia, diversificato le forniture e investito in fonti a basse emissioni di carbonio come mai prima d’ora”, ha assicurato la leader rivelando il divieto di importazione di GNL russo a partire dal primo gennaio 2027. Un anno prima dunque, rispetto al calendario previsto da REPowerEU.In più, von der Leyen ha annunciato l’abbassamento al tetto sul prezzo del petrolio russo a 47,6 dollari al barile. L’Unione stringe le maglie sulle principali compagnie energetiche del Cremlino: Rosneft e Gazprom Neft saranno “soggette al divieto totale di transazioni“, mentre saranno congelati i beni sul territorio europeo a “raffinerie, commercianti di petrolio e società petrolchimiche nei Paesi terzi, compresa la Cina”. Nella lista nera dell’Ue finiscono altre 118 navi della flotta fantasma con cui il Cremlino aggira le sanzioni sul greggio. In totale, Bruxelles ha individuato e sanzionato oltre 560 imbarcazioni.La seconda traccia seguita dalla Commissione europea sono le “scappatoie finanziarie utilizzate da Mosca per eludere le sanzioni”. E dunque, divieti di transazioni per altre banche in Russia e in Paesi terzi e “per la prima volta le nostre misure restrittive colpiranno le piattaforme per le criptovalute“. Infine, come sottolineato dall’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, “dobbiamo interrompere le forniture all’industria militare russa, in modo che non possa alimentare la sua macchina da guerra”. Il 19esimo pacchetto aggiunge ulteriori prodotti chimici, componenti metallici, minerali ai divieti di esportazione. “Stiamo rafforzando i controlli sulle esportazioni verso entità russe, cinesi e indiane“, ha spiegato Kallas: nell’elenco delle misure restrittive finiscono 45 nuove società in Russia e in Paesi terzi. “Il nostro messaggio è chiaro: chi sostiene la guerra della Russia e cerca di eludere le nostre sanzioni ne subirà le conseguenze”, ha proseguito il capo della diplomazia europea.Parallelamente, von der Leyen ha annunciato che “presto” la Commissione europea presenterà una proposta per l’utilizzo dei profitti generati dagli asset russi congelati in Ue per finanziare la spesa militare dell’Ucraina. La presidente della Commissione europea si è rivolta alle capitali: “Conto ora su di voi per un’adozione rapida del pacchetto”.

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    Trump e Starmer stipulano un accordo da 335 miliardi di dollari. Il partner degli USA in Europa è il Regno Unito

    Bruxelles – Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno scelto il loro partner in Europa: è il Regno Unito. Le due economie rafforzano i rapporti grazie a un piano d’investimenti dal valore di 335 miliardi di dollari. I settori coinvolti saranno principalmente quello dell’energia nucleare, dell’intelligenza artificiale e farmaceutico. Londra, che era già riuscita a strappare un accordo commerciale più favorevole con Washington (dazio base al 10 per cento) rispetto all’UE, ora stipula un partenariato definito dal tycoon come “senza precedenti”. Un’intesa commerciale ottenuta anche grazie, secondo Trump, all’“abile negoziatore” Starmer. Una frecciata indiretta a chi lo è stato meno.Il “Tech Prosperity Deal”, così battezzato durante la fastosa cerimonia della firma, è stato siglato a Chequers, nella residenza di campagna del primo ministro britannico. Tra i quadri ottocenteschi della residenza sedevano alcuni dei più influenti imprenditori del settore tecnologico americano, come il CEO di Nvidia Jensen Huang o quello di Microsoft Satya Nadella.Gli sforzi promessi sono consistenti. Il colosso tech di Bill Gates ha annunciato investimenti per 30 miliardi di dollari in infrastrutture di intelligenza artificiale e nelle relative attività operative. Impegni simili sono stati presi anche da Salesforce, Nvidia e Palantir, tra gli altri. Da parte sua, invece, Londra ha messo sul piatto le sue aziende di punta. In prima linea la farmaceutica GSK, che investirà negli Stati Uniti 30 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo in cinque anni. L’azienda petrolifera BP, che spenderà 5 miliardi di dollari all’anno.Il presidente americano, coccolato durante i suoi due giorni britannici, è stato messo alle strette solo nella conferenza stampa finale. I temi affrontati sono stati diversi. Si è parlato della guerra in Ucraina, dove Starmer ha esortato Trump ad aumentare la pressione su Putin affermando: “Le violazioni contro lo spazio aereo NATO non sono il gesto di una persona intenzionata alla pace”. Trump si è limitato a rispondere che Putin lo ha “deluso”. Poi, tornando sul tema più tardi, ne ha approfittato per una strigliata all’Unione Europea: “Sono disposto a fare altre cose (contro la Russia, ndr), ma non quando le persone per cui mi batto comprano petrolio dalla Russia. Se il prezzo del petrolio scende, molto semplicemente, la Russia si accontenterà”.Sulla crisi in Medio Oriente si è vista la maggiore divergenza tra i due. Il primo ministro inglese ha sottolineato come “il riconoscimento dello Stato palestinese rappresenterà un passo avanti verso la soluzione dei due Stati”, mentre il tycoon si è detto contrario: “È uno dei pochi punti in cui non andiamo d’accordo”.Al netto di divergenze sul Medio Oriente il rapporto tra i due sembra però genuino. L’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, ha affermato a Politico: “Il Presidente è molto disponibile ad ascoltare le opinioni di Starmer, indipendentemente dall’ideologia politica. Loro condividono la stessa visione”. Un legame che travalica i secoli, perché, come ha dichiarato Trump, Regni Unito e Stati Uniti hanno fatto “più bene al pianeta di qualsiasi altra coppia di nazioni nella storia”.

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    Caucaso, la commissaria Marta Kos visita Azerbaigian e Armenia

    Bruxelles – L’Ue cerca di tenersi stretto il Caucaso meridionale, provando a puntellare la sua presenza in quell’angolo di mondo, da sempre considerato dalla Russia come propria zona di interesse e oggi più strategico che mai. La commissaria all’Allargamento Marta Kos ha cominciato oggi (17 settembre) un viaggio di quattro giorni che la porterà a visitare Azerbaigian e Armenia, nel tentativo di rinsaldare i legami coi due Paesi mentre sembra avvicinarsi la firma di uno storico accordo di pace tra Baku e Yerevan.Kos arriverà stasera nella capitale azera, dove domani incontrerà il capo di Stato Ilham Aliyev ed alcuni membri di punta dell’esecutivo. I colloqui si incentreranno soprattutto sugli interessi economici comuni, con buona pace delle preoccupazioni per le sistematiche violazioni dei diritti umani nel Paese, governato in maniera autoritaria dal presidente 63enne.Ma gli affari sono affari, soprattutto in tempi di dazi. Così si parlerà in primis delle forniture energetiche verso il Vecchio continente (Baku è grande produttrice di petrolio e gas naturale, lo stesso che arriva in Puglia attraverso il Tap), ma anche dei grandi progetti infrastrutturali in questo crocevia strategico tra Europa, Medio Oriente ed Asia Centrale, come da copione in base alla nuova strategia Ue per il Mar Nero.La commissaria si recherà poi presso la cittadina di Aghdam, dove sono ancora in corso le attività di sminamento iniziate dopo la conclusione del decennale conflitto nel Nagorno-Karabakh, scoppiato nel 1992 e terminato nel settembre 2023 con la resa dei separatisti armeni. Venerdì (19 settembre) partirà dunque alla volta dell’Armenia, dove vedrà il presidente Vahagn Khachaturyan, il premier Nikol Pashinyan e alcuni ministri. Anche qui ribadirà la volontà dell’esecutivo comunitario di approfondire la cooperazione bilaterale, mettendo al centro gli scambi commerciali e la connettività regionale.Il tour caucasico di Kos non arriva in un momento qualunque. Coincide al contrario con una fase cruciale del processo di normalizzazione tra Armenia e Azerbaigian, avviato ormai da tempo ma accelerato vistosamente nell’ultimo anno. Dopo oltre 30 anni di guerra, le due repubbliche hanno deciso di mettere mano all’arsenale diplomatico e stanno lentamente progredendo verso la stipula di un accordo che, se concluso, potrebbe finalmente portare stabilità all’intera regione.Da sinistra: il presidente azero Ilham Aliyev, quello statunitense Donald Trump e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan (foto: Andrew Caballero-Reynolds/Afp)La mediazione statunitense ha impresso una svolta potenzialmente decisiva alla vicenda. Lo scorso 8 agosto Donald Trump ha ospitato Aliyev e Pashinyan alla Casa Bianca: dal trilaterale è emersa una dichiarazione congiunta in sette punti che ha costituito la base su cui, qualche giorno dopo, Baku e Yerevan hanno tratteggiato una bozza di trattato di pace in 27 articoli, modellata sul testo concordato lo scorso marzo.Il documento tocca le principali questioni al centro della decennale contesa tra i due Paesi. A partire dal corridoio di Zangezur, un passaggio terrestre voluto dall’Azerbaigian per collegarsi alla propria exclave del Nachichevan, incastonata tra Armenia, Iran e Turchia. Il tracciato dell’opera, che verrà realizzata con la partecipazione delle imprese a stelle e strisce (alle quali spetteranno i diritti di sviluppo esclusivi per 99 anni), correrà lungo il confine armeno-iraniano ed è stata ribattezzata Trump Route for International Peace and Prosperity, cioè letteralmente “Strada di Trump per la pace e la prosperità internazionali”, acronimo Tripp.Nell’agenda pesa la gestione del post-conflitto nell’ex enclave armena. Baku non intende firmare il trattato finché Yerevan non rimuoverà dalla propria Costituzione alcuni riferimenti alla riunificazione del Nagorno-Karabakh col territorio nazionale. L’Armenia sta riscrivendo la sua Carta fondamentale, ma le modifiche andranno approvate da un referendum popolare, che potrebbe venir convocato solo nel 2027 (il prossimo giugno si terranno le elezioni politiche). Rimane poi la doppia questione dei prigionieri armeni nelle carceri azere e degli sfollati del Nagorno-Karabakh.Oltre che sul piano economico, tuttavia, il progresso nelle trattative bilaterali è estremamente rilevante dal punto di vista geopolitico e strategico. Da un lato, l’accordo (per quanto provvisorio) certifica la perdita di centralità della Federazione, ora che la guerra in Ucraina le impedisce di intervenire in un’area che ha tradizionalmente considerato la sua diretta sfera d’influenza.Da sinistra: la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente del Consiglio europeo António Costa (foto: Consiglio europeo)Seppur per ragioni diverse, tanto Baku quando Yerevan si stanno progressivamente allontanando da Mosca per diversificare la propria politica estera e le rispettive reti di alleanze. Se l’Azerbaigian mira a stringere ancora di più il rapporto con la Turchia, l’Armenia sta muovendo i primi passi verso una lenta integrazione con l’Ue.A marzo il Parlamento armeno ha impegnato il governo a richiedere formalmente lo status di Paese candidato. Bruxelles, che ha sempre incoraggiato gli sforzi di riconciliazione con Baku, collabora già con Yerevan in diversi ambiti – dall’assistenza finanziaria alla missione civile Euma (che potrebbe venire smantellata proprio in virtù del futuro trattato, dove si proibisce la presenza di truppe straniere lungo il confine) – e i vertici comunitari si sono recentemente complimentati per i progressi compiuti in tal senso dal piccolo Stato caucasico.Nel suo peregrinare per la regione, la commissaria Kos si terrà invece alla larga dalla Georgia, l’unico Paese dell’area ufficialmente candidato all’ingresso nel club a dodici stelle. In realtà, qui il percorso di adesione è congelato da tempo a causa dell’autoritarismo crescente del governo – che conculca le libertà dei cittadini e reprime brutalmente il dissenso – e allo scivolamento di Tbilisi verso l’orbita del Cremlino.

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    Israele, l’Ue propone sanzioni a due ministri e dazi su merci per 6 miliardi. Ora dipende dagli Stati membri

    Bruxelles – Mentre Israele cinge d’assedio Gaza City e “Gaza brucia” – così ha esultato il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz -, la Commissione europea rompe gli indugi e presenta le prime sanzioni politiche ed economiche a Tel Aviv dall’inizio del conflitto. Sono tre le linee direttive: Bruxelles potrà congelare immediatamente circa 20 milioni di fondi previsti per Israele, mentre dovrà passare dalle capitali per l’imposizione di dazi commerciali su circa 6 miliardi di merci e di misure restrittive su due dei ministri più estremisti del governo di Benjamin Netanyahu.A sbloccare un’impasse lunga due anni, l’indignazione e la mobilitazione crescenti dell’opinione pubblica, che hanno convinto Ursula von der Leyen ad annunciare le tardive misure la scorsa settimana, nel suo discorso sullo stato dell’Unione. “Voglio essere molto chiara: l’obiettivo non è punire Israele. L’obiettivo è migliorare la situazione umanitaria a Gaza”, ha affermato oggi l’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, presentando il pacchetto.Con il capo della diplomazia Ue, c’era il responsabile per il commercio, Maroš Šefčovič, che ha snocciolato cifre e volumi degli scambi tra i due partner e gli effetti della sospensione parziale dell’accordo di associazione Ue-Israele messa sul piatto dall’esecutivo comunitario. Tenendo presente che l’Ue rappresenta un terzo del commercio totale di Israele con il mondo, mentre Israele è solo il 31esimo partner commerciale del blocco.Kaja Kallas, Maroš Šefčovič e Dubravka Šuica presentano le misure restrittive contro IsraeleLa Commissione europea ha proposto la sospensione delle agevolazioni commerciali previste dall’accordo di associazione per lo scambio di merci, per la partecipazione agli appalti pubblici, per le norme sulle proprietà intellettuali. Mentre non verrebbero toccate le disposizioni sul flusso di capitali e doganali. Negando l’accesso preferenziale al mercato dell’Ue, alle merci israeliane sarebbero applicate gli stessi dazi doganali che l’Ue applica a Paesi terzi con cui non ha un accordo di libero scambio.Nel 2024, Israele ha esportato in Ue merci per 16 miliardi di euro, mentre in direzione di Tel Aviv sono partite merci per 26,7 miliardi di euro. In sostanza, le misure colpirebbero il 37 per cento delle esportazioni israeliane – soprattutto prodotti agricoli -, perché il restante 63 per cento – principalmente macchinari, mezzi di trasporto, prodotti chimici – rimarrebbe soggetto a tariffe zero o molto basse, secondo i termini del regime MFN (Most Favored Nation) dell’Organizzazione mondiale del commercio.L’effetto, sarebbe dunque l’imposizione di dazi aggiuntivi su merci israeliani per il valore di 5,8 miliardi di euro. Secondo i calcoli della Commissione europea, ciò si tradurrebbe – se il commercio rimarrà allo stesso livello del 2024 – in 227 milioni di euro di dazi doganali nell’arco di un anno. Viceversa, se Israele dovesse rispondere alzando barriere analoghe, i dazi colpirebbero merci europee per il valore di circa 8 miliardi. Bruxelles è rimasta sorda agli appelli – e alle decisioni unilaterali di alcuni Paesi membri – per imporre restrizioni specifiche al commercio di armi e materiale a doppio uso civile-militare. Anzi, secondo il regime MFN, rimarranno in gran parte esenti da dazi.La proposta, il cui limitato effetto economico è inversamente proporzionale all’alto valore politico, dovrà essere approvata dagli Stati membri a maggioranza qualificata. Il che significa che – al netto dell’opposizione di Paesi con un peso specifico minore, come Ungheria e Repubblica Ceca – a deciderne le sorti saranno in particolare Italia e Germania, i cui governi non hanno mai risolto del tutto l’ambiguità nei confronti della condotta dell’esercito israeliano a Gaza. Se dovessero farsi da parte, Bruxelles dovrà a quel punto informare della sospensione il Consiglio di associazione Ue-Israele, e attendere 30 giorni prima dell’entrata in vigore dei dazi.I ministri di estrema destra Itamar Ben-Gvir (L) e Bezalel Smotrich (Photo by AMIR COHEN / POOL / AFP)Ancora più complessa la strada per il sì alle misure restrittive contro i ministri della Sicurezza nazionale e delle Finanze, gli estremisti religiosi Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Per approvare le sanzioni è necessaria l’unanimità dei 27. Un anno fa, le capitali Ue respinsero la stessa proposta, messa sul tavolo dall’allora Alto rappresentante Josep Borrell. Nel frattempo, i due sono stati sanzionati da diversi partner dell’Ue, tra cui Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Norvegia. E così hanno fatto, in maniera autonoma, anche Paesi Bassi e Slovenia.“Conoscete molto bene la situazione in seno al Consiglio. Anche se vediamo che l’opinione pubblica sta davvero cambiando, a livello politico le posizioni sono molto simili a quelle che ci sono state finora“, ha ammesso Kallas, scura in volto. Oltre al divieto di ingresso nell’Ue e al congelamento di eventuali fondi sul territorio europeo per i due ministri, la proposta include sanzioni per 3 coloni israeliani e 6 organizzazioni responsabili di violenze nei territori palestinesi occupati e 10 membri del direttivo politico di Hamas.Del pacchetto presentato oggi, rischia di sopravvivere soltanto lo stop al sostegno bilaterale a Israele, su cui la Commissione procederà in autonomia. Si parla di 6 milioni di euro all’anno fino al 2027 attraverso lo strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale (NDICI) e di 14 milioni in progetti di cooperazione istituzionale, compresi i gemellaggi e progetti di gemellaggio nell’ambito del meccanismo di cooperazione regionale Ue-Israele.

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    L’UE cerca una cooperazione tutta nuova con l’India: “E’ priorità strategica”

    Bruxelles – La Commissione europea continua nel suo lavorio di avvicinamento all’India con una nuova strategia volta a rafforzare le relazioni bilaterali. La cosa di per sé non sorprende, visti i tempi: tensioni commerciali con un partner, quello statunitense, improvvisamente meno amico, una Cina sempre più ‘ingombrante’ a livello geo-politico, una Russia cancellata dalla lista dei Paesi ‘amici’, dialogare con Nuova Delhi è praticamente un passo obbligato. Colpisce che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel presentare questa strategia, affermi che “ora è il momento di concentrarsi su partner affidabili e di raddoppiare i partenariati fondati su interessi condivisi e guidati da valori comuni”. Con la nostra nuova strategia UE-India, “stiamo portando le nostre relazioni a un livello superiore”.La diplomazia è in fin dei conti uno strumento di ipocrisia, un artificio utile a nascondere ciò che si pensa davvero per toni più amichevoli. Se critiche e attacchi difficilmente risultano produttivi, elogi e manifestazione di stima e affetto invece sì, quindi ben vengano le parole di rito e di circostanza, nella loro non veridicità. Ma del resto, sottolinea la comunicazione agli Stati, “portare il partenariato strategico UE-India a un livello superiore è una priorità strategica“.Il primo ministro indiano Narendra Modi (foto: Andrew Caballero-Reynolds/Afp)Sul conflitto russo-ucraino e le sanzioni a Mosca l’India ha sposato un linea ambigua e doppiogiochista: comprare petrolio da Mosca, e mantenere buoni rapporti con il Cremlino in chiave anti-cinese per il controllo della regione sfociate nella partecipazione dell’India all’esercitazione militare russa ai confini dell’Unione europea. Logiche tutte indiane che poco si sposano con le parole di von der Leyen: definire l’India di Mohdi un partner “affidabile” è un azzardo, tanto più che la stessa Commissione europea è consapevole della scommessa che sta compiendo, sia pur inevitabile.La nuova strategia UE-IndiaSullo sfondo resta l’accordo commerciale che l’UE è intenzionata chiudere entro fine anno per mettersi al riparo dalle possibili ricadute negative dell’accordo sui dazi con gli Stati Uniti e nuove eventuali tensioni commerciali. Ma intanto rilancia la cooperazione, nel rispetto di quel principio secondo cui ‘si coopera finché si può’, in cinque aree: sostenibilità, innovazione e tecnologia, sicurezza e difesa, connettività, coordinamento ad ogni livello.Più nello specifico, per ciò che riguarda la sostenibilità si intende intensificare la cooperazione sulle energie rinnovabili, lo sviluppo di capacità nell’idrogeno verde e l’espansione della finanza verde, oltre che lavorare insieme per la sicurezza alimentare e la risposta ai cambiamenti climatici. Per ciò che riguarda innovazione e tecnologia, si sottolinea l’impegno a promuovere tecnologie emergenti critiche e l’impegno sulle questioni digitali, con particolare attenzione al rafforzamento della sicurezza economica all’interno del Consiglio per il Commercio e la Tecnologia (TTC). Questa nuova strategia prevede anche una potenziale partnership UE-India per le startup, e l’invito per l’India ad associarsi al programma Horizon Europe per la ricerca.L’Ue vuole nuove relazioni con l’India, ma il nuovo corso di Delhi è una sfidaIl capitolo relativo alla difesa è forse quello più delicato, visto che si chiede a Nuova Delhi di “intensificare l’impegno sulla guerra della Russia contro l’Ucraina, sulle flotte ombra e sulle sanzioni”. Non è chiaro qui quanto possa ottenere l’UE, dato un partner che comunque ha interessi a mantenere buone relazioni con Mosca. L’UE ci prova.“L‘India è oggi uno degli attori più importanti al mondo e un partner naturale per l’Unione Europea“, sostiene l’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Kaja Kallas. “Sono molti gli ambiti in cui i nostri interessi, i nostri punti di forza e la nostra volontà politica coincidono”.