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    Le ventiquattr’ore di svolta per il Kosovo. Bruxelles riceve la richiesta di adesione Ue e trova l’intesa sui visti

    Bruxelles – Tutto in ventiquattr’ore, o quasi. Difficilmente i cittadini e i leader politici del Kosovo scorderanno ciò che è successo tra il pomeriggio di mercoledì 14 e giovedì 15 dicembre, quando il Paese balcanico ha siglato e presentato all’Unione Europea la richiesta di adesione e, parallelamente, ha visto stringere l’intesa tra i co-legislatori del Parlamento e del Consiglio dell’Ue per la liberalizzazione dei visti Schengen per Pristina al più tardi entro il primo gennaio del 2024.
    Il testo della richiesta di adesione del Kosovo all’Unione Europea
    “In qualità di rappresentante del Consiglio dell’Unione Europea ho ricevuto ufficialmente la richiesta di adesione all’Ue dalle mani del primo ministro del Kosovo, Albin Kurti“, ha reso noto il ministro ceco per gli Affari europei e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Mikuláš Bek: “La prospettiva europea è una forte garanzia di pace e prosperità nei Balcani Occidentali”. Lo stesso premier Kurti ha sottolineato “l’impegno incrollabile” del suo Paese nei valori fondamentali dell’Unione – “libertà, democrazia, diritti umani, uguaglianza e Stato di diritto” – attraverso la richiesta di adesione firmata ieri insieme alla presidente della Repubblica, Vjosa Osmani, e al presidente dell’Assemblea nazionale, Glauk Konjufca. Non è solo “un giorno storico per il popolo kosovaro”, ma anche “un grande giorno per la democrazia in Europa”, ha voluto sottolineare Kurti a Praga (il cui semestre di presidenza del Consiglio terminerà il prossimo 31 dicembre). La visione è quella di “un’Europa integra, libera e in pace” a cui anche il Kosovo vuole partecipare pienamente, “senza una porta sul retro né una corsia preferenziale”.
    In questo contesto, il Kosovo dovrà affrontare due sfide parallele, che al momento bloccano la strada verso la concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue: cinque Stati membri non ne riconoscono l’indipendenza (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia), mentre è necessaria la finalizzazione di un accordo giuridicamente vincolante sulla normalizzazione delle relazioni con la Serbia (da cui Pristina ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza nel 2008). Bruxelles considera il 2023 l’anno decisivo per portare a termine il dialogo mediato da oltre 10 anni. Citando “l’Europa come compito” dell’ex-presidente ceco, Václav Havel, il premier del Kosovo ha parlato di un rafforzamento della democrazia, dell’economia e della società, fissando come obiettivo l’adesione entro una decina d’anni: “Il nostro accordo di associazione per la stabilizzazione è già stato attuato per circa il 50 per cento”.

    At the heart of Europe, in the beautiful city of Prague, we officially submitted to the Czech EU Presidency our application for EU membership.
    This is a historic day for the people of Kosova, and a great day for democracy in Europe. pic.twitter.com/BD4VwrjODa
    — Albin Kurti (@albinkurti) December 15, 2022

    Un endorsement alla richiesta di adesione all’Ue di Pristina è arrivato oggi dall’Eurocamera, in particolare dal presidente della delegazione per le relazioni con la Bosnia ed Erzegovina e il Kosovo, Romeo Franz, e dalla relatrice permanente per il Kosovo, Viola von Cramon-Taubadel. “La giornata di oggi segna una pietra miliare nelle nostre relazioni”, dal momento in cui la richiesta di adesione all’Unione “non riflette solo l’orientamento fortemente europeista dei kosovari e il consenso dei partiti politici”, ma è anche “una chiara scelta strategica in questi tempi di sfide geopolitiche senza precedenti”, hanno sottolineato i due eurodeputati tedeschi del gruppo dei Verdi/Ale. La richiesta netta al Consiglio è quello di “incaricare la Commissione Europea di preparare senza indugio un parere sul merito della domanda del Paese“, per avviare l’iter di valutazione della potenziale concessione dello status di candidato.
    Da sinistra: il presidente dell’Assemblea del Kosovo, Glauk Konjufca, la presidente della Repubblica, Vjosa Osmani, e il primo ministro, Albin Kurti (Pristina, 14 dicembre 2022)
    Tra i meriti principali di Pristina c’è il “costante allineamento” alla politica estera e di sicurezza dell’Ue, “in primo luogo attraverso l’adozione di sanzioni a seguito della guerra di aggressione russa contro l’Ucraina“. Questa solidarietà con il popolo ucraino “fa del Paese un partner affidabile, già profondamente ancorato all’alleanza europea e transatlantica”, hanno ribadito Franz e von Cramon-Taubadel, rinnovando l’appello dell’Eurocamera a Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia per “riconoscere il Kosovo come Stato sovrano”, perché possa “avanzare nel suo percorso europeo su un piano di parità con gli altri Paesi dei Balcani Occidentali“. Da Bruxelles ci si aspetta che “questo atto simbolico di richiesta di adesione sia seguito da azioni concrete e significative”, a partire proprio dalla normalizzazione delle relazioni con la Serbia.
    L’intesa Ue sulla liberalizzazione dei visti
    Proprio dal Parlamento Ue arriva un’altra notizia positiva per le prospettive del Kosovo di avvicinamento all’Unione. Nel pomeriggio di ieri è stata raggiunta in meno di un’ora l’intesa tra i negoziatori del Parlamento e del Consiglio dell’Ue per la liberalizzazione dei visti Schengen per i soggiorni di breve durata dei cittadini kosovari. L’esenzione implica la possibilità di viaggiare senza visto per un soggiorno di massimo 90 giorni (su un periodo di 180) nell’area che ha abolito le frontiere interne, utilizzando il proprio passaporto senza ulteriori requisiti. È in vigore per 63 Paesi di tutto il mondo, compresi quelli dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, ma non il Kosovo), Regno Unito, Moldova, Georgia e Ucraina.
    La presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, e il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel
    L’accordo ha sancito che la liberalizzazione entrerà in vigore a partire dalla data di inizio del funzionamento del Sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi (Etias), “e comunque non più tardi del primo gennaio 2024”, si legge nell’intesa che ricalca la posizione raggiunta – con estrema fatica – due settimane fa tra gli ambasciatori dei Ventisette. L’Etias sarà un sistema digitale per tenere traccia dei visitatori extra-comunitari nella zona Schengen, che riguarderà tutti i viaggiatori provenienti dai – quasi 64 – Paesi ‘visa free’ per l’Ue e che prevederà la compilazione di un modulo d’ingresso (come per l’Electronic System for Travel Authorization negli Stati Uniti). Il problema riguarda il fatto che non è ancora stato stabilito quando l’Etias sarà operativo: inizialmente era previsto entro il 2022, poi la data di entrata in vigore è stata posticipata alla primavera 2023 e ancora alla fine del prossimo anno (verosimilmente a novembre).
    “Grazie a tutti coloro che hanno lavorato su questo tema per molti anni”, è il commento soddisfatto del relatore per il Parlamento Ue, Thijs Reuten. Dopo l’accordo, che arriverà non oltre la fine del 2023, l’intera regione dei Balcani Occidentali avrà un quadro di visti simile a quello dell’area Schengen: nel frattempo Pristina è incoraggiata ad allineare la politica dei visti esterni a quella dell’Ue – come richiesto con insistenza dai Ventisette anche al vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana – mentre gli Stati membri Ue che non hanno ancora accordi o intese di riammissione con il Kosovo “dovrebbero concludere tali accordi o intese”. Gli eurodeputati hanno anche sottolineato che il Paese balcanico dovrà rispettare il principio di non-respingimento nell’adempimento dei suoi obblighi in materia di migrazione e asilo.

    Very pleased to have reached agreement on behalf of @Europarl_EN with the Council represented by the @EU2022_CZ presidency on granting Kosovo visa liberalization on the 1st of January 2024 at the latest. Thanks to everyone who worked on this for so many years. 🇪🇺🤝🇽🇰 pic.twitter.com/4BJVlpWEKR
    — Thijs Reuten 🇪🇺🌹 (@thijsreuten) December 14, 2022

    Le tensioni nel nord del Kosovo
    Tutti gli sviluppi positivi per Pristina sul piano diplomatico sono arrivati sullo sfondo delle gravi tensioni nel nord del Paese, che hanno raggiunto ormai il sesto giorno di barricate e blocchi stradali ai valichi di confine. A riaccendere le ostilità delle frange più estreme della minoranza serba è stata la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia venerdì scorso (9 dicembre) per tenere sotto controllo la situazione nelle regioni settentrionali, dal momento in cui gli agenti serbo-kosovari dimessisi in massa a inizio novembre non sono ancora tornati in servizio. Le proteste si sono esacerbate sabato con l’arresto di un ex-agente della polizia kosovara, Dejan Pantić – accusato di “attacchi terroristici” – con blocchi stradali realizzati anche con mezzi pesanti donati attraverso i progetti finanziati dall’Ue. Nel corso della notte tra sabato e domenica (10-11 dicembre) vicino a Rudare una granata stordente ha colpito una pattuglia di ricognizione della missione civile Eulex, senza causare nessun ferito né danneggiamento di materiale.
    Blocchi stradali dei manifestanti serbo-kosovari nel nord del Kosovo
    La situazione è resa ancora più tesa per l’esacerbazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado, proprio per il controllo politico delle regioni settentrionali del Kosovo. Lo scorso fine settimana la premier serba, Ana Brnabić, era arrivata a minacciare la possibilità di inviare mille soldati da Belgrado sul territorio kosovaro, misura non possibile senza il consenso della Nato (secondo quanto previsto dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 1999). Nonostante le pressioni europee e statunitensi, oggi il governo di Belgrado ha deciso di presentare la richiesta alla Kosovo Force (Kfor) per inviare un contingente di forze di sicurezza oltre confine (anche se per la Serbia il Kosovo non è uno Stato sovrano) “a protezione” della popolazione serba, ha rivendicato il presidente Aleksandar Vučić. Domani (venerdì 16 dicembre) la richiesta sarà presentata formalmente al comandante della Kfor, il generale italiano Angelo Michele Ristuccia, anche se “sulla base di tutto quello che abbiamo sentito, riteniamo che non sarà accolta”, ha avvertito Vučić.
    “Negli ultimi giorni abbiamo affrontato grossi problemi nel nord del Kosovo”, ha commentato in maniera secca l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, facendo ingresso al Consiglio Europeo di oggi e ricordando di aver inviato il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, sia a Pristina sia Belgrado. “Chiedo il supporto di tutti i leader Ue per calmare la situazione“, ha precisato Borrell, che ha esortato esplicitamente alla rimozione delle barricate ai valichi di confine tra Serbia e Kosovo. Mentre il dialogo mediato da Bruxelles “è l’unica modalità che fornisce la prospettiva europea per entrambe le parti”, nel corso del vertice dei leader Ue è stato anche discusso il “quadro completo e coerente per arrivare alla normalizzazione dei rapporti“, ovvero la nuova versione della proposta di mediazione franco-tedesca che dovrebbe portare a un’intesa “in meno di un anno”, secondo quanto confermano fonti europee.

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    A Bruxelles si sblocca il dossier Sarajevo. La Bosnia ed Erzegovina è un nuovo Paese candidato all’adesione Ue

    Bruxelles – Nessuna sorpresa, ma un passo enorme per le prospettive bosniache di entrare nell’Unione Europea. I capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri hanno dato il via libera oggi (giovedì 15 dicembre) alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue, seguendo la raccomandazione del Consiglio Affari Generali di martedì (13 dicembre) a proposito del processo di allargamento e quello di stabilizzazione e associazione. Dopo più di sei anni di attesa nell’anticamera di Bruxelles (era il 15 febbraio 2016 quando veniva presentata ufficialmente la domanda di Sarajevo), il Paese balcanico è diventato l’ottavo candidato ufficiale per l’adesione all’Unione.
    Il ponte di Mostar (Bosnia ed Erzegovina) illuminato con la bandiera dell’Unione Europea
    Lo status di Paese candidato alla Bosnia ed Erzegovina è stato confermato dalle conclusioni del Consiglio Europeo, dopo l’approvazione all’unanimità da parte dei Ventisette. Per Sarajevo si apre ora un cammino di implementazione delle riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, del rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione, come sottolineato nella raccomandazione della Commissione Europea. Proprio l’esecutivo comunitario è stato il maggiore sponsor della candidatura bosniaca – sia con l’esortazione al Consiglio dello scorso 12 ottobre sia con il discorso vibrante della presidente Ursula von der Leyen nel suo viaggio di fine ottobre a Sarajevo – ed è ora chiamato a tenere sotto osservazione i progressi del nuovo Paese candidato all’adesione.
    “L’endorsement dei leader è una grande occasione offerta alla Bosnia ed Erzegovina per spingere sulla strada della riforme e imbarcarsi davvero sul cammino europeo“, ha sottolineato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “È un grande passo per il Paese e per tutta la regione”. Congratulazioni a Sarajevo arrivano anche dal presidente del Consiglio, Charles Michel: “È un segnale forte alla popolazione, ma anche una chiara aspettativa che le nuove autorità realizzino le riforme”.
    La decisione di oggi conferma la valutazione preliminare del Consiglio Ue del 23 giugno scorso – dopo il fallimentare vertice Ue-Balcani Occidentali di Bruxelles – quando i 27 leader Ue si erano detti “pronti” a riconoscere lo status a Sarajevo, ma a condizione che la Commissione riferisse “senza indugio” sull’attuazione delle 14 priorità-chiave. Il blocco delle discussioni sulla concessione dello status di candidati per Ucraina e Moldova da parte del triangolo Slovenia-Croazia-Austria (le tre ‘colombe’ bosniache in Consiglio), fino a quando non si fosse trovata almeno una parziale risposta alla questione bosniaca, aveva permesso di definire un obiettivo chiaro: permettere ai leader Ue di “tornare a decidere nel merito” quanto prima. A sei mesi di distanza da quel Consiglio l’accelerazione sul dossier Sarajevo ha dato i suoi frutti, ma adesso la palla passa alla Bosnia ed Erzegovina, dove si dovranno affrontare criticità non indifferenti per l’apertura del negoziati di adesione all’Ue.

    Bosnia and Herzegovina was granted the status of candidate country today.
    A strong signal to the people, but also a clear expectation for the new authorities to deliver on reforms.
    The future of the Western Balkans is in the #EU
    Congratulations!#EUCO pic.twitter.com/1TUWlGlNPu
    — Charles Michel (@CharlesMichel) December 15, 2022

    Gli ostacoli sul cammino europeo della Bosnia ed Erzegovina
    Il municipio di Sarajevo (Bosnia ed Erzegovina) illuminato con la bandiera dell’Unione Europea
    Il primo livello di criticità per la Bosnia ed Erzegovina riguarda la questione istituzionale. Dopo la complessa tornata elettorale dello scorso 2 ottobre, la nuova presidenza tripartita vede la presenza di Željko Komšić (croato), Denis Bećirović (bosgnacco) e soprattutto la riconferma di Milorad Dodik (serbo), ex-presidente della Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba, complementare alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina). Dall’ottobre dello scorso anno proprio Dodik si è fatto promotore di un progetto secessionista per sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, per cui il Parlamento Europeo aveva evocato sanzioni economiche e su cui la Commissione aveva iniziato a ragionare. Dopo la dura condanna da parte dell’Unione dei tentativi secessionisti della Republika Srpska (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno i leader bosniaci si erano radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme necessarie sul piano elettorale e costituzionale nel Paese balcanico.
    Ma la costante crisi istituzionale nel Paese balcanico si accompagna a un’altra questione urgente per l’Unione Europea: quella della destabilizzazione russa e dell’allineamento alle sanzioni internazionali contro Mosca, dopo l’invasione armata dell’Ucraina. Insieme alla Serbia la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo a non aver adottato le misure restrittive, a causa dell’opposizione della componente serba della presidenza tripartita. Dodik è particolarmente vicino all’autocrate russo, Vladimir Putin, e non ha mai nascosto la propria ambiguità non solo sul conflitto in corso in Ucraina, ma anche sull’annessione illegale da parte del Cremlino delle regioni ucraine Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia: “Incontrerò personalmente Putin, per confrontarci su progetti energetici concreti e del comportamento dell’Occidente“, aveva provocato Dodik a fine settembre dopo i referendum illegali in Ucraina (anche se l’incontro non si è ancora concretizzato). Per Bruxelles non è nemmeno ipotizzabile un mancato allineamento di un Paese candidato all’adesione Ue ai principi fondanti della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc), “incluse le misure restrittive”, come avevano messo in chiaro le conclusioni del vertice Ue-Balcani Occidentali di martedì scorso (6 dicembre) a Tirana.
    Il punto sull’allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue coinvolge i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), la Turchia – i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan – Ucraina e Moldova – a cui è stato concesso al vertice dei leader Ue di giugno lo status di Paesi candidati – e Georgia, a cui è stata riconosciuta la prospettiva europea. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord si è sbloccato a metà luglio dopo quasi tre anni di stallo (prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello della Bulgaria contro Skopje). A sei anni dalla sua domanda di adesione, la Bosnia ed Erzegovina è da oggi un candidato ufficiale, mentre il Kosovo ha firmato nello stesso anno l’Accordo di stabilizzazione e associazione e ieri (mercoledì 14 dicembre) ha fatto richiesta a Bruxelles per diventare il prossimo Paese candidato.
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’Ue è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen: per i Balcani Occidentali è compresa la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra l’Unione e il Paese richiedente, a cui viene offerta la prospettiva di adesione. Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri, si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    I capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri Ue hanno dato il via libera alla concessione dello status a Sarajevo, che diventa l’ottavo candidato ufficiale nel processo di allargamento dell’Unione.

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    Ue-Asean, il sud-est asiatico contro le annessioni russe in Ucraina

    Bruxelles – Da astenuti a contrari ciò che hanno prodotto le manovre militari della Russia in Ucraina, vale a dire le annessioni delle provincie sud-orientali. Gli Stati membri dell’Associazione delle Nazioni del sud-est asiatico (Asean) prendono le distanze da Mosca in modo molto più chiaro da quanto fatto in occasione delle votazioni in sede Onu. Il blocco dei 10 Paesi si è diviso, con quattro voti a favore delle spese di riparazione per l’Ucraina (Brunei, Filippine, Myanmar e Singapore) e gli altri sei astenuti (Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Thailandia e Vietnam). Il primo summit Ue-Asean di alto livello vede tutti i partecipanti riaffermare, come per tutte le nazioni, la necessità di rispettare la sovranità, l’indipendenza politica e l’integrità territoriale dell’Ucraina“.

    Un passaggio, quello sulla Russia, che non viene menzionata direttamente, tra le parti più delicate su cui le due parti hanno dovuto lavorare al fine di poter chiudere la dichiarazione congiunta. Qui si ricorda come “la maggior parte” dei governi della comunità internazionale abbia “condannato fermamente” l’aggressione dell’Ucraina, così come si ricorda, allo stesso tempo, che “ci sono stati altri punti di vista e diverse valutazioni della situazione e delle sanzioni”. Una formulazione, quest’ultima, volta a tutelare le posizioni già espresse dai membri dell’Asean, che comunque come blocco, nel pretendere la difesa dell’integrità territoriale dell’Ucraina, sconfessano i territori annessi fin qui da Mosca e, implicitamente, le operazioni che hanno prodotto tutto ciò.
    I due blocchi siglano quindi l’alleanza per rispondere a quella che viene vista con particolare preoccupazione tra gli effetti collaterali del conflitto russo-ucraino. “Continueremo a sostenere gli sforzi per combattere l’attuale crisi alimentare globale e coopereremo strettamente su questo tema”, promettono i leader nella dichiarazione finale, contenente anche la chiamata a raccolta della comunità internazionale tutta. Di fronte alle ripercussioni del conflitto russo-ucraino, “esortiamo tutti i paesi a mantenere aperti i mercati alimentari e agricoli per garantire il flusso globale di beni e input agricoli essenziali, compresi i fertilizzanti”.

    La dichiarazione congiunta finale difende l’integrità territoriale del Paese. In precedenza sei Paesi Asean si erano astenuti nei confronti di Mosca

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    Energia e informazione in tempo di guerra. Il Comitato Economico e Sociale getta luce sulla situazione in Ucraina

    Bruxelles – Il Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese) chiude un anno di impegno eccezionale a sostegno dell’Ucraina, con un focus sull’energia e l’informazione in tempo guerra proprio in occasione dell’ultima sessione plenaria (14-15 dicembre). “Gli ucraini hanno pagato un grande prezzo per la pace, per la ricostruzione del Paese dobbiamo lavorare con i gruppi della società civile, perché si possa costruire un futuro di pace”, ha esordito la presidente del Cese, Christa Schweng, aprendo oggi (mercoledì 14 dicembre) il seminario per i giornalisti ‘Energy and Media as Weapons in the wartime‘, accompagnato dall’esposizione di fotografie dal titolo ‘Children in war‘: “Spesso dimentichiamo che dietro a tutto questo c’è l’aspetto umano, e questa mostra fotografica è qui a ricordarcelo”, ha aggiunto il vicepresidente Cillian Lohan.
    L’esposizione fotografica ‘Children in war’ alla sede del Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese)
    A proposito dell’arma dell’informazione, l’intervento della giornalista ucraina di Inter Tv-channel Olena Abramovych si è focalizzato sul fatto che nei primissimi giorni di guerra i media ucraini si sono dovuti anche occupare del contrasto alla propaganda russa: “Eravamo pronti allo scenario di una guerra-lampo, con disinformazione come quella secondo cui il presidente Zelensky era fuggito da Kiev, che puntava a creare caos”. Tra i maggiori problemi registrati ci sono stati i bombardamenti alle stazioni televisive, “per oscurare i media e non permettere di diffondere le informazioni” e anche la fuga di giornalisti dall’est del Paese: “Ma molti altri hanno iniziato dal secondo giorno con le maratone giornalistiche, con una condivisione delle riprese nei diversi canali”, ha ricordato Abramovych.
    A tracciare una panoramica aldilà del confine è il giornalista russo Tikhon Dzyadko, direttore del media indipendente Dozhd Tv che continua a operare in esilio: “Più di 500 colleghi hanno lasciato il Paese, dove c’è una dittatura militare e dove non si parla mai di guerra, ma sempre di operazione militare speciale”. Mentre “tutti i media indipendenti lavorano all’estero”,  in Russia “la propaganda di regime dipinge una realtà parallela, per cui l’86 per cento dei cittadini supporta la guerra“, ha spiegato Dzyadko, che ha messo in guardia da un errore che viene spesso commesso dagli organi di informazione occidentali: “Gli europei riportano questi dati perché non conoscono la realtà sul campo”. La lituana Tatjana Babrauskienė (membro del gruppo Lavoratori del Cese) ha sottolineato che “i media indipendenti, anche in Bielorussia, vanno sostenuti molto più di quanto non si faccia ora e non solo finanziariamente”, mentre il collega polacco Tomasz Wróblewski (membro del gruppo Datori di lavoro del Cese) si è soffermato sul fatto che “in Ucraina e in Russia l’informazione stessa è parte della guerra e la disinformazione fa parte del processo per destabilizzare l’altra parte”.
    Il Cese sull’arma energetica
    L’esposizione fotografica ‘Children in war’ alla sede del Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese)
    “La società civile ha avvisato del problema della dipendenza energetica dalla Russia, ne abbiamo parlato per molto tempo, ma la politica è stata cieca”, ha attaccato la ceca Alena Mastantuono (membro del gruppo Datori di lavoro del Cese), trattando del tema energetico: “Nell’ultimo anno abbiamo visto crescere i prezzi dell’energia, un problema per le imprese e per i consumatori, i rincari stanno spingendo l’inflazione e dobbiamo stare attenti all’evoluzione della situazione“. In particolare il prossimo anno potrebbe rappresentare un rischio: “Abbiamo messo al sicuro questo inverno con il 92 per cento degli stoccaggi pieni, ma il prossimo inverno non sarà possibile”, ha avvertito Mastantuono, ricordando che “la sicurezza delle forniture di energia deve essere la priorità numero uno per l’Europa”.
    La soluzione su cui spinge più il Cese è l’implementazione delle risorse rinnovabili, per “ridurre la nostra dipendenza dall’importazione di energia, dal momento in cui può essere usata come un’arma”, ha messo in chiaro il tedesco Lutz Ribbe (membro del gruppo Società civile). “Se importiamo energia, esportiamo soldi, mentre noi possiamo produrre energia meglio in maggiori quantità e a un prezzo più basso”, ha aggiunto Ribbe, chiarendo che i Paesi membri Ue dovrebbero essere “numeri uno al mondo nella produzione di energia rinnovabile”. A proposito di rinnovabili, “se vogliamo evitare di esportare denaro verso altre aree economiche dobbiamo cambiare l’industria”, ha puntualizzato il collega tedesco Thomas Kattnig (membro del gruppo Lavoratori): “Abbiamo un’opportunità sulla produzione di pannelli solari e batterie, negli ultimi 20 anni non ci sono stati abbastanza investimenti a causa dell’austerità”. Anche per Mastantuono è necessario “portare l’industria in Europa per aumentare i posti di lavoro”, senza dimenticare di “guardare anche all’idrogeno”.

    Un seminario per i giornalisti in occasione della sessione plenaria del Cese a Bruxelles, per fare luce sull’utilizzo della disinformazione e il gas come armi. La presidente, Christa Schweng: “Gli ucraini hanno pagato un grande prezzo per la pace, ora dobbiamo lavorare con la società civile”

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    L’Ue rischia di avere un problema con il Montenegro nel processo di allargamento nei Balcani Occidentali

    Bruxelles – L’appellativo di ‘Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ rischia di diventare un lontano ricordo per il Montenegro, considerati gli sviluppi politici dell’ultimo mese. Violente proteste sono scoppiate nella capitale Podgorica lunedì (12 dicembre) davanti alla sede dell’Assemblea nazionale, mentre una maggioranza risicatissima di forze filo-serbe ha dato il via libera a una contestata legge sui poteri presidenziali, che ha diversi tratti di potenziale incostituzionalità.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    La gravità della crisi politico-istituzionale nel Paese balcanico ha raggiunto livelli allarmanti, anche considerato il fatto che manca ancora la nomina di tutti i membri della Corte Costituzionale. Senza la piena operatività dell’unico organismo che può valutare la legge sui poteri di nomina dell’esecutivo, lo stesso voto dell’Assemblea nazionale viene considerato dalle istituzioni internazionali non in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia (organo consultivo del Consiglio d’Europa, che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei). “La nomina dei membri della Corte Costituzionale è necessaria per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini”, ha messo in chiaro il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Per Bruxelles “tutte le parti politiche interessate devono agire con urgenza per garantire la funzionalità operativa” della Corte, ha aggiunto il commissario, ribandendo che “per proseguire il percorso europeo, è necessario anche rispettare la decisione della Commissione di Venezia“.
    A scatenare le dure reazioni dei manifestanti montenegrini e le critiche internazionali è il via libera con una maggioranza risicatissima di 41 deputati (su 81) agli emendamenti alla legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale. Già lo scorso primo novembre, con la stessa maggioranza, era arrivata la prima approvazione al disegno di legge che permetterà agli stessi parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović
    Secondo la Costituzione del Montenegro il presidente deve organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro 30 giorni. Tuttavia, lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese, Milo Đukanović, ha proposto di tornare alle urne – a due anni dalle ultime elezioni parlamentari – dopo essersi rifiutato di confermare il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, come nuovo primo ministro, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno. Il premier dimissionario, Dritan Abazović, ha scaricato le responsabilità della fragilità istituzionale sui presunti abusi dei diritti costituzionali da parte di Đukanović, mentre il Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del leader montenegrino ha definito l’approvazione della legge un “colpo di stato costituzionale”.
    “Tutti gli attori politici in Montenegro devono agire con urgenza per garantire la funzionalità operativa della Corte Costituzionale e revocare gli emendamenti alla legge sui poteri del presidente, è fondamentale che tutti esercitino la massima moderazione e si astengano da ulteriori atti provocatori”, ha attaccato la portavoce della Commissione Ue per la Politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero. Il Montenegro “ha perso un’altra occasione per porre fine alla lunga crisi istituzionale”, dal momento in cui una Corte Costituzionale “pienamente funzionante e composta da membri competenti è fondamentale per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini e progredire nel suo percorso europeo“, ha aggiunto la portavoce, chiedendo a Podgorica di “portare avanti senza indugio un processo di selezione adeguato e inclusivo”.
    L’instabilità del Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici, dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni nella primavera 2023.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo stesso governo Abazović è crollato però il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora a Podgorica si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare l’iniziale maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo gli sviluppi del primo novembre all’Assemblea nazionale la tensione è aumentata esponenzialmente, fino al voto risicatissimo del 12 dicembre. Rimane evidente che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese. In questo scenario va fatta attenzione a Europe Now, nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, che ha fatto registrare un notevole exploit alle amministrative di ottobre nella capitale montenegrina. La priorità rimane però la nomina di tutti i membri della Corte Costituzionale, mentre quello che fino a oggi poteva fregiarsi del titolo di ‘Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ sta rischiando di scivolare verso il caos istituzionale.

    Diventano sempre più violente le proteste a Podgorica contro l’adozione della legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale, che violerebbe la Costituzione. L’Ue denuncia anche la mancata nomina dei membri della Corte Costituzionale, perché abbia pieni poteri

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    Il Kosovo ha presentato la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione all’Unione Europea

    Bruxelles – Era una questione di giorni, se non di ore, dopo le anticipazioni dalla presidente Vjosa Osmani al vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana martedì scorso (6 dicembre). Nella tarda mattinata di oggi (mercoledì 14 novembre) il Kosovo ha presentato la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione all’Unione Europea. A partire da oggi tutti gli Stati extra-Ue interessati dal processo di allargamento dell’Unione si trovano almeno nella casella di partenza della richiesta di adesione, in un anno che ha visto il più grande sconvolgimento per le prospettive di espansione dei Ventisette a nuovi membri sul continente.
    Da sinistra: il presidente dell’Assemblea del Kosovo, Glauk Konjufca, la presidente della Repubblica, Vjosa Osmani, e il primo ministro, Albin Kurti (Pristina, 14 dicembre 2022)
    “Un momento storico per Kosovo e Unione Europea“, è il commento entusiasta della presidente Osmani al termine della cerimonia di firma della domanda di adesione all’Ue con il premier Albin Kurti e il presidente dell’Assemblea nazionale, Glauk Konjufca. Secondo la leader kosovara si tratta di “un passo più vicino alla realizzazione del sogno di coloro che hanno sacrificato le loro vite per la libertà, l’indipendenza e la democrazia”, ma anche alla “realizzazione della nostra comune e incrollabile ambizione di entrare nell’Unione Europea“. Per il Paese “non c’è mai stata un’alternativa, ma i sogni diventano realtà solo quando si lavora per realizzarli”, come ha dimostrato l’ultima relazione sui progressi di Pristina nel Pacchetto Allargamento 2022 della Commissione Ue.
    “I progressi dipenderanno dal nostro impegno per riforme profonde, che facciano progredire la democrazia, rafforzino lo Stato di diritto e sviluppino la nostra economia”, ha dichiarato in conferenza stampa il premier Kurti, precisando che la lettera sarà presentata nei prossimi giorni alla Commissione e alla presidenza di turno ceca del Consiglio dell’Ue (che terminerà il proprio semestre il prossimo 31 dicembre). Il Kosovo dovrà però affrontare una doppia sfida, che al momento blocca la strada verso l’ottenimento dello status di Paese candidato all’adesione Ue: cinque Stati membri non ne riconoscono l’indipendenza (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e la finalizzazione di un accordo giuridicamente vincolante sulla normalizzazione delle relazioni con la Serbia (da cui Pristina ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza nel 2008). Nonostante le aspre tensioni tra i due Paesi nel nord del Kosovo, a Bruxelles il 2023 è considerato l’anno decisivo per portare a termine un dialogo mediato dall’Ue ormai più che decennale.

    A historic moment. 🇽🇰 🇪🇺
    A step closer to fulfilling the dream of those who sacrificed their lives for freedom, independence & democracy, as well as, fulfilling our common and unwavering ambition of joining the European Union. pic.twitter.com/TX9Ygwl2MJ
    — Vjosa Osmani (@VjosaOsmaniPRKS) December 14, 2022

    Tra Kosovo e allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue coinvolge i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), la Turchia – i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan – Ucraina e Moldova – a cui è stato concesso al vertice dei leader Ue di giugno lo status di Paesi candidati – e Georgia, a cui è stata riconosciuta la prospettiva europea. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord si è sbloccato a metà luglio dopo quasi tre anni di stallo (prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello della Bulgaria contro Skopje). Dopo sei anni dalla richiesta di adesione per la Bosnia ed Erzegovina è quasi arrivato il momento della concessione dello status di Paese candidato, mente il Kosovo ha firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione nel 2016 e da oggi ha completato il quadro degli Stati balcanici che si trovano formalmente sulla strada di adesione all’Unione.
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’Ue è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen: per i Balcani Occidentali è compresa la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra l’Unione e il Paese richiedente, a cui viene offerta la prospettiva di adesione. Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri, si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    La lettera è stata firmata dalla presidente Vjosa Osmani, dal premier Albin Kurti e dal leader dell’Assemblea nazionale Glauk Konjufca: “Un passo più vicino alla realizzazione della nostra comune e incrollabile ambizione di entrare nell’Ue”. Ma prima l’accordo sui rapporti con la Serbia

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    La Bosnia ed Erzegovina è pronta a diventare un nuovo Paese candidato all’adesione Ue. L’ufficialità al prossimo Consiglio

    Bruxelles – Ora la strada per la Bosnia ed Erzegovina è tutta in discesa, facendo attenzione a – improbabili, ma mai da escludere – ostacoli sulla linea del traguardo. Il Consiglio Affari Generali riunitosi oggi (martedì 13 dicembre) a Bruxelles ha dato il proprio parere positivo alla possibilità di concedere lo status di Paese candidato all’adesione Ue per la Bosnia ed Erzegovina, con la raccomandazione ai leader dei 27 Stati membri di confermare la decisione al prossimo Consiglio Europeo di giovedì (15 dicembre).
    Approvando le conclusioni sull’allargamento e sul processo di stabilizzazione e associazione – che valutano la situazione in ciascuno dei Paesi candidati all’adesione e dei partner dell’Unione – i 27 ministri Ue hanno tenuto in particolare considerazione le riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, dello sviluppo economico e della competitività, ma anche il rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione, con attenzione agli sviluppi post-voto in Bosnia ed Erzegovina dopo la complessa tornata elettorale dello scorso 2 ottobre. La valutazione parte dalle conclusioni del vertice del 23 giugno, quando i capi di Stato e di governo dell’Ue si erano detti “pronti” a riconoscere lo status a Sarajevo, ma a condizione che la Commissione riferisse “senza indugio” sull’attuazione delle 14 priorità-chiave per il Paese balcanico: l’obiettivo dichiarato era quello di permettere ai leader Ue di “tornare a decidere nel merito” quanto prima.
    Scenario che si è reso concreto nel corso dei mesi successivi e culminato con la decisione dell’esecutivo comunitario di raccomandare al Consiglio la concessione dello status di Paese candidato alla Bosnia ed Erzegovina: “Quella che stiamo offrendo è una grande opportunità, che arriva una volta nella vita e che i cittadini meritano“, aveva sottolineato il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. A due mesi da quel momento-chiave per le prospettive di Sarajevo è arrivato il primo semaforo verde anche dal Consiglio dell’Ue, in attesa di quello definitivo di giovedì, che comunque non sarà privo di condizioni: “Dovranno essere adottate le misure specificate nella raccomandazione della Commissione, al fine di rafforzare lo Stato di diritto, la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, la gestione della migrazione e i diritti fondamentali”, è l’appunto dei 27 ministri.
    “La politica di allargamento dell’Ue è una forte ancora per la pace, la democrazia, la prosperità, la sicurezza e la stabilità nel nostro continente”, ha sottolineato il ministro ceco per gli Affari europei e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Mikuláš Bek, mettendo in chiaro che quello di oggi è “un forte messaggio di impegno nei confronti dell’allargamento”. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito “una buona notizia” la raccomandazione del Consiglio Affari Generali sullo status di candidato per la Bosnia ed Erzegovina: “È un messaggio per tutti i cittadini, il loro futuro è nell’Unione Europea“. Anche il gabinetto von der Leyen rimane ora in attesa dell’approvazione finale del Consiglio Europeo, con l’alto rappresentante Borrell che ricorda la necessità di un “costante progresso sulle riforme per portare avanti questa prospettiva” europea di Sarajevo.
    Il supporto alla Bosnia ed Erzegovina da Strasburgo
    Proprio nel giorno del Consiglio Affari Generali che ha dato il via libera alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue (in attesa della conferma dei 27 leader), dall’emiciclo del Parlamento Europeo a Strasburgo sono arrivati due endorsement di peso al cammino di Sarajevo verso l’ingresso nell’Unione. “Con Ucraina e Moldova abbiamo visto quale messaggio potente può dare l’Unione Europea concedendo lo status di Paese candidato all’adesione”, ha sottolineato con forza la presidente dell’Eurocamera, Roberta Metsola, che si è esposta senza esitazioni: “Vogliamo infondere questo coraggio anche ai nostri amici in Bosnia ed Erzegovina“.
    La presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, e il primo ministro della Slovenia, Robert Golob (Strasburgo, 13 dicembre 2022)
    Un messaggio rafforzato anche dall’intervento del primo ministro sloveno, Robert Golob, arrivato a Strasburgo per partecipare al consueto appuntamento ‘This is Europe’ tra gli eurodeputati e un leader Ue a rotazione in sessione plenaria: “La Slovenia sostiene il processo di adesione Ue della Bosnia ed Erzegovina, siamo uno Stato membro giovane, ma ricordiamo bene la speranza che nutrivamo in questo percorso”, ha ricordato il premier del Paese entrato nell’Unione 18 anni fa. “È per questo che sappiamo quanto sia importante la prospettiva di adesione” non solo per la Bosnia ed Erzegovina, “ma per tutti i Balcani Occidentali” che “sono in sala d’attesa da ormai vent’anni”, ha ammonito Golob.
    Come già ricordato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, nel corso della sua visita a fine ottobre a Sarajevo, anche il primo ministro sloveno ha puntualizzato il fatto che – come l’Ucraina – anche “la Bosnia è uno dei Paesi europei che ha subito aggressioni armate nel recente passato e noi dobbiamo rendere chiaro che non abbiamo abbandonato i cittadini bosniaci, mentre guardavamo a Kiev“. Di qui la necessità di “accelerare il processo di allargamento, anche se non è sempre semplice, perché è uno strumento essenziale per l’Unione Europea”, ha concluso il suo intervento il premier della sinistra verde e liberale slovena, eletto lo scorso 24 aprile.
    Il punto sull’allargamento dell’Ue
    Il processo di allargamento Ue coinvolge i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), la Turchia – i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan – Ucraina e Moldova – a cui è stato concesso al vertice dei leader Ue di giugno lo status di Paesi candidati – e Georgia, a cui è stata riconosciuta la prospettiva europea. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord si è sbloccato a metà luglio dopo quasi tre anni di stallo (prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello della Bulgaria contro Skopje). La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016 e dopo sei anni è quasi arrivato il momento della concessione dello status di Paese candidato. Il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione, ma entro la prossima settimana è attesa la richiesta di adesione all’Unione, come reso noto dalla presidente Vjosa Osmani al vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana martedì scorso (6 dicembre).
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione, per diventare un Paese membro dell’Ue è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen. Ottenuto il parere positivo della Commissione, si può arrivare o alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione – un accordo bilaterale tra l’Unione e il Paese richiedente, utilizzato in particolare per i Balcani Occidentali, a cui viene offerta la prospettiva di adesione – o direttamente il conferimento dello status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri, si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    Il Consiglio Affari Generali ha raccomandato ai leader dei 27 Stati Ue di riconoscere a Sarajevo lo status di candidato, a sei anni dalla richiesta. Sostegno dalla Commissione, dal Parlamento Ue e dal premier sloveno, Robert Golob, a Strasburgo: “Non abbiamo abbandonato i cittadini bosniaci”

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    Il primo summit di alto livello Ue-Asean tra Russia, energia, sicurezza e sostenibilità

    Bruxelles – Sicurezza e stabilità, a livello mondiale e regionale. Senza trascurare il commercio, la questione energetica e la transizione sostenibile. Unione europea e Asean (blocco che racchiude Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam) discutono di tutto questo nel primo summit di alto livello di sempre, a livello di capi di Stato e di governo, organizzato in occasione dei 45 anni di relazioni diplomatiche. “L’occasione di ribadire la vicinanza e la cooperazione tra i due blocchi in un momento di turbolenza”, caratterizzato dal conflitto russo-ucraino e le sue conseguenze, ma non solo, si sottolinea a Bruxelles.
    Le tensioni nel mar cinese del sud, con la rinnovata contrapposizione tra Cina e Taiwan, il colpo di Stato militare in Myanmar, membro Asean, e il cui leader non è stato invitato al summit, i cambiamenti in Afghanistan, sono tutti elementi di un’agenda ricca di sfide che i due blocchi sono decisi ad affrontare insieme. Si intende rilanciare relazioni costruite nel tempo e che i tempi moderni necessitano di aggiornare. Quello Ue-Asean è “un partenariato bilaterale strategico” che si intende rendere ancor più fondamentale, ammettono addetti ai lavori. Sul fronte comunitario le aspettative sono altre. Si guarda quanto fatto in passato e cosa fare per il futuro, incluso transizione sostenibile.
    A tal proposito la questione della cooperazione industriale ed economica intende permettere di allineare i Paesi del sud-est asiatico all’agenda verde dell’Unione. Gli Stati asiatici sono ancora fortemente dipendenti dal carbone, ma “pieni di potenziale pulito”, riconoscono a Bruxelles. Sarà fondamentale dunque investire qui, e la Commissione europea metterà sul tavolo il primo pacchetto di investimento per l’Asean da 10 miliardi di euro. Servirà per sostenere, innanzitutto con fondi pubblici, competenze, digitale, sostenibilità. Con l’obiettivo di mobilitare anche capitale privato.
    Il capitolo relativo alle relazioni economico-commerciali sarà un tema portante del summit Ue-Asean. A riprova di ciò è prevista, a margine del vertice, la firma di due partenariati con Thailandia e Malesia, nonché l’accordo comprensivo sui trasporti. Dati alla mano, l’Asean è il terzo partner commerciale dell’Ue al di fuori dell’Europa, dopo Stati Uniti e Cina. Mentre nel 2021 l’Ue è stata il secondo maggiore fornitore di investimenti diretti esteri esteri nell’area Asean. “Le relazioni commerciali sono importanti” e si intende rafforzarle. “Si promuove multilateralismo”, si sottolinea nella capitale dell’Ue. Un messaggio rivolto a chi, sullo scacchiere internazionale, preferisce protezionismi.
    Il tema più delicato è quello relativo alla Russia. La dichiarazione finale del summit prevede un passaggio sull’aggressione in Ucraina, e servirà un lavoro attento a parole e toni per trovare una formula che metta d’accordo entrambe le parti. Nulla di impossibile. A Bruxelles si dicono “certi che si troverà il linguaggio appropriato, e che mandi un messaggio chiaro e inequivocabile”.
    Nel più ampio spettro di politica estera dei Ventisette, si intende cercare quanto più possibile di attuare i principi della strategia indo-pacifica all’area del sud-est asiatico. Vuol dire lavorare assieme ai 10 Paesi dell’area per uno sviluppo sostenibile, attento al fenomeno dei cambiamenti climatici e di risposta ai disastri naturali che ne derivano. La base di partenza, qui, è il piano d’azione Ue-Asean 2023-2027, che intende sviluppare una risposta comune a queste problematica, inclusa la ripresa post-pandemica e una cooperazione nel campo della salute.
    Altro tema di quest’agenda quadriennale è la lotta allo sfruttamento del lavoro e la promozione di condizioni occupazionali rispettosi della dignità. Un aspetto, quest’ultimo, non indifferente sia per la questione dei diritti umani sia perché l’Ue tocca l’aspetto economico-commerciale. L’Ue ha deciso di non far entrare nel mercato unico prodotti frutto del lavoro forzato, e altrettanto ha deciso per tutti i ‘made in’ extra-Ue frutto del lavoro minorile. Il primo summit di alto livello Ue-Asean non è solo una passerella per i leader.

    Dopo 45 anni di relazioni diplomatiche a Bruxelles il vertice a livello di blocchi per rendere ancora più strategica un’alleanza vista come irrunciabile