Bruxelles – Il momento è di quelli storici, forse epocali. Sia per la Turchia, sia per l’Unione Europea. Fra una settimana, sabato 14 maggio, i cittadini turchi saranno chiamati alle urne per eleggere il presidente della Repubblica per i prossimi cinque anni, in una sfida tra l’uomo forte di Ankara, Recep Tayyip Erdoğan, e lo sfidante che incarna il rinnovamento della politica nazionale secondo le opposizioni, l’economista Kemal Kılıçdaroğlu. Un testa a testa che anche per Bruxelles avrà un impatto significativo. Dal quasi scontato doppio turno di elezioni (che si concluderà il 28 maggio) emergerà l’attore politico con cui sviluppare i futuri rapporti: o un prosieguo delle relazioni tese degli ultimi anni su diversi fronti, o una speranza di riavvicinamento e distensione diplomatica.
Per sfidare il presidente al potere da 20 anni esatti (dal 2003 al 2014 come primo ministro, dal 2014 a oggi come capo di Stato), sei partiti di opposizione si sono uniti nella cosiddetta ‘Tavola dei Sei’ e hanno espresso un candidato comune. Si tratta del leader del Partito popolare repubblicano (Chp), il principale partito d’opposizione fondato nel 1923 dal primo presidente turco, Kemal Atatürk. Per Kılıçdaroğlu, politico 73enne noto per la sua onestà e frugalità a livello comunicativo e per le vittorie del suo partito a Istanbul e Smirne nel 2019, l’ostacolo maggiore potrebbe essere l’estrema varietà della coalizione di partiti che lo supporta – che va dal centrosinistra alla destra nazionalista – e dal fatto che a tenerli uniti è soprattutto il tentativo di mettere fuori gioco il leader conservatore del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp). In ogni caso va segnalata la piattaforma di riforme che lo sfidante di Erdoğan ha proposto, tra cui compare l’abolizione del presidenzialismo (la figura del primo ministro è stata abolita nel 2018).
Dall’altra parte dello spettro politico il presidente Erdoğan è indebolito da due fattori che hanno colpito la Turchia nell’ultimo anno: l’inflazione galoppante sta mettendo in crisi la classe media da mesi, e le critiche dell’opinione pubblica nazionale allo stesso leader turco (cosa non scontata in un Paese guidato da un regime sempre più autoritario) per la gestione del terremoto dello scorso 6 febbraio che ha causato oltre 50 mila morti. La rete clientelare e di corruzione che ha permesso l’abusivismo edilizio nelle zone colpite dal sisma è stata considerata uno degli elementi di maggiore responsabilità per il collasso di intere città come Adana. Tutto questo si è tradotto in un evidente crollo dei consensi per Erdoğan – che nel 2018 aveva vinto al primo turno con il 52,6 per cento dei voti – anche se non ancora sufficiente per evitare un testa a testa al ballottaggio e un possibile recupero da parte di uno dei politici più instancabili in campagna elettorale (fino a poche settimane fa Kılıçdaroğlu guidava i sondaggi con oltre il 55 per cento delle preferenze).
Il presidente della Turchia è eletto direttamente con il sistema del doppio turno: se nessun candidato conquista la maggioranza semplice (più del 50 per cento dei voti) al primo, si svolge un ballottaggio tra i due candidati più votati. Gli aspiranti presidenti devono avere almeno 40 anni e devono aver completato l’istruzione superiore, mentre qualsiasi partito che abbia ottenuto il 5 per cento dei voti nelle precedenti elezioni parlamentari può presentare un candidato (si possono formare alleanze e schierare candidati comuni, gli indipendenti possono candidarsi se raccolgono 100 mila firme). Considerata la presenza di altri due candidati minori – Muharrem İnce del Partito della Patria e l’indipendente Sinan Oğan sostenuto dall’Alleanza Ata – alle elezioni presidenziali più decisive della storia recente della Turchia lo scenario più verosimile è una sfida al secondo turno tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu, in programma il 28 maggio.
Il controverso rapporto Ue-Turchia sotto Erdoğan
Non solo per la Turchia, ma anche per l’intera Unione Europea si tratta di un passaggio politico che potrebbe segnare una svolta forse irripetibile per i rapporti con Ankara. Ancora non si sa quale sarà la posizione di una eventuale leadership di Kılıçdaroğlu sui dossier aperti con Bruxelles, anche e soprattutto considerate le posizioni non proprio sovrapponibili della coalizione elettorale ‘Tavola dei Sei’ che lo sostiene. Ma di certo c’è quello che potrebbe continuare a replicarsi in caso di rielezione di Erdoğan. In particolare negli ultimi anni le relazioni con l’uomo forte di Ankara – definito due anni fa dall’allora premier italiano Mario Draghi “dittatore” – sono diventate sempre più tese, anche se la posizione e l’importanza geopolitica della Turchia hanno sempre costretto o quantomeno spinto i Ventisette a non chiudere al dialogo.
La dimostrazione più evidente è stato il congelamento dei capitoli negoziali per l’adesione della Turchia all’Unione Europea, avviati nel 2005 e da anni “a un punto morto” per i “continui gravi passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura”, aveva sottolineato ancora nel 2020 il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. C’è poi la questione della delimitazione delle aree marittime nel Mediterraneo, con la Turchia di Erdoğan che dal 2019 continua a mettere in discussione i confini greci – e di conseguenza le frontiere esterne dell’Unione – a sud dell’isola di Creta. L’ultimo episodio di tensione risale all’ottobre dello scorso anno, quando Ankara ha siglato un nuovo accordo preliminare sull’esplorazione energetica con la Libia. Nel contesto mediterraneo si inserisce anche la controversia diplomatica più che quarantennale sulla divisione dell’isola di Cipro, dove solo la Turchia riconosce l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord e dal 2017 sono fermi i tentativi di compromesso.
Altra questione di non poca rilevanza, che riguarda sia la politica interna sia quella estera di Erdoğan, è il tema della repressione della minoranza curda e del veto sull’adesione della Svezia alla Nato, almeno fino a quando non si adeguerà alle richieste sull’estradizione dei membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). L’intransigenza del leader turco ha indispettito non poco i leader dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (che ha sede proprio a Bruxelles) e dei Paesi membri Ue, che hanno visto sfumare l’ingresso congiunto di Svezia e Finlandia nell’Alleanza nello stesso giorno (il 4 aprile 2023). Sul tema dei diritti umani c’è poi la questione della gestione delle persone migranti dirette verso l’Europa: se nel marzo 2016 l’Ue ha stretto un accordo con la Turchia per bloccare e accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani in fuga dalla guerra in cambio di finanziamenti comunitari, in diverse occasioni la Grecia ha lanciato dure accuse ad Ankara per violazioni dell’accordo stesso e sta implementando una politica di costruzione di barriere fisiche alla frontiera per impedire gli ingressi irregolari.
Ultimo, ma non per importanza diplomatica, quello che è passato alle cronache politiche come ‘Sofagate’. Il 6 aprile 2021 la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e del Consiglio Europeo, Charles Michel, si erano recati ad Ankara in visita istituzionale per rilanciare il dialogo Ue-Turchia. Ma l’accoglienza al palazzo presidenziale per la numero uno dell’esecutivo comunitario era stata tutt’altro che piacevole e rispettosa: mentre al leader del Consiglio è stata riservata una sedia accanto a Erdoğan, von der Leyen si era dovuta accomodare – con evidente imbarazzo e disappunto – su un sofà, appunto. Uno sgarbo istituzionale arrivato a poche settimane dalla decisione del presidente di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, che ancora una volta aveva evidenziato tutta la tensione nei rapporti tra Bruxelles e Ankara. Episodi e politiche che potrebbero essere relegati nel passato della Turchia, se gli elettori sceglieranno il rinnovamento politico di Kılıçdaroğlu – anche se incerto – alla continuità di Erdoğan.