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Le province separatiste dell’Ucraina indicono referendum per farsi annettere dalla Russia. L’Ue: “Illegali, nulli e invalidi”

Bruxelles – Ora la guerra di resistenza contro Mosca potrebbe assumere un nuovo significato per Kiev. Non più solo una controffensiva per riconquistare i territori sottratti dall’esercito russo dall’inizio dell’invasione lo scorso 24 febbraio, ma soprattutto un recupero delle province separatiste annesse alla Russia. Non si parla più esclusivamente della Crimea – da cui tutto è iniziato nel 2014 – perché la novità sono ora i referendum che saranno organizzati tra il 23 e il 27 settembre nelle autoproclamate Repubbliche separatiste filo-russe di Donetsk e Luhansk (nel sud-est dell’Ucraina) per l’annessione alla Russia. Si tratta proprio di quei territori che Putin aveva riconosciuto come entità indipendenti il 21 febbraio, pochi giorni prima di iniziare l’offensiva militare su larga scala che dura ormai da sette mesi.

La sfida alle autorità di Kiev non si ferma qui. Perché nei prossimi giorni è attesa la stessa decisione sui referendum di annessione alla Russia da parte dei separatisti delle regioni di Kherson, Kharkiv e Zaporizhzhia, con implicazioni cruciali per il proseguo della guerra di Putin in Ucraina. Per comprenderne la portata basta considerare le parole del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev, che ha affermato che “i referendum nel Donbass sono di grande importanza non solo per la protezione sistemica dei residenti” delle Repubbliche separatiste  e “degli altri territori liberati”, ma anche “per il ripristino della giustizia storica”. Il fatto che questo voto “cambierebbe completamente il vettore dello sviluppo della Russia per decenni” non è solo una questione di proclami altisonanti, ma ha una conseguenza tangibile: “Dopo aver incorporato nuovi territori alla Russia, la trasformazione geopolitica nel mondo diventerà irreversibile”, ha aggiunto Medvedev, minacciando l’Ucraina e l’Occidente che “l’invasione del territorio della Russia è un crimine, la cui commissione consente l’uso di tutte le forze di autodifesa“.

Dichiarazioni che arrivano non solo mentre la controffensiva dell’esercito ucraino sta obbligando la Russia a ritirarsi dall’Oblast di Kharkiv, ma anche in concomitanza della mobilitazione parziale dichiarata da Putin, con il richiamo alle armi dei militari della riserva, e degli emendamenti al Codice Penale russo per il rafforzamento delle pene in caso di “mobilitazione”, “legge marziale”, “tempo di guerra” e “conflitto armato” (la renitenza alla leva sarà punita con una pena fino a dieci anni di reclusione). Si aggiunge poi la minaccia di ricorrere a “ogni mezzo necessario per la difesa della Russia”, compresa l’arma nucleare. Tutti segnali che evidenzierebbero il livello di grave difficoltà dell’autocrate russo nel condurre una guerra che sta diventando sempre più un fallimento su quasi tutta la linea, come sostiene Kiev, ma anche Bruxelles: “Queste decisioni dimostrano la disperazione di Putin e la mancanza di volontà a cercare la pace, vuole solo continuare la sua guerra distruttiva”, ha sottolineato il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, nel corso del punto quotidiano con la stampa europea.

L’autocrate russo, Vladimir Putin, al momento della firma della dichiarazione di riconoscimento d’indipendenza delle autoproclamate Repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk (21 febbraio 2022)

La condanna delle istituzioni comunitarie si estende anche ai referendum delle autoproclamate Repubbliche separatiste in Ucraina per l’annessione alla Russia. “L’Unione Europea condanna fermamente questi referendum illegali pianificati che vanno contro le autorità ucraine legalmente e democraticamente elette”, è la condanna dell’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “I risultati di tali azioni saranno nulli e non saranno riconosciuti dall’Ue e dai suoi Stati membri”. Il voto non può essere considerato “in nessun caso” una libera espressione della volontà popolare in queste regioni, per diverse ragioni: la fuga di una “parte significativa della popolazione” dopo l’invasione dell’esercito del Cremlino, la “costante minaccia e intimidazione militare russa”, la “sostituzione con la forza” di funzionari locali e la libertà di espressione “fortemente limitata”. Dal momento in cui Mosca intende modificare con la forza i confini dell’Ucraina, “in chiara violazione della Carta delle Nazioni Unite”, la Russia, la sua leadership politica e tutti i soggetti coinvolti nello svolgimento dei referendum di annessione “saranno ritenuti responsabili”, mentre a Bruxelles saranno prese in considerazione “ulteriori misure restrittive”, ha annunciato Borrell.

L’incognita balcanica

Come se la situazione non fosse sufficientemente calda, dalla Bosnia ed Erzegovina arrivano dichiarazioni incendiarie del membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik, a proposito della guerra russa in Ucraina e del parallelismo con la Republika Srpska (una delle due entità in cui è diviso il Paese balcanico, a maggioranza serba). “A 15 milioni di russi in Ucraina le autorità hanno negato il diritto alla propria lingua, ecco perché l’operazione speciale della Russia è giustificata dalla necessità di proteggere il suo popolo“, ha ribadito in un’intervista all’agenzia di stampa russa Tass il suo non-allineamento alla posizione del resto dell’Europa. Nemmeno il presidente serbo, Aleksandar Vučić, che rivendica una posizione di neutralità tra Mosca e l’Occidente e in questo modo giustifica la sua contrarietà alle sanzioni contro la Russia, si è mai spinto a tanto. È proprio alla Serbia che Dodik guarda con speranza, illustrando le similitudini con il Donbass ucraino: “Qui è la stessa cosa, non possiamo condividere le stesse scuole e gli stessi libri di testo con i musulmani“, ha attaccato, con riferimento ai tentativi di secessionismo che sta portando avanti nella Republika Srpska. La volontà del leader serbo-bosniaco, a meno di due settimane dalle elezioni politiche nel Paese, è quella di incontrare personalmente Putin, per confrontarsi su “progetti energetici concreti e del comportamento dell’Occidente”, ha anticipato alla Tass.

Il membro serbo della presidenza tripartita di Bosnia, Milorad Dodik

È anche per il rischio di un’escalation della tensione e della destabilizzazione russa nella regione dei Balcani Occidentali che Bruxelles non può permettersi di allentare il rapporto anche con i Paesi più irrequieti. Non a caso l’alto rappresentante Borrell ha incontrato ieri (martedì 20 settembre) i sei leader balcanici per un pranzo informale a New York, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dopo aver ripreso la tradizione delle cene informali a Bruxelles nel maggio dello scorso anno. Come si legge in una nota del Seae, la discussione “si è concentrata sull’impatto globale e regionale della guerra illegale” della Russia in Ucraina, in particolare “sui prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia e sulla stabilità e sicurezza in Europa e nel mondo”. Al pranzo erano presenti il premier montenegrino, Dritan Abazović, gli omologhi albanese, Edi Rama, e macedone, Dimitar Kovačevski, e i presidenti della Serbia, Aleksandar Vučić, del Kosovo, Vjosa Osmani, e della Bosnia ed Erzegovina, Šefik Džaferović (membro bosgnacco della presidenza tripartita). Proprio a sottolineare quanto l’Ue sia un partner irrinunciabile per i Balcani Occidentali, Borrell ha sottolineato il sostegno di Bruxelles per “rafforzare la sicurezza energetica e affrontare le minacce ibride“, comprese l’interferenza informatica e delle informazioni straniere, come ha dimostrato il recente caso di attacco hacker iraniano contro le istituzioni dell’Albania.

Sull’esempio della Crimea nel 2014, le province occupate di Donetsk e Luhansk hanno indetto una consultazione popolare tra il 23 e il 27 settembre e presto potrebbe arrivare la stessa decisione a Kharkiv, Kherson e Zaporizhzhia. Intanto Putin annuncia la mobilitazione parziale alle armi


Source: https://www.eunews.it/category/politica-estera/feed


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