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    UE preoccupata da un ritorno di Trump. “Importante che UE e USA lavorino insieme”

    Bruxelles – L’avanzata di Donald Trump preoccupa l’Unione europea. L’ex presidente degli Stati Uniti e candidato repubblicano per la Casa Bianca alle presidenziali di novembre, vince il confronto elettorale (caucus) in Iowa con i concorrenti di partito, ergendosi a sfidante principale dei democratici. Si profilano scenari che a Bruxelles generano timori per le relazioni trans-atlantiche. “Nell’attuale situazione geopolitica è importante che l’Ue e gli Stati Uniti continuino a lavorare fortemente insieme, che è il modo migliore di affrontare le sfide”, ragiona Valdis Dombrovskis, commissario per il Commercio e un’Economia al servizio delle persone, al termine dei lavori del consiglio Ecofin.La passata stagione trumpiana nel Vecchio continente ha lasciato strascichi. Guerra commerciale a colpi di dazi, minacce e ricatti al ‘made in’ per mancati acquisti di prodotti Usa, tensioni in materia di difesa con diverse visioni sulla NATO e il suo futuro. Si teme all’orizzonte un ritorno ad un passato a cui si è lavorato, con l’attuale amministrazione, per liberarsene. Cinque anni passati a ricostruire una relazione rimessa in discussione, come dimostra l’accordo sui dazi per l’acciaio, con il rischio di dover ricominciare tutto daccapo. Un ritorno eventuale di Trump impone le riflessioni del caso. “E’ chiaro che dobbiamo rafforzare noi stessi“, sottolinea ancora Dombrovskis.L’Europa deve sapere essere unita, avverte anche Guy Verhofstadt, ex premier belga, oggi deputato europeo. Politico di lungo corso, avverte: “I Repubblicani inviano un messaggio al mondo: la democrazia lotta per la sopravvivenza”. Con Trump alla testa degli Stati Uniti “finestra chiusa anche per l’Europa”.Congratulations to @realDonaldTrump on the landslide Iowa caucuses victory!— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) January 16, 2024A dispetto del nome, però, l’Europa mostra meno compattezza. Tra gli Stati membri Ungheria e Italia fanno complimenti e tifo per Trump. Il primo ministro di Bupadest, Viktor Orban, saluta la vittoria in Iowa con sul profilo X, dove pubblica la foto dell’esponente repubblicano corredata dalla scritta “una vittoria attesa da tempo”, con tanto di immagine di mani che applaudono. Il leader della Lega e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, sfoggia il suo inglese per esprimere le personali “congratulazioni a Donald Trump per la schiacciante vittoria del caucus dell’Iowa”.Per un’Europa che guarda oltre Atlantico con preoccupazione ce n’è dunque un’altra che osserva con tutt’altro punto di vista. Da spiegare, però. Perché sulla partita della  sostenibilità, dove pure l’Italia ha molto da dover fare e anche di più da perdere, la concorrenza USA rischia di pesare, non poco, su percorso di riforme e rilancio dell’economia. Il Green Deal è in tutto e per tutto una sfida geopolitica agli Stati Uniti, che a questa sfida hanno risposto con misure protezionistiche quali l’Inflation Reduction Act. Se l’attuale presidente, il democratico Joe Biden, è ‘l’amico’ dell’UE, le preoccupazioni su Trump potrebbero non essere proprio del tutto infondate.

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    Al vaglio dell’Ue brogli, pressioni e “vantaggi sistematici” del partito di Vučić alle elezioni in Serbia

    Bruxelles – Alle accuse dell’opposizione organizzata ma sconfitta per l’ennesima volta alle urne seguono ora le valutazioni degli osservatori internazionali, che confermano le stesse analisi della stampa e degli esperti sul campo. Le elezioni anticipate in Serbia di domenica (17 dicembre), tra le più cruciali degli ultimi anni, sono state segnate da frodi e altre azioni illecite che hanno “compromesso il processo elettorale nel suo complesso”. A rilevarlo è stata la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo: “Gli osservatori hanno rilevato l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”.Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (credits: Elvis Barukcic / Afp)A destare maggiori preoccupazioni è stato in particolare il coinvolgimento del presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, sceso in campo per spingere di nuovo alla vittoria il Partito Progressista Serbi (Sns) alle elezioni anticipate – le terze in quattro anni, e senza alcun motivo politico o istituzionale che avesse determinato la fine del governo di Ana Brnabić se non la stessa volontà presidenziale. Il suo coinvolgimento “decisivo”, secondo il capo della missione di osservazione Osce, Reinhold Lopatka, “ha dominato” il processo elettorale e “l’uso del suo nome da parte di una delle liste di candidati, insieme alla parzialità dei media, ha contribuito a creare un campo di gioco non uniforme”. Come si legge nelle conclusioni preliminari, “il dominio del presidente nella campagna elettorale” – nonostante non fosse candidato alle elezioni di domenica in nessuna veste – “ha dato al suo partito un vantaggio ingiustificato“.Accuse specifiche che vanno contestualizzate all’interno di un “quadro giuridico adeguato” e del “generale rispetto” della scelta di alternative politiche e delle libertà di espressione e di riunione, ma allo stesso tempo di un ambiente “fortemente polarizzato” e caratterizzato da “intimidazioni e molestie nei confronti di attivisti civili, difensori dei diritti umani e giornalisti“. A proposito della stampa, gli osservatori internazionali hanno rilevato che “la diversità dei punti di vista è stata notevolmente ridotta dall’alto grado di polarizzazione e dalla forte influenza del governo sulla maggior parte di essi” – anche in questo caso con un “dominio” e una “copertura positiva” del presidente Vučić e del suo Partito Progressista Serbo (di cui era leader fino a maggio) – oltre a “numerose segnalazioni di giornalisti critici insultati verbalmente da funzionari statali e attacchi coordinati da parte di media filogovernativi”. Va poi considerato il fatto che la campagna elettorale si è svolta sullo sfondo della guerra russa in Ucraina, un tema particolarmente sensibile per i rapporti tra Bruxelles e Belgrado. “La manipolazione delle informazioni rimane una preoccupazione, anche se non è stato il tema predominante delle elezioni”, ha messo in chiaro il capo-delegazione del Parlamento Ue in Serbia, Klemen Grošelj.(credits: Andrej Isakovic / Afp)A tutto questo si aggiunge non solo il fatto che l’eccessiva frequenza di elezioni anticipate “ha minato la fiducia nelle istituzioni democratiche” della Serbia, ma anche il riscontro sul campo di “carenze procedurali, tra cui frequenti casi di sovraffollamento, violazioni della segretezza del voto e numerosi casi di voto di gruppo“. Erano circa 6,5 milioni gli elettori registrati per partecipare alla tornata elettorale del 17 dicembre, ma sono state diverse le azioni di irregolarità alle urne: “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska [l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina, ndr] e di intimidazione dei votanti“, ha denunciato l’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale), sottolineando che “ci aspettavamo assolutamente standard democratici più elevati da un Paese candidato all’Ue, che sta negoziando l’adesione”.È proprio questa la preoccupazione maggiore che si respira a Bruxelles e non solo. “La Serbia ha votato, ma l’Osce ha segnalato abuso di fondi pubblici, intimidazione degli elettori e casi di acquisto di voti, è inaccettabile per un Paese con lo status di candidato all’Ue“, è stato il durissimo attacco arrivato dal ministero degli Esteri tedesco. Più cauta la Commissione Europea, che in una nota congiunta dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e del commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, chiede che “le denunce di irregolarità siano seguite in modo trasparente dalle autorità nazionali competenti”. Nel punto quotidiano di oggi (19 dicembre) con la stampa europea, il portavoce-capo dell’esecutivo comunitario, Eric Mamer, ha ricordato che “abbiamo un chiaro quadro negoziale con la Serbia, che riguarda anche la democrazia e i processi elettorali come questione fondamentale”.Il risultato delle elezioni anticipate in SerbiaNonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto (mentre la coalizione guidata dal socialista Ivica Dačić è crollata al 6,56, al terzo posto). Nel nuovo Parlamento l’Sns dovrebbe controllare 128 seggi su 250, con la possibilità così di governare senza alleati. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro i risultati dopo l’appello dei partiti e movimenti che spaziano dal centro all’ecologismo di sinistra: la coalizione si era formata proprio dopo la traduzione in istanze politiche (europeiste) delle proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio e oggi non sembra voler mollare contro i brogli del partito al potere. “Hanno rubato il nostro futuro“, si leggeva nei cartelli dei manifestanti davanti all’edificio della commissione elettorale serba a Belgrado ieri sera.Da sinistra: il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Belgrado (16 settembre 2022)Proprio nella capitale la situazione è particolarmente tesa, dal momento in cui il Partito Progressista Serbo ha rivendicato la vittoria nella più contesa tra le elezioni municipali del Paese: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić avrebbe conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović (6 seggi). La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ (42 seggi) ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. Da Mosca sono arrivate nella giornata di ieri al presidente serbo Vučić e all’Sns le congratulazioni del portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha parlato di “ulteriore rafforzamento dell’amicizia” tra Russia e Serbia. A chiudere il ‘triangolo russo’ non è mancato il più stretto alleato di Belgrado (e in modo sempre più palese anche dell’autocrate russo Putin), il premier ungherese Viktor Orbán, che ha definito quella di Vučić e del suo partito “una vittoria elettorale travolgente”.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Potrebbe esserci una via d’uscita all’opposizione di Orbán all’avvio dei negoziati Ue con l’Ucraina

    Bruxelles – Per uscire dall’impasse di un vertice che da settimane si preannunciato caldissimo sulla questione dell’Ucraina, bisogna guardare ai dettagli. Su cui alla fine si giocano tutti i compromessi tra i leader dell’Unione. Se ancora non si vede una via d’uscita allo sblocco delle trattative sul supporto finanziario Ue a medio/lungo termine a Kiev, lo scoglio dei negoziati di adesione dell’Ucraina all’Unione Europea potrebbe vedere una luce politica in fondo a un tunnel che – verosimilmente – occuperà buona parte della prima giornata di Consiglio Europeo.Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, accoglie il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (14 dicembre 2023)“L’allargamento non è una questione teorica, è un processo basato sul merito e dettagliato a livello giuridico con pre-condizioni”, ha messo in chiaro questa mattina (14 dicembre) al suo arrivo al Consiglio Europeo un agguerrito Viktor Orbán, il vero responsabile dello stallo al tavolo dei capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri. Il premier ungherese ha voluto sottolineare che “abbiamo fissato 7 pre-condizioni” per l’avvio dei negoziati di adesione dell’Ucraina e “anche dalla valutazione della Commissione Europea 3 pre-condizioni non sono state soddisfatte”. È così che – almeno nel merito della questione, senza considerare il ricatto sul piano dello sblocco dei fondi Ue all’Ungheria – si spiega l’ostruzionismo del leader ungherese: “Nelle mie stime sono anche di più [le pre-condizioni non soddisfatte, ndr], ma 3 sono abbastanza per dire che non c’è la possibilità di iniziare ora a negoziare l’appartenenza dell’Ucraina all’Unione”. Alle domande della stampa su un possibile compromesso durante le discussioni di oggi, Orbán ha voluto ricordare che “le pre-condizioni non sono state fissate dall’Ungheria ma dalla Commissione Europea, sono pubbliche”.Ciò a cui il premier ungherese si riferisce sono le priorità fissate dall’esecutivo comunitario e accettate dai Ventisette nel momento della concessione all’Ucraina dello status di candidato all’adesione al Consiglio Europeo del 23 giugno 2022. Già a giugno di quest’anno – come rilevato dal report orale della Commissione – erano state completate 2 pre-condizioni su 7 (riforma di due organi giudiziari e area dei media), con altre 2 portate a compimento nei quattro mesi successivi: riforme della Corte Costituzionale e norme anti-riciclaggio, come si legge nel Pacchetto Allargamento 2023. Le priorità ancora non pienamente soddisfatte sono quelle che riguardano lotta alla corruzione, riduzione dell’influenza degli oligarchi e protezione delle minoranze nazionali. Secondo quanto ha reso noto la stessa presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, lo scorso 8 novembre in occasione della pubblicazione del Pacchetto, “presenteremo un nuovo rapporto a marzo 2024“, in cui saranno valutati i progressi dell’Ucraina (ma anche della Moldova e della Georgia) sulle pre-condizioni ancora pendenti. La fiducia al Berlaymont – e in 26 capitali su 27 – risiede nel fatto che a Kiev “la decisione di concedere lo status di candidato all’Ue ha creato una potente dinamica di riforma, nonostante la guerra in corso, con un forte sostegno da parte del popolo ucraino”, si legge nel report specifico.È qui che si inserisce la delicata questione dell’avvio dei negoziati di adesione. La raccomandazione della Commissione al Consiglio Europeo è sì quella di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina, ma anche quella di adottare i quadri negoziali “una volta che saranno implementante alcune misure chiave”. La differenza è sottile, ma sostanziale. Il Consiglio Europeo – l’organismo che definisce le priorità e gli indirizzi politici generali dell’Unione – ha il compito di prendere una decisione politica sull’inizio del processo di adesione di un Paese terzo e sul momento più decisivo (l’avvio dei negoziati, appunto). Ma il compito di mettere a terra la decisione in modo formale è del Consiglio dell’Unione Europea – l’organo decisionale che rappresenta i governi dei 27 Paesi membri e detiene il potere legislativo insieme al Parlamento Europeo – che secondo i Trattati ha l’ultima parola a riguardo: “I negoziati di adesione non possono iniziare finché tutti i governi dell’Ue non concordano, sotto forma di decisione unanime del Consiglio dell’Ue, su un quadro o un mandato per i negoziati con il Paese candidato”.In altre parole, al vertice dei 27 leader di oggi e domani si può decidere per una soluzione politica (avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina) ma senza che questo implichi il fatto che Kiev possa bypassare il completamento delle 3 pre-condizioni mancanti. La nuova valutazione sarà rimandata – come precisato dal gabinetto von der Leyen – al report di marzo 2024, con la decisione formale e finale da parte dei 27 governi dell’Ue in Consiglio. Senza che comunque venga meno il diritto di veto su cui si sta facendo forte il premier Orbán in questi giorni. Se si concretizzerà questo scenario, è presumibile che venga posto l’accento nelle conclusioni del vertice dei 27 leader sul ruolo del Consiglio dell’Ue per l’adozione del quadro negoziale. Al momento la bozza visionata da Eunews riporta che il Consiglio Europeo “decide di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldova” e “invita il Consiglio [dell’Unione Europea, ndr] ad adottare i rispettivi quadri negoziali una volta adottate le misure” indicate nelle conclusioni sull’allargamento del Consiglio Affari Generali di martedì (12 dicembre)L’Ucraina e non solo. Come si aderisce all’UeIl processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.Solo per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.

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    La settimana dell’allargamento è ostaggio di Orbán. Pressing a Bruxelles per sbloccarla

    Bruxelles – È iniziato il conto alla rovescia di una settimana cruciale per le prospettive di allargamento Ue, ma anche per una delle prove più delicate di unità dei Ventisette. Il premier ungherese, Viktor Orbán, da settimane sta aumentando la pressione su due appuntamenti di estrema importanza per il futuro dell’Unione, che in diverse modalità si intersecano e dipendono dalla volontà dell’uomo forte di Budapest sull’Ucraina: il vertice Ue-Balcani Occidentali di mercoledì (13 dicembre) e il Consiglio Europeo di giovedì e venerdì (14-15 dicembre).Da sinistra: il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán, a Budapest (27 novembre 2023)“Sicuramente il veto di Orbán sarà in cima all’agenda delle discussioni all’ordine del giorno, spero che l’unità europea non verrà spezzata, perché non è il momento di indebolire il nostro supporto all’Ucraina”, è stato il commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, facendo ingresso al Consiglio Affari Esteri di oggi (11 dicembre) a Bruxelles. A nulla sembra essere servito il viaggio del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, a Budapest lo scorso 27 novembre per tentare una difficilissima mediazione con Orbán: solo una settimana fa lo stesso premier ungherese ha inviato a Michel una lettera per esortarlo a cancellare dall’agenda del vertice tutti i punti sulle decisioni inerenti a Kiev – dall’avvio dei negoziati di adesione al sostegno finanziario – “fino a quando non si trova un consenso sulla nostra futura strategia nei confronti dell’Ucraina”. E niente si è mosso negli ultimi giorni, nemmeno nel corso dei confronti bilaterali con il presidente francese, Emmanuel Macron, e con il premier spagnolo, Pedro Sánchez.È così che, a due giorni dall’avvio della tre-giorni di vertici a Bruxelles, l’allargamento Ue è ancora ostaggio del potere di veto di Budapest. Perché – come ricordato puntualmente dal ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, oggi a Bruxelles – “l’allargamento è un processo vasto che non copre solo l’Ucraina, non voglio neanche pensare allo scenario di un fallimento generale su questo tema“. In altre parole, per quanto potrà essere di successo il vertice Ue-Balcani Occidentali (in programma dalle ore 17 di mercoledì), non si potrà esultare fino a quando non saranno messe nero su bianco le conclusioni “gradite” del Consiglio Europeo sull’avvio dei negoziati di adesione per l’Ucraina, così come raccomandato dalla Commissione Ue lo scorso 8 novembre. La motivazione ha trovato una sintesi nelle parole del ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis: “Se non ci sarà una soluzione positiva, arriveranno tempi bui, l’unico modo in cui leggo la posizione dell’Ungheria è che si posiziona contro l’Unione e tutto ciò che fa”. Percorso di allargamento Ue e di riforma interna inclusi.Il tempo scarseggia per cercare di sbloccare l’impasse, ma a Bruxelles è intensa la pressione diplomatica da parte di quasi tutti i governi per scongiurare un fallimento su tutta la linea questa settimana. “Mi auguro che da parte ungherese si possa compiere un passo in avanti, anche dopo la decisione di garantire la libertà di insegnamento della lingua ungherese per la minoranza che vive in Ucraina”, ha spiegato alla stampa europea il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani: “Spero che si possa procedere con una posizione favorevole da parte di Budapest verso la nostra posizione”. Più dura la collega finlandese, Elina Valtonen: “La posizione dell’Ungheria è stata davvero deplorevole nel corso degli ultimi mesi”. Rispondendo alle domande su come superare lo stallo, il ministro lettone Arturs Kariņš ha ricordato che “la Commissione sta valutando tutte le opzioni per superare l’impasse, la nostra missione di politici è trovare soluzioni”. Il riferimento è all’atteso sblocco “fino a un tetto massimo” di 10 miliardi di euro “prima del 15 dicembre” dai fondi della politica di coesione (su un totale di 28,6 miliardi congelati) – come hanno reso noto alti funzionari europei – dopo aver dato il via libera al capitolo RePowerEu da 4,6 miliardi di euro, con i suoi 900 milioni di euro di pre-finanziamento automatico e non vincolato.L’allargamento Ue ai vertici di BruxellesIl tema dell’allargamento sarà per evidenti motivi prioritario al vertice Ue-Balcani Occidentali che, come riferiscono fonti Ue, si soffermerà sui progressi dell’ultimo anno (dal summit di Tirana del 6 dicembre 2022). Saranno valutate le notizie positive in arrivo dal Montenegro – che “nel giro dei prossimi sei mesi” ci si aspetta possa “chiudere i capitoli 23 e 24” dei negoziati di adesione Ue – si dovrà considerare la possibilità di disaccoppiare il percorso di adesione di Albania e Macedonia del Nord – anche se “non è l’opzione che vogliamo” – e si farà il punto sull’anno complicatissimo per i rapporti tra Serbia e Kosovo e i riflessi sul dialogo Pristina-Belgrado. Ma soprattutto si dovrà considerare come posizionarsi nei confronti della Bosnia ed Erzegovina, in questo momento in un bivio tra il percorso europeo e le sirene secessioniste nella Republika Srpska di Milorad Dodik.È qui che va considerato quanto sarà inserito all’ordine del giorno del Consiglio Europeo al via il giorno successivo al vertice Ue-Balcani Occidentali. “Il Consiglio è pronto ad avviare i negoziati di adesione all’Ue con la Bosnia ed Erzegovina, una volta raggiunto il necessario grado di conformità ai criteri di adesione“, si legge nella bozza delle conclusioni del vertice dei leader Ue visionata da Eunews. Niente di nuovo rispetto alla raccomandazione della Commissione Europea, ma non va dimenticato che l’ombra lunga di Orbán incombe anche nel caso dell’allargamento Ue alla Bosnia ed Erzegovina. Di fronte alle politiche secessioniste di Dodik e alla vicinanza sempre più esplicita all’autocrate Vladimir Putin dopo l’invasione russa dell’Ucraina (non dissimulate nemmeno dal premier ungherese), l’Unione Europea ha già un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato. Tuttavia, come rivelato da fonti Ue a Eunews, è proprio l’Ungheria a non permettere il via libera per la vicinanza politica tra Orbán e il leader serbo-bosniaco che vuole la secessione da Sarajevo.Rispetto a quanto raccomandato dal gabinetto di Ursula von der Leyen nel Pacchetto Allargamento Ue 2023, la partita si giocherà in particolare su quello che nella bozza delle conclusioni compare al punto 14 e 15: “Il Consiglio Europeo decide di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldova” e invita i 27 ministri competenti ad “adottare i rispettivi quadri negoziali una volta adottate le misure indicate” dal Consiglio Affari Generali. In attesa anche la Georgia, per cui si dovrebbe decidere di “concedere lo status di Paese candidato“, ma con l’allargamento Ue in ostaggio di Budapest niente è certo al momento. Perché, come spiegano senza troppi giri di parole le fonti Ue, se il percorso dell’Ucraina sarà bloccato da Orbán “non sappiamo ancora se altri Paesi faranno dei collegamenti sul processo basato sul merito anche per gli altri candidati“.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    In Ungheria è andato in scena uno strano trasferimento di prigionieri ucraini dalla Russia. L’Ue: “Budapest chiarisca”

    Bruxelles – È oscura la vicenda del trasferimento in Ungheria di 11 prigionieri di guerra ucraini nelle mani dell’esercito russo fino al 9 giugno. Non si è trattato di un normale scambio di ostaggi mediato da un Paese terzo (per quanto l’Ungheria sia un membro dell’Unione Europea e a livello teorico nettamente schierato sulla guerra in corso), dal momento in cui tutta l’operazione è avvolta dal mistero e di certo c’è solo che non è stata coordinata con Kiev. È un trasferimento strano perché è stato proposto dalla Chiesa ortodossa russa, perché il governo ungherese sostiene di non saperne nulla, ma allo stesso tempo quello ucraino lo accusa di non permettere i contatti con i suoi soldati.
    Da sinistra: il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán
    “Le autorità competenti dell’Ungheria devono spiegare alle controparti ucraine cosa è accaduto, come è accaduto, chi è stato coinvolto, qual è stato il ruolo dell’Ungheria e come è stato gestito con l’Ucraina”, Paese i cui cittadini “sono stati fatti prigionieri di guerra dall’aggressore russo”. È quanto messo in chiaro oggi (21 giugno) nel corso del punto con la stampa di Bruxelles dal portavoce del Servizio per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, rispondendo alle perplessità dei giornalisti sul fatto che un membro dell’Unione possa aver tenuto all’oscuro gli altri 26 Paesi membri e soprattutto l’Ucraina su un’operazione di rilascio di prigionieri di guerra con l’esercito di Vladimir Putin (a fronte di quale prezzo al momento non è dato sapere). “Chiederemo alle autorità ungheresi maggiori informazioni su quanto accaduto”, ha anticipato il portavoce, precisando che “spetta loro spiegare alle autorità ucraine i dettagli e la partecipazione su questo caso“.
    A quanto si apprende da funzionari del governo ungherese, il trasferimento degli 11 prigionieri di guerra ucraini sarebbe stato organizzato dalla Chiesa ortodossa russa e dal Servizio di beneficenza ungherese dell’Ordine di Malta, senza il coinvolgimento del governo di Budapest né con il coordinamento di Kiev. I soldati sarebbero tutti originari della Transcarpazia, regione sud-occidentale dell’Ucraina con una consistente comunità ungherese, di cui solo tre sono stati rimpatriati ieri (20 giugno) nel Paese. Da Kiev son arrivate accuse al governo Orbán per aver organizzato un’operazione segreta con il fine di aumentare la propria popolarità interna, impedendo al governo ucraino di mettersi in contatto con i membri del suo esercito. Dal capo di gabinetto del premier ungherese, Gergely Gulyas, è arrivata una netta smentita: “Non sono prigionieri di guerra da un punto di vista legale in Ungheria, possono lasciare il Paese in qualsiasi momento, non li controlliamo o monitoriamo”.
    Il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán
    A prescindere dal coinvolgimento delle autorità ungheresi (anche se l’eventualità rappresenterebbe uno scenario sconcertante per un Paese membro dell’Ue), è evidente che i rapporti tra Kiev e Budapest – ma anche tra Bruxelles e Budapest – sono ai minimi storici. Il premier Orbán non ha mai nascosto le sue simpatie per l’autocrate russo Putin, con cui ha ancora forti legami politici ed economici mai recisi nemmeno con l’invasione dell’Ucraina dal 24 febbraio 2022. L’Ungheria è sempre una spina nel fianco dell’Unione quando si tratta di dare il via libera a nuove sanzioni contro Mosca e negli ultimi mesi anche allo stanziamento di nuovi finanziamenti a Kiev, ma soprattutto sul piano energetico (una delle sfide più grandi per l’Ue nell’affrontare la dipendenza dalle fonti fossili russe). Il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjártó, è stato il primo politico di un Paese membro a recarsi a Mosca per stringere un accordo per maggiori forniture di gas rispetto ai volumi previsti dal contratto a lungo termine che dal 2021 lega Budapest e Mosca. Il tutto quando manca un anno all’avvio della presidenza di turno ungherese del Consiglio dell’Ue: dal primo luglio 2024 il governo Orbán avrà in mano le chiavi di una delle tre istituzioni comunitarie per sei mesi.

    La Commissione Europea vuole che il governo di Viktor Orbán spieghi “cosa è accaduto, come è accaduto, chi è stato coinvolto” nella vicenda del trasferimento segreto di 11 soldati rilasciati su proposta della Chiesa ortodossa russa in un’operazione non coordinata con Kiev

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    L’autonomia strategica Ue della discordia. Macron divide l’Europa sui rapporti con Cina e Stati Uniti

    Bruxelles – Si accende in Europa il tema della sovranità dell’Ue, sulle strategie, sui partner e sulle direttrici da seguire. Il tutto sullo sfondo delle accese polemiche sulle parole proprio su questo tema del presidente francese, Emmanuel Macron, di ritorno dal viaggio di Stato in Cina. Un’Europa come “terzo polo” tra Washington e Pechino non piace a tutti, soprattutto quando si parla di un ripensamento dei rapporti anche con il principale partner dell’Ue, gli Stati Uniti. Eppure la visione dell’inquilino dell’Eliseo sembra essere non tanto una provocazione o un tentativo di rendere equidistante il continente dalle due superpotenze, quanto un ri-orientamento strategico dell’Unione per non far dipendere le proprie scelte di politica estera, energetica ed economica del futuro da vincoli da un solo attore geopolitico.
    l vertice trilaterale tra la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, e il presidente della Francia, Emmanuel Macron, a Pechino (6 aprile 2023)
    Il tutto nasce dalle parole del presidente francese riportate da Politico, da cui emerge un’idea di svincolarsi dalla dipendenza anche rispetto agli Stati Uniti, in particolare su questioni spinose come lo scontro tra blocchi e i rapporti tra Cina e Taiwan. Secondo il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, la posizione del leader francese non sarebbe un unicum tra i Ventisette, anche se “al tavolo del Consiglio possono esserci sfumature e sensibilità”. Tra i 27 capi di Stato e di governo “alcuni non direbbero le cose nello stesso modo in cui le ha dette Macron”, ma in ogni caso “credo che non pochi la pensino davvero come Macron“, ha confessato Michel alla trasmissione Faute à l’Europe. Lo stesso numero uno del Consiglio Ue si è detto d’accordo sul fatto che “c’è un grande attaccamento alla nostra alleanza con gli Stati Uniti, ma questo non presuppone che noi seguiamo ciecamente la posizione degli Stati Uniti su tutte le questioni“.
    Tra i favorevoli sicuramente non c’è il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki: “Invece di costruire un’autonomia strategica dagli Stati Uniti, propongo un partenariato strategico”, ha commentato seccamente le parole del leader francese, in partenza per Washington. Riprendendo le parole del premier ungherese, Viktor Orbán, il suo direttore politico, Balázs Orbán, ha sostenuto la linea opposta: “Attualmente l’Ue sta adottando acriticamente la posizione degli Stati Uniti, presentando gli interessi americani come interessi europei, è proprio per questo che oggi l’Europa è uno dei perdenti della guerra in Ucraina”. Di ritorno dal viaggio a Pechino con Macron, ha tenuto una linea più discreta la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, che non si è esposta direttamente sui retroscena dell’incontro con il presidente cinese, Xi Jinping. “Il protocollo riservato ai due leader è stato differente, perché Macron era in visita di Stato mentre von der Leyen in una visita di lavoro di alto livello”, ha puntualizzato il portavoce-capo dell’esecutivo comunitario, Eric Mamer: “L’obiettivo era partecipare all’incontro trilaterale e in quell’occasione dare un messaggio comune alla Cina”. Anche l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, si sarebbe dovuto recare a Pechino da domani a sabato, ma il viaggio è stato annullato all’ultimo dopo il test Covid-19 positivo dello stesso Borrell.
    La sovranità economica secondo Macron
    Per Macron l’obiettivo rimane comunque costruire una sovranità economica europea e, per raggiungerlo, “l’Europa ha smesso di essere ingenua, ora può difendere i suoi interessi, i suoi valori e la sua indipendenza”, ha esordito in un tweet programmatico. “Stiamo lavorando per creare condizioni di parità per le nostre imprese, affinché i Paesi terzi rispettino standard ambiziosi e valori universali”, in un progetto di “un’Europa che difende i propri interessi e valori, che mantiene il controllo del proprio destino, che crea posti di lavoro e che porta a termine con successo la transizione climatica”.
    Il presidente della Francia, Emmanuel Macron
    In primis, “la forza dell’Europa è il suo Mercato unico“, ha puntualizzato il presidente francese, facendo riferimento all’impegno per “far emergere attori forti che incarnino la nostra sovranità, innovando, riformando, rafforzando i nostri sistemi di istruzione e formazione, mobilitando i capitali in modo più efficace”. Parallelamente “far progredire la politica industriale europea significa proteggere meglio le nostre imprese“, attraverso una “strategia di lotta alle distorsioni della concorrenza, di riduzione delle dipendenze strategiche e di protezione della proprietà intellettuale”. Tra le direttrici principali ci sono il Net-Zero Industry Act, “ci permetterà di accelerare lo sviluppo delle nostre industrie che contribuiscono alla transizione climatica, semplificando le nostre regole e procedure”, e l’European Chips Act: “Essendo un settore così essenziale per le nostre industrie, le nostre economie e le nostre società, l’Europa doveva investire nei semiconduttori del futuro”.
    Sul fronte dei rapporti con i partner “faremo in modo che, per accedere al Mercato europeo, i produttori dei Paesi terzi siano soggetti alle stesse regole di produzione di quelli dell’Unione” – come misura per tutelare i consumatori sugli standard dei prodotti e le aziende dalla concorrenza sleale – e “in ogni negoziato commerciale dovremo integrare criteri di sostenibilità come il rispetto dell’Accordo di Parigi e la conservazione della biodiversità, l’equità, l’equilibrio, la compatibilità con i nostri interessi strategici”, ha aggiunto lo stesso Macron.

    La souveraineté économique de notre Europe.
    C’est notre objectif.
    Pour l’atteindre, l’Europe a cessé d’être naïve. Elle peut désormais défendre ses intérêts, ses valeurs et son indépendance.…
    — Emmanuel Macron (@EmmanuelMacron) April 12, 2023

    Le parole di Macron sull’Europa “terzo polo”
    “Per troppo tempo l’Europa non ha costruito questa autonomia strategica, oggi la battaglia ideologica è stata vinta, ma non vogliamo entrare in una logica di blocco contro blocco“, ha messo in chiaro Macron di fronte alla stampa a bordo dell’aereo presidenziale che l’ha riportato a Parigi dopo la visita di Stato a Pechino. In particolare nell’intervista pubblicata da Les Echos, emerge chiaramente il pensiero dell’inquilino dell’Eliseo a proposito dell’attuazione dell’autonomia strategica: “La trappola per l’Europa sarebbe che, nel momento in cui ottiene un chiarimento della sua posizione, si trovi coinvolta in uno sconvolgimento del mondo e in crisi che non sono nostre”.
    Il presidente della Francia, Emmanuel Macron (credits: Ludovic Marin / Afp)
    A proposito dell’invasione russa in Ucraina, Macron ha insistito sul fatto che “lo scopo del dialogo con la Cina è consolidare approcci comuni”, a partire dal “sostegno ai principi della Carta delle Nazioni Unite” e il “chiaro richiamo” sull’arma nucleare e sul rispetto del diritto umanitario, fino all’impegno per “una pace negoziata e duratura”. E nonostante l’Ucraina non rappresenti una priorità per la diplomazia cinese “questo dialogo ci permette di temperare i commenti che abbiamo sentito su una forma di compiacimento nei confronti della Russia“, ha insistito Macron. Allargando il quadro, tuttavia, Pechino è interessata che l’Europa si ritagli un ruolo di terzo attore non legato agli Stati Uniti. E questo tema riguarda anche la questione di Taiwan: “La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dovremmo essere dei seguaci su questo tema e adattarci al ritmo americano e a una reazione eccessiva della Cina, ma perché dovremmo seguire il ritmo scelto da altri?”
    È qui che si innesta la questione dell’autonomia strategica. “Noi europei dobbiamo svegliarci, la nostra priorità non è adattarci all’agenda degli altri in tutte le regioni del mondo”, ha sottolineato con forza ai giornalisti il presidente francese, ricordando che “se ci sarà un’accelerazione del duopolio, non avremo il tempo né i mezzi per finanziare la nostra autonomia strategica e diventeremo dei vassalli“. Al contrario, se si riuscirà a mantenere un equilibrio – non equidistanza, come precisano dall’Eliseo – tra Washington e Pechino, “potremo essere il terzo polo, con qualche anno per costruirlo”. Una strategia che ha appena iniziato a muovere i primi passi – “ci siamo dotati di strumenti di difesa e di politica industriale, ci sono stati molti progressi con il Chips Act, il Net Zero Industry Act e il Critical Raw Material Act” – ma che ancora ha bisogno di tempo: “La guerra in Ucraina sta accelerando la domanda di attrezzature di difesa, ma l’industria europea della difesa non soddisfa tutte le esigenze e rimane molto frammentata“.
    Se gli squilibri nei rapporti con Pechino sono ben evidenti e hanno bisogno di essere risolti, anche la relazione con gli Stati Uniti ha bisogno di un ripensamento secondo Macron, perché l’Europa non si vincoli acriticamente alle scelte di campo di Washington e possa dialogare da pari a pari con il suo partner più stretto. “Autonomia strategica significa avere opinioni convergenti con gli Stati Uniti ma, che si tratti dell’Ucraina, del rapporto con la Cina o delle sanzioni, abbiamo una strategia europea“, con l’obiettivo di “non dipendere dall’altro, mantenendo una forte integrazione delle nostre catene del valore laddove possibile e non dipendendo dall’extraterritorialità del dollaro”. Non un rovesciamento dei rapporti, né una posizione neutra nella contrapposizione tra Washington e Pechino, ma la definizione di capisaldi e linee rosse europee: “Le battaglie da combattere oggi consistono da un lato nell’accelerare la nostra autonomia strategica e dall’altro nel garantire il finanziamento delle nostre economie”. Evitando il paradosso di “seguire la politica statunitense per una sorta di riflesso di panico, nel momento in cui stiamo mettendo in atto gli elementi di una vera autonomia strategica”.

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    Via libera dalla Turchia all’ingresso della Finlandia nella Nato. La Svezia rimane ancora alla finestra

    Bruxelles – Dentro la Finlandia, ancora attesa per la Svezia. I due Paesi scandinavi, che quasi un anno fa hanno impresso una svolta strategica storica per le rispettive politiche di sicurezza nazionale, alla fine non concluderanno mano nella mano il processo di adesione all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), come per mesi sperato e dichiarato pubblicamente. Perché per Helsinki è arrivato in una settimana il doppio via libera all’ingresso nella Nato prima dall’Ungheria e poi dalla Turchia – gli unici due dei 30 Paesi membri che ancora non avevano ratificato il protocollo di adesione – mentre per Stoccolma la situazione è ancora di stallo e, per il momento, non si vede una via d’uscita.
    “Tutti i 30 membri della Nato hanno ratificato l’adesione della Finlandia”, ha annunciato nella tarda serata di ieri (30 marzo) il presidente finlandese, Sauli Niinistö, rivolgendo un ringraziamento “per la fiducia e il sostegno, saremo un alleato forte e capace, impegnato nella sicurezza dell’Alleanza”. Una dichiarazione arrivata a stretto giro rispetto al voto della Grande Assemblea Nazionale Turca (il Parlamento monocamerale della Turchia), che ha ratificato all’unanimità il protocollo di adesione del Paese scandinavo. Il via libera da Ankara è arrivato dopo mesi di temporeggiamento – il protocollo di adesione di Finlandia e Svezia è stato firmato il 5 luglio dello scorso anno – dal momento in cui i due Paesi hanno portato avanti insieme la candidatura e nelle intenzioni del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, l’allargamento si sarebbe dovuto realizzare come pacchetto unico entro il Summit di Vilnius del prossimo 11-12 luglio.
    La firma del memorandum d’intesa Nato tra Turchia, Svezia e Finlandia a Madrid (28 giugno 2022)
    Ma Turchia e Ungheria (quest’ultima ha ratificato il 27 marzo il protocollo di adesione di Helsinki) hanno tenuto e continuano a tenere bloccata la Svezia, anche se per ragioni differenti, e di fatto hanno costretto gli altri membri dell’Alleanza ad accettare lo ‘spacchettamento’ per la Finlandia: come precisato dal segretario generale Stoltenberg, il Paese diventerà “fra pochi giorni” il 31esimo membro della Nato. Stoccolma rimane ancora in attesa della fine del costante ricatto in merito all’estradizione dei membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), legato anche a questioni di politica interna. Di fronte al rischio di perdere per la prima volta in 20 anni il potere alle cruciali elezioni del 14 maggio, il presidente Recep Tayyip Erdoğan non avrebbe nessun interesse nello sbloccare le trattative con la Svezia prima di essersi assicurato la riconferma, dal momento in cui l’intransigenza sulla questione curda rimane uno dei temi centrali della sua leadership politica. Per l’Ungheria invece lo stallo è motivato dal contrasto diplomatico tra i due Paesi membri Ue (fino a luglio la Svezia detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue) per le critiche di Stoccolma sull’erosione dello Stato di diritto determinato dal governo di Viktor Orbán, come ha messo in chiaro il portavoce dell’esecutivo ungherese.
    “La Finlandia è al fianco della Svezia ora e in futuro e ne sostiene l’adesione”, ha ribadito con forza la prima ministra finlandese, Sanna Marin, che domenica (2 aprile) dovrà affrontare un delicatissimo appuntamento elettorale in patria. Anche il segretario generale della Nato Stoltenberg si attende di “accogliere il prima possibile la Svezia come membro a pieno diritto della famiglia Nato”, dal momento in cui “tutti gli alleati sono d’accordo che una conclusione rapida” del processo di ratifica per Stoccolma “è nell’interesse di tutti“. Tutti, meno Turchia e Ungheria, per il momento.

    #Finland 🇫🇮 will formally join our Alliance in the coming days. Their membership will make Finland safer & #NATO stronger. I look forward to also welcoming #Sweden 🇸🇪 as a full member of the NATO family as soon as possible.
    —@jensstoltenberg pic.twitter.com/ueaOwWdLaX
    — Oana Lungescu (@NATOpress) March 31, 2023

    Come si entra nella Nato
    Per diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso nella Nato di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.
    La procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale della Nato a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.
    Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

    Dopo mesi di temporeggiamento anche la Grande Assemblea Nazionale Turca ha ratificato il protocollo di adesione di Helsinki all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Stoccolma bloccata sia da Ankara per la questione estradizioni, sia dall’Ungheria di Viktor Orbán

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    La Commissione chiede ai Balcani Occidentali di allinearsi alla politica dei visti per frenare gli ingressi irregolari nell’Ue

    Bruxelles – La rotta balcanica torna al centro delle preoccupazioni dell’Unione Europea, o quantomeno della Commissione e di alcuni Paesi membri che stanno vedendo aumentare il numero di ingressi irregolari e le richieste di asilo. “Abbiamo assistito a un aumento significativo di migranti che viaggiano senza visto verso i Paesi partner dei Balcani Occidentali e che entrano poi nell’Unione Europea in modo irregolare”, è quanto affermato dalla commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, in occasione del Consiglio Affari Generali di oggi (venerdì 14 ottobre) a Praga.
    “Siamo in stretto contatto con gli Stati membri che sono più sotto pressione”, ha sottolineato alla stampa europea la commissaria Johansson, facendo riferimento ad Austria (“molti indiani stanno chiedendo l’asilo”) e Belgio (“c’è un grande gruppo di persone in arrivo dal Burundi”). Da Bruxelles il problema principale è il “non allineamento sulla politica dei visti di alcuni Paesi partner“, in particolare quelli che si trovano sulla rotta balcanica e a cui l’Ue ha riconosciuto un regime di esenzione (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, mentre il Kosovo attende dal 2018 una decisione del Consiglio sulla liberalizzazione dei visti per i propri cittadini). “Incontrerò i partner balcanici la prossima settimana a Berlino, la settimana successiva a Praga e quella dopo ancora a Tirana”, ha fatto sapere la titolare degli Affari interni nel gabinetto von der Leyen, precisando che “vogliamo aiutarli anche sulla lotta contro la tratta di esseri umani“.
    Considerato quanto emerso dal recente viaggio del vicepresidente esecutivo della Commissione, Margaritis Schinas, nella regione balcanica, uno degli indiziati principali delle esortazioni dell’esecutivo comunitario è la Serbia. “Non è giusto che l’Unione Europea abbia concesso l’esenzione dei visti ai Paesi dei Balcani Occidentali e che questi abbiano accordi di esenzione con Paesi terzi a cui noi non la riconosciamo“, ha rivendicato Schinas dopo la tappa a Belgrado. Una precisazione sulle contromisure che potrebbero arrivare da Bruxelles l’ha fornita la commissaria Johansson oggi: “Spero che avremo con la Serbia una buona cooperazione e che allinei la sua politica di visti alla nostra, ma non posso escludere nemmeno una sospensione del regime dei visti“. Anche se è Belgrado a presentare diversi punti di criticità nei rapporti con l’Unione in cui sta cercando di accedere (in particolare per quanto riguarda le sanzioni contro la Russia), la questione si estende a “molti dei partner” che si trovano sulla rotta balcanica: “Dovremo raggiungerli tutti”, ha concluso la commissaria europea.
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, il premier ungherese, Viktor Orbán, e il cancelliere austriaco, Karl Nehammer, al vertice a tre di Budapest, 3 ottobre 2022 (credits: ATTILA KISBENEDEK / AFP)
    Il tema dell’esenzione dei visti verso Paesi come India, Tunisia e Burundi in vigore in Serbia – che permette a diverse persone migranti di arrivare a Belgrado e poi provare ad attraversare il confine con l’Ue – è stato anche al centro del vertice a tre dello scorso 3 ottobre a Budapest tra il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, il cancelliere austriaco, Karl Nehammer, e il premier ungherese, Viktor Orbán, per cercare soluzioni condivise per affrontare il fenomeno migratorio lungo la rotta balcanica. Il “piano d’azione” dei due Paesi membri Ue e del candidato dal 2012 all’adesione all’Unione includerà una “maggiore cooperazione” delle forze di polizia lungo i confini (incluso quello serbo meridionale, con la Macedonia del Nord) e il sostegno “anche finanziario” alla Serbia per il rimpatrio delle persone migranti. Proprio in occasione del vertice di Budapest il presidente Vučić ha promesso che “entro fine dell’anno” Belgrado allineerà le politiche nazionali sui visti con quelle Ue, mentre il premier ungherese Orbán è tornato a rivendicare la creazione di hotspot al di fuori del territorio comunitario, una proposta che può violare il diritto di accesso al territorio per i rifugiati.

    Secondo l’esecutivo comunitario e alcuni Stati membri (tra cui Austria e Ungheria), i partner balcanici a cui è garantita l’esenzione dei visti dall’Ue non possono fare lo stesso con Paesi terzi a cui Bruxelles non la riconosce. La Serbia è la prima indiziata dopo il vertice con Budapest e Vienna