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    Crolla la resistenza dell’Ungheria di Orbán alla ratifica del protocollo di adesione della Svezia alla Nato

    Bruxelles – Non è durato nemmeno 24 ore l’ostruzionismo aperto del premier ungherese, Viktor Orbán, alla ratifica del protocollo di adesione della Svezia alla Nato, dopo lo sblocco dello stallo con il voto favorevole della Grande Assemblea Nazionale Turca arrivato nella serata di ieri (23 gennaio). Rimasta l’unico Paese membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord a non aver approvato in modo formale l’ingresso di Stoccolma come 32esimo membro dell’Alleanza Atlantica, l’Ungheria ha subito le pressioni degli altri alleati della Nato – incluso il segretario generale Jens Stoltenberg – e già oggi (24 gennaio) il premier Orbán ha reso noto che “alla prima occasione possibile” arriverà il voto dell’Assemblea Nazionale di Budapest per la ratifica del protocollo di adesione di Stoccolma.

    Da sinistra: il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson (credits: Jonathan Nackstrand / Afp)“Ho ribadito che il governo ungherese sostiene l’adesione della Svezia alla Nato, ho anche sottolineato che continueremo a sollecitare l’Assemblea nazionale ungherese a votare a favore dell’adesione della Svezia”, ha scritto il leader ungherese su X a seguito della telefonata con il segretario generale della Nato. Lo stesso Stoltenberg ha “accolto con favore il chiaro sostegno” di Orbán e del governo ungherese, esortando la ratifica del protocollo di adesione della Svezia “non appena il Parlamento tornerà a riunirsi”. La fine delle velleità di Orbán di tenere in ostaggio l’ingresso del nuovo membro nell’Alleanza è arrivata con il secco rifiuto del governo di Stoccolma a partecipare a un incontro a Budapest per “negoziare l’adesione della Svezia alla Nato“, come recitava l’invito recapitato ieri dal primo ministro Orbán all’omologo svedese, Ulf Kristersson.Mentre nell’ultimo anno e mezzo l’attenzione era tutta rivolta ad Ankara e alle minacce esplicite del presidente Recep Tayyip Erdoǧan di bloccare il processo in caso di non rispetto delle condizioni richieste, a Budapest il dossier della ratifica del protocollo di adesione della Svezia alla Nato non è mai avanzato soprattutto per il contrasto diplomatico tra i due Paesi membri Ue. Proprio durante il semestre di presidenza svedese del Consiglio dell’Ue (tra gennaio e luglio 2023), il premier Kristersson è stato particolarmente duro nelle sue critiche all’erosione dello Stato di diritto determinato dal governo Orbán e tutt’ora è uno dei leader più intransigenti sui ricatti del premier ungherese al tavolo del Consiglio Europeo (in particolare sulle questioni dei fondi Ue e del sostegno all’Ucraina).I passi della Svezia per entrare nella NatoPer diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.

    La procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

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    La Turchia pronta a ratificare il protocollo di adesione Nato della Svezia. Ma manca ancora l’Ungheria

    Bruxelles – Si sta per chiudere uno dei capitoli più spinosi degli ultimi due anni all’interno della Nato: lo stallo turco sulla ratifica del protocollo di adesione della Svezia all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, ma un altro rischia di diventare ancora più imbarazzante. Mentre la Grande Assemblea Nazionale Turca è pronta a ratificare in settimana (tra oggi e giovedì) il protocollo di adesione di Stoccolma sei mesi dopo l’intesa decisiva tra i leader dei due Paesi al vertice Nato di Vilnius, il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán, ha reso noto di aver invitato il primo ministro svedese, Ulf Kristersson, a Budapest per “negoziare l’adesione della Svezia alla Nato“.

    Da sinistra: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoǧan, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, a Vilnius (10 luglio 2023)Quello turco sembrava l’ostacolo più arduo da superare per le aspirazioni della Svezia di diventare il 32esimo membro dell’Alleanza Atlantica, considerato il continuo rinvio imposto dal presidente Recep Tayyip Erdoǧan per una serie di criteri a suo avviso non rispettati secondo il memorandum d’intesa firmato alla vigilia del vertice di Madrid del 2022. Tra queste in particolare le richieste di estradare i membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). La posizione irremovibile del leader turco ha portato al punto più basso dei rapporti con gli altri alleati in occasione del via libera alla richiesta della Finlandia, quando è stato invece ribadito lo stop a Stoccolma: in questo modo è sfumato l’ingresso congiunto dei due Paesi scandinavi nell’Alleanza Atlantica nello stesso giorno (il 4 aprile 2023). Appena prima dell’inizio del vertice di Vilnius nel luglio dello scorso anno – e dopo aver minacciato di voler legare il percorso di allargamento della Nato a quello di adesione della Turchia all’Unione Europea – lo stesso Erdoǧan ha dato il via libera all’ingresso della Svezia in un trilaterale risolutorio con il premier Kristersson e il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. A distanza di sei mesi il Parlamento turco è pronto a rispettare l’impegno di ratificare il protocollo di adesione di Stoccolma, mettendo fine al suo ostruzionismo.

    Il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (credits: Javier Soriano / Afp)Ma ora tutti gli occhi sono puntati sull’Ungheria di Orbán, che si sta distinguendo in senso negativo a Bruxelles per i suoi continui ricatti non solo all’interno dell’Unione Europea (in particolare sulle questioni dei fondi Ue e del sostegno all’Ucraina) ma anche della Nato. Mentre l’attenzione era tutta rivolta ad Ankara e alle minacce esplicite di Erdoǧan di bloccare il processo in caso di non rispetto delle condizioni richieste, a Budapest il dossier della ratifica del protocollo di adesione della Svezia alla Nato non è mai avanzato soprattutto per il contrasto diplomatico tra i due Paesi membri Ue. Proprio durante il semestre di presidenza svedese del Consiglio dell’Ue (tra gennaio e luglio 2023), il premier Kristersson è stato particolarmente duro nelle sue critiche all’erosione dello Stato di diritto determinato dal governo Orbán e tutt’ora è uno dei leader più intransigenti sui ricatti del premier ungherese al tavolo del Consiglio Europeo. Il messaggio di Orbán sul “negoziare l’adesione della Svezia alla Nato” è anche un chiaro segnale di subordinazione del Parlamento ungherese alle decisioni del premier (così come successo in Turchia), considerato anche il fatto che a oggi non è in agenda un voto per la ratifica del protocollo di adesione di Stoccolma.I passi della Svezia per entrare nella NatoPer diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.

    La procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

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    L’estrema destra europea ha una visione distorta dei rapporti tra Unione Europea e Serbia (e Russia)

    Bruxelles – Viktor Orbán non è solo. Il più stretto alleato della Serbia di Aleksandar Vučić, il primo ministro che sta creando più problemi per l’unità dei Ventisette – e lo stesso che sta mettendo i bastoni fra le ruote di Bruxelles all’introduzione di misure contro Belgrado per il non rispetto degli impegni assunti per la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo – sta trovando buona compagnia nello schieramento di estrema destra al Parlamento Europeo. Destabilizzazione, ingerenze, tentativi di ricreare “una nuova Maidan”. Sono le accuse lanciate da alcuni esponenti del gruppo Identità e Democrazia (Id) all’indirizzo non della Russia o della Cina, ma contro l’Unione Europea, dopo il risultato quantomeno controverso delle elezioni anticipate del 17 dicembre scorso in Serbia.(credits: Andrej Isakovic / Afp)Le insinuazioni avanzate in particolare da due eurodeputati francesi di Rassemblement National sono state senza dubbio la nota più frizzante del dibattito di questa settimana alla sessione plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo a proposito della situazione in Serbia dopo le elezioni di dicembre (il voto sulla risoluzione è previsto per alla sessione di febbraio). Tutti i gruppi politici, compreso quello dei Conservatori e Riformisti Europei, si sono ritrovati d’accordo sul fatto che si sono registrate “gravi irregolarità e compravendita di voti” – come affermato dal croato Ladislav Ilčić (Ecr), anche se animato da ragioni puramente nazionalistiche – e che “i cittadini serbi meritano riforme europee e risultati concreti” (Vladimír Bilčík, Ppe), con critiche poco velate a Commissione e Consiglio sulla “reazione molto morbida” per la necessità di “pragmatismo a sostegno della stabilocrazia nel Paese, che però non porta ai risultati previsti” (Klemen Grošelj, Renew Europe). Tutti eccetto gli eurodeputati francesi intervenuti nell’emiciclo di Strasburgo a nome del gruppo Id, che hanno espresso il proprio dissenso con parole più controverse del previsto.“L’ideologia motiva questo dibattito, qual è il vostro problema? La vittoria di Vučić e la sconfitta dei vostri alleati politici di opposizione? È per questo che l’Ue cerca di destabilizzare la Serbia?“, ha attaccato il francese Jean-Lin Lacapelle (Id), accusando le istituzioni comunitarie di “ingerenze nella politica serba, perché ogni Paese è sovrano e indipendente, fino a quando le sue scelte democratiche non vi piacciono”. Ancora più esplicito il connazionale Thierry Mariani: “Sono preoccupato perché questa regione ha bisogno di riappacificazione, mentre questo dibattito farà sì che l’opposizione continui a smuovere le acque”. Fino alla chiusura più sibillina: “Vorrei capire qual è la ragione dietro questa discussione, stimolare una seconda Maidan?” Il riferimento è a uno dei fattori che ha scatenato la crisi tra la Russia e l’Ucraina nel 2013, e che per Kiev e Bruxelles è considerato il primo momento di espressione della volontà popolare di seguire la prospettiva europea per il Paese oggi invaso dall’esercito russo.Le parole dei due eurodeputati di estrema destra – e in particolare il riferimento alla “seconda Maidan” con accezione negativa – evidenziano non solo la visione distorta dei rapporti tra Ue e Serbia secondo una parte specifica dello spettro politico europeo, ma anche una strizzata d’occhio alla Russia di Vladimir Putin che non è mai stata rinnegata (ma diventata solo meno esplicita dopo lo scoppio della guerra in Ucraina). Parlare di “destabilizzazione” del sistema di potere del presidente Vučić da parte delle istituzioni comunitarie è fuorviante per due ragioni. In primis perché non fattuale: la Serbia è un Paese candidato dall’adesione all’Unione Europea, i cui impegni sanciti dai Trattati Ue (compreso il rispetto dei principi dello Stato di diritto messo in discussione dallo svolgimento delle ultime elezioni) sono stati sottoscritti volontariamente da Belgrado. In secondo luogo perché – ammesso e non concesso che a Bruxelles ci sia un disegno di pressioni illecite contro la Serbia – i meccanismi democratici dell’Unione consentono al premier Orbán di opporsi in sede di Consiglio all’introduzione delle misure “temporanee e reversibili” in discussione da mesi a Bruxelles (le stesse che invece sono in atto nei confronti del Kosovo) nonostante il via libera di tutti gli altri Paesi membri.Ancora più preoccupante è la visione dei rapporti alla luce del ruolo della Russia nella regione. In particolare va considerato il fatto che la Serbia di Vučić è l’unico partner dell’Unione che rivendica il non-allineamento alla Politica estera e di sicurezza comune, soprattutto sulle sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina (nemmeno a livello di principio) e che fino a oggi non ha mai voluto allontanarsi eccessivamente dal legame con il Cremlino. Al contrario, nonostante riceverà un pacchetto di sostegno energetico da Bruxelles pari a 165 milioni di euro, nel maggio 2022 Vučić ha siglato un’intesa con Putin per tre anni di gas russo a condizioni favorevoli. Per il Cremlino la Serbia è una sorta di testa di ponte nei Balcani Occidentali, tanto che Bruxelles continua a sollevare preoccupazioni sulla possibile destabilizzazione russa della regione dopo l’attacco armato all’Ucraina. A proposito di Ucraina, getta una luce inquietante il parallelismo fatto dai due eurodeputati di Rassemblement National tra il supporto di Bruxelles alle “legittime manifestazioni di piazza” a Belgrado (come le ha definite il commissario per la Giustizia, Didier Reynders) e a quelle del 2013 di Euromaidan. La critica nemmeno troppo velata di sostenere le richieste dei manifestanti – serbi oggi come ucraini allora – di maggiore trasparenza elettorale e contro le violazioni dello Stato di diritto è una potenziale cassa di risonanza della propaganda del Cremlino secondo cui le proteste popolari europeiste sono frutto di manipolazione delle potenze occidentali e richiedono un intervento più o meno diretto della Russia.Le tensioni in Serbia dopo le elezioni anticipateDa sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (credits: Andrej Isakovic / Afp)Nonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza rispondendo all’appello dei partiti e movimenti che avevano tradotto in istanze politiche (europeiste) le proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio. Anche la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) – a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo – ha rilevato “l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”. Dopo quasi un mese dalle elezioni anticipate continuano le proteste contro i brogli del partito al potere, in particolare a Belgrado.Proprio nella capitale la situazione rimane ancora tesa e non è da escludere che si possano ripetere le elezioni amministrative la cui vittoria è stata rivendicata dal Partito Progressista Serbo: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić ha conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović. La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. La stessa denuncia è arrivata dall’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale): “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska e di intimidazione dei votanti”.Le proteste di piazza dell’opposizione serba a Belgrado (credits: Miodrag Sovilj / Afp)A questo si aggiunge il caso che Bruxelles “sta seguendo da vicino” (parole della dalla portavoce della Commissione Ue responsabile per la politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero) sulle violenze subite dal leader del Partito Repubblicano di opposizione, Nikola Sandulović, prelevato dai servizi segreti serbi il 3 gennaio e duramente picchiato durante la detenzione per aver reso omaggio alla tomba di Adem Jashari, uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk). Membri dell’Agenzia serba per le informazioni sulla sicurezza (Bia) avrebbero sequestrato e torturato Sandulović, poi detenuto nella prigione centrale di Belgrado senza accesso a cure mediche indipendenti. Tra le persone responsabili per le violenze ci sarebbe anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić) che tra l’altro ha già ammesso di aver organizzato l’attacco armato nel nord del Kosovo a fine settembre dello scorso anno. L’ex-capo dell’intelligence serba (dimessosi due mesi fa), Aleksandar Vulin, ha riferito di aver personalmente ordinato l’arresto di Sandulović, ma l’avvocato della difesa ha puntato il dito contro il presidente Vučić.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    UE preoccupata da un ritorno di Trump. “Importante che UE e USA lavorino insieme”

    Bruxelles – L’avanzata di Donald Trump preoccupa l’Unione europea. L’ex presidente degli Stati Uniti e candidato repubblicano per la Casa Bianca alle presidenziali di novembre, vince il confronto elettorale (caucus) in Iowa con i concorrenti di partito, ergendosi a sfidante principale dei democratici. Si profilano scenari che a Bruxelles generano timori per le relazioni trans-atlantiche. “Nell’attuale situazione geopolitica è importante che l’Ue e gli Stati Uniti continuino a lavorare fortemente insieme, che è il modo migliore di affrontare le sfide”, ragiona Valdis Dombrovskis, commissario per il Commercio e un’Economia al servizio delle persone, al termine dei lavori del consiglio Ecofin.La passata stagione trumpiana nel Vecchio continente ha lasciato strascichi. Guerra commerciale a colpi di dazi, minacce e ricatti al ‘made in’ per mancati acquisti di prodotti Usa, tensioni in materia di difesa con diverse visioni sulla NATO e il suo futuro. Si teme all’orizzonte un ritorno ad un passato a cui si è lavorato, con l’attuale amministrazione, per liberarsene. Cinque anni passati a ricostruire una relazione rimessa in discussione, come dimostra l’accordo sui dazi per l’acciaio, con il rischio di dover ricominciare tutto daccapo. Un ritorno eventuale di Trump impone le riflessioni del caso. “E’ chiaro che dobbiamo rafforzare noi stessi“, sottolinea ancora Dombrovskis.L’Europa deve sapere essere unita, avverte anche Guy Verhofstadt, ex premier belga, oggi deputato europeo. Politico di lungo corso, avverte: “I Repubblicani inviano un messaggio al mondo: la democrazia lotta per la sopravvivenza”. Con Trump alla testa degli Stati Uniti “finestra chiusa anche per l’Europa”.Congratulations to @realDonaldTrump on the landslide Iowa caucuses victory!— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) January 16, 2024A dispetto del nome, però, l’Europa mostra meno compattezza. Tra gli Stati membri Ungheria e Italia fanno complimenti e tifo per Trump. Il primo ministro di Bupadest, Viktor Orban, saluta la vittoria in Iowa con sul profilo X, dove pubblica la foto dell’esponente repubblicano corredata dalla scritta “una vittoria attesa da tempo”, con tanto di immagine di mani che applaudono. Il leader della Lega e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, sfoggia il suo inglese per esprimere le personali “congratulazioni a Donald Trump per la schiacciante vittoria del caucus dell’Iowa”.Per un’Europa che guarda oltre Atlantico con preoccupazione ce n’è dunque un’altra che osserva con tutt’altro punto di vista. Da spiegare, però. Perché sulla partita della  sostenibilità, dove pure l’Italia ha molto da dover fare e anche di più da perdere, la concorrenza USA rischia di pesare, non poco, su percorso di riforme e rilancio dell’economia. Il Green Deal è in tutto e per tutto una sfida geopolitica agli Stati Uniti, che a questa sfida hanno risposto con misure protezionistiche quali l’Inflation Reduction Act. Se l’attuale presidente, il democratico Joe Biden, è ‘l’amico’ dell’UE, le preoccupazioni su Trump potrebbero non essere proprio del tutto infondate.

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    Al vaglio dell’Ue brogli, pressioni e “vantaggi sistematici” del partito di Vučić alle elezioni in Serbia

    Bruxelles – Alle accuse dell’opposizione organizzata ma sconfitta per l’ennesima volta alle urne seguono ora le valutazioni degli osservatori internazionali, che confermano le stesse analisi della stampa e degli esperti sul campo. Le elezioni anticipate in Serbia di domenica (17 dicembre), tra le più cruciali degli ultimi anni, sono state segnate da frodi e altre azioni illecite che hanno “compromesso il processo elettorale nel suo complesso”. A rilevarlo è stata la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo: “Gli osservatori hanno rilevato l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”.Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (credits: Elvis Barukcic / Afp)A destare maggiori preoccupazioni è stato in particolare il coinvolgimento del presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, sceso in campo per spingere di nuovo alla vittoria il Partito Progressista Serbi (Sns) alle elezioni anticipate – le terze in quattro anni, e senza alcun motivo politico o istituzionale che avesse determinato la fine del governo di Ana Brnabić se non la stessa volontà presidenziale. Il suo coinvolgimento “decisivo”, secondo il capo della missione di osservazione Osce, Reinhold Lopatka, “ha dominato” il processo elettorale e “l’uso del suo nome da parte di una delle liste di candidati, insieme alla parzialità dei media, ha contribuito a creare un campo di gioco non uniforme”. Come si legge nelle conclusioni preliminari, “il dominio del presidente nella campagna elettorale” – nonostante non fosse candidato alle elezioni di domenica in nessuna veste – “ha dato al suo partito un vantaggio ingiustificato“.Accuse specifiche che vanno contestualizzate all’interno di un “quadro giuridico adeguato” e del “generale rispetto” della scelta di alternative politiche e delle libertà di espressione e di riunione, ma allo stesso tempo di un ambiente “fortemente polarizzato” e caratterizzato da “intimidazioni e molestie nei confronti di attivisti civili, difensori dei diritti umani e giornalisti“. A proposito della stampa, gli osservatori internazionali hanno rilevato che “la diversità dei punti di vista è stata notevolmente ridotta dall’alto grado di polarizzazione e dalla forte influenza del governo sulla maggior parte di essi” – anche in questo caso con un “dominio” e una “copertura positiva” del presidente Vučić e del suo Partito Progressista Serbo (di cui era leader fino a maggio) – oltre a “numerose segnalazioni di giornalisti critici insultati verbalmente da funzionari statali e attacchi coordinati da parte di media filogovernativi”. Va poi considerato il fatto che la campagna elettorale si è svolta sullo sfondo della guerra russa in Ucraina, un tema particolarmente sensibile per i rapporti tra Bruxelles e Belgrado. “La manipolazione delle informazioni rimane una preoccupazione, anche se non è stato il tema predominante delle elezioni”, ha messo in chiaro il capo-delegazione del Parlamento Ue in Serbia, Klemen Grošelj.(credits: Andrej Isakovic / Afp)A tutto questo si aggiunge non solo il fatto che l’eccessiva frequenza di elezioni anticipate “ha minato la fiducia nelle istituzioni democratiche” della Serbia, ma anche il riscontro sul campo di “carenze procedurali, tra cui frequenti casi di sovraffollamento, violazioni della segretezza del voto e numerosi casi di voto di gruppo“. Erano circa 6,5 milioni gli elettori registrati per partecipare alla tornata elettorale del 17 dicembre, ma sono state diverse le azioni di irregolarità alle urne: “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska [l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina, ndr] e di intimidazione dei votanti“, ha denunciato l’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale), sottolineando che “ci aspettavamo assolutamente standard democratici più elevati da un Paese candidato all’Ue, che sta negoziando l’adesione”.È proprio questa la preoccupazione maggiore che si respira a Bruxelles e non solo. “La Serbia ha votato, ma l’Osce ha segnalato abuso di fondi pubblici, intimidazione degli elettori e casi di acquisto di voti, è inaccettabile per un Paese con lo status di candidato all’Ue“, è stato il durissimo attacco arrivato dal ministero degli Esteri tedesco. Più cauta la Commissione Europea, che in una nota congiunta dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e del commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, chiede che “le denunce di irregolarità siano seguite in modo trasparente dalle autorità nazionali competenti”. Nel punto quotidiano di oggi (19 dicembre) con la stampa europea, il portavoce-capo dell’esecutivo comunitario, Eric Mamer, ha ricordato che “abbiamo un chiaro quadro negoziale con la Serbia, che riguarda anche la democrazia e i processi elettorali come questione fondamentale”.Il risultato delle elezioni anticipate in SerbiaNonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto (mentre la coalizione guidata dal socialista Ivica Dačić è crollata al 6,56, al terzo posto). Nel nuovo Parlamento l’Sns dovrebbe controllare 128 seggi su 250, con la possibilità così di governare senza alleati. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro i risultati dopo l’appello dei partiti e movimenti che spaziano dal centro all’ecologismo di sinistra: la coalizione si era formata proprio dopo la traduzione in istanze politiche (europeiste) delle proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio e oggi non sembra voler mollare contro i brogli del partito al potere. “Hanno rubato il nostro futuro“, si leggeva nei cartelli dei manifestanti davanti all’edificio della commissione elettorale serba a Belgrado ieri sera.Da sinistra: il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Belgrado (16 settembre 2022)Proprio nella capitale la situazione è particolarmente tesa, dal momento in cui il Partito Progressista Serbo ha rivendicato la vittoria nella più contesa tra le elezioni municipali del Paese: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić avrebbe conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović (6 seggi). La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ (42 seggi) ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. Da Mosca sono arrivate nella giornata di ieri al presidente serbo Vučić e all’Sns le congratulazioni del portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha parlato di “ulteriore rafforzamento dell’amicizia” tra Russia e Serbia. A chiudere il ‘triangolo russo’ non è mancato il più stretto alleato di Belgrado (e in modo sempre più palese anche dell’autocrate russo Putin), il premier ungherese Viktor Orbán, che ha definito quella di Vučić e del suo partito “una vittoria elettorale travolgente”.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Potrebbe esserci una via d’uscita all’opposizione di Orbán all’avvio dei negoziati Ue con l’Ucraina

    Bruxelles – Per uscire dall’impasse di un vertice che da settimane si preannunciato caldissimo sulla questione dell’Ucraina, bisogna guardare ai dettagli. Su cui alla fine si giocano tutti i compromessi tra i leader dell’Unione. Se ancora non si vede una via d’uscita allo sblocco delle trattative sul supporto finanziario Ue a medio/lungo termine a Kiev, lo scoglio dei negoziati di adesione dell’Ucraina all’Unione Europea potrebbe vedere una luce politica in fondo a un tunnel che – verosimilmente – occuperà buona parte della prima giornata di Consiglio Europeo.Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, accoglie il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (14 dicembre 2023)“L’allargamento non è una questione teorica, è un processo basato sul merito e dettagliato a livello giuridico con pre-condizioni”, ha messo in chiaro questa mattina (14 dicembre) al suo arrivo al Consiglio Europeo un agguerrito Viktor Orbán, il vero responsabile dello stallo al tavolo dei capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri. Il premier ungherese ha voluto sottolineare che “abbiamo fissato 7 pre-condizioni” per l’avvio dei negoziati di adesione dell’Ucraina e “anche dalla valutazione della Commissione Europea 3 pre-condizioni non sono state soddisfatte”. È così che – almeno nel merito della questione, senza considerare il ricatto sul piano dello sblocco dei fondi Ue all’Ungheria – si spiega l’ostruzionismo del leader ungherese: “Nelle mie stime sono anche di più [le pre-condizioni non soddisfatte, ndr], ma 3 sono abbastanza per dire che non c’è la possibilità di iniziare ora a negoziare l’appartenenza dell’Ucraina all’Unione”. Alle domande della stampa su un possibile compromesso durante le discussioni di oggi, Orbán ha voluto ricordare che “le pre-condizioni non sono state fissate dall’Ungheria ma dalla Commissione Europea, sono pubbliche”.Ciò a cui il premier ungherese si riferisce sono le priorità fissate dall’esecutivo comunitario e accettate dai Ventisette nel momento della concessione all’Ucraina dello status di candidato all’adesione al Consiglio Europeo del 23 giugno 2022. Già a giugno di quest’anno – come rilevato dal report orale della Commissione – erano state completate 2 pre-condizioni su 7 (riforma di due organi giudiziari e area dei media), con altre 2 portate a compimento nei quattro mesi successivi: riforme della Corte Costituzionale e norme anti-riciclaggio, come si legge nel Pacchetto Allargamento 2023. Le priorità ancora non pienamente soddisfatte sono quelle che riguardano lotta alla corruzione, riduzione dell’influenza degli oligarchi e protezione delle minoranze nazionali. Secondo quanto ha reso noto la stessa presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, lo scorso 8 novembre in occasione della pubblicazione del Pacchetto, “presenteremo un nuovo rapporto a marzo 2024“, in cui saranno valutati i progressi dell’Ucraina (ma anche della Moldova e della Georgia) sulle pre-condizioni ancora pendenti. La fiducia al Berlaymont – e in 26 capitali su 27 – risiede nel fatto che a Kiev “la decisione di concedere lo status di candidato all’Ue ha creato una potente dinamica di riforma, nonostante la guerra in corso, con un forte sostegno da parte del popolo ucraino”, si legge nel report specifico.È qui che si inserisce la delicata questione dell’avvio dei negoziati di adesione. La raccomandazione della Commissione al Consiglio Europeo è sì quella di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina, ma anche quella di adottare i quadri negoziali “una volta che saranno implementante alcune misure chiave”. La differenza è sottile, ma sostanziale. Il Consiglio Europeo – l’organismo che definisce le priorità e gli indirizzi politici generali dell’Unione – ha il compito di prendere una decisione politica sull’inizio del processo di adesione di un Paese terzo e sul momento più decisivo (l’avvio dei negoziati, appunto). Ma il compito di mettere a terra la decisione in modo formale è del Consiglio dell’Unione Europea – l’organo decisionale che rappresenta i governi dei 27 Paesi membri e detiene il potere legislativo insieme al Parlamento Europeo – che secondo i Trattati ha l’ultima parola a riguardo: “I negoziati di adesione non possono iniziare finché tutti i governi dell’Ue non concordano, sotto forma di decisione unanime del Consiglio dell’Ue, su un quadro o un mandato per i negoziati con il Paese candidato”.In altre parole, al vertice dei 27 leader di oggi e domani si può decidere per una soluzione politica (avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina) ma senza che questo implichi il fatto che Kiev possa bypassare il completamento delle 3 pre-condizioni mancanti. La nuova valutazione sarà rimandata – come precisato dal gabinetto von der Leyen – al report di marzo 2024, con la decisione formale e finale da parte dei 27 governi dell’Ue in Consiglio. Senza che comunque venga meno il diritto di veto su cui si sta facendo forte il premier Orbán in questi giorni. Se si concretizzerà questo scenario, è presumibile che venga posto l’accento nelle conclusioni del vertice dei 27 leader sul ruolo del Consiglio dell’Ue per l’adozione del quadro negoziale. Al momento la bozza visionata da Eunews riporta che il Consiglio Europeo “decide di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldova” e “invita il Consiglio [dell’Unione Europea, ndr] ad adottare i rispettivi quadri negoziali una volta adottate le misure” indicate nelle conclusioni sull’allargamento del Consiglio Affari Generali di martedì (12 dicembre)L’Ucraina e non solo. Come si aderisce all’UeIl processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.Solo per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.

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    La settimana dell’allargamento è ostaggio di Orbán. Pressing a Bruxelles per sbloccarla

    Bruxelles – È iniziato il conto alla rovescia di una settimana cruciale per le prospettive di allargamento Ue, ma anche per una delle prove più delicate di unità dei Ventisette. Il premier ungherese, Viktor Orbán, da settimane sta aumentando la pressione su due appuntamenti di estrema importanza per il futuro dell’Unione, che in diverse modalità si intersecano e dipendono dalla volontà dell’uomo forte di Budapest sull’Ucraina: il vertice Ue-Balcani Occidentali di mercoledì (13 dicembre) e il Consiglio Europeo di giovedì e venerdì (14-15 dicembre).Da sinistra: il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán, a Budapest (27 novembre 2023)“Sicuramente il veto di Orbán sarà in cima all’agenda delle discussioni all’ordine del giorno, spero che l’unità europea non verrà spezzata, perché non è il momento di indebolire il nostro supporto all’Ucraina”, è stato il commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, facendo ingresso al Consiglio Affari Esteri di oggi (11 dicembre) a Bruxelles. A nulla sembra essere servito il viaggio del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, a Budapest lo scorso 27 novembre per tentare una difficilissima mediazione con Orbán: solo una settimana fa lo stesso premier ungherese ha inviato a Michel una lettera per esortarlo a cancellare dall’agenda del vertice tutti i punti sulle decisioni inerenti a Kiev – dall’avvio dei negoziati di adesione al sostegno finanziario – “fino a quando non si trova un consenso sulla nostra futura strategia nei confronti dell’Ucraina”. E niente si è mosso negli ultimi giorni, nemmeno nel corso dei confronti bilaterali con il presidente francese, Emmanuel Macron, e con il premier spagnolo, Pedro Sánchez.È così che, a due giorni dall’avvio della tre-giorni di vertici a Bruxelles, l’allargamento Ue è ancora ostaggio del potere di veto di Budapest. Perché – come ricordato puntualmente dal ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, oggi a Bruxelles – “l’allargamento è un processo vasto che non copre solo l’Ucraina, non voglio neanche pensare allo scenario di un fallimento generale su questo tema“. In altre parole, per quanto potrà essere di successo il vertice Ue-Balcani Occidentali (in programma dalle ore 17 di mercoledì), non si potrà esultare fino a quando non saranno messe nero su bianco le conclusioni “gradite” del Consiglio Europeo sull’avvio dei negoziati di adesione per l’Ucraina, così come raccomandato dalla Commissione Ue lo scorso 8 novembre. La motivazione ha trovato una sintesi nelle parole del ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis: “Se non ci sarà una soluzione positiva, arriveranno tempi bui, l’unico modo in cui leggo la posizione dell’Ungheria è che si posiziona contro l’Unione e tutto ciò che fa”. Percorso di allargamento Ue e di riforma interna inclusi.Il tempo scarseggia per cercare di sbloccare l’impasse, ma a Bruxelles è intensa la pressione diplomatica da parte di quasi tutti i governi per scongiurare un fallimento su tutta la linea questa settimana. “Mi auguro che da parte ungherese si possa compiere un passo in avanti, anche dopo la decisione di garantire la libertà di insegnamento della lingua ungherese per la minoranza che vive in Ucraina”, ha spiegato alla stampa europea il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani: “Spero che si possa procedere con una posizione favorevole da parte di Budapest verso la nostra posizione”. Più dura la collega finlandese, Elina Valtonen: “La posizione dell’Ungheria è stata davvero deplorevole nel corso degli ultimi mesi”. Rispondendo alle domande su come superare lo stallo, il ministro lettone Arturs Kariņš ha ricordato che “la Commissione sta valutando tutte le opzioni per superare l’impasse, la nostra missione di politici è trovare soluzioni”. Il riferimento è all’atteso sblocco “fino a un tetto massimo” di 10 miliardi di euro “prima del 15 dicembre” dai fondi della politica di coesione (su un totale di 28,6 miliardi congelati) – come hanno reso noto alti funzionari europei – dopo aver dato il via libera al capitolo RePowerEu da 4,6 miliardi di euro, con i suoi 900 milioni di euro di pre-finanziamento automatico e non vincolato.L’allargamento Ue ai vertici di BruxellesIl tema dell’allargamento sarà per evidenti motivi prioritario al vertice Ue-Balcani Occidentali che, come riferiscono fonti Ue, si soffermerà sui progressi dell’ultimo anno (dal summit di Tirana del 6 dicembre 2022). Saranno valutate le notizie positive in arrivo dal Montenegro – che “nel giro dei prossimi sei mesi” ci si aspetta possa “chiudere i capitoli 23 e 24” dei negoziati di adesione Ue – si dovrà considerare la possibilità di disaccoppiare il percorso di adesione di Albania e Macedonia del Nord – anche se “non è l’opzione che vogliamo” – e si farà il punto sull’anno complicatissimo per i rapporti tra Serbia e Kosovo e i riflessi sul dialogo Pristina-Belgrado. Ma soprattutto si dovrà considerare come posizionarsi nei confronti della Bosnia ed Erzegovina, in questo momento in un bivio tra il percorso europeo e le sirene secessioniste nella Republika Srpska di Milorad Dodik.È qui che va considerato quanto sarà inserito all’ordine del giorno del Consiglio Europeo al via il giorno successivo al vertice Ue-Balcani Occidentali. “Il Consiglio è pronto ad avviare i negoziati di adesione all’Ue con la Bosnia ed Erzegovina, una volta raggiunto il necessario grado di conformità ai criteri di adesione“, si legge nella bozza delle conclusioni del vertice dei leader Ue visionata da Eunews. Niente di nuovo rispetto alla raccomandazione della Commissione Europea, ma non va dimenticato che l’ombra lunga di Orbán incombe anche nel caso dell’allargamento Ue alla Bosnia ed Erzegovina. Di fronte alle politiche secessioniste di Dodik e alla vicinanza sempre più esplicita all’autocrate Vladimir Putin dopo l’invasione russa dell’Ucraina (non dissimulate nemmeno dal premier ungherese), l’Unione Europea ha già un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato. Tuttavia, come rivelato da fonti Ue a Eunews, è proprio l’Ungheria a non permettere il via libera per la vicinanza politica tra Orbán e il leader serbo-bosniaco che vuole la secessione da Sarajevo.Rispetto a quanto raccomandato dal gabinetto di Ursula von der Leyen nel Pacchetto Allargamento Ue 2023, la partita si giocherà in particolare su quello che nella bozza delle conclusioni compare al punto 14 e 15: “Il Consiglio Europeo decide di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldova” e invita i 27 ministri competenti ad “adottare i rispettivi quadri negoziali una volta adottate le misure indicate” dal Consiglio Affari Generali. In attesa anche la Georgia, per cui si dovrebbe decidere di “concedere lo status di Paese candidato“, ma con l’allargamento Ue in ostaggio di Budapest niente è certo al momento. Perché, come spiegano senza troppi giri di parole le fonti Ue, se il percorso dell’Ucraina sarà bloccato da Orbán “non sappiamo ancora se altri Paesi faranno dei collegamenti sul processo basato sul merito anche per gli altri candidati“.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    In Ungheria è andato in scena uno strano trasferimento di prigionieri ucraini dalla Russia. L’Ue: “Budapest chiarisca”

    Bruxelles – È oscura la vicenda del trasferimento in Ungheria di 11 prigionieri di guerra ucraini nelle mani dell’esercito russo fino al 9 giugno. Non si è trattato di un normale scambio di ostaggi mediato da un Paese terzo (per quanto l’Ungheria sia un membro dell’Unione Europea e a livello teorico nettamente schierato sulla guerra in corso), dal momento in cui tutta l’operazione è avvolta dal mistero e di certo c’è solo che non è stata coordinata con Kiev. È un trasferimento strano perché è stato proposto dalla Chiesa ortodossa russa, perché il governo ungherese sostiene di non saperne nulla, ma allo stesso tempo quello ucraino lo accusa di non permettere i contatti con i suoi soldati.
    Da sinistra: il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán
    “Le autorità competenti dell’Ungheria devono spiegare alle controparti ucraine cosa è accaduto, come è accaduto, chi è stato coinvolto, qual è stato il ruolo dell’Ungheria e come è stato gestito con l’Ucraina”, Paese i cui cittadini “sono stati fatti prigionieri di guerra dall’aggressore russo”. È quanto messo in chiaro oggi (21 giugno) nel corso del punto con la stampa di Bruxelles dal portavoce del Servizio per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, rispondendo alle perplessità dei giornalisti sul fatto che un membro dell’Unione possa aver tenuto all’oscuro gli altri 26 Paesi membri e soprattutto l’Ucraina su un’operazione di rilascio di prigionieri di guerra con l’esercito di Vladimir Putin (a fronte di quale prezzo al momento non è dato sapere). “Chiederemo alle autorità ungheresi maggiori informazioni su quanto accaduto”, ha anticipato il portavoce, precisando che “spetta loro spiegare alle autorità ucraine i dettagli e la partecipazione su questo caso“.
    A quanto si apprende da funzionari del governo ungherese, il trasferimento degli 11 prigionieri di guerra ucraini sarebbe stato organizzato dalla Chiesa ortodossa russa e dal Servizio di beneficenza ungherese dell’Ordine di Malta, senza il coinvolgimento del governo di Budapest né con il coordinamento di Kiev. I soldati sarebbero tutti originari della Transcarpazia, regione sud-occidentale dell’Ucraina con una consistente comunità ungherese, di cui solo tre sono stati rimpatriati ieri (20 giugno) nel Paese. Da Kiev son arrivate accuse al governo Orbán per aver organizzato un’operazione segreta con il fine di aumentare la propria popolarità interna, impedendo al governo ucraino di mettersi in contatto con i membri del suo esercito. Dal capo di gabinetto del premier ungherese, Gergely Gulyas, è arrivata una netta smentita: “Non sono prigionieri di guerra da un punto di vista legale in Ungheria, possono lasciare il Paese in qualsiasi momento, non li controlliamo o monitoriamo”.
    Il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán
    A prescindere dal coinvolgimento delle autorità ungheresi (anche se l’eventualità rappresenterebbe uno scenario sconcertante per un Paese membro dell’Ue), è evidente che i rapporti tra Kiev e Budapest – ma anche tra Bruxelles e Budapest – sono ai minimi storici. Il premier Orbán non ha mai nascosto le sue simpatie per l’autocrate russo Putin, con cui ha ancora forti legami politici ed economici mai recisi nemmeno con l’invasione dell’Ucraina dal 24 febbraio 2022. L’Ungheria è sempre una spina nel fianco dell’Unione quando si tratta di dare il via libera a nuove sanzioni contro Mosca e negli ultimi mesi anche allo stanziamento di nuovi finanziamenti a Kiev, ma soprattutto sul piano energetico (una delle sfide più grandi per l’Ue nell’affrontare la dipendenza dalle fonti fossili russe). Il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjártó, è stato il primo politico di un Paese membro a recarsi a Mosca per stringere un accordo per maggiori forniture di gas rispetto ai volumi previsti dal contratto a lungo termine che dal 2021 lega Budapest e Mosca. Il tutto quando manca un anno all’avvio della presidenza di turno ungherese del Consiglio dell’Ue: dal primo luglio 2024 il governo Orbán avrà in mano le chiavi di una delle tre istituzioni comunitarie per sei mesi.

    La Commissione Europea vuole che il governo di Viktor Orbán spieghi “cosa è accaduto, come è accaduto, chi è stato coinvolto” nella vicenda del trasferimento segreto di 11 soldati rilasciati su proposta della Chiesa ortodossa russa in un’operazione non coordinata con Kiev