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    In Ungheria è andato in scena uno strano trasferimento di prigionieri ucraini dalla Russia. L’Ue: “Budapest chiarisca”

    Bruxelles – È oscura la vicenda del trasferimento in Ungheria di 11 prigionieri di guerra ucraini nelle mani dell’esercito russo fino al 9 giugno. Non si è trattato di un normale scambio di ostaggi mediato da un Paese terzo (per quanto l’Ungheria sia un membro dell’Unione Europea e a livello teorico nettamente schierato sulla guerra in corso), dal momento in cui tutta l’operazione è avvolta dal mistero e di certo c’è solo che non è stata coordinata con Kiev. È un trasferimento strano perché è stato proposto dalla Chiesa ortodossa russa, perché il governo ungherese sostiene di non saperne nulla, ma allo stesso tempo quello ucraino lo accusa di non permettere i contatti con i suoi soldati.
    Da sinistra: il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán
    “Le autorità competenti dell’Ungheria devono spiegare alle controparti ucraine cosa è accaduto, come è accaduto, chi è stato coinvolto, qual è stato il ruolo dell’Ungheria e come è stato gestito con l’Ucraina”, Paese i cui cittadini “sono stati fatti prigionieri di guerra dall’aggressore russo”. È quanto messo in chiaro oggi (21 giugno) nel corso del punto con la stampa di Bruxelles dal portavoce del Servizio per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, rispondendo alle perplessità dei giornalisti sul fatto che un membro dell’Unione possa aver tenuto all’oscuro gli altri 26 Paesi membri e soprattutto l’Ucraina su un’operazione di rilascio di prigionieri di guerra con l’esercito di Vladimir Putin (a fronte di quale prezzo al momento non è dato sapere). “Chiederemo alle autorità ungheresi maggiori informazioni su quanto accaduto”, ha anticipato il portavoce, precisando che “spetta loro spiegare alle autorità ucraine i dettagli e la partecipazione su questo caso“.
    A quanto si apprende da funzionari del governo ungherese, il trasferimento degli 11 prigionieri di guerra ucraini sarebbe stato organizzato dalla Chiesa ortodossa russa e dal Servizio di beneficenza ungherese dell’Ordine di Malta, senza il coinvolgimento del governo di Budapest né con il coordinamento di Kiev. I soldati sarebbero tutti originari della Transcarpazia, regione sud-occidentale dell’Ucraina con una consistente comunità ungherese, di cui solo tre sono stati rimpatriati ieri (20 giugno) nel Paese. Da Kiev son arrivate accuse al governo Orbán per aver organizzato un’operazione segreta con il fine di aumentare la propria popolarità interna, impedendo al governo ucraino di mettersi in contatto con i membri del suo esercito. Dal capo di gabinetto del premier ungherese, Gergely Gulyas, è arrivata una netta smentita: “Non sono prigionieri di guerra da un punto di vista legale in Ungheria, possono lasciare il Paese in qualsiasi momento, non li controlliamo o monitoriamo”.
    Il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán
    A prescindere dal coinvolgimento delle autorità ungheresi (anche se l’eventualità rappresenterebbe uno scenario sconcertante per un Paese membro dell’Ue), è evidente che i rapporti tra Kiev e Budapest – ma anche tra Bruxelles e Budapest – sono ai minimi storici. Il premier Orbán non ha mai nascosto le sue simpatie per l’autocrate russo Putin, con cui ha ancora forti legami politici ed economici mai recisi nemmeno con l’invasione dell’Ucraina dal 24 febbraio 2022. L’Ungheria è sempre una spina nel fianco dell’Unione quando si tratta di dare il via libera a nuove sanzioni contro Mosca e negli ultimi mesi anche allo stanziamento di nuovi finanziamenti a Kiev, ma soprattutto sul piano energetico (una delle sfide più grandi per l’Ue nell’affrontare la dipendenza dalle fonti fossili russe). Il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjártó, è stato il primo politico di un Paese membro a recarsi a Mosca per stringere un accordo per maggiori forniture di gas rispetto ai volumi previsti dal contratto a lungo termine che dal 2021 lega Budapest e Mosca. Il tutto quando manca un anno all’avvio della presidenza di turno ungherese del Consiglio dell’Ue: dal primo luglio 2024 il governo Orbán avrà in mano le chiavi di una delle tre istituzioni comunitarie per sei mesi.

    La Commissione Europea vuole che il governo di Viktor Orbán spieghi “cosa è accaduto, come è accaduto, chi è stato coinvolto” nella vicenda del trasferimento segreto di 11 soldati rilasciati su proposta della Chiesa ortodossa russa in un’operazione non coordinata con Kiev

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    Via libera dalla Turchia all’ingresso della Finlandia nella Nato. La Svezia rimane ancora alla finestra

    Bruxelles – Dentro la Finlandia, ancora attesa per la Svezia. I due Paesi scandinavi, che quasi un anno fa hanno impresso una svolta strategica storica per le rispettive politiche di sicurezza nazionale, alla fine non concluderanno mano nella mano il processo di adesione all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), come per mesi sperato e dichiarato pubblicamente. Perché per Helsinki è arrivato in una settimana il doppio via libera all’ingresso nella Nato prima dall’Ungheria e poi dalla Turchia – gli unici due dei 30 Paesi membri che ancora non avevano ratificato il protocollo di adesione – mentre per Stoccolma la situazione è ancora di stallo e, per il momento, non si vede una via d’uscita.
    “Tutti i 30 membri della Nato hanno ratificato l’adesione della Finlandia”, ha annunciato nella tarda serata di ieri (30 marzo) il presidente finlandese, Sauli Niinistö, rivolgendo un ringraziamento “per la fiducia e il sostegno, saremo un alleato forte e capace, impegnato nella sicurezza dell’Alleanza”. Una dichiarazione arrivata a stretto giro rispetto al voto della Grande Assemblea Nazionale Turca (il Parlamento monocamerale della Turchia), che ha ratificato all’unanimità il protocollo di adesione del Paese scandinavo. Il via libera da Ankara è arrivato dopo mesi di temporeggiamento – il protocollo di adesione di Finlandia e Svezia è stato firmato il 5 luglio dello scorso anno – dal momento in cui i due Paesi hanno portato avanti insieme la candidatura e nelle intenzioni del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, l’allargamento si sarebbe dovuto realizzare come pacchetto unico entro il Summit di Vilnius del prossimo 11-12 luglio.
    La firma del memorandum d’intesa Nato tra Turchia, Svezia e Finlandia a Madrid (28 giugno 2022)
    Ma Turchia e Ungheria (quest’ultima ha ratificato il 27 marzo il protocollo di adesione di Helsinki) hanno tenuto e continuano a tenere bloccata la Svezia, anche se per ragioni differenti, e di fatto hanno costretto gli altri membri dell’Alleanza ad accettare lo ‘spacchettamento’ per la Finlandia: come precisato dal segretario generale Stoltenberg, il Paese diventerà “fra pochi giorni” il 31esimo membro della Nato. Stoccolma rimane ancora in attesa della fine del costante ricatto in merito all’estradizione dei membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), legato anche a questioni di politica interna. Di fronte al rischio di perdere per la prima volta in 20 anni il potere alle cruciali elezioni del 14 maggio, il presidente Recep Tayyip Erdoğan non avrebbe nessun interesse nello sbloccare le trattative con la Svezia prima di essersi assicurato la riconferma, dal momento in cui l’intransigenza sulla questione curda rimane uno dei temi centrali della sua leadership politica. Per l’Ungheria invece lo stallo è motivato dal contrasto diplomatico tra i due Paesi membri Ue (fino a luglio la Svezia detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue) per le critiche di Stoccolma sull’erosione dello Stato di diritto determinato dal governo di Viktor Orbán, come ha messo in chiaro il portavoce dell’esecutivo ungherese.
    “La Finlandia è al fianco della Svezia ora e in futuro e ne sostiene l’adesione”, ha ribadito con forza la prima ministra finlandese, Sanna Marin, che domenica (2 aprile) dovrà affrontare un delicatissimo appuntamento elettorale in patria. Anche il segretario generale della Nato Stoltenberg si attende di “accogliere il prima possibile la Svezia come membro a pieno diritto della famiglia Nato”, dal momento in cui “tutti gli alleati sono d’accordo che una conclusione rapida” del processo di ratifica per Stoccolma “è nell’interesse di tutti“. Tutti, meno Turchia e Ungheria, per il momento.

    #Finland 🇫🇮 will formally join our Alliance in the coming days. Their membership will make Finland safer & #NATO stronger. I look forward to also welcoming #Sweden 🇸🇪 as a full member of the NATO family as soon as possible.
    —@jensstoltenberg pic.twitter.com/ueaOwWdLaX
    — Oana Lungescu (@NATOpress) March 31, 2023

    Come si entra nella Nato
    Per diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso nella Nato di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.
    La procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale della Nato a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.
    Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

    Dopo mesi di temporeggiamento anche la Grande Assemblea Nazionale Turca ha ratificato il protocollo di adesione di Helsinki all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Stoccolma bloccata sia da Ankara per la questione estradizioni, sia dall’Ungheria di Viktor Orbán

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    Congelamento fondi di coesione all’Ungheria, Orban ringrazia i leader Ue per la proroga al 19 dicembre

    Bruxelles – Prove di distensione tra le istituzioni europee e Viktor Orban: il premier ungherese ha voluto ringraziare personalmente in una lettera i leader Ue, per la decisione di estendere di due mesi, al 19 dicembre, il termine entro il quale il Parlamento di Budapest dovrà attuare le 17 misure concordate con la Commissione, necessarie a sbloccare 7,5 miliardi di fondi di coesione destinati all’Ungheria.
    Orban ha sottolineato “l’approccio costruttivo” dimostrato dai governi europei, che “consentirà all’Ungheria di completare il processo come concordato”. Oltre a ribadire la “condivisione dei valori su cui è fondata l’Unione Europea”, il premier ungherese ha voluto aggiungere che Budapest è “impegnata nella protezione degli interessi finanziari dell’Unione, poiché è nel nostro interesse comune garantire un uso trasparente ed efficiente delle tasse dei contribuenti europei, comprese quelle di cittadini e delle società ungheresi”.

    🇪🇺EU member states extended🇭🇺Hungary’s deadline until Dec 19, 2022 to implement the 17 measures agreed with the @EU_Commission on EU funds. @PM_ViktorOrban welcomed the decision and thanked in a letter the #EU countries’ leaders for their governments’ #constructive approach. pic.twitter.com/HJz5GDPmSK
    — Balázs Orbán (@BalazsOrban_HU) October 14, 2022

    La decisione presa dagli ambasciatori dei Paesi membri, che potrebbe essere approvata già martedì 18 ottobre al Consiglio Affari Generali, era in realtà stata già messa in preventivo lo scorso settembre, quando la ministra della Giustizia ungherese, Judit Varga, aveva affermato  l’impossibilità di attuare le riforme prima di metà novembre.
    Orban ha così ancora due mesi di tempo per attuare il piano di riforme concordato a settembre con la Commissione, che prevede l’adeguamento alle norme anti-corruzione Ue e maggiori garanzie sul rispetto dello Stato di diritto. Il premier ungherese, che ha concluso la sua lettera ai leader europei con un appello a “rafforzare la solidarietà basata sull’uguaglianza degli Stati membri” sembra questa volta davvero determinato a mantenere le promesse. Anche perché la corda non può essere tirata all’infinito, e mandare in fumo un terzo dei fondi di coesione destinati al proprio Paese, in un momento che Orban stesso ha definito “di sfide senza precedenti”, rischierebbe di trascinare l’Ungheria in una crisi drammatica.

    Il premier ungherese ha ringraziato in una lettera per “l’approccio costruttivo” dimostrato dai governi europei, e ha garantito l’impegno di Budapest nella protezione degli interessi finanziari dell’Unione.

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    È sempre più stretta l’alleanza tra Vučić e Orbán. L’asse contro le sanzioni alla Russia che preoccupa Bruxelles

    Bruxelles – Era solo una questione di tempo per le formalità, perché i segnali del rapporto solidissimo tra Belgrado e Budapest erano già chiari. Il premier dell’Ungheria, Viktor Orbán, ha ricevuto oggi (venerdì 16 settembre) il gran collare dell’Ordine della Repubblica di Serbia – una delle massime onorificenze a capi di Stato e di governo per meriti speciali resi allo Stato e al popolo serbo – direttamente dalle mani del presidente Aleksandar Vučić. “Ringrazio il primo ministro ungherese per il suo forte contributo al miglioramento della cooperazione bilaterale complessiva tra Serbia e Ungheria, che è in costante aumento e ha raggiunto il suo stadio più alto, senza precedenti nella storia moderna”, ha dichiarato nel suo intervento Vučić.
    Un’alleanza che già aveva iniziato a formalizzarsi con lo scambio di onorificenze un anno fa, ma che ora – in un contesto geopolitico sempre più teso a causa delle conseguenze della guerra russa in Ucraina e per il vento nazionalista che si è confermato nei due Paesi alle rispettive elezioni dello scorso 3 aprile – assume caratteristiche sempre più preoccupanti per l’Unione Europea. Bruxelles è direttamente coinvolta anche dalle parole del presidente Vučić – per il sostegno “aperto e inequivocabile dell’Ungheria per la piena adesione della Serbia all’Ue il prima possibile” – in un futuro allargamento al Paese balcanico che solleva timori per il rafforzamento dell’asse illiberale Belgrado-Budapest. Proprio ieri (giovedì 15 settembre) il Parlamento Ue ha definito l’Ungheria di Orbán una “autocrazia elettorale” e ha chiesto alla Commissione il congelamento dei fondi comunitari destinati a Budapest, mentre il regime di Vučić è sotto l’occhio dei partner occidentali su diversi fronti, a partire dal rispetto degli standard democratici e dello Stato di diritto.

    We are grateful to our Hungarian friends, but especially to you, #ViktorOrban, for the open, unequivocal, and constant support you give to Serbia in its pursuit of #EU membership as well as on all significant regional issues, in particular our bilateral cooperation. 🇷🇸🇭🇺 pic.twitter.com/LJyD4uNO0X
    — Александар Вучић (@predsednikrs) September 16, 2022

    Ma a fare notizia sono gli attacchi violenti ed espliciti alla politica delle sanzioni alla Russia di Putin attuata dall’Unione. Non tanto quelli del serbo Vučić – unico leader europeo a non essersi allineato nemmeno a livello di principio – quanto piuttosto quelli dell’ungherese Orbán, che dopotutto farebbe ancora parte dei Ventisette e che quelle misure restrittive ha contribuito a disegnarle (o più spesso a limitarle). “Noi vorremmo che la politica delle sanzioni cambiasse e che Bruxelles la ponesse su basi ragionevoli”, ha dichiarato il leader dell’esecutivo di Budapest, dicendosi convinto che “se le sanzioni contro Mosca fossero revocate, la situazione migliorerebbe immediatamente”. Riferendosi in particolare alle misure restrittive su carbone e petrolio, Orbán ha definito i 27 governi europei “nani che impongono sanzioni contro un gigante energetico” ed è per questo che tutto ciò “minaccia di distruggere l’intero sistema” costruito in Europa, a partire dai Paesi più vicini alla Russia: “Le sanzioni inventate dall’Occidente danneggiano l’Ungheria e l’Europa centrale più di chi contro cui sono applicate, stiamo andando alla deriva in una crisi economica sempre più profonda“.

    (1/3) PM Orbán in Belgrade: “Sanctions invented by the West hurt Hungary and Central Europe more than against whom they are applied. We are drifting into a deepening economic crisis and if sanctions were lifted, the situation would improve immediately.”
    — Zoltan Kovacs (@zoltanspox) September 16, 2022

    Non preoccupano di meno le esternazioni dal punto di vista del rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto. In primis sulla reazione alla risoluzione del Parlamento Ue – “Siamo stufi di questa barzelletta, non ha alcuna importanza” – ma anche per la gestione delle richieste di asilo: “È una missione storica e una responsabilità comune dei due Paesi difendere le porte meridionali dell’Europa, e contrastare i continui flussi migratori“, ha attaccato Orbán, facendo riferimento alla “storia, geografia e la secolare amicizia che ci uniscono”.
    Sul fronte serbo è invece caldissima la questione dei diritti LGBTQ+ e dello svolgimento della Marcia dell’EuroPride di Belgrado di domani (sabato 17 settembre). “Non mi voglio occupare di un tema imposto in modo perverso al popolo serbo, sia da quelli che sono a favore sia da quelli che sono contro, come se fosse questione di vita o di morte”, ha risposto con fastidio Vučić alle domande dei giornalisti sulle notizie sempre più insistenti pubblicate dalla stampa nazionale a proposito della revoca del governo del divieto allo svolgimento della Marcia annunciato martedì (13 settembre) dal ministero dell’Interno. Il governo presieduto da Ana Brnabić (prima premier omosessuale della storia serba) avrebbe confermato alla Commissione Europea di aver fatto concessioni agli organizzatori, accordando lo svolgimento con un percorso più breve. Ma Vučić – che è stato il primo ad annunciare a fine agosto “la cancellazione o la posticipazione” dell’EuroPride – sembra non voler cedere a livello mediatico, non contribuendo di certo a diminuire la tensione e le possibili violenze dell’ala estremista e omofoba del nazionalismo in Serbia.

    NEWS: Government confirms #EuroPride2022 march will go ahead tomorrow @belgradepride, as we and @AllOut and @InterPride submitted 27,000 petitions to the Serbian government. https://t.co/HAbzn2biRR
    — EPOA • EuroPride (@EuroPride) September 16, 2022

    Trovi l’intervista agli organizzatori dell’EuroPride di Belgrado e un’analisi dei rapporti Serbia-Ungheria nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Al premier ungherese è stato conferito il gran collare dell’Ordine della Repubblica di Serbia (una delle più alte onorificenze) per il rafforzamento della cooperazione reciproca. Attacco alla politica dell’Unione sulle misure restrittive contro Mosca: “Come nani contro un gigante energetico”

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    Si fermano (per la quarta volta) le forniture di gas russo via Nord Stream all’Europa. Lavori Gazprom fino al 3 settembre

    Bruxelles – Stop alle forniture di gas, per l’ennesima volta in quest’estate. Da quando l’Unione europea ha annunciato il piano RePowerEu per raggiungere l’indipendenza dalle fonti fossili russe, si continuano a verificare interruzioni al flusso via Nord Stream per questioni tecniche, manutenzioni e lavori sulle stazioni di compressione. E ormai sembra sempre più reale che il taglio del gas verso l’Europa da parte del colosso energetico Gazprom possa diventare irreversibile.
    L’ultima interruzione totale del flusso, annunciata già lo scorso 22 agosto, è scattata alle 5 di mattina (ora italiana) del 31 agosto ed è stata motivata da Gazprom per lavori di manutenzione in una stazione di compressione nel nord della Germania, da dove il gas viene poi esportato in altri Paesi Ue. La conferma è arrivata anche dalla rete europea dei gestori dei sistemi di trasporto del gas (Entsog), che però ha precisato che i lavori si stanno svolgendo in Russia e non nel punto di collegamento europeo. Nord Stream è la principale infrastruttura per il trasporto del gas russo verso il continente, che collega i giacimenti di gas siberiani direttamente alla Germania settentrionale attraverso il Mar Baltico: a capacità massima può trasportare 55 miliardi di metri cubi di gas.
    Il taglio delle forniture di gas da parte di Gazprom dovrebbe durare per tre giorni, fino alle 4 di mattina di sabato 3 settembre (inizialmente era previsto fino al 2 settembre), ma a Bruxelles si teme che prima o poi i flussi possano interrompersi definitivamente. L’avvertimento è arrivato dalla stessa presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, al Bled Strategic Forum (in Slovenia): “L’Ue si deve preparare a una completa interruzione delle forniture dalla Russia”, aveva sottolineato con preoccupazione, parlando della necessità di “mettere fine alla nostra sporca dipendenza dalle fonti fossili russe”. Oggi Nord Stream lavora già al 20 per cento della propria capacità, con il rischio concreto di un aumento della pressione sui governi europei che stanno cercando di aumentare il livello di riempimento degli stoccaggi nazionali di gas prima dell’inverno.

    pic.twitter.com/HybKucrwbY
    — Gazprom (@GazpromEN) August 19, 2022

    Non è la prima volta che si verifica un taglio delle forniture di gas all’Europa da parte di Gazprom. L’infrastruttura Nord Stream era già rimasta ferma per manutenzione programmata a una turbina dall’11 al 21 luglio ed è ripartita a capacità ridotta a circa il 40 per cento rispetto alla norma. A fine luglio il flusso era stato ulteriormente ridotto al 20 per cento, a circa 38 milioni di metri cubi al giorno, rispetto ai 66 delle settimane precedenti alla manutenzione. Ancora prima, a metà giugno, il colosso energetico aveva comunicato che le forniture di gas potevano essere garantite solo fino a un volume di 100 milioni di metri cubi al giorno, invece dei 167 milioni di metri cubi previsti. Tra fine aprile e metà maggio invece erano stati chiusi i rubinetti a Bulgaria, Polonia, Paesi Bassi, Danimarca e Finlandia, per mancati pagamenti in rubli come richiesto dalle autorità russe.
    A seguito di questo ennesimo stop, dall’Italia Eni ha reso noto che “Gazprom ha comunicato la consegna di volumi di gas pari a circa 20 milioni di metri cubi, a fronte di consegne giornaliere pari a circa 27 milioni effettuate nei giorni scorsi”, mentre la presidente della Commissione francese di regolamentazione dell’energia (Cre), Emmanuelle Wargon, ha spiegato che per Parigi “in termini di volumi di fornitura siamo piuttosto fiduciosi sulla possibilità di trascorrere l’inverno senza gas russo”, anche se “ci sarà un impatto sui prezzi“. Il flusso di gas russo verso la Francia si fermerà completamente domani (primo settembre), ma “fortunatamente non cambierà molto” per i consumatori, ha rassicurato Wargon. Intanto però l’Ungheria segue una strada diversa e, mentre sta aumentando i livelli di riempimento degli stoccaggi di gas, il governo di Viktor Orbán ha firmato un contratto con il colosso energetico russo Gazprom per un quantitativo massimo di circa 5,8 milioni di metri cubi di gas naturale in più su base giornaliera.

    BREAKING: Hungary exceeds EU-sanctioned natural gas reserve levels more than two months ahead of deadline. With 3.88 billion m3 gas stored, Hungary’s reserves stand at 61.31 percent capacity.
    — Zoltan Kovacs (@zoltanspox) August 30, 2022

    Il colosso energetico russo ha interrotto il flusso questa mattina, per un’interruzione annunciata di tre giorni legata alle operazioni in una stazione di compressione in Russia (non nel nord della Germania come precedentemente annunciato). Si teme che lo stop possa diventare definitivo

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    Szijarto vola a Mosca per chiedere più gas, con l’Ungheria si sfalda il fronte anti-Russia

    Bruxelles – L’Ungheria si sfila. La politica dell’UE in materia di energia viene nei fatti stralciata dal governo di Viktor Orban, che rompe le righe e discute con Mosca di nuove forniture energetiche e pià gas. Una mossa che vanifica gli sforzi per sottrarsi dalla dipendenza russa, sconfessa la Commissione europea e la sua strategia anti-Gazprom RePowerEU, e che fa della repubblica dell’est l’alleato più prezioso che il Cremlino possa avere in questo momento storico. Il ministro degli Esteri ungherese ha condotto una missione nella capitale russa per tessere, a nome del proprio interesse nazionale, nuove relazioni con la federazione russa. Sono state avanzate richieste di maggiori forniture di gas, che la Russia “valuterà”.
    La visita di Peter Szijjarto e il suo incontro non solo con il ministro degli Esteri del Cremlino, Sergei Lavrov, ma con  il viceprimo ministro, Alexander Novak, e il ministro per il Commercio, Denis Manturov, dimostra l’azione e l’intenzione degli ungheresi. I partner europei non possono non guardare con preoccupazione ad una condotta che sfalda il blocco dei Ventisette. Ma in questo momento l’Ungheria ha deciso che da soli è meglio con gli alleati a dodici stelle. Avanti dunque con l’energia russa.
    Mosca guarda con attenzione questa insubordinazione ungherese, e valuta ricompense. “La situazione politica oggi è complicata”, premette il vice primo ministro russo in riferimento al braccio di ferro tra il suo Paese e l’Europa fatto di sanzioni senza precedenti. “Ma apprezziamo la posizione del governo ungherese, che difende costantemente i propri interessi nazionali”, continua Novak, consapevole che grazie all’Ungheria la morsa europea può allentarsi se non addirittura arrivare a scomparire. “Siamo determinati a sviluppare ulteriormente le nostre relazioni, anche nel settore energetico“. Vuol dire più gas. Un messaggio che vale in realtà per tutti quelli che vorranno seguire le orme ungheresi.
    L’Ungheria sembra aver abbandonato completamente i piani dell’UE. Sicuramente quello della Commissione per ridurre i consumi del 15 per cento della fonte che arriva via tubatura non soddisfa il ‘grande capo’. Parlando ai giovani del suo Paese, Orban mette in chiaro che la solidarietà non rientra nelle opzioni dell’Ungheria contemporanea. “Non vedo come sarà applicata” questa strategia, critica. “Inoltre, se non produce l’effetto desiderato e qualcuno non ha abbastanza gas, verrà sottratto a chi ce l’ha”. Il primo ministro lo dice chiaro e tondo. “Quindi che la Commissione europea sta facendo non è chiedere ai tedeschi di annullare la chiusura delle ultime due o tre centrali nucleari ancora in funzione, che consentono loro di produrre energia a basso costo: è far chiudere quelle centrali. E se esauriscono l’energia, in qualche modo prenderanno il gas da noi che ce l’abbiamo, perché l’abbiamo accumulato. Questo è ciò per cui possiamo prepararci”. ‘No’ a quest’Europa e ‘sì’ alla Russia.

    Il ministri degli Esteri ungherese incontra tre membri del governo russo per rilanciare la cooperazione economica ed energetica. Orban boccia la strategia della Commissione: “Ci rubano le nostre riserve”

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    Ucraina e Rule of Law: come cambiano gli equilibri nell’Unione

    L’invasione russa in Ucraina supera i cento giorni e le priorità europee cambiano di conseguenza. L’Unione sembra infatti aver premuto il tasto pausa su vari punti della sua agenda politica, al fine di concentrare tutte le sue forze nella ricerca di una risposta coordinata e unitaria a sostegno del popolo ucraino.
    La tutela della Rule of Law nell’Unione europea
    Sono sotto gli occhi tutti, da diversi anni, le dinamiche regressive che caratterizzano le politiche di alcuni Stati membri dell’Unione circa la protezione dello Stato di Diritto. L’Ungheria, in particolare, ha già da tempo introdotto una serie di misure volte all’instaurazione di un regime illiberale, concretizzatesi attraverso la repressione, su larga scala, della libertà di stampa, delle prerogative delle opposizioni e dei diritti delle minoranze. La Polonia, al contempo, ha posto in essere numerose riforme che minacciano l’indipendenza del potere giudiziario – e, di conseguenza, il principio della separazione dei poteri. Quest’ultimo, ideato espressamente per proteggere i cittadini dal rischio di arbitrarietà del potere esecutivo, costituisce uno dei capisaldi della Rule of Law su cui l’Unione si fonda. In questo contesto, inoltre, si sono spesso inserite riforme legislative ed iniziative politiche volte a ledere i diritti di persone appartenenti a minoranze, talvolta mettendo in discussione la loro stessa esistenza. Basti pensare, ad esempio, alle cosiddette “LGBT-free zones” dichiarate da numerose municipalità polacche.
    Parallelamente, sono oramai noti a tutti l’insufficienza e i limiti degli strumenti posti a disposizione delle istituzioni UE per far fronte a queste dinamiche. Le numerose procedure di infrazione attivate nei confronti di Ungheria e Polonia – nonché le conseguenti pronunce della Corte di Giustizia – sembrano infatti aver esaurito tutto il loro potenziale. E ciò non stupisce affatto, in quanto esse rappresentano uno strumento ideato per le violazioni tecnico-giuridiche, e non per rispondere a problematiche politiche di carattere sistemico. Il meccanismo di cui all’articolo 7 TUE (che, in breve, permetterebbe al Consiglio di imporre sanzioni politiche ad uno Stato membro in caso di violazioni costanti e persistenti dello Stato di Diritto) è stato attivato sia nei confronti della Polonia che dell’Ungheria, nel 2017 e nel 2018 rispettivamente. La concreta imposizione delle sanzioni, tuttavia, continua a rimanere bloccata dal requisito dell’unanimità.
    Infine, uno strumento nuovo e ulteriore è rappresentato dal Regolamento 2020/1092 (c.d. “Meccanismo di condizionalità”), il quale consente all’Unione di sospendere l’erogazione di fondi derivanti dal proprio bilancio ad un Paese che ponga in essere violazioni della Rule of Law idonee a compromettere la sana gestione finanziaria del bilancio UE. Tale meccanismo, peraltro recentemente attivato nei confronti dell’Ungheria, costituisce sicuramente un nuovo asset a disposizione dell’Unione; le sue potenzialità, tuttavia, sembrano limitate difronte al processo di regressione sistemica che caratterizza i due Stati membri.
    Lo scoppio della guerra in Ucraina: cambio di passo?
    Al di là dell’inefficienza degli strumenti europei posti a tutela dello Stato di Diritto, una cosa, almeno fino ad ora, è sempre stata chiara: la posizione delle istituzioni UE. Il Parlamento europeo, in questo contesto, è intervenuto nel dibattito adottando numerose Risoluzioni, con le quali ha espressamente e costantemente condannato le dinamiche regressive che caratterizzano Polonia e Ungheria. La Commissione, al contempo, ha (quasi) sempre mantenuto una posizione analoga, spesso anche ricorrendo all’utilizzo di strumenti atipici. Peraltro, è proprio questa istituzione ad aver recentemente attivato il meccanismo di cui al Regolamento 2020/2092 contro l’Ungheria, nonostante le reticenze iniziali.
    Ciononostante, questo paradigma appare oggi decisamente cambiato. La drammatica invasione russa dell’Ucraina, come accennato, ha influenzato notevolmente l’agenda politica dell’Unione e dei suoi Stati membri. Tra i vari temi che tale situazione ha (legittimamente) sollevato, vi è quello relativo all’accoglienza di rifugiati ucraini nel territorio di tutti gli Stati membri UE. Nonostante l’impegno congiunto dei 27, tale accoglienza – in un’ottica quantitativa – non ha riguardato tutti allo stesso modo. Alcuni Paesi, soprattutto a causa della loro posizione geografica, sono stati chiamati ad uno sforzo decisamente maggiore. Tra questi figurano, in particolare, Polonia e Ungheria. Stando ai dati più recenti, infatti, si stima che la prima stia accogliendo oltre 2,7 milioni di cittadini ucraini in fuga, contro i 454 mila della seconda.
    Un tale (s)bilanciamento, come ci si aspettava, è tutt’altro che privo di effetti sugli equilibri interni all’Unione europea, la quale rappresenta un’entità soggetta a geometrie politiche idonee a mutare continuamente. Tale mutevolezza è dovuta anche e soprattutto alla “struttura ibrida” dell’Unione, spesso caratterizzata da procedure e regole di voto altamente complesse, le quali richiedono una continua interazione tra attori puramente sovranazionali (quali il Parlamento e la Commissione) e governi degli Stati membri.
    In ogni caso, l’emblema di questo cambio di passo è rappresentato dall’approvazione, avvenuta lo scorso 1° giugno, del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) presentato dalla Polonia nell’ambito del programma Next Generation EU. La non ancora avvenuta approvazione del piano polacco, fino a pochi giorni fa, è sempre stata ricollegata ai numerosi dubbi relativi al rispetto dei valori UE da parte del Paese. L’attivismo polacco nell’ambito dell’accoglienza europea di rifugiati ucraini, tuttavia, sembra aver ribaltato questo paradigma, inducendo la Commissione a chiudere un occhio (o forse due!) sul rispetto dei valori sui quali l’Unione europea si fonda. Il non aver (ancora?) riservato lo stesso trattamento all’Ungheria, probabilmente, sembra legato a tre fattori principali: a) il numero più modesto di rifugiati ucraini accolti; b) le violazioni, decisamente più gravi e diffuse, della Rule of Law; c) il rischio, per la Commissione, di entrare in contraddizione con la propria azione, vista la recente attivazione del “meccanismo di condizionalità” contro l’Ungheria.
    Risulta spontaneo chiedersi, in conclusione, quale sarà l’impatto futuro di queste dinamiche. È vero, da un lato, che ciascun Stato membro dispone di un potere di veto – e che, di conseguenza, alcune concessioni si rendono necessarie al fine di superare eventuali blocchi decisionali; è altrettanto vera, dall’altro, la consapevolezza per cui l’Ucraina non sta semplicemente difendendo sé stessa. Essa sta difendendo, come è spesso stato correttamente sottolineato, tutti i valori sui quali l’Europa unita si fonda – dallo Stato di Diritto all’autodeterminazione dei popoli. Fino a che punto, dunque, siamo disposti a chiudere un occhio sul rispetto di questi valori da parte di Stati che sono già membri dell’Unione europea?

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

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    I fondi UE per la Palestina saranno erogati “rapidamente”. L’annuncio di von der Leyen sblocca lo stallo di oltre 6 mesi

    Bruxelles – Si sbloccano i fondi 2021 dell’UE per la Palestina, circa 215 milioni di euro che saranno erogati “rapidamente” dopo il via libera della Commissione. Ad annunciarlo nel corso della sua visita di ieri (martedì 14 giugno) a Ramallah è stata la stessa numero uno dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, felicitandosi che dopo oltre sei mesi sono state superate “tutte le difficoltà” all’interno del suo gabinetto. “Abbiamo chiarito che l’erogazione avverrà”, ha dichiarato durante una conferenza stampa congiunta con il primo ministro palestinese, Mohammad Shtayyeh, la prima del viaggio di due giorni di von der Leyen, che l’ha portata anche in Egitto e Israele per stringere i rapporti in materia di sicurezza energetica e alimentare.
    “È importante avere questi finanziamenti per sostenere la popolazione, soprattutto quella più vulnerabile, perché contribuiscono a creare le condizioni per opportunità economiche“, ha sottolineato la presidente della Commissione UE, a poche ore dalla luce verde arrivata da Bruxelles. Le ha fatto eco l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha ribadito l’importanza di questo passo compiuto a sostegno del popolo palestinese, “dopo l’enorme approvazione della nuova proposta da parte degli Stati membri”. L’alto rappresentante Borrell ha posto l’accento sul “trattamento equo” da parte dell’Unione e sul fatto che “il finanziamento non include la condizionalità per l’istruzione, che andrebbe contro i principi” dei Ventisette.

    Good to be in Ramallah to meet PM @DrStayyeh.#TeamEurope is the largest donor of support to the Palestinian people.
    We’ll discuss how to boost economic, social development, including access to clean water, reliable energy supply and food security. https://t.co/NkKJstvMra
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) June 14, 2022

    Il riferimento dell’alto rappresentante UE – e delle “difficoltà” lasciate tra le righe da von der Leyen – riguarda la posizione del commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Oliver Várhelyi, che aveva portato allo stallo nell’autunno dello scorso anno. Da giugno del 2021 il commissario ungherese ha portato avanti la linea dura del governo di Budapest, secondo cui sarebbe necessario vincolare i finanziamenti UE alla modifica del contenuto dei libri di testo nelle scuole della Palestina. Secondo l’Ungheria – unico Paese membro tra tutti i Ventisette che sposa la visione di alcuni gruppi integralisti della società israeliana – diversi libri promuoverebbero l’antisemitismo tra i bambini palestinesi, che non godrebbero del “diritto sancito dall’UNESCO a un’istruzione di pace, tolleranza, coesistenza e non-violenza”, aveva attaccato in un tweet lo stesso commissario Várhelyi, motivando il bisogno di condizionare i 215 milioni di euro che Bruxelles avrebbe dovuto erogare a Ramallah nel 2021.
    L’UE è il principale donatore della Palestina e per la Commissione – escluso il commissario ungherese – era considerato cruciale dare un segno del proprio sostegno, proprio nel giorno in cui la presidente von der Leyen aveva in programma la visita a Gerusalemme per negoziare più forniture di gas in risposta alle necessità di approvvigionamento alternativo dalla Russia di Putin. Il via libera è arrivato dopo il parere positivo di 26 Paesi membri UE su 27 alla proposta di eliminare qualsiasi condizione per i finanziamenti comunitari alla Palestina che riguardino l’ambito dell’istruzione. Senza sorprese, l’Ungheria è stata l’unico Stato membro a non allinearsi.

    L’annuncio della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, durante la visita a Ramallah. Si tratta di circa 215 milioni di euro bloccati dal commissario ungherese per la Politica di vicinato, Oliver Várhelyi, nel tentativo di condizionarli al contenuto di alcuni libri di testo