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    La politica pro-russi della Serbia preoccupa l’Ue

    Bruxelles – Slavi, ortodossi, un’affinità culturale che ha prodotto amicizia e legami di lungo corso. Serbia-Russia, la relazione speciale si ripropone in una chiave tutta nuova che inquieta l’Unione europea. Belgrado, attraverso le sue politiche, starebbe attirando cittadini e imprese russi in un modo di cui si chiede conto. Al Paese balcanico, ovviamente, ma alla Commissione, affinché questa faccia pressioni sull’alleato. Ma alleato di chi? Nell’europarlamento i Verdi si pongono questa e altre domande.
    Si ritiene che dall’inizio della guerra in Ucraina siano arrivati in Serbia 219.153 cittadini russi. Di questi, sostengono i greens, “ufficialmente circa 30mila hanno attualmente il permesso approvato per il soggiorno temporaneo in Serbia”. A questo dato si aggiunge l’annuncio del governo serbo per modifiche alla legge sulla cittadinanza, che può essere concessa dopo solo un anno di residenza ininterrotta nel Paese. C’è poi la questione economica. “Il numero di aziende e imprenditori russi in Serbia nei primi quattro mesi del 2023 è cresciuto del 37 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso”. Risultato: allo stato attuale “in Serbia i russi possiedono o hanno fondato complessivamente 6.976 imprese”.
    Tutto questo pone la questione dell’aggiramento delle sanzioni, ma soprattutto il rispetto di degli obblighi che la Serbia avrebbe nei confronti dell’Ue in quanto Paese candidato all’adesione dal 2012. A Bruxelles l’auspicio è che Belgrado ‘righi dritto’, tenendo fede agli impegni derivanti dalle scelte compiute in materia di avvicinamento all’Ue. Tuttavia, riconosce il commissario per l’Allargamento, Oliver Varhely, “la Commissione ha espresso preoccupazione per il fatto che le modifiche previste alla legge sulla cittadinanza serba potrebbero comportare rischi per la migrazione o la sicurezza per l’Ue, dato che i cittadini serbi godono dell’accesso senza visto all’Unione europea”.
    A livello comunitario si esercitano pressioni sulla Serbia, o almeno ci si prova nei limiti del possibile. Se da una parta la Commissione “ha chiesto alla Serbia di prendere in considerazione le sue preoccupazioni, in particolare garantendo che nelle modifiche alla legge sull’acquisizione della cittadinanza siano introdotte forti garanzie e controlli di sicurezza”, dall’altra parte, continua Varhely, la Commissione e le autorità serbe “restano in stretto contatto su questo argomento”. L’esecutivo comunitario in sostanza monitora, e prova a correre ai ripari.

    La concessione più veloce della cittadinanza richiama cittadini nel Paese. Aumenta anche il numero di imprese russe sul territorio. Il timore per sicurezza e aggiramento delle sanzioni contro Mosca

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    55 morti e 146 feriti in Libia, le milizie per ora fermano gli scontri. Dall’Ue “grande preoccupazione”

    Bruxelles – La Libia è ancora una polveriera, un Paese in equilibrio precario che rischia di scivolare nel caos ad ogni azione intrapresa dalle diverse milizie che si contendono il controllo del territorio. Dopo gli scontri degli ultimi due giorni, che hanno provocato 55 morti e almeno 146 feriti, l’allarme sembra essere rientrato. Un allarme suonato forte anche a Bruxelles, che segue “con grande attenzione e preoccupazione gli ultimi avvenimenti in Libia”.
    Arriva dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, l’invito “a tutte le parti a continuare ad astenersi dalle ostilità armate” e ad “avviare un dialogo per allentare la tensione e riportare la calma” a Tripoli. Secondo il The Libya Observer, questa mattina (17 agosto) i leader dei principali gruppi armati libici si sono incontrati e hanno deciso di “porre fine ai combattimenti e ripristinare l’ordine” nella capitale. A seguito dell’incontro, sarebbe già stato liberato il generale della brigata 444, Mohamed Hamza: allineato al primo ministro del governo di unità nazionale sotoo l’egida delle Nazioni Unite, Abdel Hamid al-Dbeibeh, Hamza era stato arrestato da un’unità affiliata alla forza di deterrenza ‘Rada’ all’inizio di questa settimana. Proprio la sua cattura ha innescato le rappresaglie da parte della brigata 444 e di altre milizie alleate.

    The commander of the 444th Brigade Mahmoud Hamza, whose detention sparked deadly clashes in Tripoli, has been released. pic.twitter.com/mXEyTbV0G6
    — The Libya Observer (@Lyobserver) August 17, 2023

    “Gli ultimi eventi sono un vivido promemoria della fragilità della situazione della sicurezza in Libia e dell’urgente necessità di elezioni per trovare una soluzione politica sostenibile e inclusiva”, ha commentato il capo della diplomazia europea. Un’instabilità su cui l’Ue ha dovuto più volte chiudere un occhio, obbligata in ogni caso ad allacciare rapporti con il Paese del vicinato meridionale. Nel complesso, Bruxelles ha stanziato 700 milioni di euro dal 2015 a oggi a sostegno della Libia attraverso vari strumenti di finanziamento. 90 milioni tra il 2021 e il 2022 e altri 95 promessi dal commissario Ue per l’Allargamento, Olivér Várhelyi. Finanziamenti che hanno convogliato diverse critiche, tra cui quelle della missione d’inchiesta dell’Onu, che in un rapporto pubblicato lo scorso marzo aveva ipotizzato che una parte dei fondi europei – in particolare quelli dedicati al contenimento del fenomeno migratorio- finanziassero in realtà una serie di attività illegali perpetrate dalle diverse milizie.
    Per il primo ministro al-Dbeibeh, che avrebbe mediato l’intesa tra i miliziani, “il ritorno della guerra in Libia è inaccettabile e il Paese non tollera alcun comportamento irresponsabile”. Borrell ha voluto ribadire “il suo fermo sostegno agli sforzi di mediazione condotti dall’Onu e dal suo rappresentante in loco, Abdoulaye Bathily“.

    Due giorni di scontri tra i gruppi armati allineati con il primo ministro al-Dbeibeh e quelli antagonisti. Ad accendere la miccia l’arresto del generale della brigata filogovernativa 444, ora rilasciato. Per l’Alto rappresentante Ue Borrell “gli ultimi eventi sono un vivido promemoria della fragilità” del Paese

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    Ue preoccupata per il rischio che la Russia aggiri le sanzioni con l’Unione economica euroasiatica

    Bruxelles – Le sanzioni dell’Ue contro la Russia e il rischio di un loro aggiramento attraverso l’Unione economica euroasiatica (Eaeu). E’ più che un’ipotesi, tanto che in Parlamento europeo c’è chi si inquieta e chiede conto di alleanze politico-commerciali che rischiano di vanificare sforzi e misure senza precedenti profusi fin qui per rispondere alle manovre miliari di Mosca su suolo ucraino. 
    Fin qui l’Ue ha colpito il Cremlino, e allineato le sanzioni anti-Putin a quelle decretate contro la Bielorussia accusata di aiutare la Russia. Ma c’è l’area di libero scambio che unisce Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, garantendo un cooperazione che potrebbe permettere di aggirare le restrizioni a dodici stelle. Perché gli europei non possono vendere in Russia e Bielorussia, ma non c’è nulla che vieti loro di continuare con le esportazioni verso gli altri membri dell’Unione economica euroasiatica.
    Liudas Mažylis, europarlamentare lituano del Ppe, ha più di qualche dubbio. Innanzitutto, sottolinea, “lo scorso anno il commercio dei paesi dell’Asia centrale con la Russia è cresciuto in media dal 60 all’80 per cento” rispetto al 2021, vale a dire il periodo precedente all’avvio dell’aggressione all’Ucraina. L’europarlamentare, nella sua interrogazione in materia, cita dati commerciali riferito al periodo  gennaio-ottobre 2022. In questo lasso temporale “le aziende kazake hanno esportato in Russia oltre 500 milioni di euro in più di elettronica e telefoni cellulari, ovvero 18 volte di più rispetto allo stesso periodo del 2021“.
    I partner commerciali dell’Eaeu possono dunque contribuire a sostenere Putin, la sua economia, e la sua macchina da guerra. In barba all’Ue e alle sue sanzioni. A detta di Mažylis, “a causa dell’aumento delle esportazioni di prodotti a duplice uso in Asia centrale, i componenti fabbricati nell’Ue possono essere trovati nelle attrezzature e negli armamenti militari russi utilizzati nella guerra contro l’Ucraina”. Dunque, denuncia, “si può presumere che le sanzioni imposte dall’Ue alla Federazione russa vengano eluse deviando i flussi commerciali attraverso paesi terzi, compresi gli Stati dell’Asia centrale“.
    La questione si come eccome, tanto che “la Commissione ha avviato un dialogo con le autorità dei paesi terzi, tra cui Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, in cui è stato individuato un rischio di elusione“, riconosce la commissaria per i Servizi finanziari, Mairead McGuinness, incaricata di rispondere a nome dell’intero collegio. Questo dialogo pone “particolare attenzione agli elementi critici per lo sviluppo militare, industriale ed economico della Russia”.

    Che in Asia centrale vi siano nodi geo-politici e di alleanze da sciogliere è cosa nota. Il voto dell’Assemblea generale dell’Onu dello scorso febbraio per una pace giusta in Ucraina ha visto l’astensione sia di Kazakistan sia del Kirghizistan, entrambi membri dell’Unione economica euroasiatica. Anche l’Uzbekistan, osservatore e altro interlocutore dell’Ue, si è astenuto, al pari del Tagikistan, altro osservatore. La risoluzione votata chiede in particolare che la Russia “ritiri immediatamente, completamente e incondizionatamente tutte le sue forze militari dal territorio dell’Ucraina e chieda la cessazione delle ostilità”.
    Nessuna condanna esplicita, ma neppure uno schierarsi con l’Europa e l’occidente. Per la ‘neutralità’ scelta diventa difficile per l’Unione europea considerare questi Paesi dell’Asia centrale e membri dell’Unione economica euroasiatica come sostenitori e alleati della Russia di Putin, e dunque prendere le decisione che il caso richiederebbe. La via del convincimento è allo stato attuale l’unica che l’esecutivo comunitario ha scelto di perseguire e proseguire.
    “La Commissione ha organizzato seminari di rafforzamento delle capacità dell’Ue in materia di sanzioni in Kazakistan e Uzbekistan”, spiega ancora McGuinness, lasciando intendere che comunque non si resterà a guardare. “L’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), in collaborazione con gli Stati membri, monitora e indaga su possibili elusioni delle sanzioni dal punto di vista antifrode”.
    L’Ue cerca di sfruttare i mutamenti di equilibri politici in Asia centrale. L’uscita di scena di Nursultan Nazarbeyv in Kazakistan ha privato la Russia di Putin di un alleato da sempre incrollabile. Il nuovo presidente, Kassym-Jomart Tokayev, ha impresso un allentamento nelle relazioni col Cremlino dopo l’avvio delle operazioni militari russe in Ucraina (non va dimenticato in Kazakistan ci sono oltre 3 milioni di russi, il 15 per cento della popolazione, concentrata soprattutto a nord, a ridosso della frontiera russo-kazaka).
    Si intravedono rischi, ma allo stesso tempo anche opportunità di dialogo con Paesi sì alleati della Russia, ma un po’ meno di un tempo. Avanti dunque con il dialogo. Nell’auspicio generale di non dover andare allo scontro con l’intera Unione economica euroasiatica.

    Dal Parlamento l’interrogazione che pone il problema. La Commissione riconosce “un rischio di elusione” via Kazakistan e Kirghizistan

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    Nella giornata internazionale dei popoli indigeni i Paesi dell’Amazzonia formano un’alleanza contro la deforestazione

    Bruxelles – Il 5 per cento della popolazione globale, custode dei territori che ospitano l’80 per cento della biodiversità del pianeta. Basta questo per comprendere l’importanza che hanno i 476 milioni di indigeni nel mondo nel proteggere e conservare ecosistemi sempre più minacciati dai cambiamenti climatici.
    Oggi (9 agosto) si celebra la Giornata internazionale dei popoli indigeni, istituita nel 1994 per volere delle Nazioni unite. Si celebra la loro “resilienza e l’eccezionale diversità culturale”, come ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, in una nota per conto delle istituzioni europee. In un periodo storico in cui in diverse regioni del pianeta i gruppi indigeni subiscono discriminazioni e un progressivo ridimensionamento delle loro aree di controllo, l’Unione europea ha voluto ribadire il suo “impegno forte e costante per il rispetto, la tutela e l’esercizio dei diritti dei popoli indigeni, sanciti dal diritto internazionale dei diritti umani e dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni”.
    Oltre un milione e mezzo di indigeni, divisi in 304 gruppi etnici, vivono in Amazzonia: e non a caso nella città brasiliana di Belem, porta d’accesso ad una delle regioni simbolo della lotta per la sopravvivenza di questi gruppi etnici, è in corso un summit tra i Paesi sudamericani che condividono il polmone verde del pianeta. Aperto dal monito del presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, che ha ricordato che “l’Amazzonia non può più aspettare” e che prendersene cura “non è solo una responsabilità del Brasile, ma di tutti”, il vertice ha già raggiunto un obiettivo significativo, anche se salutato dagli esperti come non sufficiente. I membri dell’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (Otca), Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela, hanno deciso di formare una “alleanza” contro la deforestazione.
    Salutata da Lula come un “punto di svolta”, l’entità denominata “Alleanza amazzonica per la lotta alla deforestazione” si porrebbe come obiettivo “la promozione della cooperazione regionale per evitare che l’Amazzonia raggiunga il punto di non ritorno”. Non sono stati però fissati obiettivi concreti, anche se il governo di Lula ha già promesso di fermare totalmente le attività di deforestazione entro il 2030, anche in vigore della nuove regole Ue sulle importazioni di prodotti derivati da deforestazione.
    Il mantenimento e rinfoltimento della foresta pluviale amazzonica è fondamentale per l’assorbimento di carbonio e per mitigare gli effetti del riscaldamento globale. Ma lo è anche per la sopravvivenza degli indigeni e per il futuro delle nuove generazioni. Quest’anno, la Giornata internazionale è dedicata proprio ai “Giovani indigeni quali artefici del cambiamento per l’autodeterminazione“: giovani spesso in prima linea in alcune delle crisi più urgenti che l’umanità sta affrontando, ma che allo stesso tempo non dispongono dei mezzi per partecipare pienamente alla vita politica e pubblica. Per fare sì che, prendendo in prestito le parole del celebre musicista brasiliano Jorge Ben Jor, sia di nuovo “ogni giorno la giornata degli Indios”.

    Anche l’Ue celebra “la resilienza e l’eccezionale diversità culturale” degli oltre 476 milioni di persone nel mondo. Intanto al summit di Belem i Paesi dell’Otca si impegnano a “promuovere la cooperazione regionale nella lotta contro la deforestazione, per evitare che l’Amazzonia raggiunga il punto di non ritorno”

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    Armi, beni ‘duali’, aviazione: l’Ue allinea le sanzioni alla Bielorussia a quelle contro la Russa

    Bruxelles – Russia e Bielorussia, due facce di una stessa medaglia fin qui trattate in modo diverso ma che l’Ue adesso decide di considerare allo stesso modo. Il Consiglio dell’Ue vara una stretta sanzionatoria che allinea le misure restrittive contro Mosca a quelle contro Minsk, con l’obiettivo chiudere gli spazi utili ad aggirare le decisioni a dodici stelle. Al fine di evitare che una nazione possa fornire all’altra beni che sono sottoposti al blocco delle esportazioni, i Ventisette estendono il divieto di vendita verso la Bielorussia di tutta una serie di beni e tecnologie altamente sensibili che contribuiscono al miglioramento militare e tecnologico del Paese alleato con la Federazione russa.
    Anche nei confronti della Bielorussia scatta il “divieto esteso” di esportazione di beni e tecnologie a duplice uso o ‘duali’ (vale a dire uso civile ma con potenziale impiego militare), come previsto nell’11esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca. Vuol dire stop a droni, sensori, laser, valvole, programmi informativi, materiale elettronico. Stop anche all’esportazione di merci utilizzate dalla Russia per la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina, quali dispositivi a semiconduttore, circuiti integrati elettronici, apparecchiature di produzione e collaudo, macchine fotografiche e componenti ottici. Niente più vendite al governo di Minsk e alle sue imprese di tecnologie adatte all’uso nell’industria aeronautica e spaziale, compresi motori di aeromobili. Anche questa una misura che si allinea all’11esimo pacchetto di sanzioni Ue contro la Russia. A tutto questo si aggiunge anche la messa al bando di vendita, fornitura, trasferimento o esportazione di armi da fuoco, loro parti e componenti essenziali e munizioni.
    “Adottiamo ulteriori misure contro il regime bielorusso in quanto complice della guerra di aggressione illegale e non provocata della Russia contro l’Ucraina”, scandisce Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue.
    L’Unione europea in realtà colpisce Alexander Lukashenko e il suo Paese due fronti. Vengono inasprite anche le sanzioni contro la Bielorussia per il deterioramento interno. Borrell denuncia le “continue violazioni sistematiche, diffuse e gravi dei diritti umani e alla brutale repressione contro tutti i segmenti della società bielorussa” da parte di quello che l’Alto rappresentante non esita a definire “un regime illegittimo“. Un riferimento alle contestate elezioni del 9 agosto 2020 di cui l’Ue non riconosce l’esito.
    Misure restrittive scattano contro nei confronti di 38 persone e 3 entità bielorusse “responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, che contribuiscono alla repressione della società civile e delle forze democratiche, nonché di coloro che beneficiare e sostenere il regime di Lukashenko”. I nuovi elenchi includono funzionari penitenziari considerati responsabili della tortura e del maltrattamento di detenuti, inclusi prigionieri politici, propagandisti di spicco, nonché membri del ramo giudiziario coinvolti nel perseguire e condannare oppositori democratici, membri della società civile e giornalisti.

    Borrell: “Bielorussia complice nella guerra in Ucraina”. La decisione per evitare che le misure anti-Putin siano aggirate

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    La Polonia contro Zelensky: “Ucraina ingrata”. Kiev richiama l’ambasciatore

    Bruxelles – Guerra in Ucraina e guerra del grano, tra Kiev e il blocco dei Ventisette si consuma lo strappo politico e diplomatico probabilmente più forte da quando l’Ue ha deciso di sostenere l’ex repubblica sovietica. La decisione di Varsavia di chiedere un’estensione fino a fine anno allo stop delle importazioni di quattro prodotti agricoli ucraini ha incrinato i rapporti bilaterali. Di fronte ai malumori ucraini il segretario di Stato presso la cancelleria del presidente della Polonia, Marcin Przydacz, non ha saputo tenere a freno la lingua. “L’Ucraina dovrebbe iniziare ad apprezzare ciò che la Polonia sta facendo per essa“, la dichiarazione ‘scappata’ nel corso dell‘intervista concessa al quotidiano Wprost.
    Parole “inaccettabili” per il governo ucraino, che ha immediatamente convocato l’ambasciatore polacco. A parole considerate forti si è risposto con un atto forte, il più forte, nelle dinamiche Ue-Ucraina, dall’avvio delle operazioni militari russe. Inoltre il presidente ucraino, Volodymir Zelensky, ha affidato a uno dei portavoce di governo, Andrii Sybiha, il compito di rispondere. “Respingiamo categoricamente i tentativi di alcuni politici polacchi di imporre alla società polacca l’idea infondata che l’Ucraina non apprezzi l’aiuto della Polonia“.
    Rapporti e relazioni dunque si incrinano. Scambi verbali e convocazioni di diplomatici che fanno il giro del mondo, assecondando il Cremlino. Anche in Russia si vedono segnali di cedimento nel sostegno europeo fin qui deciso all’Ucraina. Un prolungamento della guerra rischia di ledere la capacità di resistenza di un’unità a Ventisette fin qui poco scalfita. Anche se a ben vedere fin qui la politica adottata dall’Ungheria è stata meno risoluta di quella degli altri partner a dodici stelle. I segnali che arrivano dalla Polonia si aggiungono a quelli già registrati, sempre all’interno del blocco di Vysegrad.

    Uscita tutt’altro che felice quella del segretario di Stato presso la cancelleria del presidente della Polonia. Replica piccata dall’esecutivo ucraino. Il grano tra i motivi alla base delle tensioni

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    Uranio e influenza in Africa, il dilemma Ue del Niger tra interessi russi e cinesi

    Bruxelles – Democrazia, diritti, e poi l’uranio. Le instabilità in Niger possono di mettere in difficoltà il mercato dell’energia nucleare dell’Unione europea, che proprio dal Niger acquista uranio grezzo per i propri reattori. Per ora si rassicura, e si escludono impatti negativi dal colpo di Stato nel Paese dell’Africa occidentale. “Non c’è alcun rischio di approvvigionamento”, sostiene il portavoce della Commissione europea, Adalbert Jahnz. “Le imprese hanno sufficienti scorte di uranio naturale per mitigare qualsiasi rischio di approvvigionamento a breve termine e per il medio e lungo termine ci sono abbastanza depositi sul mercato mondiale per coprire il fabbisogno dell’Ue”.
    C’è però una questione geo-politica in ballo, fatta di energia nucleare, risorse, e presenza europea nell’area. Fin qui il Niger è stato il forniture numero uno dell’uranio nella sua forma grezza. La relazione della Commissione europea sul mercato di uranio, con dati aggiornati al 2021, afferma che “analogamente agli anni precedenti, Niger, Kazakistan e Russia sono stati i primi tre paesi a fornire uranio naturale all’Ue nel 2021, fornendo il 66,94% del totale”. Il Niger da solo, è arrivato a rappresentare un quarto dell’import complessivo a dodici stelle (24,26%). Non un fornitore marginalcina e, dunque. Alla luce delle relazioni sempre più delicate e complesse con la Russia quale risultato dell’aggressione all’Ucraina, l’Ue ha bisogno di ridurre le dipendenze con la federazione russa e un deterioramento ulteriore della situazione in Niger potrebbe indurre a rivedere la domanda di uranio.
    La Commissione Ue per ora intendere rimanere presente nel Paese. Evacuazione del personale e chiusura delle sedi di rappresentanza non sono prese in considerazione, perché andare via vorrebbe dire lasciare mano libera ad altri attori, a cominciare da quello cinese. Dopo la Francia la Repubblica popolare è il secondo più grande investitore straniero.
    Pechino è presente in Niger dal 1974, e ha dato nuovi impulsi alle relazioni bilaterali dagli inizi degli anni Duemila. Ha iniziato ad investire in infrastrutture (strade, ospedali, telecomunicazioni), scambi culturali (borse di studio per nigerini in Cina), a garantire sostegni umanitari contro disastri naturali. In cambio ha ottenuto diritto di esplorazione petrolifera e di uranio. Il progetto dell’oleodotto di circa 675 chilometri per la connessione Niger-Benin è possibile grazie a PetroChina, il colosso petrolifero cinese. Mentre Cnnc, la società di Stato attiva nel settore del nucleare, ha già avuto modo di lavorare col governo di Niamey per lo sviluppo del giacimento di Azelik.
    A livello globale il Niger rifornisce appena il 5% circa dell’uranio mondiale, ma è un fornitore leader per l’Ue. Sottrarre quote di mercato agli europei sarebbe per la Cina, già allo stato attuale fornitore principale di tutto ciò che serve all’Ue in termini di materie prime per la transizione sostenibile, un ulteriore colpo alle ambizioni di indipendenza e potenza europea.
    L’instabilità politica rischia però di complicare anche i piani cinesi, e non a caso anche la Cina segue con attenzione gli sviluppi nel Paese africano invitando a una soluzione. Per quanto a Bruxelles si cerchi di minimizzare e si ostenti sicurezza, in gioco c’è molto. Perché l’Ue ha deciso che il nucleare è ‘green’, non inserendolo la tecnologia nella tassonomia, l’insieme dei criteri che servono a determinare la sostenibilità di attività e prodotti. L’Ue ha bisogno dell’uranio per il suo nucleare, e il suo principale fornitore adesso offre meno garanzie.
    C’è anche l’aspetto russo della questione nigerina. L’uranio è certamente una questione ‘calda’ per l’Ue, ancora troppo legato alla Russia per ciò che serve per le centrali attive in Europa, soprattutto nei Paesi membri del quadrante nord-orientale. Alternative al combustibile russo è qualcosa di tutt’altro che semplice, e l’Ue non può permettersi di finire nuovamente nelle braccia del Cremlino. Ma da anni Mosca agisce nel continente africano, attraverso forniture di armi, accordi di cooperazione militare. Il controllo del continente sta diventando sempre più strategico, per via della sue ricchezze naturali in termini di risorse e materie prime. Governi ‘amici’ fanno l’interesse della partita in atto.
    La presenza del gruppo Wagner è stata accertata in almeno cinque Paesi africani (Libia, Mali, Sudan, Repubblica centrafricana, Mozambico). Si teme che il gruppo para-militare possa diventare una presenza forte anche in Niger. Analisti ricordano l’esempio del Mali, dove la Russia ha saputo inserirsi perché più accomodante rispetto alle richieste e alla condizioni poste dagli europei. “Ci sono già segnali che l’Ue potrebbe affrontare un dilemma simile in Niger“, avvertiva un anno fa, a giugno 2022, il think-tank pan-europeo Ecfr.
    C’è dunque la possibilità che il confronto tra Europa e Russia non si consumi solo sul fronte ucraino. La destabilizzazione del Niger gioca a favore di Mosca, più che dell’Europa, che nel Niger contava e conta anche per la gestione dei flussi migratori. All’incrocio di diverse rotte migratorie, il Niger ha rafforzato la sua politica di lotta alla migrazione irregolare con il sostegno dell’Ue, nell’ambito del nuovo partenariato dell’Ue con i Paesi terzi. Ora tutto questo rischia di saltare.
    A Bruxelles c’è già chi fa i conti con le tensioni e le incertezze nel Paese. In Parlamento Ue si inizia a riconoscere che il golpe “rischia di destabilizzare ulteriormente il Paese, oltre a problemi esistenti come l’instabilità regionale, la proliferazione di gruppi jihadisti violenti, un’ondata di rifugiati e sfollati interni”. In questo clima “il colpo di stato, salutato da Yevgeny Prigozhin, il capo di Wagner, potrebbe aumentare l’influenza della Russia sul Paese“.
    Una presa d’atto anche in Commissione, con l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, che punta il dito contro Mosca. In Niger, scrive sul suo blog, “l‘unica interferenza di cui possiamo parlare oggi è quella dei militari che rovesciano un Presidente eletto e quella di una Russia imperialista che vuole usare questi regimi come pedine nella sua partita a scacchi mondiale” in cui l’Europa ha molto da perdere. Attacca frontalmente anche il leader del Cremlino. “Da diversi anni la Russia di Vladimir Putin alimenta questi colpi di stato con la sua falsa propaganda e approfitta dell’instaurazione di questi regimi militari con le sue milizie private”. Accuse e toni che confermano l’importanza della posta in gioco. L’Ue si vede scalzata dall’Africa, e non solo dal Niger e dalle sue forniture di uranio.

    Per la Commissione ciò che serve al nucleare europeo non è a rischio ma in gioco c’è molto di più, con la presenza di Mosca e Pechino tutt’altro che marginale

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    Migranti e diritti, adesso l’Ue ammette i problemi in Libia

    Bruxelles – La situazione in Libia sta sfuggendo di mano, e adesso anche la Commissione europea non può non prenderne atto. L’assistenza offerta dall’Ue per potenziare il sistema di guardia costiera ai fini del controllo e della gestione dei flussi migratori è diventata un’arma nelle mani delle autorità di Tripoli. Sandra Pereira, europarlamentare de la Sinistra, punta il dito contro la Commissione. In un’interrogazione cita il recente rapporto delle Nazioni Unite, in cui l’Onu “riferisce una serie di crimini contro l’umanità che sono stati commessi nel Paese: arresti arbitrari, omicidi, torture, stupri, schiavitù, schiavitù sessuale, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni”.
    Tutti questi crimini contro l’umanità denunciati “sono stati commessi contro migranti in luoghi di detenzione sotto il controllo effettivo o nominale della direzione libica per la lotta alla migrazione illegale, della guardia costiera libica e dell’apparato di sostegno alla stabilità”. Soggetti ed entità che “hanno ricevuto supporto tecnico, logistico e monetario dall’Unione europea e dai suoi Stati membri per, tra l’altro, l’intercettazione e il rimpatrio dei migranti“. Data la situazione l’europarlamentare chiede se non sia il caso di sospendere ogni tipo di relazione o sostegno, ma il ‘no’ che arriva dalla Commissione è categorico.
    “Nelle difficili circostanze del Paese, l’interruzione dell’assistenza dell’Ue non farebbe che peggiorare la situazione sul campo“, sostiene il commissario per l’Allargamento e le politiche di vicinato, Oliver Várhelyi. Il componente del collegio di commissari riconosce dunque una situazione complicata, che Bruxelles fa fatica a gestire, e conferma l’intenzione di non rinunciare a un elemento della dimensione esterna delle politiche per l’immigrazione considerato come fondamentale.
    “Il lavoro della Commissione in Libia – continua Várhelyi – segue gli orientamenti strategici del Consiglio europeo, le decisioni del Consiglio e il piano d’azione dell’Ue sul Mediterraneo centrale, approvato dal Consiglio” stesso, vale a dire ministri e leader degli Stati dell’Unione europea. La Commissione, in sostanza esegue un mandato frutto di un accordo politico, ma le parole del commissario sembrano scaricare le responsabilità del deterioramento della situazione sulle capitali.
    La risposta fornita dal commissario per l’Allargamento non sembra né chiarire né tanto meno rassicurare. Offre al contrario l’immagine di una situazione che ha preso una piega tanto inattesa quanto ingovernabile a livello Ue. Il massimo delle garanzie offerte da Varhelyi è la promessa che “proseguirà l’impegno costruttivo con le autorità libiche e tutti i pertinenti attori internazionali su come l’Ue possa contribuire al meglio all’obiettivo comune di garantire la protezione dei diritti umani, anche nel contesto della migrazione”.
    Potrebbe non bastare a calmare la situazione. Non è la prima volta che dal Parlamento europeo arrivano critiche per le responsabilità dell’Europa nel deterioramento della situazione in Libia con la complicità di una guardia costiere potenziata e finanziata dall’Ue. Ue che non sta facendo una bella figura, e Varhelyi riesce a fare poco per riparare al danno di immagine.

    Il commissario per l’Allargamento: “Nelle difficili circostanze del Paese, l’interruzione dell’assistenza dell’Europa non farebbe che peggiorare la situazione sul campo”