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    Ucraina, danni ambientali per 52,4 miliardi e difficili da risarcire

    Bruxelles – Laghi, fiumi, boschi, aria, e soprattutto suolo, suolo agricolo. Tra le vittime del conflitto in corso in Ucraina ci sono anche loro, natura e ambiente. Danni quantificati fin qui in oltre 50 miliardi di euro, non tutti riparabili nel giro di poco tempo, e che pongono non pochi problemi, non solo per l’Ucraina. Il Parlamento europeo inizia a fare calcoli e considerazioni fin qui passate in secondo in piano, accendendo i riflettori sugli ‘eco-contraccolpi’ del conflitto, in un documento di lavoro dal titolo inequivocabile: ‘La guerra della Russia in Ucraina: l’alto pegno ambientale’.
    Al 18 luglio 2023 in Ucraina si registrano “2.317 segnalazioni verificate di azioni militari con un effetto ambientale diretto” sulla natura, anche se le denuncia sono di più (2.450). Le stime basate sulle ispezioni ambientali dell’Ucraina mostrano che l’invasione della Russia fin qui “ha causato danni ambientali per circa 52,4 miliardi di euro” tra impatti negativi sull’aria (27 miliardi), per l’acqua (1,5 miliardi), al suolo (0,3 miliardi), e inquinamento da rifiuti (23,6 miliardi).
    Numeri che confermano come e quanto la guerra ancora in corso non abbia prodotto solo morte e distruzione, ma “ha avuto anche un impatto negativo sulla ricca biodiversità dell’Ucraina”. Incendi boschivi e atti di deforestazione, esplosioni, costruzione di fortificazioni e avvelenamento del suolo e dell’acqua “hanno tutti un impatto sulla fauna selvatica e distruggono gli habitat naturali, compresi quelli protetti nelle riserve della biosfera e nei parchi nazionali, molti dei quali fanno anche parte della Rete Smeraldo paneuropea”.
    Ma è soprattutto la questione del suolo a preoccupare a Bruxelles, per le implicazioni sulla produzione agricola. Quanto accaduto finora “ha compromesso” il settore primario ucraino, “vitale per l’economia del Paese e per la sicurezza alimentare globale”, entrambe a rischio perché “la contaminazione causata dalle armi pone un problema a lungo termine”, che si aggiunge alla questione del grano. Bonificare e rendere nuovamente coltivabili e produttivi i campi del Paese “richiede risorse significative, richiede tempi lunghi e comporta rischi”. Ad ogni modo, si precisa, prima che la situazione torni alla normalità “una parte significativa dei seminativi sarebbe inutilizzabile per anni”. Tre i tipi principali di danni per il settore primario ucraino: degrado fisico, inquinamento chimico diffuso da miniere e industrie colpite, e munizioni esplose. Tutte tipologie di danni che “hanno colpito gravemente milioni di ettari di terreni agricoli ucraini”, e il cui rimborso da parte dell’aggressore non è scontato.
    La strada per esigere eventuali riparazioni dei danni ambientali causati dalla guerra in Ucraina “non è priva di sfide”, si riconosce nel documento di lavoro. Innanzitutto perché “raccogliere prove e quantificare i danni è problematico”. E poi perché “mentre potrebbero esserci alcune possibili procedure legali per ottenere un risarcimento per il danno ambientale causato, il processo è complicato e tutt’altro che semplice, con pochissimi precedenti esistenti di tali risarcimenti”.

    Dal Parlamento Ue focus sulle ricadute del conflitto per la natura. Rischi per l’agricoltura. “Raccogliere prove e quantificare i danni è problematico”

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    L’Ue propone un piano da 20 miliardi di euro per il sostegno militare a lungo termine all’Ucraina fino al 2027

    Bruxelles – Cinque miliardi all’anno, per quattro anni per garantire un sostegno continuo alla difesa dell’Ucraina. Non si tratterà di un nuovo fondo da parte dell’Ue, ma di una specifica sezione dell’attuale strumento europeo per la pace (European Peace Facility), lo strumento finanziario fuori dal bilancio comunitario isitituito nel 2021 per migliorare la capacità dell’Ue di prevenire i conflitti e di finanziare azioni operative che hanno implicazioni militari o di difesa nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune.
    Dopo le indiscrezioni degli ultimi giorni, l’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, ha messo oggi (20 luglio) la proposta di nuovi finanziamenti a Kiev sul tavolo dei ventisette ministri degli Esteri, riuniti a Bruxelles nell’ultimo Consiglio dell’Ue prima dell’estate. Si tratterà “sempre dello stesso strumento, l’European Peace Facility, che ha funzionato molto bene e continueremo a usarlo ma con un capitolo dedicato al suo interno, con un finanziamento specifico che può essere stimato sulle cifre che ho citato”, ha spiegato il capo della diplomazia europea in una breve conferenza stampa dopo la riunione.
    Venti miliardi di risorse extra da mobilitare fino al 2027. “Questa è la valutazione dei bisogni e delle necessità per garantire il sostegno dell’Ucraina”, ha aggiunto. A detta dell’alto rappresentante Ue i ministri dei Ventisette hanno avuto un primo scambio di idee sulla proposta, ma ne discuteranno in maniera approfondita a fine agosto, alla riunione informale dei ministri degli affari esteri nel tradizionale formato Gymnich che si terrà il 30 e 31 agosto. La proposta di Borrell fa parte di un più ampio sforzo per porre il sostegno europeo a Kiev su una base a più lungo termine, dopo più di un anno di tentativi per rispondere ai bisogni immediati dell’Ucraina a seguito dell’invasione della Russia.
    Solo di recente i due colegislatori dell’Ue, Parlamento e Consiglio, hanno trovato un accordo politico sull’Asap, il piano Ue per aumentare la consegna di munizioni e missili all’Ucraina e imprimere un cambio di passo sulla capacità di produzione bellica nei 27 Stati membri. Acronimo di ‘Act in support of ammunition production’ e di ‘As soon as possible’, il regolamento presentato dalla Commissione Ue lo scorso 3 maggio è stato in effetti finalizzato in tempo di record. Il piano prevede di mobilitare in via d’urgenza cinquecento milioni di euro dal bilancio comunitario fino a giugno 2025 per aumentare la capacità dell’industria europea di produrre munizioni, con l’obiettivo di produrre almeno un milione di pezzi all’anno, tra munizioni terra-terra, artiglieria e missili.
    Ultimo di tre pilastri di un più ampio e complesso ‘Piano per la difesa’ proposto ai Ventisette dal commissario al Mercato interno, Thierry Breton, e dall’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, per rispondere all’emergenza della fornitura di munizioni all’Ucraina, ma anche per costruire una visione di lungo termine per la difesa europea. Oltre all’Asap, il Piano per la difesa comprende un miliardo di euro mobilitato attraverso lo strumento europeo per la pace (strumento fuori bilancio comunitario) per la consegna immediata di munizioni a Kiev attraverso le scorte degli Stati membri e un altro miliardo di euro per gli acquisti congiunti di armi.

    La proposta dell’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, ai ministri degli Esteri dei 27 Stati membri, che ne discuteranno in maniera approfondita all’informale di Toledo del 30 e 31 agosto

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    Il tango tra Ue e America latina riparte da clima e transizione verde. Ma il vertice inciampa sulla guerra in Ucraina

    Bruxelles – “Un nuovo inizio per vecchi amici”. Così l’ha definito la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Otto anni dopo l’ultima volta, si sono riuniti i leader dei 60 Paesi dell’Unione europea, dell’America Latina e dei Caraibi. E alla fine, dopo un secondo pomeriggio di empasse sul tema più delicato, quello della responsabilità russa della guerra in Ucraina, è arrivato l’accordo su una dichiarazione congiunta siglata da tutti. Meno uno.
    La soluzione trovata per raggiungere il risultato politico più ambizioso è stata inserire a margine del documento la seguente nota: “Questa dichiarazione è stata approvata da tutti i Paesi tranne uno, a causa del suo disaccordo con un paragrafo”. Il paragrafo è quello dedicato all’Ucraina, il Paese in questione è Nicaragua, che nel luglio 2022 aveva autorizzato l’ingresso nel Paese a truppe, aerei e navi russe per scopi di addestramento e pubblica sicurezza, rafforzando così la storica vicinanza politica, che esiste dai tempi del supporto dell’Unione Sovietica alla rivoluzione sandinista del 1979.
    Il rischio di inciampare sul sostegno all’Ucraina era noto a tutti: nell’ultima risoluzione Onu di condanna al Cremlino, adottata in occasione del primo anniversario dell’invasione russa, oltre al voto contrario del Nicaragua si erano astenute Cuba, El Salvador e Bolivia. E già ieri il presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, aveva usato parole forti contro il sostegno militare a oltranza fornito dall’Ue a Kiev. Alla fine però, solo la repubblica centro-americana ha rifiutato un testo comunque rimaneggiato, dove a “condanniamo” è stato preferito “esprimiamo profonda preoccupazione per la guerra in corso contro l’Ucraina”.
    Alberto Fernandez, Ralph Gonsalves, Charles Michel e Ursula von der Leyen
    I due padroni di casa, Charles Michel e Ursula von der Leyen, in conferenza stampa hanno posto l’accento sul bicchiere mezzo pieno, cioè la “forte determinazione” condivisa da tutti “per difendere il multilateralismo e l’importanza della Carta delle Nazioni Unite“. Incassando la però la puntuale frecciata di Ralph Gonsalves, primo ministro di Saint Vincent e Grenadine e presidente attuale del Celac: il piccolo arcipelago caraibico fa parte di quel “cortile di casa” in cui gli Stati Uniti hanno messo le mani troppe volte. “Quando si parla di principio di non interferenza negli affari interni e del divieto dell’uso della forza, alcuni dei Paesi che sollevano questi principi in Ucraina sono gli stessi che storicamente li hanno violati nei Caraibi e in America Latina”. Palese il riferimento a Washington, ma la critica è anche per l’alleato europeo: “Bisogna porre fine a questa ipocrisia e applicare i principi della Carta delle Nazioni Unite in maniera chiara e obiettiva ovunque”, ha avvertito Gonsalves.
    Mercosur, approvvigionamento energetico e di materie prime, clima. Gli altri punti dell’Ue-Celac
    Qualche attrito viene a galla anche sull’accordo commerciale con il blocco dei Paesi del Mercosur, nonostante l’ottimismo di Bruxelles, con von der Leyen che si è detta convinta di “finalizzare l’intesa entro la fine dell’anno”. Più cauto il presidente argentino, Alberto Fernandez, che ha sì riconosciuto che “l’Europa ha colto molte preoccupazioni” sollevate dai governi dell’America latina, ma ha ricordato ai leader Ue che “un accordo necessita che vincano entrambe le parti”. Sembrano più vicine le firme degli accordi di associazione aggiornati con Cile e Messico, che nella dichiarazione congiunta sono previsti “nei prossimi mesi”.
    È su queste partnership commerciali, e dai memorandum d’intesa firmati durante il summit con Cile, Uruguay e Argentina sull’approvvigionamento di energia e materie prime critiche, che possono riprendere slancio le relazioni Ue-Celac. E sul forte impegno, ribadito in questa due giorni a Bruxelles, ad “affrontare con ambizione il cambiamento climatico”. Ma senza dimenticare gli impegni finanziari presi dai Paesi più sviluppati, che dovranno “adempiere all’impegno di mobilitare tempestivamente 100 miliardi di dollari all’anno per i finanziamenti per il clima a sostegno dei paesi in via di sviluppo e di raddoppiare i finanziamenti per l’adattamento entro il 2025″. Nele azioni di contrasto e mitigazione del cambiamento climatico, i 60 leader hanno anche affermato la necessità di “esplorare criteri al di là del Pil, come la vulnerabilità climatica, per determinare l’idoneità dei paesi ad accedere a finanziamenti agevolati e cercare di fornire uno stimolo finanziario in modo che nessun paese debba scegliere tra combattere la povertà e proteggere il pianeta”.

    Al summit Ue-Celac intense trattative sul paragrafo delle conclusioni relativo alla condanna dell’invasione russa: i leader esprimono “profonda preoccupazione”, ma Nicaragua si defila e non firma la dichiarazione finale. E il presidente Celac parla di “ipocrisia” nell’applicazione della Carte delle Nazioni Unite

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    Niente invito all’adesione, ma garanzie di sicurezza G7 e un Consiglio ad hoc. I risultati del vertice Nato sull’Ucraina

    Bruxelles – È andato tutto come previsto, nonostante le forti pressioni del presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky. Al vertice di Vilnius dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato) non è arrivato un invito a Kiev per l’adesione, né sotto forma di una tabella di marcia né di tempistiche definite. Perché sono pochi gli alleati che si vogliono sbilanciare sull’ingresso del Paese mentre continua la guerra con la Russia, anche se nessuno rinnega il processo considerato ormai praticamente irreversibile di avvicinamento dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica. Eppure c’è stato qualcosa di più, proprio per rendere manifesto al leader ucraino che il futuro ingresso è a portata, ma serve tempo. Parallelamente al comunicato del secondo giorno di vertice Nato, i leader del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti) hanno pubblicato una dichiarazione in cui si impegnano a fornire “garanzie di sicurezza a lungo termine” a Kiev, anche nel caso si ripeta un’aggressione al Paese.
    La foto di famiglia del vertice Nato di Vilnius (12 luglio 2023)
    “Oggi l’Ucraina è più vicina che mai alla Nato“, ha messo in chiaro oggi (12 luglio) il segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, in conferenza stampa congiunta con il presidente Zelensky, ribandendo però che il processo di adesione dell’Ucraina potrà iniziare solo “quando tutti gli alleati decideranno che le condizioni sono state soddisfatte”. Da Vilnius arriva comunque “il messaggio di unità più forte possibile” e anche le garanzie di sicurezza del G7 “vanno in questa direzione”, ha assicurato Stoltenberg.
    Proprio nella dichiarazione del Gruppo dei Sette si legge che sarà garantita la “fornitura continua” di equipaggiamento militare moderno, con “priorità alla difesa aerea, all’artiglieria e al fuoco a lungo raggio, ai veicoli blindati e ad altre capacità chiave, come l’aviazione da combattimento”. Sarà sostenuto lo sviluppo della base industriale ucraina e l’addestramento delle forze militare, oltre alla cooperazione in materia di intelligence. Nel caso di un nuovo futuro attacco armato russo, “intendiamo consultarci immediatamente con l’Ucraina per determinare i passi successivi più appropriati”, mettono in chiaro i sette leader. Da parte di Kiev, invece, è richiesta la prosecuzione dell’attuazione delle riforme delle forze dell’ordine, del sistema giudiziario, della lotta alla corruzione, della governance aziendale, dell’economia, del settore della sicurezza e della gestione dello Stato, ma anche la modernizzazione del settore della difesa “rafforzando il controllo civile democratico delle forze armate”. Questo sforzo “sarà portato avanti mentre l’Ucraina persegue un percorso verso la futura adesione alla comunità euro-atlantica“, è l’ulteriore rassicurazione fornita al presidente Zelensky dopo le dure critiche per l’assenza di un riferimento netto all’ingresso Nato del Paese nelle conclusioni del vertice di Vilnius.
    Da sinistra: il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, il primo ministro del Giappone e presidente di turno del G7, Fumio Kishida, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky (credits: Andrew Caballero-Reynolds / Afp)
    “Questa dichiarazione è aperta a tutti i Paesi che vogliono supportare l’Ucraina“, ha messo in chiaro il primo ministro giapponese e presidente di turno del G7, Fumio Kishida, annunciando la dichiarazione dei leader dei sette Paesi più industrializzati al mondo. Parole confermate dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che ha precisato come “non possiamo aspettare per impegnarci sul lungo termine per rendere sicura l’Ucraina contro qualsiasi aggressione”. Per l’inquilino della Casa Bianca “il futuro dell’Ucraina è nella Nato, non è una sorpresa per nessuno, ma serve un percorso per l’adesione mentre intraprende il percorso riforme”. Nonostante non abbia raggiunto il risultato dichiarato di vedere l’invito ad aderire all’Alleanza Atlantica, il presidente ucraino Zelensky è sembrato piuttosto rassicurato dall’impegno del Gruppo dei Sette: “È un pacchetto importante di garanzie di sicurezza sul lungo termine, ora ci coordineremo con il G7 per estendere l’accordo con altri partner-chiave”, ha rimarcato il numero uno di Kiev davanti ai sette leader e ai rappresentanti delle istituzioni Ue.
    “L’Unione Europea sarà un partner fondamentale in questo sforzo”, è la rassicurazione della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, commentando la dichiarazione dei leader del G7: “Abbiamo fornito al coraggioso popolo ucraino sostegno umanitario, assistenza finanziaria sostanziale, armi e addestramento, oggi ci impegniamo per la sicurezza a lungo termine e la prosperità economica dell’Ucraina all’interno della comunità euro-atlantica”. Da parte di Bruxelles ci sarà il continuo rafforzamento delle sanzioni contro la Russia e il sostegno degli “ammirevoli sforzi di riforma” che sbloccheranno anche l’adesione di Kiev all’Ue. “La nuova realtà geopolitica sfida l’ordine internazionale basato sulle regole, l’Ue e la Nato stanno rafforzando la loro cooperazione e sono unite a sostegno dell’Ucraina”, ha twittato il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel.
    Il nuovo Consiglio Nato-Ucraina
    La prima riunione del Consiglio Nato-Ucraina a Vilnius, 12 luglio 2023 (credits: Ludovic Marin / Afp)
    “Buon pomeriggio, benvenuti a questa prima riunione del Consiglio Nato-Ucraina“, sono le prime parole pronunciate dal segretario generale Stoltenberg nel corso dell’inaugurazione del nuovo format che porterà i 31 alleati e Kiev a stringere sempre di più i rapporti nell’ottica del futuro allargamento dell’Alleanza Atlantica: “Questo è davvero un momento storico, siamo seduti fianco a fianco come pari per affrontare la nostra visione comune della sicurezza euro-atlantica“. Alla sessione inaugurale del Consiglio hanno partecipato tutti i leader dell’Alleanza e il presidente ucraino Zelensky, che ha voluto rimarcare come il nuovo format “non è uno strumento di partecipazione, ma di integrazione” del Paese nell’Alleanza.
    Perché un organismo di collegamento tra l’Alleanza Atlantica e Kiev già esisteva – la commissione Nato-Ucraina – ma da mesi non era più considerato sufficiente per gli obiettivi comuni. Secondo quanto si legge nel comunicato finale del vertice di Vilnius, il Consiglio è “un nuovo organismo congiunto in cui gli alleati e l’Ucraina siedono come membri paritari per promuovere il dialogo politico, l’impegno, la cooperazione e le aspirazioni euro-atlantiche dell’Ucraina all’adesione Nato. Le stesse parole sono state utilizzate dal segretario generale Nato nel corso della prima riunione di oggi: “Ci incontriamo da pari a pari, attendo con ansia il giorno in cui ci incontreremo come alleati“, perché durante il vertice nella capitale lituana “abbiamo riaffermato che l’Ucraina diventerà un membro dell’Alleanza”.

    Nonostante le insistenze del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, al summit dell’Alleanza Atlantica di Vilnius non sono state definite tempistiche per l’ingresso. Ma l’avvicinamento di Kiev è dato dal nuovo format “da pari” e dal sostegno militare “a lungo termine” del Gruppo dei Sette

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    I temporeggiamenti della Nato sull’invito all’Ucraina per aderire all’Alleanza stanno irritando Zelensky

    Bruxelles – L’invito dei 31 alleati per l’adesione Nato non c’è e nemmeno una tabella di marcia con le tempistiche di un eventuale ingresso. E questo temporeggiamento ha portato a una reazione dura – come mai prima d’ora – del presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky: “Ho intrapreso un viaggio qui con la fiducia nelle decisioni, con la fiducia nei partner, con la fiducia in una Nato forte, che non esita, non perde tempo e non si volta indietro di fronte a nessun aggressore… è aspettarsi troppo?“, ha attaccato su Twitter nella serata di ieri (11 luglio) al termine della prima giornata di lavori del vertice dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord a Vilnius.
    Da sinistra: il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky
    Le parole al vetriolo del presidente dell’Ucraina sono arrivate in risposta alla prima dichiarazione del summit di Vilnius, in cui sono stati elencati gli impegni dei 31 alleati a sostegno di Kiev, ma senza stabilire alcuna tabella di marcia né tempistiche per il possibile futuro ingresso del Paese sotto attacco russo dal 24 febbraio 2022. “Per sostenere l’ulteriore integrazione dell’Ucraina nella Nato, abbiamo concordato un pacchetto sostanziale di sostegno politico e pratico ampliato“, si legge nel testo, che anticipa l’istituzione del Consiglio Nato-Ucraina che si riunirà per la prima volta oggi (12 luglio). Si tratta di “un nuovo organismo congiunto in cui gli alleati e l’Ucraina siedono come membri paritari per promuovere il dialogo politico, l’impegno, la cooperazione e le aspirazioni euro-atlantiche dell’Ucraina all’adesione Nato”. Tuttavia, per Zelensky l’obiettivo dichiarato dal settembre dello scorso anno e l’unica conquista desiderata è un’adesione Nato “accelerata”, anche se nessuno – Kiev nemmeno – parla di un ingresso nell’Alleanza Atlantica mentre è ancora in corso la guerra con la Russia. “Vorrei che questa fede diventasse fiducia – fiducia nelle decisioni che meritiamo – che tutti noi meritiamo”, ha aggiunto nel suo tweet il numero uno ucraino, rilanciando le discussioni di oggi anche sul tema della tabella di marcia e delle condizioni per diventare il 33esimo Paese membro (la Svezia è sempre più vicina a diventare il 32esimo).
    “Sosteniamo pienamente il diritto dell’Ucraina di scegliere i propri accordi di sicurezza, il futuro dell’Ucraina è nella Nato”, è il mantra ripetuto dagli alleati, che nel testo hanno riaffermato “l’impegno assunto al vertice di Bucarest del 2008, secondo cui l’Ucraina diventerà membro della Nato“. Nonostante l’insoddisfazione del presidente ucraino per le tempistiche non chiare, non c’è comunque discrepanza tra gli obiettivi euro-atlantici di Kiev e le dichiarazioni d’intenti di Vilnius: “Riconosciamo che il percorso dell’Ucraina verso la piena integrazione euro-atlantica è andato oltre la necessità del Piano d’azione per l’adesione”, dal momento in cui il Paese dell’Europa orientale è diventato “sempre più interoperabile e politicamente integrato con l’Alleanza e ha compiuto progressi sostanziali nel suo percorso di riforme“. In questo contesto l’Alleanza Atlantica “sosterrà l’Ucraina nel realizzare le riforme nel suo percorso verso la futura adesione”, considerato il fatto che sarà possibile estendere a Kiev l’invito per l’adesione Nato “quando gli alleati saranno d’accordo e le condizioni saranno soddisfatte“, conclude il testo.
    Quali sono le tappe del processo di adesione Nato
    Per diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente portano all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.
    La procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.
    Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

    Nella dichiarazione del primo giorno del vertice dell’Alleanza Atlantica a Vilnius non compare nessuna tempistica per l’ingresso, nonostante venga ribadito l’impegno preso a Bucarest nel 2008. Il presidente ucraino chiede una Nato “che non perde tempo e non si volta indietro”

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    Baerbock: la guerra della Russia in Ucraina ha fatto ripensare la Germania sul suo ruolo nel Mondo

    Bruxelles – L’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato il modo in cui la Germania considera la sicurezza e ha fatto capire a Berlino di aver sbagliato a non ascoltare gli alleati dell’Europa orientale, che avevano messo in guardia dalle minacce di Mosca, ha scritto Annalena Baerbock, ministra degli Esteri tedesca, oggi sul Guardian.
    Ammettendo i difetti della politica estera tedesca del dopoguerra, l’esponente dei Verdi afferma che i Paesi dell’Europa orientale hanno avuto ragione ad avvertire la Germania che sperare nel meglio per affrontare le minacce di una Russia autocratica non era una risposta adeguata. Per troppo tempo, scrive, la Germania ha fatto ricorso alla “diplomazia del libretto degli assegni”, ovvero alla convinzione che l’interazione politica ed economica avrebbe condotto la Russia verso un percorso democratico, ora invece “sappiamo che nel prossimo futuro la Russia del Presidente Putin rimarrà una minaccia per la pace e la sicurezza nel nostro continente e che dobbiamo organizzare la nostra sicurezza contro la Russia di Putin, non con essa”.
    Scrivendo prima del vertice della Nato a Vilnius e subito dopo la pubblicazione di una nuova strategia di sicurezza nazionale tedesca, Baerbock afferma che “noi tedeschi non dimenticheremo mai che dobbiamo la nostra libertà in un Paese riunificato anche ai nostri alleati e ai nostri vicini orientali. Così come loro ci sono stati per noi, noi ci saremo per loro ora, perché la sicurezza dell’Europa orientale è la sicurezza della Germania”.
    Ci sono stati dubbi sul fatto che la Germania potesse assumere un ruolo di leadership militare in Europa data la sua storia, ma Baerbock ha detto che la guerra in Ucraina ha costretto la Germania, a volte con sua stessa sorpresa, a rivalutare il suo ruolo e le sue responsabilità: “Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, scatenati dai tedeschi, la politica estera del nostro Paese era guidata dalla premessa che la guerra non avrebbe mai più dovuto provenire dal suolo tedesco”.
    Ma è chiaro che le cose sono cambiate: “Solo due anni fa, l’idea che la Germania consegnasse carri armati, sistemi di difesa aerea e obici in una zona di guerra sarebbe sembrata a dir poco inverosimile. Oggi la Germania è uno dei principali fornitori di armi per l’autodifesa dell’Ucraina”. Secondo Baerbock “la guerra di aggressione della Russia ha segnato una frattura nel mondo. Per il mio Paese ha aperto un nuovo capitolo, ridefinendo il modo in cui cerchiamo di promuovere la pace, la libertà e la sostenibilità in questo mondo: come partner che abbraccia la sua leadership”.

    L’intervento della ministra degli Esteri tedesca sul Guardian: “Per troppo tempo abbiamo ricorso alla diplomazia del libretto degli assegni”

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    Dumoulin (Ecfr): Le concessioni di Putin a Prigozhin aprono a sfide ancor più radicali

    Bruxelles – Cosa è successo nel fine settimana in Russia? Al di là della cronaca, oramai nota (almeno per grandi linee) cosa ha significato la “ribellione” (se questa è stata) di Yevgeny Prigozhin? Ne parla Marie Dumoulin, direttrice del programma per l’Europa allargata dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr).
    “L’ammutinamento del fine settimana segna la fine del fenomeno Prigozhin così come lo conoscevamo. Aveva fatto molto affidamento sulle risorse governative, che probabilmente non saranno più a sua disposizione. Prima del febbraio 2022, l’attività principale di Wagner – ricorda Dumoulin – era quella di offrire protezione ai governi stranieri, come nella Repubblica Centrafricana o in Mali, contro i gruppi armati rivali che minacciavano il loro potere. Dopo la marcia su Mosca, Wagner probabilmente non rimarrà un fornitore di sicurezza credibile per i leader stranieri. Il modello subirà quindi cambiamenti fondamentali”.
    Secondo l’analista “la capacità di Prigozhin di mantenere le attività di Wagner all’estero sarà cruciale per comprendere il suo rapporto con la leadership russa. Le compagnie militari private non dovrebbero esistere in Russia, poiché non esiste uno status giuridico applicabile. Si presume generalmente che la Wagner sia stata fondata in stretta collaborazione con l’agenzia militare estera russa (Gru), fornendo un accordo utile per condurre azioni al di fuori dei confini russi con un certo grado di negabilità (da parte delle autorità russe, ndr) plausibile”.
    Dumoulin ritiene che con l’azione di sabato “formalmente, il potere di Vladimir Putin non è stato minacciato, ma la sua autorità è stata esplicitamente e radicalmente messa in discussione. Non è la prima volta: Anche il ritorno di Navalny in Russia all’inizio del 2021, dopo il tentativo di avvelenamento, ha rappresentato una sfida all’autorità di Putin, poiché Navalny ha affermato la sua capacità di stabilire l’agenda. Ma questa era una sfida politica. La marcia di Prigozhin su Mosca è stata molto più radicale e violenta. Il fatto che Putin sia disposto a fare concessioni di fronte alla violenza potrebbe preannunciare ulteriori sfide di natura ancora più radicale“.
    “La sfida – sottolinea la studiosa – è arrivata da una persona percepita come vicina a Putin, anche se Prigozhin non è mai stato un vero insider. Per questo motivo il suo tentativo di marciare su Mosca è stato definito da Putin ‘tradimento’. Tuttavia, è probabile che abbia chiarito a molti all’interno del sistema russo che il ‘divide et impera’ di Putin stava diventando pericoloso per il sistema stesso”.
    Gli eventi di questo fine settimana “hanno anche messo in discussione uno degli elementi centrali della narrativa di Putin da quando è al potere: ha costruito il suo governo sull’idea di portare stabilità e ordine nel Paese dopo il caos degli anni Novanta. Finché la guerra è rimasta lontana per la maggior parte dei russi, questa narrazione ha potuto reggere. Tuttavia ritiene Dumoulin -, una ribellione da parte di un gruppo paramilitare non si allinea bene con questa narrazione”.
    “Non mi aspetto che questi eventi abbiano un impatto diretto sulle operazioni in Ucraina – conclude l’analista di Ecfr -, ma probabilmente influenzeranno il morale dell’esercito russo e potrebbero persino portare a mettere in discussione la loro fedeltà alla leadership politica. Prigozhin ha espresso preoccupazioni riguardo agli obiettivi della ‘operazione militare speciale’ e alla condotta delle operazioni. Queste preoccupazioni sono probabilmente condivise da una parte dell’esercito russo“.

    Secondo la direttrice del programma per l’Europa allargata dell’European Council on Foreign Relations il capo della Wagner “ha espresso preoccupazioni riguardo agli obiettivi e alla gestione della ‘operazione militare speciale’. Queste preoccupazioni sono probabilmente condivise da una parte dell’esercito russo”

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    In Ungheria è andato in scena uno strano trasferimento di prigionieri ucraini dalla Russia. L’Ue: “Budapest chiarisca”

    Bruxelles – È oscura la vicenda del trasferimento in Ungheria di 11 prigionieri di guerra ucraini nelle mani dell’esercito russo fino al 9 giugno. Non si è trattato di un normale scambio di ostaggi mediato da un Paese terzo (per quanto l’Ungheria sia un membro dell’Unione Europea e a livello teorico nettamente schierato sulla guerra in corso), dal momento in cui tutta l’operazione è avvolta dal mistero e di certo c’è solo che non è stata coordinata con Kiev. È un trasferimento strano perché è stato proposto dalla Chiesa ortodossa russa, perché il governo ungherese sostiene di non saperne nulla, ma allo stesso tempo quello ucraino lo accusa di non permettere i contatti con i suoi soldati.
    Da sinistra: il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán
    “Le autorità competenti dell’Ungheria devono spiegare alle controparti ucraine cosa è accaduto, come è accaduto, chi è stato coinvolto, qual è stato il ruolo dell’Ungheria e come è stato gestito con l’Ucraina”, Paese i cui cittadini “sono stati fatti prigionieri di guerra dall’aggressore russo”. È quanto messo in chiaro oggi (21 giugno) nel corso del punto con la stampa di Bruxelles dal portavoce del Servizio per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, rispondendo alle perplessità dei giornalisti sul fatto che un membro dell’Unione possa aver tenuto all’oscuro gli altri 26 Paesi membri e soprattutto l’Ucraina su un’operazione di rilascio di prigionieri di guerra con l’esercito di Vladimir Putin (a fronte di quale prezzo al momento non è dato sapere). “Chiederemo alle autorità ungheresi maggiori informazioni su quanto accaduto”, ha anticipato il portavoce, precisando che “spetta loro spiegare alle autorità ucraine i dettagli e la partecipazione su questo caso“.
    A quanto si apprende da funzionari del governo ungherese, il trasferimento degli 11 prigionieri di guerra ucraini sarebbe stato organizzato dalla Chiesa ortodossa russa e dal Servizio di beneficenza ungherese dell’Ordine di Malta, senza il coinvolgimento del governo di Budapest né con il coordinamento di Kiev. I soldati sarebbero tutti originari della Transcarpazia, regione sud-occidentale dell’Ucraina con una consistente comunità ungherese, di cui solo tre sono stati rimpatriati ieri (20 giugno) nel Paese. Da Kiev son arrivate accuse al governo Orbán per aver organizzato un’operazione segreta con il fine di aumentare la propria popolarità interna, impedendo al governo ucraino di mettersi in contatto con i membri del suo esercito. Dal capo di gabinetto del premier ungherese, Gergely Gulyas, è arrivata una netta smentita: “Non sono prigionieri di guerra da un punto di vista legale in Ungheria, possono lasciare il Paese in qualsiasi momento, non li controlliamo o monitoriamo”.
    Il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán
    A prescindere dal coinvolgimento delle autorità ungheresi (anche se l’eventualità rappresenterebbe uno scenario sconcertante per un Paese membro dell’Ue), è evidente che i rapporti tra Kiev e Budapest – ma anche tra Bruxelles e Budapest – sono ai minimi storici. Il premier Orbán non ha mai nascosto le sue simpatie per l’autocrate russo Putin, con cui ha ancora forti legami politici ed economici mai recisi nemmeno con l’invasione dell’Ucraina dal 24 febbraio 2022. L’Ungheria è sempre una spina nel fianco dell’Unione quando si tratta di dare il via libera a nuove sanzioni contro Mosca e negli ultimi mesi anche allo stanziamento di nuovi finanziamenti a Kiev, ma soprattutto sul piano energetico (una delle sfide più grandi per l’Ue nell’affrontare la dipendenza dalle fonti fossili russe). Il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjártó, è stato il primo politico di un Paese membro a recarsi a Mosca per stringere un accordo per maggiori forniture di gas rispetto ai volumi previsti dal contratto a lungo termine che dal 2021 lega Budapest e Mosca. Il tutto quando manca un anno all’avvio della presidenza di turno ungherese del Consiglio dell’Ue: dal primo luglio 2024 il governo Orbán avrà in mano le chiavi di una delle tre istituzioni comunitarie per sei mesi.

    La Commissione Europea vuole che il governo di Viktor Orbán spieghi “cosa è accaduto, come è accaduto, chi è stato coinvolto” nella vicenda del trasferimento segreto di 11 soldati rilasciati su proposta della Chiesa ortodossa russa in un’operazione non coordinata con Kiev