More stories

  • in

    Il vento nazionalista soffia ancora in Ungheria e Serbia: Orbán e Vučić stravincono le elezioni (tra le polemiche)

    Strasburgo, dall’inviato – Dentro e appena fuori i confini dell’UE, là dove l’Unione sta spingendo il processo di allargamento, non si è placato il vento dei populismi di destra, i più vicini alla Russia di Vladimir Putin. L’intensa domenica di elezioni (3 aprile) in Ungheria e Serbia ha sancito il trionfo rispettivamente del premier Viktor Orbán e del presidente Aleksandar Vučić, i due leader che stanno costruendo una forte alleanza nazionalista sull’asse Budapest-Belgrado, non completamente allineata alla politica di Bruxelles nei confronti della Russia. Due tornate elettorali particolarmente intense alla vigilia – per le aspettative di un cambiamento al vertice dei due Paesi – ma anche dopo la chiusura dei seggi, a causa delle grosse polemiche sul processo di voto e delle rivendicazioni di vittoria delle elezioni, sia in Ungheria sia in Serbia.
    Qui Budapest
    Niente da fare per l’opposizione unita guidata da Péter Márki-Zay. Nonostante il testa a testa previsto alla vigilia del voto, il partito Fidesz del premier Orbán ha conquistato il 53,13 per cento dei voti alle elezioni parlamentari, migliorando di quattro punti percentuali il risultato di quattro anni fa e assicurandosi nuovamente la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea nazionale (135 seggi su 199). Con il 98,96 per cento delle schede scrutinate, la commissione elettorale ungherese ha confermato il nuovo trionfo dell’uomo forte di Budapest, che ora riceverà il quarto mandato consecutivo per formare l’esecutivo (al potere ininterrottamente dal 29 maggio 2010).
    Alta l’affluenza, al 69,54 per cento – in leggera flessione rispetto alle elezioni del 2018 (70,22) – che però non ha premiato l’opposizione formata dai sei partiti guidati dall’economista conservatore Márki-Zay (socialisti, verdi, liberali, progressisti e conservatori): nel sistema elettorale che assegna 106 seggi ai collegi uninominali, la coalizione ne ha conquistati 56, fermandosi al 35,04 per cento dei voti. A superare la soglia di sbarramento al 5 per cento anche i nazionalisti di estrema destra del Movimento Nostra Patria (6,17 punti percentuali, per 7 deputati), più il seggio garantito alla minoranza tedesca.

    Hungary, national parliament election:
    With 99% counted, the right-wing Fidesz/KDNP (NI|EPP) alliance of Prime Minister Viktor Orbán wins a 2/3-parliamentary majority for the 3rd time in a row.
    The right-wing extremist Mi Hazánk (~NI) enters parliament for the 1st time. #Ungarn pic.twitter.com/kRkvIvJWyz
    — Europe Elects (@EuropeElects) April 4, 2022

    “Abbiamo ottenuto una vittoria così grande che può essere vista anche dalla luna, e sicuramente da Bruxelles”, ha esultato il premier Orbán, polemizzando contro “la più grande forza che ha provato a schiacciarci” prima del voto: “Contro il globalismo, contro i burocrati di Bruxelles, contro Soros, contro i media mainstream europei e anche contro il presidente ucraino”, Volodymyr Zelensky, in riferimento ai rimproveri rivoltigli durante l’ultimo Consiglio Europeo. La prima dichiarazione populista del premier ungherese è servita e porta con sé una nota sinistra sui rapporti con Kiev e soprattutto con Putin, tradizionale alleato di Orbán. Dopo aver tenuto un profilo basso nell’ultimo mese di campagna elettorale, che è coinciso con l’inizio della campagna militare russa in Ucraina, ora da Budapest potrebbero arrivare picconate all’unanimità sempre raggiunta tra i leader UE sulle sanzioni e sulla lotta senza quartiere a Mosca. “Fidesz rappresenta una forza conservatrice patriottica e cristiana, è il futuro dell’Europa. Prima l’Ungheria!”, ha concluso il suo messaggio post-voto Orbán, facendo capire con quale spirito tornerà ad approcciarsi a Bruxelles.
    Il premier ungherese ha però taciuto la sconfitta personale arrivata dal referendum sulla legge anti-LGBT+, che si è tenuto sempre ieri contemporaneamente alle elezioni parlamentari. Solo il 44,46 per cento degli elettori ha espresso un voto valido, non raggiungendo il quorum richiesto per avallare la proposta legislativa del governo. Un’altra criticità ha riguardato lo svolgimento del processo elettorale, reso opaco dalle modifiche alla legge elettorale, dalle regole di registrazione degli indirizzi, dai problemi di trasparenza dei finanziamenti della campagna e dall’influenza del partito al potere sui media. Riconoscendo la sconfitta “in questo sistema”, il candidato premier dell’opposizione Márki-Zay ha ribadito che “è la propaganda ad aver vinto queste elezioni, non l’onestà, abbiamo fatto tutto quello che potevamo”.

    Hungary: national referendum today:
    “Do you support the teaching of sexual orientation to minors in public education institutions without parental consent?”
    Vote among all eligible voters
    No: 41%Yes: 3%
    Threshold to meet: 50%+ of eligible voters voting either ‘yes’ or ‘no’ pic.twitter.com/7P2F20ABIk
    — Europe Elects (@EuropeElects) April 4, 2022

    Qui Belgrado
    Contemporaneamente alle elezioni in Ungheria, anche per la Serbia il 3 aprile 2022 segna una data-chiave per la riaffermazione delle forze nazionaliste legate alla Russia di Putin. Con il 90 per cento delle schede scrutinate, il presidente Vučić è proiettato alla seconda vittoria consecutiva al primo turno delle presidenziali, con il 59,55 per cento dei voti, mentre il principale candidato dell’opposizione unita, Zdravko Ponoš, si ferma al 17. Per quanto riguarda le elezioni parlamentari, il Partito Progressista Serbo di Vučić si attesta al 43,45 per cento dei voti, assicurandosi 122 deputati sui 250 dell’Assemblea nazionale: lontano il cartello di opposizione Serbia Unita, con 13 punti percentuali e 36 seggi. Sembrano tramontare anche le possibilità per l’opposizione di strappare dalle mani dei nazionalisti la capitale Belgrado: il candidato dell’SNS, Aleksandar Šapić, si sta affermando con quasi il 40 per cento delle preferenze, mentre quelli dell’opposizione Serbia Unita, Vladeta Janković, e del movimento della sinistra ecologista Moramo, Dobrica Veselinović, rispettivamente al 20 e al 10 per cento.
    Nel mezzo di un processo elettorale su cui si attende il giudizio degli osservatori internazionali anche del Parlamento Europeo per le sospette irregolarità di voto e le violenze contro i candidati dell’opposizione al Partito Progressista Serbo fuori da alcuni seggi, l’UE guarda con preoccupazione alle dichiarazioni del presidente Vučić, che ieri sera si è attribuito la vittoria dalla sede dell’SNS. “Quello che è importante per europei, russi e americani è che proseguiremo nella nostra politica di neutralità“, ha affermato, confermando che Belgrado manterrà buoni rapporti con la Russia e, implicitamente, non aderirà alle sanzioni occidentali. “Dobbiamo vedere cosa fare sul petrolio e ci saranno colloqui sul gas” russo, ha aggiunto Vučić, ribadendo con forza che “questa crisi ha scosso economie molto più forti della nostra, ma noi siamo completamente stabili”.

    Serbia (Presidential Election), 88.7% parallel count:
    Vučić (SNS+-EPP): 59% (+4)Ponoš (US-S&D): 18% (+2)Jovanović (NADA-*): 6% (+1)…
    Source: CeSID / Ipsos
    +/- vs. 2017 election result
    ➤ https://t.co/eWnraQ39P8#Izbori2022 #Srbija #Serbia #SerbiaElections pic.twitter.com/IXba6uQHet
    — Europe Elects (@EuropeElects) April 3, 2022

    I due più stretti alleati di Putin in Europa, il premier ungherese e il presidente serbo, sono stati riconfermati con un’ampia maggioranza dai rispettivi elettorati. Contestazioni sul processo elettorale e sullo svolgimento del voto, oltre alle provocazioni rivolte all’UE

  • in

    Una delegazione di eurodeputati parteciperà alla missione di osservazione elettorale in Serbia il 3 aprile

    Bruxelles – Sarà una super domenica di elezioni in Serbia e per questo appuntamento fondamentale per il Paese balcanico le istituzioni UE vogliono tenere sotto controllo lo svolgimento, l’affluenza e le modalità di voto. Con questo obiettivo inizia oggi (giovedì 31 marzo) fino a lunedì prossimo (4 aprile) la missione di osservazione elettorale da parte di una delegazione di sette eurodeputati, in occasione delle elezioni parlamentari (anticipate), presidenziali e amministrative in Serbia del 3 aprile.
    “Esamineremo tutti gli aspetti delle elezioni, compreso il quadro giuridico, l’amministrazione elettorale, i reclami e i ricorsi, l’ambiente politico e la campagna elettorale, la performance dei media, la situazione delle minoranze nazionali e la partecipazione delle donne”, ha commentato il capo della delegazione del Parlamento UE, l’eurodeputato olandese Thijs Reuten (S&D). I membri del Parlamento UE si uniranno alla missione internazionale di osservazione delle elezioni in Serbia organizzata dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), che incontrerà in questi giorni candidati, partiti, funzionari, amministratori e cittadini. Al termine della missione saranno presentate le conclusioni sul processo elettorale, in linea con quanto osservato sul territorio serbo.
    Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić (Belgrado, 8 luglio 2021)
    Il triplice appuntamento elettorale si innesta sullo sfondo di una situazione politica particolarmente tesa nel Paese. Le elezioni parlamentari arrivano a due anni dal boicottaggio dei partiti di opposizione per le accuse al presidente Aleksandar Vučić di politiche illiberali nei confronti della società civile e della libertà di stampa: dal 2020 il suo Partito Progressista Serbo (SNS) governa con una maggioranza di 188 deputati su 250 e il voto anticipato è stato imposto dallo scetticismo dei partner internazionali sul livello di rispetto degli standard democratici del Paese. La convocazione degli elettori per il rinnovo dell’Assemblea nazionale lo stesso giorno dell’elezione del nuovo presidente della Serbia sa di pronunciamento sui cinque anni di presidenza Vučić, che cerca la riconferma per un secondo mandato.
    La campagna elettorale in Serbia, che è ruotata attorno a temi vecchi (adesione UE, Kosovo, NATO) e apparentemente nuovi (aggressione russa dell’Ucraina e rapporto tra Mosca e Belgrado), è stata travolta dalle polemiche sulla partecipazione di alcuni criminali di guerra alle elezioni parlamentari e amministrative. Come il politico ultra-nazionalista Vojislav Šešelj, leader del Partito radicale serbo, condannato a dieci anni di prigione dal Meccanismo per i tribunali penali internazionali dell’Aia nell’aprile 2018 per crimini di guerra contro l’etnia croata nel villaggio di Hrtkovci nel 1992. Secondo la legge serba, se un deputato riceve una pena detentiva superiore a sei mesi, il suo mandato cessa e non può essere rieletto: ma la misura non è mai stata applicata nel caso di Šešelj. “Non c’è spazio per il revisionismo, la glorificazione dei criminali di guerra e la negazione dei genocidi“, ha commentato nel corso del punto quotidiano con la stampa di Bruxelles la portavoce della Commissione Europea Ana Pisonero, anche se non ha risposto esplicitamente alla domanda su una presa di posizione dell’UE sullo scandalo della candidatura dei criminali di guerra.
    A livello internazionale ed europeo, l’esito delle elezioni in Serbia assume ancora più significato se si considera il contemporaneo appuntamento elettorale nella vicina Ungheria, Paese membro UE a cui Belgrado guarda come punto di riferimento nell’Unione e come alleato sull’asse sovranista/nazionalista. Come il presidente serbo Vučić, anche il premier ungherese, Viktor Orbán, punta alla rielezione (la terza consecutiva) in un clima di accuse da parte dell’opposizione e di Bruxelles di violazioni della libertà di stampa e dei diritti delle minorazione, anche considerata la consultazione sul referendum sui diritti LGBT+ che si terrà proprio domenica 3 aprile. Vučić e Orbán sono legati da stima reciproca e da un rapporto particolarmente stretto a livello politico: il presidente serbo ammira le modalità di governo dell’uomo forte di Budapest – “veterano della politica europea” – mentre il premier ungherese punta a stringere con Belgrado un’alleanza strategica nell’ottica del futuro ingresso del Paese balcanico nell’Unione. Ecco perché, con le elezioni in Serbia e in Ungheria di domenica, non sono in gioco solo le prospettive della politica interna dei due Paesi, ma anche l’indirizzo su cui procederà il processo di allargamento UE nella regione balcanica.

    Saranno valutati gli standard democratici delle elezioni presidenziali, parlamentari e amministrative nel Paese. L’appuntamento alle urne sullo sfondo delle polemiche sui criminali di guerra e del contemporaneo voto nell’Ungheria di Orbán, alleato del presidente serbo Vučić

  • in

    In Kosovo l’UE sta finanziando il restauro della casa di un collaborazionista nazista (ma per restituirla alla comunità)

    Bruxelles – In Kosovo nemmeno le case hanno pace. L’ultima controversia tra Serbia e Kosovo riguarda la ristrutturazione della casa di Xhafer Ibrahim Deva, collaborazionista ai tempi dell’Albania occupata dal regime nazista, con l’utilizzo di fondi dell’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite (UNPD) e della rappresentanza UE a Pristina.
    A sollevare il caso è stata la vicepremier e ministra per la Cultura e l’informazione della Serbia, Maja Gojković, che ha inviato una lettera alla commissaria UE per la Cultura, l’istruzione e la gioventù, Mariya Gabriel, e al direttore esecutivo dell’UNPD, Akim Steiner, per chiedere di non proseguire con il progetto di restauro nella città di Kosovska Mitrovica della casa del collaborazionista della Germania nazista, macchiatosi di pogrom e crimini contro ebrei e serbi in Kosovo durante la seconda guerra mondiale.
    Xhafer Ibrahim Deva (1904-1978)
    Deva (deceduto nel 1978 a San Francisco) dopo la caduta del Protettorato Italiano del Regno d’Albania nel 1943, divenne ministro degli Interni albanese e fu a capo dell’amministrazione locale di Mitrovica, collaborando con i nazisti per stabilire un governo albanese filo-tedesco in Kosovo. Sotto la sua amministrazione furono condotte operazioni anti-partigiane e anti-serbe e furono reclutati albanesi del Kosovo nella 21esima divisione Waffen-SS Skanderbeg. Nel 1944, appena prima della liberazione dell’Albania, Deva scappò in Croazia e in Austria e, alla fine della guerra, si trasferì prima a Damasco (Siria) e poi negli Stati Uniti, dove giocò un ruolo attivo nell’organizzazione della resistenza anticomunista (reclutato dalla Central Intelligence Agency, CIA).
    Nell’ottica della memoria dei crimini nazisti, sembra ingiustificabile il supporto dell’UE e dell’UNPD al restauro della casa di un collaborazionista in Kosovo. Ecco perché bisogna tenere presente le motivazioni presentate nella risposta congiunta rilasciata della rappresentanza UE a Pristina e dal ministero della Cultura, della Gioventù e dello Sport del Kosovo, per spiegare che è il valore architettonico dell’edificio e non chi l’ha occupato al centro del progetto del Centro culturale regionale: “La conservazione e la riabilitazione del patrimonio culturale e religioso è guidata dalla necessità di garantire la sua esistenza per i posteri, concentrandosi sui valori architettonici di tali siti”.
    L’edificio situato nel centro di Kosovska Mitrovica è stato costruito nel 1930 da architetti e operai austriaci e appartiene allo stile moderno occidentale-europeo, il primo nel suo genere nella città: grazie alle sue numerose decorazioni esterne, “la casa è nella lista temporanea dei siti del patrimonio culturale protetto in Kosovo“. Dal 1945 è di proprietà pubblica ed è stato utilizzato come centro di assistenza sanitaria, rifugio per famiglie senza tetto e orfanotrofio, ma è poi caduto in rovina. Ecco perché “il restauro previsto farà sì che i suoi valori architettonici vengano ripristinati e che la casa venga nuovamente recuperata per la comunità”, con il doppio scopo di “fornire uno spazio per eventi culturali e comunitari e ospitare il Centro Regionale per il Patrimonio Culturale”.
    È qui che si chiariscono tutti i dubbi: “La casa servirà come centro per le comunità locali per riunirsi, esplorare idee, promuovere l’interculturalità, la tolleranza e la connettività“, sempre in un’ottica di “tolleranza zero verso qualsiasi forma di razzismo, discriminazione, pregiudizio o appartenenza etnica che tenta di giustificare o promuovere l’odio razziale e la discriminazione”, si legge nella lettera. UE e UNPD si sono dette “preoccupate” rispetto alla controversia che lega il passato dell’edificio con le attuali tensioni sommerse tra Serbia e Kosovo e, sull’onda dello spirito che guida il dialogo tra Pristina e Belgrado mediato da Bruxelles, hanno richiamato l’attenzione sulla necessità di “lavorare per il futuro del dialogo intercomuniatrio”.

    La dimora di Xhafer Ibrahim Deva nella città di Kosovska Mitrovica è sottoposta a restauro in un programma guidato dall’ONU: “L’edificio appartiene allo stile moderno occidentale-europeo e compare nella lista temporanea dei siti del patrimonio culturale protetto”

  • in

    Serbia, adesione UE più vicina: approvate alcune delle riforme costituzionali richieste dall’Unione

    Bruxelles – La Serbia prosegue lungo il cammino di adesione all’UE e con un referendum sulle riforme costituzionali in materia di nomine del sistema giudiziario cerca di allinearsi agli standard richiesti dall’Unione. Gli elettori serbi hanno approvato ieri (domenica 16 gennaio) i 29 emendamenti della Costituzione nazionale sulle nomine di giudici e procuratori, che non saranno più decise dall’Assemblea nazionale ma da un Consiglio superiore della magistratura.
    Secondo i risultati annunciati nella tarda serata di domenica, si è espresso a favore della riforma giudiziaria il 61,84 per cento degli elettori che si sono recati alle urne. L’affluenza si a fermata al 30,6 per cento, ma da novembre dello scorso è stato abolito il quorum del 50 per cento degli aventi diritto al voto. Oltre alla questione delle nomine dei componenti del sistema giudiziario, le riforme costituzionali prevedono anche  l’istituzione di organi di controllo sugli istituti giudiziari e una riduzione dei tempi dello svolgimento dei processi.
    La riforma giudiziaria è stata voluta dal governo presieduto da Ana Brnabić per avvicinare la Serbia agli standard UE sullo Stato di diritto. Da anni Bruxelles chiede a Belgrado che le nomine di giudici e procuratori siano sottratte dall’influenza politica e questo tema è al centro delle conferenze intergovernative che si sono aperte il 23 giugno 2021. In una nota pubblicata venerdì scorso (14 gennaio), le ambasciate di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea avevano definito il referendum “un passo fondamentale” sia per rafforzare l’indipendenza e la trasparenza del potere giudiziario, sia per “l’allineamento della Serbia agli standard europei”, che andranno a “sostenere il processo di adesione all’UE”.
    “Accolgo con favore questo importante passo e l’impegno nel percorso verso l’UE”, ha commentato su Twitter il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Il membro della Commissione Europea al centro delle polemiche a Bruxelles per il suo presunto coinvolgimento nella crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina ha aggiunto che “continueremo a lavorare con le autorità serbe sull’ambizioso programma” di riforme costituzionali, “facendo progredire l’integrazione della Serbia nell’Unione Europea”.

    #Serbia: In today’s referendum voters supported the change of the Constitution to reinforce judicial independence. I welcome this important step & commitment to #EU path. We will continue to work with Serbian authorities on ambitious reform agenda, advancing EU integration.
    — Oliver Varhelyi (@OliverVarhelyi) January 16, 2022

    Ma oltre confine, in Kosovo, è stato un fine settimana di grandi tensioni politiche, proprio a causa del referendum sulle riforme costituzionali della Serbia. L’Assemblea di Pristina ha approvato venerdì una risoluzione in otto punti contro la possibilità che i cittadini kosovari di etnia serba potessero recarsi alle urne sul territorio del Kosovo, dal momento in cui sarebbe stata “incostituzionale” e avrebbe violato la sovranità del Paese. La richiesta di aprire centri elettorali in Kosovo era arrivata dal governo serbo ed era stata avallata dall’UE: “L’UE si rammarica che non sia stato possibile trovare un accordo con il governo del Kosovo che permetta all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) di raccogliere le schede elettorali in Kosovo, secondo la prassi passata”, si legge in una nota del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE).
    Da Pristina non era arrivata nessuna concessione e il governo guidato da Albin Kurti aveva ribadito che gli elettori con doppia cittadinanza fossero liberi di votare per posta o sul suolo serbo. I serbi del Kosovo hanno protestato nel nord del Paese – dove sono in maggioranza – ma non sono stati segnalati incidenti. La disputa sul voto in Kosovo per il referendum sulle riforme costituzionali della Serbia è un nuovo tassello nella tensione crescente tra Pristina e Belgrado, che l’Unione Europea sta cercando di risolvere attraverso una mediazione che dura da più di 10 anni. “Chiediamo ai governi del Kosovo e della Serbia di astenersi da azioni e retoriche che aumentano le tensioni e di impegnarsi in modo costruttivo nel dialogo facilitato dall’UE“, avevano aggiunto gli ambasciatori occidentali, ricordando che “è importante che entrambi i governi compiano progressi verso un accordo globale che sblocchi la prospettiva dell’UE e aumenti la stabilità regionale”.

    Serbia: Joint Statement by 🇪🇺🇫🇷🇩🇪🇮🇹🇺🇸🇬🇧 on the upcoming referendum, also recalling the rights of Serbs in Kosovo in this context. https://t.co/mxqIvEZey7
    — Peter Stano (@ExtSpoxEU) January 14, 2022

    Via libera dal referendum sulla riforma giudiziaria, che prevede 29 emendamenti alla Costituzione in materia di nomine del sistema giudiziario. Il Kosovo ha negato l’apertura di centri di voto per i cittadini di etnia serba sul territorio nazionale

  • in

    Il sostegno UE alle riforme sullo Stato di diritto nei Balcani Occidentali è stato “largamente insufficiente”

    Bruxelles – La rotta è giusta, ma quanto fatto finora non è abbastanza. Si può riassumere così la valutazione della Corte dei Conti Europea sul sostegno UE alle riforme per lo Stato di diritto nei Balcani Occidentali. Secondo la relazione speciale pubblicato oggi (lunedì 10 gennaio) gli interventi dell’Unione Europea hanno avuto un impatto “largamente insufficiente” su questo aspetto fondamentale del cammino dei sei Paesi balcanici (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia) verso l’adesione all’UE.
    La verifica della Corte dei Conti Europea era iniziata nel gennaio dello scorso anno, con l’obiettivo di analizzare se il supporto europeo fosse stato progettato in modo appropriato, se fosse stato utilizzato “coerentemente per affrontare le questioni-chiave” e se avesse portato a miglioramenti “concreti e sostenibili”.
    Nonostante sia stato riconosciuto lo sforzo di Bruxelles nell’accelerare le riforme fondamentali per il rafforzamento dello Stato di diritto nei Balcani (separazione dei poteri, procedure legislative trasparenti e democratiche, certezza giuridica, controllo giurisdizionale efficace, indipendenza e imparzialità dei giudici, uguaglianza davanti alla legge), hanno pesato in questo contesto “l’insufficiente volontà politica e lo scarso impegno” delle istituzioni nazionali nell’affrontare “problemi persistenti” come la concentrazione del potere, le ingerenze politiche e la corruzione.
    Il contributo dell’UE ai Paesi balcanici è prima di tutto finanziario, rappresentando il principale donatore a livello globale per lo sviluppo economico della regione. Oltre al Piano economico e di investimenti da 29 miliardi di euro presentato dalla Commissione UE nell’ottobre del 2020, l’assistenza finanziaria dell’UE viene garantita grazie allo strumento di assistenza pre-adesione (IPA). Nel periodo 2014-2020 sono stati stanziati circa 12,8 miliardi di euro attraverso IPA II – di cui 700 milioni per sostenere lo Stato di diritto e i diritti fondamentali nei Balcani Occidentali – mentre a partire dallo scorso anno (fino al 2027) è attivo IPA III con una dotazione di 14,2 miliardi. Tuttavia, tra sovvenzioni, sostegno al bilancio, assistenza tecnica e scambio di informazioni, questo sostegno non è stato considerato sufficiente dalla Corte dei Conti UE e soprattutto “il suo impatto non è stato rigorosamente monitorato“.
    Dotazione finanziaria bilaterale IPA II per lo Stato di diritto e i diritti fondamentali (2014-2020)
    La cartina tornasole è l’aggravamento delle forme di autoritarismo nei sei Paesi balcanici negli ultimi dieci anni, proprio in corrispondenza dell’erogazione dei fondi attraverso gli strumenti IPA e nonostante i “progressi formali compiuti verso l’adesione all’UE” (i negoziati sono stati aperti solo con Serbia e Montenegro, mentre Macedonia del Nord e Albania sono bloccate dal veto della Bulgaria in seno al Consiglio dell’UE). Citando il rapporto 2021 dell’ONG Freedom House, la Corte dei Conti Europea ha sottolineato che “i governi dei Balcani Occidentali sono riusciti a combinare un impegno formale per la democrazia e l’integrazione europea con pratiche autoritarie informali” e che, fatta eccezione per la Macedonia del Nord, sul rispetto dello Stato di diritto “tutti questi Paesi presentano una tendenza stabile o addirittura in regresso”.
    Preoccupano le forme di corruzione che impediscono ai sistemi giudiziari di indagare, perseguire e sanzionare in modo efficace, che creano monopoli in settori strategici e che mettono a repentaglio la libertà di espressione: non a caso quest’ultimo è l’ambito in cui sono stati registrati meno progressi in tutti e sei i Paesi balcanici. Oltre alla mancanza di volontà politica interna, un altro fattore del giudizio della Corte con sede in Lussemburgo è legato al fatto che “l’UE si è avvalsa troppo di rado della possibilità di sospendere l’assistenza nel caso in cui un beneficiario non osservi i princìpi fondamentali della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”. La Corte dei Conti Europea ha avvertito che “se l’azione dell’Unione sembra aver contribuito alle riforme, è perché le comunicazioni a riguardo tendono a concentrarsi sui dati quantitativi relativi alle realizzazioni e non abbastanza su quello che le riforme hanno effettivamente conseguito“.
    “I modesti progressi compiuti negli ultimi 20 anni mettono a rischio la sostenibilità complessiva del sostegno fornito dall’UE nell’ambito del processo di adesione”, ha commentato Juhan Parts, membro della Corte dei Conti Europea e responsabile della relazione speciale. “Le riforme costanti perdono di credibilità se non conducono a risultati tangibili“, ha aggiunto. Per questo motivo è stato raccomandato alla Commissione UE e al Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) di rafforzare il meccanismo per promuovere le riforme fondamentali, di intensificare il sostegno alle organizzazioni della società civile e ai media indipendenti nei singoli Paesi dei Balcani Occidentali e, nell’ambito dello strumento IPA III, di rafforzare sia il ricorso alla condizionalità sullo Stato di diritto sia la rendicontazione e il monitoraggio dei progetti finanziati da Bruxelles.

    Lo evidenzia una relazione della Corte dei Conti UE, che sottolinea sia la mancanza di volontà politica dei governi nazionali, sia il fatto che l’UE non abbia quasi mai sospeso l’assistenza finanziaria in caso di palesi violazioni

  • in

    L’ennesimo anno perso dall’UE sulla strada dell’allargamento ai Balcani Occidentali: (quasi) tutto rimandato al 2022

    Bruxelles – No, i negoziati per l’adesione all’Unione Europea di Albania e Macedonia del Nord non sono ancora iniziati. La grande promessa della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è caduta nel vuoto. Questa parola data e non rispettata dall’UE ai Balcani Occidentali è uno dei molti segnali di difficoltà che stanno caratterizzando non solo il processo di allargamento dell’Unione nella regione, ma anche gli stessi rapporti tra Bruxelles e le capitali balcaniche.
    Sul 2021 c’erano grandi aspettative di rilancio del ruolo dell’UE nei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia), considerati i diversi dossier lasciati in sospeso alla fine dello scorso anno. La maggior parte sono rimasti pressoché inalterati – se non addirittura peggiorati – mentre solo pochi hanno trovato una nuova spinta. La realtà dei fatti è che al momento sono solo due i Paesi che hanno aperto i quadri negoziali con Bruxelles (Serbia e Montenegro).
    Il contorno è una crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina, un dialogo Kosovo-Serbia che si sta incrinando sempre di più e un clima di disillusione a Skopje e Tirana che non fa presagire nulla di buono. Nel 2022 l’Unione Europea dovrà dimostrare di saper mantenere le promesse fatte ai partner balcanici, o rischierà di compromettere definitivamente il processo di allargamento.
    L’allargamento dell’UE nei Balcani
    Si tratta del tema più caldo sul tavolo europeo e anche il rimpianto più grande di questo 2021. Dopo il veto della Bulgaria all’apertura dei quadri negoziali con la Macedonia del Nord (che ha trascinato nello stallo anche l’Albania) del dicembre dello scorso anno, ci si aspettava che le pressioni diplomatiche sul governo di Sofia avrebbero portato allo sblocco della situazione e l’inizio del cammino di adesione UE per i due Paesi dei Balcani Occidentali vincolati dallo stesso dossier.
    Da sinistra: il premier sloveno e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Janez Janša, il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, e la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen (Kranj, 6 ottobre 2021)
    Ad alzare le aspettative era stata la stessa presidente von der Leyen, che nel suo tour a settembre nelle capitali balcaniche aveva promesso a Skopje e Tirana che “le prime conferenze intergovernative si dovranno organizzare entro la fine dell’anno“. Già allora sembrava un azzardo (ma rimane pur sempre la posizione ufficiale della Commissione) e forse è stato anche per questo motivo che, come riportato da Eunews direttamente da Kranj (Slovenia), il mancato accordo al vertice UE-Balcani Occidentali di inizio ottobre non ha rappresentato una grossa sorpresa.
    Il ritorno in presenza (dopo tre anni) dell’appuntamento più importante tra i leader dell’Unione Europea e della regione balcanica è coinciso con un nulla di fatto, al contrario delle aspettative della presidenza slovena del Consiglio dell’UE, che aveva spinto per inserire – invano – la data del 2030 come termine ultimo per il processo di allargamento dell’UE nei Balcani.
    A proposito di adesione all’Unione Europea, va segnalato un parziale successo di Bruxelles nello spingere con decisione i due Paesi che hanno già aperto i negoziati, dando più credibilità e affidabilità a questo processo. Lo scorso 22 giugno sono state avviate le prime conferenze intergovernative con Serbia e Montenegro, attraverso una metodologia rivista basata sull’accorpamento di 33 capitoli negoziali in 6 gruppi tematici: secondo le intenzioni di Bruxelles, in questo modo si riuscirà a dare maggiore dinamismo e risultati tangibili sul fronte delle riforme strutturali a Belgrado e Podgorica.
    Il dialogo Pristina-Belgrado
    Qui invece ci troviamo di fronte al solito nodo irrisolto delle relazioni diplomatiche tra Kosovo e Serbia, con il tentativo di Bruxelles di trovare un punto di mediazione. Il dialogo, che quest’anno ha compiuto esattamente 10 anni, era ripreso nel luglio dello scorso anno dopo anni di silenzio. Ma proprio nel momento in cui si iniziava a sperare in un compromesso tra le parti, il 2021 ha riservato l’ennesima ondata di tensioni.
    Il primo scossone è stata l’elezione del nuovo primo ministro kosovaro, il leader nazionalista di sinistra Albin Kurti. Se da una parte è stato l’artefice di una maggiore stabilizzazione del Paese, allo stesso tempo Kurti ha fatto capire a Belgrado che non farà nessuno sconto nel corso dei negoziati. Ad aumentare questa posizione dura a Pristina – che sta indispettendo la controparte serba – è stata la nomina della nuova presidente della Repubblica, Vjosa Osmani, che da aprile chiede più vaccini anti-COVID per il suo Paese: “Il dialogo con Belgrado prima dei vaccini non è una priorità”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante UE, Josep Borrell, e il premier del Kosovo, Albin Kurti (15 giugno 2021)
    Per l’UE si tratta di una delle questioni più spinose nei Balcani Occidentali. Dopo il fallimento della ripresa del dialogo nel doppio incontro di alto livello di quest’estate, a inizio autunno si è toccato il punto più basso. Lo scorso 20 settembre è scoppiata la cosiddetta ‘battaglia delle targhe’ tra i due Paesi, dopo la decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Dopo 10 giorni di incontri e negoziati promossi da Bruxelles, l’UE è riuscita a far siglare un’intesa a Serbia e Kosovo, che ha risolto una situazione potenzialmente esplosiva.
    Ma è stata una vittoria di Pirro, che non ha fatto avanzare di un millimetro il processo di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado e che ha avuto come strascico un indebolimento ulteriore della fiducia reciproca. Lo ha dimostrato il fatto che a Bruxelles non si è tenuto più nemmeno un vertice con il premier kosovaro e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. “È inutile incontrarci, se in partenza non c’è l’intenzione di trovare un compromesso”, ha commentato recentemente quasi sconsolato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri, Josep Borrell. Alla vigilia del 2022 la prospettiva di compromessi non sembra essere nemmeno teorica, né sul riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da parte di Belgrado, né sulla creazione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo.
    I buoni propositi per il 2022
    Da cosa ripartire dal primo gennaio del prossimo anno per raddrizzare il cammino dei Balcani Occidentali verso l’UE? Prima di tutto da quello che è indiscutibilmente il vero successo dell’Unione, che le sta consentendo di non perdere troppa credibilità agli occhi dei partner della regione: il Piano economico e di investimenti presentato dal commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi, il 6 ottobre del 2020 e la cui importanza è stata ribadita nel Pacchetto Allargamento 2021.
    Con una mobilitazione di finanziamenti fino a 29 miliardi di euro – e con il sostegno dello strumento di assistenza pre-adesione IPA III per favorire le riforme strutturali – l’UE punta a far sentire la propria presenza economica nella regione, sfidando le insidie russe e soprattutto cinesi nella regione. Una risposta anche allo scandalo del debito da 809 milioni di euro del Montenegro a Pechino, che ha preoccupato l’opinione pubblica fino a fine luglio.
    Il commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi
    Il secondo punto su cui si dovrà insistere sarà la fornitura di vaccini anti-COVID alla regione. Dopo mesi di grandi difficoltà da parte dell’UE, a partire da maggio la situazione dell’invio diretto di dosi e attraverso il meccanismo COVAX ai Balcani Occidentali si è sbloccata, lasciando la sensazione che Bruxelles abbia tutto l’interesse di mettere in sicurezza a livello sanitario i sei Paesi partner. La questione ha una valenza anche geopolitica, dal momento in cui la lotta al COVID-19 sta diventando uno strumento per tenere in piedi il processo di allargamento dell’Unione e si scontra con la penetrazione di Mosca (con il suo vaccino Sputnik V) e di Pechino (con Sinopharm).
    E infine sarà necessario dare una dimostrazione di forza per la stabilizzazione della regione. Evitando errori di comunicazione come quello sul non paper di Lubiana per “completare la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia” – che ha infiammato l’opinione pubblica dei Balcani e dei Paesi membri UE prima dell’inizio del semestre sloveno di presidenza del Consiglio dell’UE – Bruxelles è chiamata a dare una risposta concreta alla crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina. Che si tratti di sanzioni economiche, pressioni politiche o coordinamento con i partner statunitensi sul campo, le istituzioni europee dovranno decidere come non trasformare il 2022 nell’anno in cui le violenze etniche riprenderanno piede nel Paese. Tutto questo a causa delle minacce sempre più reali del membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita, Milorad Dodik, che a ottobre aveva minacciato di portare la Republika Srpska (l’entità serba) fuori dal controllo delle autorità centrali.
    Per l’UE il tempo del temporeggiamento nei Balcani Occidentali sta scadendo. La politica estera nei confronti dei partner più vicini e sensibili alla prospettiva di adesione all’Unione non potrà più basarsi su promesse non mantenute e soli impegni economici. Il 2022 non dovrà essere un ennesimo anno perso sulla strada dell’allargamento, o il rischio di perdere tutta la credibilità accumulata in anni di avvicinamento si potrebbe manifestare in forme più o meno violente. In una regione che ha già dimostrato solo 30 anni fa all’Europa il dramma delle guerre etniche.

    Pesano soprattutto il mancato avvio dei negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord, il dialogo Kosovo-Serbia sempre più stagnante e le difficoltà nel rispondere alla crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegonia

  • in

    L’UE ammonisce Pristina sull’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo: “È nell’accordo con Belgrado, va attuata”

    Bruxelles – Basta scavare un po’ e sotto i sorrisi e le parole d’incoraggiamento dei mediatori dell’Unione al “futuro europeo del Kosovo” si possono intuire i punti di frizione tra l’UE e la parte kosovara per quanto riguarda il dialogo di normalizzazione dei rapporti con la Serbia. È bastato il botta e risposta tra il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, durante la conferenza stampa post-Consiglio di di associazione e stabilizzazione di oggi (martedì 7 dicembre) a mettere in luce che tra Bruxelles e Pristina corre sì buon sangue, ma non è necessariamente un amore incondizionato.
    Il cuore del problema riguarda il rispetto di una parte dell’accordo del 2013 del dialogo Pristina-Belgrado mediato dall’UE, quello relativo alla creazione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, vale a dire una comunità di municipalità kosovare a maggioranza serba a cui dovrebbe essere garantita una maggiore autonomia. “Focalizzare l’attenzione solo su una parte di accordo non implementato a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale del Kosovo è fare gli interessi dei politici di Belgrado, non del popolo che non ha mai protestato”, ha commentato sibillino il premier Kurti. “È ora di trovare un’intesa che guardi al benessere delle persone, più che della politica”, ha aggiunto.
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (7 dicembre 2021)
    Senza filtri la replica di Borrell: “Sono un democratico e non servo nessun politico, voglio che tutte le parti riconoscano l’importanza di rispettare gli impegni presi”. Per l’alto rappresentante UE, “non è vero che la sentenza rende impossibile l’attuazione di questa parte dell’accordo” e perciò da Bruxelles continuerà ad arrivare la richiesta a Pristina di “implementarla, così come tutto il resto del documento”. La questione rimane delicata e si interseca con dinamiche regionali che nelle ultime settimane sono riemerse con forza. Già a settembre, in un’intervista per il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung la presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, aveva bollato l’Associazione delle municipalità serbe come “una fase preliminare della creazione di una seconda Republika Srpska e noi non vogliamo un altro Stato che non funziona, come quello bosniaco“. Dopo le recenti dichiarazioni secessioniste del membro serbo-bosniaco della Presidenza tripartita della Bosnia ed Erzegovina, Milorad Dodik, la percezione di questa parte dell’accordo del 2013 a Pristina non può essere certo cambiata.
    La questione della normalizzazione dei rapporti con Belgrado è stato uno dei temi centrali del quarto Consiglio di associazione e stabilizzazione UE-Kosovo, ma i progressi sembrano essere stati pochi rispetto ai due incontri fallimentari di quest’estate con Kurti e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. Ai giornalisti che hanno chiesto se ci sarà un nuovo round di alto livello prima della fine dell’anno, Borrell ha fatto capire senza troppi giri di parole che sarà quasi impossibile: “La precondizione è che entrambe le parti siano disposte a raggiungere un risultato tangibile e per il momento non sussiste“. L’alto rappresentante UE ha spiegato che “è inutile incontrarci, se in partenza non c’è l’intenzione di trovare un compromesso”, anche se “l’anno non è ancora finito e faremo tutto il possibile”.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi (7 dicembre 2021)
    In ogni caso, l’UE non spegne la luce del dialogo, anzi: “Lo status quo attuale non è sostenibile né per la Serbia né per il Kosovo, e anche per questo motivo bisogna impegnarsi per rafforzare gli accordi raggiunti in passato”, ha ribadito il concetto Borrell. Bruxelles rimane impegnata “nell’abbattere le barriere e avvicinare la regione all’Unione Europea”, ma “non possiamo fare il lavoro al posto vostro”, ha aggiunto. Di qui la necessità di “focalizzarsi anche sullo Stato di diritto, le riforme economiche e la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata”, oltre che sulla “preparazione tecnica dei progetti per il Piano economico e di investimenti dell’Unione“, ha ricordato il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. “Per dare senso alla costruzione di infrastrutture comuni è poi necessario un Mercato regionale, di cui il Kosovo deve fare parte”, è stata l’esortazione del commissario UE.
    Prendendo nuovamente parola, il premier kosovaro ha lodato il progetto dell’Unione Europea come “il più pacifico e di sviluppo dalla fine della seconda guerra mondiale e per questo ne vogliamo fare parte come Paese democratico”. Kurti ha promesso che “non appena arriverà la chiamata dei mediatori europei, mi recherò a Bruxelles“, ricordando che comunque i colloqui con Belgrado “stanno continuando per implementare l’accordo sulle targhe dopo gli sforzi diplomatici di Bruxelles“. Che però, oltre le parole, il rapporto tra Kosovo e Unione Europea non sia solo idillio, lo ha confermato l’ultima nota polemica di Kurti, in linea con quanto già espresso in occasione del vertice UE-Balcani Occidentali di ottobre: “Sono passati tre anni, quattro mesi e tre settimane da quando la Commissione ha confermato che soddisfiamo tutte le condizioni per la liberalizzazione dei visti per i cittadini kosovari, ma niente si è mosso”. Il premier ha avvertito che “il popolo continua ad aspettare, ma la fiducia si rafforza solo con risultati tangibili legati ai progressi”.

    Nel quarto incontro del Consiglio di associazione e stabilizzazione UE-Kosovo l’alto rappresentante Borrell ha esortato il premier Kurti a rispettare “integralmente” tutte le parti dell’intesa siglata nel 2013

  • in

    La Commissione UE presenta il Pacchetto Allargamento 2021: “Evidenti progressi, ma ora rispettiamo le promesse”

    Bruxelles – Appena adottato dal collegio dei commissari, il nuovo Pacchetto Allargamento 2021 dell’UE è stato immediatamente presentato alla commissione Affari esteri (AFET) del Parlamento Europeo, come da tradizione inter-istituzionale. “Abbiamo evidenziato progressi su quasi tutti i dossier, ecco perché vi chiedo di mantenere saldo il vostro supporto al processo di integrazione dei Balcani Occidentali”, ha sottolineato con forza il commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi, illustrando i punti della comunicazione pubblicata oggi (martedì 19 ottobre) dall’esecutivo comunitario.
    “Come avete visto dal viaggio nella regione da parte della presidente Ursula von der Leyen a settembre e durante il vertice UE-Balcani Occidentali, la Commissione Europea è fortemente impegnata in questo processo di allargamento”, ha ricordato Várhelyi agli eurodeputati. Il Piano economico e di investimenti presentato nella comunicazione dello scorso anno rimane il punto centrale anche di questo Pacchetto di Allargamento UE, ma a differenza del 2020 la Commissione può ora contare anche sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III, dopo l’accordo raggiunto dai negoziatori di Consiglio e Parlamento UE. “Possiamo avanzare con ancora più decisione per implementare i punti positivi della Dichiarazione di Brdo”, ha espresso la propria soddisfazione il commissario Várhelyi, ricordando le prospettive dell’Agenda verde e dell’innovazione per i Balcani, del roaming dati gratuito e del Mercato Unico regionale.
    Il commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi, in commissione AFET del Parlamento UE (19 ottobre 2021)
    Per quanto riguarda i dossier relativi ai sette Paesi che hanno intrapreso il cammino di adesione all’UE (i sei balcanici – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – e la Turchia), “la comunicazione mette a fuoco le riforme sullo Stato di diritto, sul sistema giudiziario ed economiche”. Tuttavia, il membro del gabinetto von der Leyen ha ripreso i governi dei 27 Paesi membri UE: “Se i partner adempiono ai loro obblighi sul piano delle riforme, anche noi dobbiamo rispettare le promesse, ne va della credibilità di tutta l’Unione”.
    Il riferimento è allo stallo sull’avvio dei negoziati con Macedonia del Nord e Albania, a causa del veto della Bulgaria all’apertura dei quadri negoziali con Skopje. Várhelyi ha ribadito quanto già sostenuto dalla presidente von der Leyen nel suo viaggio di fine settembre, cioè che la scadenza per organizzare le prime conferenze intergovernative è “al più tardi entro la fine dell’anno”. La pressione è tutta sul Consiglio, come ha confermato anche il presidente della commissione AFET, David McAllister: “Oggi i rappresentanti della presidenza di turno slovena ci hanno confermato che la loro intenzione è quella di iniziare entro fine anno. Dipende solo da loro”.
    I dossier del Pacchetto Allargamento UE 2021
    Partendo dalle considerazioni sui sei partner balcanici, “tutti si sono impegnati a creare un Mercato Comune regionale“, ha evidenziato il commissario, ma ora “dovrebbero concentrarsi sul superamento delle difficoltà incontrate”. Si auspica soprattutto uno scenario in cui “tutti Paesi della regione ne facciano parte e che sia sotto l’ombrello dell’UE”. Sul piano politico, invece, “le molte tornate politiche degli ultimi anni hanno dimostrato un miglioramento degli standard di trasparenza e questo è merito anche vostro”, Várhelyi ha voluto così ringraziare i relatori per ciascuno dei Paesi balcanici.
    Per quanto riguarda Montenegro e Serbia, “sono soddisfatto che abbiano accettato l’applicazione della metodologia rivista”, che ha aperto le prime conferenze politiche intergovernative lo scorso giugno. Il Pacchetto Allargamento UE 2021 sottolinea che a Podgorica “è attualmente garantito un equilibrio generale” nei progressi sui negoziati. Le priorità per il Montenegro rimangono i capitoli 23 e 24 (sull’indipendenza della magistratura e il rispetto dello Stato di diritto): “Vogliamo vedere sforzi sul piano della libertà di espressione e dei media e su quello della lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata”, ha spiegato il commissario. La Serbia deve invece “accelerare e approfondire” le riforme sull’indipendenza del sistema giudiziario, sulla lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, sulla libertà dei media e sul trattamento interno dei crimini di guerra, “per aprire al più presto nuovi cluster”. Ma per Várhelyi “è necessario anche migliorare l’allineamento con la politica estera e di sicurezza dell’UE“.
    Il commissario per la Politica di vicinato e di allargamento, Olivér Várhelyi, in commissione AFET del Parlamento UE (19 ottobre 2021)
    C’è poi il capitolo Kosovo, che riguarda da vicino Belgrado: “I progressi della Serbia sulla normalizzazione delle relazioni con Pristina sono essenziali e determineranno il ritmo generale dei negoziati di adesione del Paese“, si legge nel rapporto 2021. Oltre all’impegno nel dialogo mediato da Bruxelles, dal governo di Pristina – che dopo le elezioni anticipate dello scorso febbraio “gode di una chiara maggioranza parlamentare” – ci si aspetta invece che attui un piano d’azione per le riforme. La Commissione attende anche “con urgenza” che il Consiglio tratti la proposta di liberalizzare i visti dei cittadini kosovari: “La nostra valutazione rimane uguale a quella del luglio 2018, tutti i parametri di riferimento sono stati soddisfatti”, ha tagliato corto il commissario Várhelyi.
    Dopo aver ricordato che “Albania e Macedonia del Nord continuano a soddisfare le condizioni per l’apertura dei negoziati di adesione” e che “entrambi sono a uno stadio avanzato nel percorso di riforme”, il commissario per l’Allargamento ha ribadito che “le questioni bilaterali pendenti tra Bulgaria e Macedonia del Nord devono essere risolte in via prioritaria“. Inoltre, “è fondamentale” che gli Stati membri concludano le discussioni “senza ulteriori ritardi”, per organizzare le prime conferenze intergovernative entro il 31 dicembre 2021.
    La nota dolente nei Balcani Occidentali rimane la Bosnia ed Erzegovina, il cui obiettivo strategico di integrazione nell’Unione Europea “non si è tradotto in azioni concrete”. Il Pacchetto Allargamento UE 2021 sottolinea che “l’ambiente politico è rimasto polarizzato, poiché i leader politici hanno continuato a impegnarsi in una retorica divisiva“. Fonti di “profonda preoccupazione” per il commissario Várhelyi riguardano “il blocco delle istituzioni statali e le richieste di ritirare le riforme”. L’esortazione a tutti gli attori politici è di “affrontare le 14 priorità-chiave” e di “astenersi da dichiarazioni di indipendentismo in contrasto con gli Accordi di Dayton”.
    L’ultimo dossier riguarda la Turchia, che è sì “un partner per l’Unione Europea in aree come la migrazione, la lotta al terrorismo e l’economia”, ma che “non ha affrontato in modo credibile il continuo deterioramento dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali e dell’indipendenza del sistema giudiziario”, ha ricordato Várhelyi agli eurodeputati. Ankara “deve invertire questa tendenza negativa come questione prioritaria”, ma dovrà anche portare avanti i progressi sul fronte della de-escalation nel Mediterraneo orientale, “per lo sviluppo di una relazione cooperativa e reciprocamente vantaggiosa”, ha concluso il commissario europeo. Tuttavia, per la Turchia la strada verso l’accesso all’Unione Europea rimane, per il momento, sbarrata.

    Il commissario Várhelyi ha illustrato i punti principali del nuovo pacchetto alla commissione AFET del Parlamento UE “Se i nostri partner nei Balcani adempiono le riforme, i Paesi membri non possono tirarsi indietro”