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    A Pechino il secondo dialogo di alto livello Ue-Cina sul digitale. Per Jourová fondamentale “mantenere aperti i canali di comunicazione”

    Bruxelles – Mantenere aperti i canali di comunicazione con la Cina. È questa la parola d’ordine della Commissione europea, a pochi giorni dall’annuncio di Ursula von der Leyen di voler istituire un’indagine sulle sovvenzioni statali ai veicoli elettrici provenienti dal gigante asiatico, che ha creato non pochi dissapori con Pechino. E la prima occasione è andata in scena oggi (18 settembre), con la vicepresidente dell’esecutivo Ue, Věra Jourová, impegnata nel secondo appuntamento del dialogo ad alto livello con la Cina sul digitale.
    È stata propria la vice di von der Leyen, responsabile per le politiche sui valori e la trasparenza, a ricordare su X (ex Twitter) la necessità di proseguire un dialogo costruttivo con Pechino, quanto meno dove gli interessi sono convergenti. Questioni chiave come le piattaforme digitali e le normative sui dati, l’intelligenza artificiale, la ricerca e l’innovazione, il flusso transfrontaliero di dati industriali, la sicurezza dei prodotti venduti online: questi i temi sul tavolo del dialogo co-presieduto da Jourová e dal vicepremier cinese, Zhang Guoqing.
    Il piano d’azione Ue-Cina sulla sicurezza dei prodotti venduti online
    “Oggi abbiamo avuto una discussione franca con la Cina sugli aspetti cruciali delle nostre politiche e tecnologie digitali, vogliamo cooperare laddove possiamo realizzare progressi sostanziali”, ha dichiarato Jourová a margine della giornata di lavori, annunciando inoltre di aver compiuto “un importante passo avanti sul fronte della tutela dei consumatori”. La Commissione Ue e la Cina hanno infatti accolto con favore la firma del piano d’azione sulla sicurezza dei prodotti venduti online, che si pone come obiettivo di “rafforzare ulteriormente il dialogo e la cooperazione” tra l’esecutivo comunitario e l’Amministrazione generale delle dogane cinesi (Gacc).
    Un piano d’azione che prevede lo scambio più rapido di informazioni su prodotti non sicuri, l’organizzazione di workshop periodici per condividere informazioni su leggi, regolamenti e buone pratiche, e attività specifiche di formazione per le aziende sulle più avanzate norme europee sulla sicurezza dei prodotti online. “Si tratta di una situazione vantaggiosa per tutti e di un passo importante verso l’innalzamento degli standard di protezione dei consumatori all’interno dell’Unione europea e oltre”, ha commentato il commissario europeo per la Giustizia, Didier Reynders.
    Reciprocità per le aziende europee e de-risking dalla Cina. Gli attriti rimangono
    Archiviato questo piccolo successo, il dialogo è proseguito con un aggiornamento da parte della Commissione europea sugli ultimi sviluppi normativo dell’Ue, tra cui il Digital Services Act e il Digital Market Act, e con uno scambio di vedute sull’intelligenza artificiale. Jourová ha presentato a Pechino gli sviluppi della legge Ue sull’intelligenza artificiale e ha sottolineato “l’importanza di un uso etico di questa tecnologia nel pieno rispetto dei diritti umani universali, alla luce dei recenti rapporti delle Nazioni Unite”. La commissaria avrebbe espresso le preoccupazioni del blocco Ue sulle difficoltà incontrate dalle imprese europee in Cina nell’utilizzare i propri dati industriali e esortato le autorità cinesi a “garantire un contesto imprenditoriale equo e basato sulla reciprocità” del settore digitale.
    Gli attriti e la diffidenza rimangono, come dimostra il fatto che Jourová abbia dovuto rendere conto a Guoqing della politica di de-risking che l’Ue ha scelto di condurre nei confronti del gigante asiatico. Un approccio che consiste nel mitigare i rischi per le catene di approvvigionamento, le infrastrutture critiche e la sicurezza tecnologica emancipandosi da qualsiasi rischio di dipendenza da Pechino. “Dobbiamo impegnarci nelle aree in cui non siamo d’accordo. Non possiamo risolvere le nostre preoccupazioni e i nostri punti di vista diversi in un giorno, ma manterremo il dialogo sulle questioni digitali, che sono così fondamentali sia per le nostre economie che per le nostre società”, ha concluso la vicepresidente della Commissione europea. Le parti hanno concordato di proseguire le discussioni a livello tecnico, riprendendo il dialogo Cina-Ue sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic).

    La vicepresidente della Commissione Ue per i valori e la trasparenza ha presieduto i lavori con il vicepremier cinese, Zhang Guoqing. “Importante passo avanti” con la firma del piano d’azione sulla sicurezza dei prodotti online, ma Jourová avverte: “Dobbiamo impegnarci nelle aree in cui non siamo d’accordo”

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    Iran, arriva il decimo pacchetto di sanzioni Ue per i responsabili della repressione dei movimenti di protesta

    Bruxelles – Decimo pacchetto di sanzioni europee ai responsabili della feroce repressione in Iran. Alla vigilia dell’anniversario della morte per mano della polizia morale di Mahsa Amini, che il 16 settembre dell’anno scorso ha scatenato un movimento di protesta nazionale contro il regime di Teheran, il Consiglio dell’Ue ha imposto misure restrittive nei confronti di quattro individui e sei entità ritenute responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.
    Alla lista delle sanzioni Ue, che conta ora un totale di 227 persone e 43 entità, soni stati aggiunti il vice comandante in capo del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc) nel quartier generale della sicurezza centrale dell’Imam Ali e i comandanti della polizia delle province di Mazandaran e Fars . Nell’elenco anche la prigione di Kachui e il suo direttore, le carceri di Sanandaj, Zahedan e Isfshan, l’agenzia Tasnim News e il Consiglio Supremo del Cyberspazio.
    A tutti loro sarà imposto il congelamento dei beni sul territorio comunitario, il divieto di viaggiare verso l’Unione Europea e il divieto di ricevere fondi o risorse economiche dai 27 Paesi Ue. È inoltre in vigore un divieto di esportazione verso l’Iran di attrezzature che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna o per il monitoraggio delle telecomunicazioni.
    L’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell
    “L’Ue e i suoi Stati membri sono uniti nell’esortare le autorità iraniane a rispettare rigorosamente i principi sanciti dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui l’Iran è parte“, ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell. L’appello che arriva dal capo della diplomazia europea è sempre lo stesso, da ormai un anno, ed è stato oggetto di critica pochi giorni fa da parte dell’Eurocamera perché ritenuto privo di efficacia e di conseguenze per i cittadini iraniani: “eliminare, nella legge e nella pratica, tutte le forme di discriminazione sistemica contro le donne e le ragazze nella vita pubblica e privata e di adottare misure attente al genere per prevenire e garantire protezione alle donne e alle ragazze dalla violenza sessuale e di genere” e “astenersi da qualsiasi futura esecuzione capitale e garantire un giusto processo a tutti i detenuti e a perseguire una politica coerente verso l’abolizione della condanna a morte”. E infine “cessare immediatamente la pratica inaccettabile e illegale della detenzione arbitraria, anche di cittadini Ue e con doppia cittadinanza Ue-iraniana”.
    Borrell, a cui l’emiciclo di Strasburgo ha chiesto a gran voce di cambiare strategia nei confronti del regime dei mullah iraniani, ha concluso: “L’Ue e i suoi Stati membri riaffermano il loro forte sostegno ai diritti fondamentali delle donne e degli uomini iraniani e alle loro aspirazioni. Di conseguenza, continuiamo a considerare tutte le opzioni appropriate a nostra disposizione per affrontare qualsiasi questione preoccupante relativa alla situazione dei diritti umani in Iran”.

    Alla vigilia dell’anniversario dell’uccisione di Mahsa Amini, la ventiduenne curdo-iraniana morta mentre era in custodia della polizia morale del regime, imposte misure restrittive a altri 4 individui e 6 entità. Borrell: “Consideriamo tutte le opzioni a nostra disposizione per la situazione dei diritti umani in Iran”

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    Il Principato di Monaco fa un passo indietro sull’accordo con Bruxelles. L’Ue continua il lavoro con San Marino e Andorra

    Bruxelles – Le sirene delle autorità di regolamentazione Ue hanno avuto effetto. Nonostante il nesso causale non venga confermato dalla Commissione Europea, dopo poche settimane dalla lettera che ha messo in guardia da “rischi significativi” per un possibile Accordo di Associazione tra l’Unione e tre microstati europei, il Principato di Monaco ha fatto un passo indietro, sospendendo momentaneamente i negoziati. Ad annunciarlo dopo l’incontro di ieri (14 settembre) con la consigliera del ministero degli Affari esteri e della cooperazione monegasco, Isabelle Berro-Amadei, è stato il vicepresidente esecutivo della Commissione Ue responsabile per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič: “Dopo uno scambio franco e cordiale abbiamo convenuto che le condizioni non erano mature per concludere un accordo“.
    Da sinistra: l’alta commissaria per gli Affari europei del Principato di Monaco, Isabelle Costa, il ministro per gli Affari esteri di San Marino, Luca Beccari, il vicepresidente della Commissione Europea per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič, e il segretario di Stato per gli Affari europei di Andorra, Landry Riba Mandicó (4 luglio 2023)
    Come si apprende da una nota pubblicata oggi (15 settembre) dall’esecutivo comunitario, l’obiettivo iniziale del Berlaymont era quello di ribadire la volontà di concludere i negoziati con Monaco, Andorra e San Marino entro la fine dell’anno per un accordo “fondato sul rispetto delle quattro libertà di circolazione” – persone, capitali, servizi e merci – “e sul mantenimento dell’integrità e dell’omogeneità del Mercato interno” dell’Unione Europea. Dopo il passo indietro di Monaco i rapporti rimangono i più positivi possibili: “L’Ue è e rimarrà un partner privilegiato del Principato“, mette in chiaro la Commissione, che rimane “disponibile e pronta” a proseguire i negoziati “in futuro”. Ora l’attenzione è rivolta alla tornata negoziale prevista in questi giorni con gli altri due microstati europei, senza che questo primo stop cambi la rotta generale: “L’obiettivo è concludere i negoziati per un Accordo di Associazione con il Principato di Andorra e la Repubblica di San Marino entro la fine del 2023“.
    Non passa inosservata la tempistica della decisione. A fine agosto i presidenti dell’Autorità bancaria europea (Eba), dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) e dell’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (Eiopa) hanno avvertito la Commissione che finalizzare questi accordi potrebbe aprire le porte del Mercato Unico a una destabilizzazione dei servizi finanziari. Tra le motivazioni compare il fatto che i tre microstati  “hanno mantenuto storicamente regolamenti meno rigorosi” e perciò sarebbero in una posizione “più incline al riciclaggio di denaro e ad altre attività illecite”. Questo significa che le aziende potrebbero essere tentate di stabilirsi in questi tre Stati nel tentativo “deliberato” di beneficiare di standard finanziari più leggeri, con “rischi significativi per i consumatori” derivanti dal libero mercato dell’Unione. Rispondendo alle domande di Eunews, i portavoce dell’esecutivo comunitario hanno comunicato di aver “preso nota delle opinioni espresse” nella lettera dei vertici delle tre agenzie Ue, ma senza fare passi indietro sull’obiettivo della partecipazione di Andorra, Monaco e San Marino al Mercato interno dell’Ue della “cooperazione in altri settori politici“.
    Il vicepresidente esecutivo della Commissione Europea responsabile per le Relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič
    I negoziati per l’Accordo di Associazione sono iniziati nel marzo del 2015, ma le conseguenze della guerra russa in Ucraina hanno portato a un’accelerazione dei tentativi di concludere positivamente i negoziati. Il 30 giugno dello scorso anno il vicepresidente Šefčovič ha presentato a Bruxelles una roadmap per arrivare alla firma entro il 2024 degli Accordi di Associazione con Andorra, Monaco e San Marino, definendola “una priorità, ambiziosa ma realizzabile“. Il gabinetto von der Leyen sta spingendo il più possibile per chiudere le intese prima della fine del suo mandato, dal momento in cui a Bruxelles è considerato molto probabile che un fallimento in questa legislatura potrebbe frenare il percorso di avvicinamento dei – ora due, non più tre – microstati europei all’integrazione con i Ventisette.
    Monaco, San Marino, Andorra e gli altri microstati europei
    I tre microstati europei con cui l’Ue era alla ricerca di un accordo hanno attualmente status diversi. Né San Marino né Andorra sono parte dello spazio Schengen (che prevede la libera circolazione delle persone tra Stati membri Ue e l’abolizione delle frontiere comuni), tuttavia esiste un’unione doganale con l’Unione dal 1991: solo San Marino lo è anche per i prodotti agricoli (dal 2002). Andorra mantiene parte dei suoi controlli al confine, solamente in alcuni valichi di frontiera con la Spagna. Il Principato di Monaco attualmente è in una situazione ibrida, e applica alcune politiche dell’Ue attraverso la relazione speciale che ha con la Francia: è membro di fatto di Schengen, mentre è a pieno titolo parte del territorio doganale dell’Unione.
    Per quanto riguarda gli altri microstati europei, il Liechtenstein è l’unico a far parte dello Spazio economico europeo e del Mercato Unico (dal primo maggio del 1995), mentre dal 19 dicembre del 2011 ha firmato gli accordi Schengen. La Città del Vaticano è il più piccolo Stato riconosciuto al mondo e ha solamente il confine aperto con l’Italia. Tutti i microstati europei (fatta eccezione per il Liechtenstein, che usa il franco svizzero) usano come moneta ufficiale l’euro e hanno il diritto di coniarne un numero limitato, perché viene riconosciuto loro l’aver utilizzato o essere stati legati a valute non più in circolazione di alcuni Paesi membri (lira per San Marino e Città del Vaticano, franco francese per Monaco, peseta spagnola e franco francese per Andorra). Da parte di Bruxelles non c’è l’interesse di integrare nessuno dei microstati europei come Paese membro, dal momento in cui sarebbe eccessivamente complesso gestire questioni interne all’Unione (come le presidenze di turno del Consiglio dell’Ue, o il diritto di veto degli Stati membri) per entità territoriali troppo limitate a livello di superficie e popolazione.

    Dopo l’allarme lanciato da tre autorità di regolamentazione Ue, le due parti hanno concordato che “le condizioni non sono mature” e hanno sospeso i negoziati. Ma per il vicepresidente della Commissione, Maroš Šefčovič, rimane l’obiettivo 2023 per la firma con gli altri due microstati

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    L’Ue guarda con speranza ai primi convogli umanitari arrivati in Nagorno-Karabakh: “Sia riaperto il corridoio di Lachin”

    Bruxelles – Forse qualcosa si sta davvero sbloccando, o almeno questa è la speranza dell’Unione Europea. Dopo che martedì (12 settembre) ha fatto ingresso nel Nagorno-Karabakh un primo convoglio umanitario proveniente dal territorio azero, per Bruxelles potrebbe essere arrivato il momento di dare una spallata decisiva per risolvere la situazione in uno dei punti più delicati nei rapporti tra Armenia e Azerbaigian: il corridoio di Lachin. “Ci aspettiamo che crei uno slancio per la ripresa di regolari consegne umanitarie alla popolazione locale“, è quanto si legge in una nota del Consiglio Europeo.
    È proprio il leader dell’istituzione comunitaria, Charles Michel, il più impegnato negli ultimi mesi per implementare soluzioni per la de-escalation delle tensioni armate e della situazione umanitaria degli armeni del Nagorno-Karabakh, anche attraverso una serie di conversazioni telefoniche con il premier dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, e con un confronto con il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, a margine del G20 a Nuova Delhi. “La situazione sul campo si sta deteriorando rapidamente, è fondamentale garantire la fornitura di prodotti essenziali” ai cittadini dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh (Nagorno-Karabakh), è l’esortazione del Consiglio Ue, che guarda all’apertura della rotta Ağdam-Askeran come un “passo importante” che dovrebbe “facilitare la riapertura anche del corridoio di Lachin”. Ovvero dell’unica via di accesso all’Armenia e al mondo esterno per gli oltre 120 mila abitanti del Nagorno-Karabakh: “Chiediamo a tutte le parti interessate di dare prova di responsabilità e flessibilità”.
    Altri convogli francesi e armeni sono ancora bloccati, nonostante sabato scorso (9 settembre) il governo azero avesse annunciato un accordo con quello armeno per riaprire il corridoio di Lachin. “Questa difficile situazione sul terreno è durata troppo a lungo” e Bruxelles mette in chiaro che gli sforzi ora devono essere incanalati nel “trovare soluzioni sostenibili e reciprocamente accettabili per garantire l’accesso umanitario, anche in vista della stagione autunnale e invernale”. Sforzi sostenuti dal rappresentante speciale dell’Ue per il Caucaso meridionale e Georgia, Toivo Klaar, la cui presenza nella regione permette alle istituzioni comunitarie di ribadire la “ferma convinzione che il corridoio di Lachin debba essere sbloccato”, parallelamente con “altre vie di approvvigionamento”. Queste esortazioni si riassumono nella richiesta netta da parte del Consiglio Ue di far seguire ai primi segnali di apertura “passi più concreti nei prossimi giorni e settimane” nel processo di pace tra Armenia e Azerbaigian. La guerra congelata tra i due Paesi caucasici va avanti dal 1992, con scoppi di violenze armate ricorrenti. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh
    La mediazione Ue sul Nagorno-Karabakh
    Da sinistra: il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan
    La mediazione di Bruxelles con il premier armeno Pashinyan e il presidente azero Aliyev è diventata sempre più frequente dopo le sparatorie alla frontiera tra i due Paesi di fine maggio 2022, quando è diventato sempre più evidente che la tensione sarebbe tornata a salire. La priorità dei colloqui di alto livello è stata posta – e lo è tutt’ora – sulla delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, da settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, con reciproche accuse di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
    La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale – attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati – il corridoio di Lachin e da allora sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile. Gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa.
    Soldati dell’Azerbaigian al posto di blocco sul corridoio di Lachin (credits: Tofik Babayev / Afp)
    A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici. Ma la tensione è tornata a crescere lo scorso 23 aprile, con la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco, con la giustificazione di voler impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”. Da Bruxelles è arrivata la condanna dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima della ripresa delle discussioni a maggio e un nuovo round di negoziati di alto livello tra Michel, Aliyev e Pashinyan il 15 luglio.
    L’alternarsi di sforzi diplomatici e tensioni crescenti sul campo ha portato a uno degli episodi più allarmanti per gli osservatori Ue presenti dallo scorso 20 febbraio in Armenia per contribuire alla stabilità nelle zone di confine. Il 15 agosto una pattuglia della missione Euma è rimasta coinvolta in una sparatoria dai contorni non meglio definiti (entrambe le parti, armena e azera, si sono accusate a vicenda), senza nessun ferito. L’evento aveva provocato qualche imbarazzo a Bruxelles, dopo che Yerevan aveva dato la notizia secondo cui l’esercito azero aveva “scaricato il fuoco contro gli osservatori dell’Ue”. Sulla stessa pagina X della missione civile Ue in Armenia era apparso un post (poi cancellato) con un perentorio “falso”, ma poche ore più tardi è stato pubblicato l’aggiornamento di rettifica che ha dato ragione ai portavoce armeni, almeno nella parte in cui è stata confermata la presenza della pattuglia europea durante gli spari, senza nessun riferimento alla responsabilità azera.

    Il Consiglio Europeo accoglie il primo sblocco positivo di uno stallo che dura dal 12 dicembre dello scorso anno: “Ora è importante trovare soluzioni sostenibili per garantire l’accesso umanitario” in vista dell’inverno. Ma continua a preoccupare la situazione di tensione sul campo

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    Il dialogo Pristina-Belgrado è incagliato sull’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo

    Bruxelles – Un compromesso fallito, almeno per il momento. Perché la partita a scacchi che l’Ue sta giocando contemporaneamente con il Kosovo e con la Serbia – complessa, lunga e a tratti estenuante – va impostata sulla costanza e sull’uso bilanciato di promesse, minacce e ricompense, accettando qualche passo falso. Ma abbandonare il tavolo non è possibile, o si rischia di abbandonare a se stessa una regione in cui solo 25 anni fa è andato in scena uno dei conflitti etnici più violenti della recente storia europea. “Il tempo sta scadendo e alla fine quelli che soffrono di più per l’incapacità dei loro leader di rispettare la parola data sono proprio i cittadini” di Serbia e Kosovo, è il duro commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al termine dell’ultimo round di alto livello del dialogo Pristina-Belgrado: “È una cosa particolarmente grave in un momento, poi, in cui l’Ue procede verso l’allargamento ed entrambi i leader dichiarano di voler essere membri dell’Unione, Serbia e Kosovo rischiano di essere lasciati indietro“.
    È questo il riassunto di una giornata di colloqui complessi oggi (14 settembre) a Bruxelles – alla presenza del presidente serbo, Aleksandar Vučić, e del primo ministro kosovaro, Albin Kurti – con il focus sull’implementazione dell’accordo per la normalizzazione dei rapporti tra i due Paese balcanici, dopo l’ultimo incontro di quasi tre mesi fa occupato dalla crisi nel nord del Kosovo. “È da un anno che abbiamo iniziato le discussioni e sei mesi da quando le abbiamo finalizzate”, ha ricordato Borrell, con riferimento all’accordo di Bruxelles del 27 febbraio (che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo) e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo. A oggi “solo tre elementi sono stati affrontati“, ovvero la dichiarazione sulle persone scomparse, l’annuncio sul comitato di monitoraggio congiunto e la presentazione della bozza sull’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo. Ma è proprio questo il punto su cui è ancora incagliato il dialogo Pristina-Belgrado: l’Accordo di Bruxelles del 2013 mai implementato sulla comunità nel Paese a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative. L’implementazione del “punto più sostanziale” dell’intesa raggiunta tra febbraio e marzo “non è ancora iniziata e parla chiaro sull’impegno delle parti per normalizzare le relazioni, o meglio sull’assenza di impegno“, è il duro commento dell’alto rappresentante Borrell: “L’assenza di azione è una violazione dei rispettivi obblighi e promesse”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti (14 settembre 2023)
    L’istituzione dell’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo “è un vecchio obbligo per le parti ed é sempre stato un elemento-chiave per il processo di normalizzazione delle relazioni”. Il fallimento di oggi è legato ai “ripetuti sforzi per un compromesso”, rispetto a due interlocutori “partiti dagli estremi opposti”. Il presidente serbo “vuole l’istituzione dell’Associazione prima di impegnarsi nei suoi obblighi”, mentre il premier kosovaro “parte prima dagli aspetti politici”, ovvero la “formalizzazione del riconoscimento de facto” della sovranità del suo Paese (che ha dichiarato l’indipendenza unilaterale da Belgrado nel 2008). È per questo motivo che l’alto rappresentante Borrell e il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, hanno proposto “quello che consideriamo l’unico e migliore compromesso possibile a oggi” secondo Bruxelles e i partner statunitensi: un processo che permetta di “portare avanti le due istanze in parallelo”. Do ut des, senza progressi da una parte non si procede dall’altra. Mentre il presidente Vučić “ha accettato la proposta” – anche se arrivato a Bruxelles con una sua – “sfortunatamente dopo un lungo incontro il premier Kurti non era pronto per procedere“, ha spiegato Borrell: “Abbiamo provato con forza, ma non siamo riusciti a superare le differenze”.
    Da sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (14 settembre 2023)
    Tutto questo ha un impatto concreto sul campo. “Non c’è stato nessun progresso sulle tensioni nel nord del Kosovo“, ha tagliato corto l’alto rappresentante Ue, ribadendo che “entrambe le parti devono prendere misure decise per evitare un’ulteriore escalation e permettere che nuove elezioni locali si svolgano immediatamente”. Proprio sulle controverse elezioni in quattro comuni – Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica – si è soffermato il capo della diplomazia comunitaria: “Non possiamo rimanere seduti ad aspettare un’altra crisi, le nuove elezioni possono passare sia dalle dimissioni dei sindaci sia dalla raccolta di firme da parte dei cittadini“. Mentre il governo di Pristina si sta indirizzando verso la seconda via – “più lenta e non certa” – da Bruxelles l’indicazione è chiara: “Le dimissioni sono il modo più rapido e migliore per permettere nuove elezioni”. Allo stesso tempo “i cittadini serbo-kosovari devono mostrare uno spirito costruttivo e impegnarsi in modo incondizionato al processo elettorale“, ovvero – rispetto a quanto accaduto ad aprile – “devono partecipare, altrimenti quanto fatto sarebbe senza scopo”. Il rischio di uno slittamento dell’appuntamento elettorale ripetuto è “una nuova escalation che continuerà a incombere” sulla delicatissima partita a scacchi dell’Ue con la Serbia e con il Kosovo.
    Le tensioni tra Serbia e Kosovo
    Il circolo di tensione non ancora risolto tra i due Paesi è iniziato lo scorso 26 maggio, con lo scoppio di violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
    La questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i leader Ue hanno condannato “i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo” e hanno chiesto “un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione Europea il 3 giugno 2023″ (riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese). Entrambe le parti sono state invitate a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo“, con la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. A causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo, che prevedono anche la sospensione del lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Per eliminare queste misure (“non sanzioni”, come ricorda Bruxelles) è stata concordata il 12 luglio una tabella di marcia con quattro tappe, che Pristina sta implementando ancora a fatica.
    Come si è arrivati a questo complesso 2023
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, con le nuove targhe l’immatricolazione di tutti i veicoli nel Paese (credits: Afp)
    Ricostruire le tensioni tra Serbia e Kosovo è come affrontare un domino. Per ogni tessera caduta bisogna risalire a quella precedente, caduta a sua volta per colpa di un’altra più dietro. Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles mediate dall’Ue, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘ tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha poi infiammato la seconda metà del 2022. A fine luglio sono comparsi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sbocco politico.
    La situazione si è però aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska ha definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state poi rinviate al 23 aprile. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si è registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo.
    Le barricate ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo a dicembre 2022
    Il presidente serbo ha minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si è dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese a inizio novembre. A pochi giorni dal vertice Ue-Balcani Occidentali, il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi. L’appuntamento alla nuova crisi doveva attendere solo cinque mesi.

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    Nulla di fatto al nuovo round di colloqui di alto livello mediato dall’alto rappresentante Ue, Josep Borrell. Scontro tra il presidente serbo, Aleksandar Vučić, che vuole l’immediata istituzione della comunità, e il premier kosovaro, Albin Kurti, che esige prima il riconoscimento de-facto

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    La Tunisia blocca l’ingresso alla delegazione del Parlamento Ue. La Commissione è “profondamente sorpresa”

    Evidentemente troppo per Saied che, anche se fresco di partnership rafforzata con l’Ue, non ha voluto che l’Eurocamera ficcasse il naso negli affari interni del Paese. La decisione è arrivata all’indomani di un infuocato dibattito all’emiciclo di Strasburgo in cui la stragrande maggioranza degli eurodeputati hanno criticato duramente la Commissione europea per aver stretto l’accordo con Saied. Nel documento con cui il Ministero degli Affari Esteri tunisino ha notificato il divieto di ingresso alla delegazione Ue, reso pubblico su Twitter, non c’è traccia di motivazioni: “Nonostante le numerose riserve nei suoi confronti, la delegazione non sarà autorizzata a entrare sul territorio nazionale”, si legge. Tunisi non ha al momento fornito spiegazioni ufficiali all’origine della dura presa di posizione. Una condotta che “non ha precedenti dalla rivoluzione democratica del 2011”, hanno sottolineato in un comunicato congiunto i membri di Afet.  “Condanniamo la decisione delle autorità tunisine di rifiutare l’ingresso alla delegazione e chiediamo spiegazioni dettagliate”, si legge nella nota del Parlamento Ue.
    Si è attivato immediatamente anche l’ambasciatore Ue in Tunisia, esprimendo “rammarico per la decisione”. Al briefing quotidiano con la stampa internazionale, alla domanda se lo sgarbo di Saied potrà avere ripercussioni sull’implementazione del Memorandum d’intesa, la Commissione europea ha risposto: “L’Ue e la Tunisia sono legate da un partenariato forte e strategico, la continuazione di un dialogo aperto è ancora più importante nel momento in cui affrontiamo insieme sfide senza precedenti“. Insomma, l’intesa per arginare l’emergenza sbarchi dal Mediterraneo centrale ha la priorità.
    La condanna alla Tunisia dall’universo Socialdemocratico
    Di tutt’altro avviso la capogruppo dei Socialisti e democratici, Iratxe Garcia Perez, che promette battaglia: la leader spagnola ha fatto sapere che chiederà alla presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, di condannare ufficialmente l’accaduto e ha esortato Ursula von der Leyen a “sospendere immediatamente l’attuazione del Memorandum“. All’appello si è unito il capodelegazione del Pd, Brando Benifei, che ha definito “molto grave” la vicenda e ha chiesto “una condanna da parte dei vertici delle istituzioni europee”.
    Non solo, Perez ha annunciato che chiederà una valutazione sulla legalità dell’accordo da parte dei servizi giuridici del Parlamento. “La decisione delle autorità tunisine di negare l’ingresso della missione della Commissione Affari Esteri dimostra ciò che affermiamo sin dalla firma del Memorandum d’Intesa tra la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il Presidente Saied. Esternalizzare la gestione della migrazione è un errore politico, e dare soldi a un regime autoritario che viola i diritti umani e reprime ogni oppositore va contro i nostri valori”, ha dichiarato la capogruppo S&d. Che ha poi puntato il dito contro l’alleato-rivale Manfred Weber, leader dei popolari che solo due settimane fa si è recato in Tunisia per difendere la legittimità dell’accordo. “È tempo che il Ppe e il suo leader Manfred Weber riconoscano che questo Memorandum era un’idea sbagliata fin dall’inizio – se non illegale – e smettano di dire che si tratta di un modello da replicare”.

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    Tsikhanouskaya chiede a Strasburgo la prospettiva europea per la Bielorussia. “L’Ue da Lisbona a Minsk, l’incubo di Putin”

    Bruxelles – Un lungo e appassionato discorso per chiedere qualcosa che sembra quasi impossibile per tutti, tranne che per lei, la presidente legittima della Bielorussia riconosciuta dall’Ue. “Sono venuta al Parlamento Europeo per chiedervi di sostenere la prospettiva europea della Bielorussia, vogliamo sentire che l’Ue ci attende, che il nostro Paese non sarà un premio di consolazione per Putin”, è quanto affermato senza margini di esitazione da Sviatlana Tsikhanouskaya, la leader delle forze di opposizione all’autocrate Alexander Lukashenko. Il suo terzo intervento alla sessione plenaria dell’Eurocamera – nel giorno del discorso sullo Stato dell’Unione della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – è il momento in cui l’asticella viene posta più in alto che mai: “Senza Ucraina e Bielorussia il progetto europeo non sarà completo“.
    Da sinistra: l’autocrate bielorusso, Alexander Lukashenko, e quello russo, Vladimir Putin
    La Bielorussia di Lukashenko, autoproclamato presidente bielorusso dopo le elezioni-farsa dell’agosto 2020, è il partner più stretto della Russia di Vladimir Putin, e tutto ci si aspetta fuorché possa essere aperto un discorso sull’adesione di Minsk all’Ue. Ma questo perché non si considera il giusto interlocutore. “Un mese fa le forze democratiche hanno redatto una dichiarazione congiunta per gli obiettivi strategici, che non sono altro che l’adesione all’Unione Europea“, ha messo in chiaro Tsikhanouskaya nel suo intervento di oggi (13 settembre) all’emiciclo di Strasburgo, spiegando senza troppi giri di parole perché questo dovrebbe essere uno scenario auspicato a Bruxelles: “L’Ue da Lisbona a Minsk è un incubo per Putin, ma per noi è la realtà in cui vogliamo vivere, perché porterà al crollo dell’impero del male una volta per tutte”. L’impero del male è quello del Cremlino e del suo alleato Lukashenko, di cui la leader bielorussa aveva già tratteggiato i contorni agli eurodeputati: “Quando sono stata qui due anni fa ho parlato della tirannia come un virus, che non può essere limitato dalle frontiere” e dal novembre 2021 a oggi “abbiamo visto che il virus della tirannia può mutare e diventare un vero e proprio tumore, quello della guerra“.
    Se la guerra in Ucraina è fatta di armi e bombe, quella in Bielorussia invece è “una guerra silenziosa“, ma l’obiettivo è lo stesso: “Il Cremlino vuole annientare un Paese sovrano per farne un satellite russo”. Un progetto portato avanti con la complicità del dittatore bielorusso, “che sta vendendo la nostra indipendenza e il nostro Paese pezzo dopo pezzo”, con l’obiettivo di recidere “tutti i legami con la nostra storia, la nostra cultura e ciò che ci allinea all’Europa”. In altre parole, “evitare che la Bielorussia diventi una nazione democratica europea, in modo che neanche l’Europa possa essere in pace e completa”. Ecco perché la richiesta è di continuare a tenere alta la pressione su Putin con le sanzioni, ma senza dimenticare Lukashenko, che “tortura i manifestanti pacifici, collabora con la Russia contro l’Ucraina e non merita nulla all’interno del forum della comunità internazionale, se non un biglietto di sola andata verso l’Aia”, è il duro attacco di Tsikhanouskaya.
    Da sinistra: la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche bielorusse, Sviatlana Tsikhanouskaya, e la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola (13 settembre 2023)
    Dal 2020 c’è un nuovo spirito in Bielorussia, nonostante la repressione, nonostante la collaborazione tra Putin e Lukashenko, nonostante la guerra e nonostante l’isolamento internazionale del Paese. “Nessuna tirannia, Wagner o Kgb può annientare il germe della libertà in Bielorussia, i bielorussi sono eroi e resilienti, sono eroi silenziosi”, ha rivendicato la presidente ad interim riconosciuta dall’Ue, spiegando che nel suo Paese “anche parlare bielorusso oggi è un atto di eroismo”. E la direzione del popolo e delle forze democratiche è chiara: “I tiranni voglio che l’Ue sia un castello di carte pronto a crollare, ma noi bielorussi – proprio come gli ucraini e i moldavi – vogliamo far parte di questa famiglia, vogliamo tornare a casa”. L’Europa “è nel nostro Dna, l’abbiamo scelta secoli fa e l’abbiamo ribadito nel 2020”, è la conferma calorosa di Tsikhanouskaya, che riconosce il fatto che “ci vorrà tempo, non sarà facile, ma non c’è possibilità di tornare indietro, l’Ue è la nostra destinazione finale, punto e basta“.
    La speranza ha dei contorni precisi nelle sue parole: la bandiera bielorussa che sventola con le altre 27, i rappresentanti bielorussi “eletti democraticamente in quest’Aula”, la lingua bielorussa “che ha sofferto tanto la dominazione russa” una tra quelle ufficiali dell’Ue. Ringraziando la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, “per averci sempre sostenuti e per essere un esempio per tutti”, Tsikhanouskaya ha anche fornito un’altra indicazione sulla collaborazione sempre più stretta che dovrà iniziare a impostarsi da subito tra le forze democratiche bielorusse e i Ventisette. “La situazione per noi diventerà ancora peggiore, perché la settimana scorsa Lukashenko ha firmato una legge per sottrarci i passaporti all’estero, ci serve una soluzione e stiamo lavorando per rilasciare passaporti nazionali bielorussi“, grazie alla consulenza dei governi nazionali e dell’esecutivo comunitario. “Questi documenti confermano la cittadinanza bielorussa e permetteranno di viaggiare ai cittadini in esilio”, come fatto dai Baltici durante l’occupazione sovietica: “Presto chiederemo ai vostri Paesi di riconoscere i nuovi passaporti“, ha annunciato la leader bielorussa.
    La risoluzione del Parlamento Ue sulla Bielorussia
    La presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche bielorusse, Sviatlana Tsikhanouskaya, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (13 settembre 2023)
    La risposta del Parlamento Europeo alla richiesta di “istituzionalizzare le relazioni tra Parlamento Europeo e Bielorussia democratica prima delle prossime elezioni europee” non si è fatta attendere ed è stata quasi un plebiscito: 514 voti a favore, 21 contrari e 40 astenuti per la risoluzione firmata dal lituano Petras Auštrevičius. La richiesta è in linea con l’intervento della leader bielorussa, a partire dal presupposto che il ritiro unilaterale del regime di Lukashenko dalla politica del partenariato orientale dal 28 gennaio 2021 “non ha alcuna legittimità in quanto non riflette la vera volontà del popolo bielorusso e le relative aspirazioni a uno Stato libero e democratico”. Di qui l’esortazione alle altre istituzioni Ue e ai Ventisette di “valutare la possibilità di consentire ai rappresentanti della società civile e delle forze democratiche di occupare le cariche vacanti, a titolo bilaterale e multilaterale“, al Consiglio Affari Esteri di rivolgere “un invito permanente” a Tsikhanouskaya a qualsiasi riunione riguardi i rapporti con Minsk, e alla Comunità Politica Europea di “includere le forze democratiche bielorusse conferendo loro lo status di osservatore”.
    Il tutto si basa sulla solidità delle forze guidate da Tsikhanouskaya: “Hanno una struttura ben consolidata che gode di sempre maggiore riconoscimento internazionale”, compresa una Missione a Bruxelles aperta lo scorso primo marzo. Ma più di tutto sono inequivocabili le “aspirazioni europee dei bielorussi”, che ribadiscono i “legami storici della Bielorussia con il resto d’Europa”, condividendone il patrimonio culturale e identitario. Ecco perché Minsk – non l’attuale regime Lukashenko – “dovrebbe rimanere parte dello spazio politico, culturale ed economico europeo” e la conferma dovrebbe arrivare da una “strategia più ambiziosa e globale, unita a un ampio piano economico” per sostenere le forze anti-regime. Da parte sua il Parlamento Ue sostiene la volontà di “sottoscrivere un accordo per formalizzare e sistematizzare la cooperazione con le forze democratiche e la società civile”, mentre Consiglio e Commissione dovrebbero preparasi a “diversi scenari, come la sostituzione (forzata) di Lukashenko oppure l’annessione de facto o l’occupazione” del Paese da parte dell’esercito del Cremlino.
    Gli eurodeputati continuano a chiedere alla Commissione che “le sanzioni applicate nei confronti della Russia siano applicate anche nei confronti della Bielorussia“, ma rimane centrale la salvaguardia dei più fragili, ovvero coloro che fuggono o si trovano già in esilio: “Esortiamo gli Stati membri a semplificare ulteriormente le procedure per ottenere i visti e il permesso di soggiorno” per i perseguitati politici o per chi deve ricorrere a trattamenti medici all’estero per le violenze. Parallelamente l’invito sia alla Commissione e sia ai Ventisette è di “elaborare norme e procedure per trattare i casi in cui siano privati della loro cittadinanza”, ma anche di “fornire sostegno ai bielorussi residenti nell’Ue i cui documenti di identità stanno per scadere e che non dispongono di mezzi per rinnovarli, dal momento che non possono tornare in Bielorussia”, specifica la risoluzione dell’Eurocamera.

    Alla sessione plenaria dell’Eurocamera la presidente legittima riconosciuta dall’Ue ha esortato a dialogare “sull’obiettivo strategico” con l’opposizione a Lukashenko: “Senza Ucraina e Bielorussia il progetto europeo non sarà completo”. Appoggio degli eurodeputati a larga maggioranza

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    Il destino intrecciato dell’allargamento Ue e della riforma dei Trattati nel discorso sullo stato dell’Unione di von der Leyen

    Bruxelles – Non c’è allargamento Ue senza ripensamento sui meccanismi interni dell’Unione, non c’è riforma dei Trattati senza aspirazione a “completare la nostra Unione Europea” con i nuovi Paesi che hanno iniziato il percorso di avvicinamento all’adesione. Parola della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, dal podio nell’emiciclo del Parlamento Ue a Strasburgo per l’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione di questi cinque anni di mandato per il suo gabinetto: “È giunto il momento per l’Europa di pensare ancora una volta in grande e di scrivere il nostro destino”.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo (13 settembre 2023)
    L’allargamento Ue occupa un posto di notevole rilievo nell’ora di intervento della presidente von der Leyen alla sessione plenaria dell’Eurocamera questa mattina (13 settembre): “Il futuro dell’Ucraina, dei Balcani Occidentali, della Moldova è nella nostra Unione, e so bene quanto sia importante la prospettiva europea per molti abitanti della Georgia”. In un mondo in cui potenze come la Russia “cercano di eliminare i Paesi uno ad uno”, la numero uno dell’esecutivo comunitario ha ricordato che “non possiamo permetterci di lasciare indietro i nostri concittadini europei” – ucraini, balcanici, moldavi, georgiani – anche perché “è chiaramente nell’interesse strategico e di sicurezza dell’Europa”. Prima di ogni azione è però necessario “delineare una visione per un allargamento di successo”, per non snaturare un’Unione “libera, democratica e prospera” in cui Stato di diritto e i diritti fondamentali “saranno sempre il fondamento” degli Stati membri attuali e “in quelli futuri”. Ecco perché tra gli annunci dello Stato dell’Unione sui nuovi tavoli aperti dalla Commissione c’è anche quello sulle relazioni sullo Stato di diritto “a quei Paesi in via di adesione che si aggiorneranno ancora più rapidamente”, per metterli “sullo stesso piano degli Stati membri” e “sostenere i loro sforzi di riforma”.
    Ripensare alla struttura dell’Unione di fronte alla prospettiva di allargamento Ue che al momento conta 10 ‘ospiti’ a varie fasi di avvicinamento – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina – significa riflettere già ora a “come funzioneranno le nostre istituzioni, come saranno il Parlamento e la Commissione“, ma anche al “futuro del nostro bilancio, cosa finanzia, come lo finanzia e come viene finanziato”. Tutte questioni che “dobbiamo affrontare oggi se vogliamo essere pronti per il domani”, è l’esortazione della numero uno della Commissione Europea, annunciando che “presenteremo le nostre idee alla discussione dei leader sotto la presidenza belga” del Consiglio dell’Ue nel primo semestre del 2024: “Dobbiamo rispondere alle domande su come funzionerà in pratica un’Unione di oltre 30 Paesi e in particolare sulla nostra capacità di agire”.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo (13 settembre 2023)
    Sul rapporto tra allargamento Ue e riforma dei Trattati la presidente von der Leyen non potrebbe essere più chiara: “Non si tratta di approfondire l’integrazione o di allargare l’Unione, possiamo e dobbiamo fare entrambe le cose“. In altre parole, “dobbiamo superare i vecchi dibattiti binari sull’allargamento”, anche considerato il fatto che “ogni ondata di allargamento è stata accompagnata da un approfondimento politico”: dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio alla piena integrazione economica, fino alla “vera e propria Unione di popoli e Stati” dopo la caduta della Cortina di Ferro. “Abbiamo dimostrato di poter essere un’Unione geopolitica e di poterci muovere velocemente quando siamo uniti, credo che Team Europe funzioni anche a più di 30″ Paesi membri, così come l’Unione della Salute e l’Unione Europea della Difesa “iniziate a 27 e potremo portarle a termine a più di 30”. L’impegno di von der Leyen è quello di “sostenere questa Assemblea e tutti coloro che vogliono riformare l’Unione” per farla funzionare meglio: “E sì, questo significa anche modificare la Convenzione europea e il Trattato se e dove è necessario”.
    Nel discorso sullo Stato dell’Unione la presidente della Commissione non fa promesse su una data per la fine del processo dell’allargamento Ue – come fatto in maniera piuttosto controversa dal leader del Consiglio Ue, Charles Michel – ma dà indicazioni politiche piuttosto nette: “Non possiamo – e non dobbiamo – aspettare la modifica del Trattato per procedere con l’allargamento Ue“, perché un’Unione adatta a questo scopo “può essere realizzata più rapidamente”. La “buona notizia” su cui si può partire è che “ad ogni allargamento Ue è stato dimostrato che chi diceva che ci avrebbe reso meno efficienti si sbagliava”. Il Next Generation Eu, l’acquisto di vaccini anti-Covid, le sanzioni contro la Russia e l’acquisto congiunto di gas – “non solo a 27, ma anche in Ucraina, Moldova e Serbia” – parlano da sé. Ma ora bisogna fare un passo oltre: “Dobbiamo esaminare più da vicino ogni politica e vedere come verrebbe influenzata da un’Unione più ampia” e con questo obiettivo “la Commissione inizierà a lavorare su una serie di revisioni delle politiche pre-allargamento Ue, per vedere come ogni settore dovrebbe essere adattato”. Segnali di apertura a quell’idea di “processo più rapido, graduale e reversibile” avanzata dal presidente del Consiglio Ue, anche se “l’adesione è basata sul merito e la Commissione difenderà sempre questo principio”, ha messo in chiaro senza mezzi termini von der Leyen dal podio di Strasburgo.
    A che punto è l’allargamento Ue
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente sono si sono inaspriti i rapporti con Bruxelles dopo le tensioni diplomatiche con la Serbia di fine maggio.
    I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è tornato sul tavolo dei 27 ministri degli Esteri Ue del 20 luglio.
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, e della presidente moldava Sandu. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio dell’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.

    La presidente della Commissione Europea ha annunciato che “presenteremo le nostre idee alle discussioni dei leader sotto la presidenza belga” nel primo semestre 2024. Il “completamento dell’Unione” è una priorità strategica che “non può aspettare” la fine del rinnovamento interno