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    I leader disertano il vertice UE-CELAC in Colombia segnato dalle nuove pressioni USA sull’America Latina

    Bruxelles – Solo 12 leader su 60 e la defezione – ultima in ordine di tempo – della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Sono i numeri impietosi che ridimensionano un vertice, quello tra i 27 Paesi dell’Unione europea e i 33 latinoamericani e dei Caraibi del CELAC, carico di aspettative. Sebbene da Bruxelles affermino che von der Leyen (che si trova già in Sud America, a Belém, in Brasile, per la COP30) ha rinunciato alla tappa in Colombia a causa della “scarsa presenza dei capi di Stato e di Governo”, l’ombra che si allunga sul summit è quella degli Stati Uniti, della loro rinnovata pressione sul continente e sulle invitabili frizioni sul delicato argomento.L’ultima volta, a Bruxelles, nel luglio 2023, c’erano quasi tutti: si celebrava il primo vertice UE-CELAC dopo otto anni e Ursula von der Leyen giocava in casa per proseguire le trattative che da lì a un anno avrebbero portato alla finalizzazione dell’accordo commerciale con i quattro del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay).  Domenica 9 novembre a Santa Marta, in Colombia, ci sarà Antonio Costa, presidente del Consiglio europeo, mentre von der Leyen ha chiesto all’Alta rappresentante UE per gli Affari esteri, Kaja Kallas, di presenziare al posto suo.Bogotà ha confermato la partecipazione di 12 capi di Stato e di governo, 6 vicepresidenti e 23 ministri degli Esteri. Dal vecchio continente arriveranno il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, e quello portoghese, Luis Montenegro, legati da relazioni storiche, linguistiche, commerciali con l’America Latina. Ci saranno il premier finlandese, Petteri Orpo, il primo ministro dei Paesi Bassi, Dick Schoof, e quello della Croazia, Andrej Plenkovic. Mancano all’appello, tra i tanti, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, la premier italiana Giorgia Meloni, e il presidente francese Emmanuel Macron. Ed anche tra i 33 del CELAC, le defezioni importanti non mancano: non ci sarà Javier Milei, presidente dell’Argentina, e nemmeno Claudia Sheinbaum, presidente del Messico.Ci sarà invece il presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, che ha fatto sapere che non mancherà di esprimere la “solidarietà regionale” al Venezuela: il regime autoritario di Nicolas Maduro è sempre più apertamente minacciato dagli Stati Uniti, che a settembre hanno intrapreso alcune manovre militari nelle acque del Mar dei Caraibi di fronte a Caracas. Il ministro degli Esteri brasiliano, Mauro Vieira, ha spiegato da Belém che si tratta “della posizione della nostra politica estera”, e cioè che “l’America latina e, soprattutto, l’America del sud, in cui ci troviamo, è una regione di pace e cooperazione”.La rinnovata aggressività di Washington verso quello che duecento anni fa fu definito il “cortile di casa” degli Stati Uniti non è limitata al Venezuela, il Paese con i maggiori giacimenti petroliferi al mondo, ma colpisce anche la Colombia e il suo presidente, che presiederà il summit, Gustavo Petro. Solo due settimane fa, Donald Trump ha accusato il presidente colombiano di essere “il leader dei narcotrafficanti” e ha annunciato lo stop di tutti gli aiuti americani al Paese.Luiz Inacio Lula da Silva e Ursula von der Leyen al vertice UE-CELAC a Bruxelles, il 18 luglio 2023  (Photo by Emmanuel DUNAND / AFP)È in questo contesto che inevitabilmente le discussioni relative alla transizione energetica e digitale, alla cooperazione e all’integrazione commerciale rischiano di passare in secondo piano. Nonostante le cancellerie europee abbiano giustificato le assenze dei leader illustrando la fitta agenda di novembre – oltre alla COP30 in Brasile, ci sarà poi il G20 in Sudafrica e il vertice UE-Unione africana in Angola -, il timore di trovarsi nella posizione scomoda di dover condannare pubblicamente l’amministrazione americana potrebbe aver giocato la sua parte. D’altronde, anche se la stessa Commissione europea ha ricordato che “le relazioni UE-CELAC sono molto importanti in questo contesto di sfide e divisioni geopolitiche”, è inutile chiedere all’Unione europea di scegliere tra gli Stati Uniti e qualsiasi altro partner al mondo.A ben vedere, gli stessi Paesi latinoamericani potrebbero non scegliere l’Unione europea, se posti di fronte alla stessa domanda. L’assenza di Sheinbaum, ad esempio, mostra che la priorità del Messico, piuttosto che approfondire i rapporti con il club a dodici stelle, è rinegoziare i dazi con gli Stati Uniti, destinazione di oltre l’80 per cento dell’export del Paese. È proprio in questo contesto di “sfide e divisioni geopolitiche”, che ognuno – soprattutto i pesci più piccoli, come l’UE e l’America Latina – si promettono in matrimonio ma sono pronti a legarsi alle grandi potenze. È proprio in questo contesto che lo scorso maggio, infine, si è tenuto il quarto forum tra i 33 dell’America latina e dei Caraibi e la Cina, a Pechino, alla presenza di Xi Jinping.

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    Russia, niente più visti UE per ingressi multipli. Si dovrà fare richiesta ogni volta

    Bruxelles – Niente più visti per ingressi multipli nell’UE, d’ora in avanti ogni cittadino russo che intende soggiornare nell’UE anche per soggiorni di breve durata dovrà richiedere un visto ogni singola volta, per ogni singolo viaggio. E’ questa l’ultima misura anti-Russia adottata dalla Commissione europea, in nome della sicurezza. L’esecutivo comunitario con questa restrizione nel regime dei visti intende procedere ad un controllo approfondito e frequente dei richiedenti per mitigare qualsiasi potenziale rischio.Henna Virkkunen, vicepresidente esecutiva per la Sicurezza e la democrazia, presenta le nuove decisioni in materia di concessione dei visti come misura di sicurezza, citando rischi di “sabotaggio” e “disinformazione”. Si tratta dunque di evitare che possano entrare potenziali spie o male-intenzionati. Diversi i toni usati da Kaja Kallas, Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE: “Viaggiare e muoversi liberamente all’interno dell’UE è un privilegio, non un qualcosa di scontato”.Le restrizioni non scatteranno in modo automatico per tutti. La Commissione europea prevede eccezioni per casi limitati e giustificati, come giornalisti indipendenti e difensori dei diritti umani, garantendo un’applicazione uniforme in tutti gli Stati membri e impedendone l’elusione.La misura restrittiva segue quelle adottate finora, rappresentante dai 19 pacchetti di sanzioni contro la Russia al pari della completa sospensione dell’accordo di facilitazione dei visti tra l’Unione europea e la federazione russa. “In due anni con le nostre azioni abbiamo prodotto un’imponente riduzione nel numero di visti concessi, passati da quattro milioni a 400mila”, ricorda Markus Lammert, portavoce della Commissione per gli Affari interni,

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    Clima, al via la COP30 in Brasile. L’ONU avverte: “Impossibile c’entrare gli obiettivi di Parigi”

    Bruxelles – I leader mondiali sono arrivati a Belém per dare il via alla 30esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. La COP30, ospitata dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, inizierà formalmente i lavori il prossimo 10 novembre e si concluderà il 21, ma oggi e domani (6-7 novembre) i capi di Stato e di governo si incontreranno nella città ai margini della foresta amazzonica per una serie di dibattiti, bilaterali e sessioni tematiche.Tra i presenti, diversi pesi massimi del Vecchio continente. Fra gli altri, ci saranno il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il primo ministro britannico Keir Starmer, mentre il club a dodici stelle è rappresentato da un trio: il numero uno del Consiglio europeo, António Costa, il capo dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, e il ministro danese al Clima Lars Aagaard per la presidenza del Consiglio Ue.Ma ci sono anche assenze di peso. Su tutte, quelle del presidente statunitense Donald Trump, dei suoi omologhi cinese e russo, Xi Jinping e Vladimir Putin, nonché del premier indiano Narendra Modi, cioè i leader di quattro tra i principali inquinatori mondiali. Solo una sessantina dei Paesi partecipanti alla conferenza ha inviato delegazioni al massimo livello. Per l’Italia c’è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.We’re together in Belém with @antonioguterres.You’ve always spoken up for our planet and we thank you for that.Europe comes to Belém with our clear climate goals and our solidarity for those most at risk.The world needs strong multilateral action to face the climate… pic.twitter.com/g90CWKpyYb— António Costa (@eucopresident) November 6, 2025Eppure l’urgenza per cambiare rotta non è mai stata tanta. La doccia fredda è arrivata questa settimana da parte dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), un’agenzia delle Nazioni Unite che ha pubblicato i dati che mostrano come il 2023, il 2024 e il 2025 saranno i tre anni più caldi mai registrati da quando esistono le rilevazioni (cioè da 176 anni), continuando un trend almeno decennale.Echeggiando dichiarazioni diffuse nei giorni precedenti da altri enti dell’ONU, l’OMM ha anche riconosciuto che è ormai “praticamente impossibile” limitare il riscaldamento globale a 1,5ºC rispetto ai livelli del 1990, come prescritto dall’Accordo di Parigi del 2015. Stando ai calcoli dell’UNEP (il Programma per l’ambiente dell’ONU), attualmente il mondo va verso un innalzamento medio delle temperature compreso tra i 2,3 e i 2,5ºC, un livello che secondo gli esperti provocherà un aumento massiccio degli eventi meteorologici estremi e danni devastanti a molti ecosistemi naturali.Una critica sferzante è arrivata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che insieme a Lula co-presiede la conferenza. Il capo dell’ONU ha puntato il dito contro i leader mondiali, colpevoli di non aver dato seguito agli impegni sottoscritti dieci anni fa poiché “prigionieri degli interessi radicati” di aziende e lobby che “stanno realizzando profitti record grazie alla devastazione climatica“. Il padrone di casa ha inaugurato quella che definisce “la COP della verità“, ammonendo che la “finestra di opportunità” per agire “si sta chiudendo” ed evidenziando la necessità di “invertire la deforestazione e superare la dipendenza dai combustibili fossili“.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Parlando alla sessione plenaria al fianco di Costa, von der Leyen ha esortato i leader a “triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030“, mantenendo gli obiettivi di Parigi e “le promesse fatte ai Paesi più vulnerabili agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici”. Stasera, il presidente del Consiglio europeo interverrà alla sessione tematica dedicata a foreste e oceani, mentre il capo dell’esecutivo Ue prenderà la parola domani durante il panel su transizione energetica e decarbonizzazione dell’industria.Per volere degli stessi organizzatori, la COP30 non dovrà rappresentare un palcoscenico per nuove altisonanti promesse bensì, piuttosto, concentrarsi sull’implementazione degli impegni assunti fin qui. L’iniziativa degna di maggior rilievo è il lancio del Tropical forest forever fund (TFFF), un fondo globale per la tutela delle foreste tropicali col quale il Brasile mira a mobilitare 125 miliardi di dollari (25 dagli erari statali e gli altri 100 da investitori privati). Per il momento, tuttavia, né l’Ue né il Regno Unito parteciperanno a questo ennesimo strumento di green finance.La presidenza brasiliana ha articolato i lavori intorno a sei pilastri principali. Si parlerà di transizione energetica, industriale e dei trasporti; di gestione delle foreste, degli oceani e della biodiversità; della trasformazione dell’agricoltura e dei sistemi alimentari; della resilienza di città, infrastrutture e risorse idriche; della promozione dello sviluppo umano e sociale; e, infine, dei cosiddetti “acceleratori“, cioè quegli elementi che possono facilitare i progressi in tutti i precedenti ambiti anche sui versanti finanziario, tecnologico e logistico.Il logo della COP30 di Belém (foto: Dati Bendo/Commissione europea)L’Ue arriva alle discussioni di Belém con una posizione meno ambiziosa rispetto al quinquennio precedente, caratterizzato dall’adozione del Green deal. Per quanto von der Leyen definisca quello raggiunto ieri al Consiglio Ambiente un “risultato storico” per la riduzione delle emissioni di CO2, in realtà i Ventisette hanno fissato dei target più modesti rispetto alla proposta originaria della Commissione: una forbice tra il 66,25 e il 72,5 per cento da qui al 2035, per poi salire all’85 per cento entro il 2040.Del resto, è l’intera politica climatica internazionale a trovarsi in serie difficoltà in questa fase storica. La forte crescita elettorale dei movimenti populisti, scettici o apertamente negazionisti nei confronti del cambiamento climatico, combinata con una generalizzata contrazione dell’economia mondiale, ha portato molte cancellerie a rimangiarsi gli impegni presi di recente. Particolarmente pesante in questo senso il voltafaccia di Washington: oggi Trump sta facendo uscire (di nuovo) gli Usa dal trattato di Parigi, nonostante sia stata proprio l’amministrazione a stelle e strisce a fornire la spinta diplomatica decisiva per concluderlo.

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    Clima, al via la COP30 in Brasile. L’ONU avverte: “Impossibile centrare gli obiettivi di Parigi”

    Bruxelles – I leader mondiali sono arrivati a Belém per dare il via alla 30esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. La COP30, ospitata dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, inizierà formalmente i lavori il prossimo 10 novembre e si concluderà il 21, ma oggi e domani (6-7 novembre) i capi di Stato e di governo si incontreranno nella città ai margini della foresta amazzonica per una serie di dibattiti, bilaterali e sessioni tematiche.Tra i presenti, diversi pesi massimi del Vecchio continente. Fra gli altri, ci saranno il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il primo ministro britannico Keir Starmer, mentre il club a dodici stelle è rappresentato da un trio: il numero uno del Consiglio europeo, António Costa, il capo dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, e il ministro danese al Clima Lars Aagaard per la presidenza del Consiglio Ue.Ma ci sono anche assenze di peso. Su tutte, quelle del presidente statunitense Donald Trump, dei suoi omologhi cinese e russo, Xi Jinping e Vladimir Putin, nonché del premier indiano Narendra Modi, cioè i leader di quattro tra i principali inquinatori mondiali. Solo una sessantina dei Paesi partecipanti alla conferenza ha inviato delegazioni al massimo livello. Per l’Italia c’è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.We’re together in Belém with @antonioguterres.You’ve always spoken up for our planet and we thank you for that.Europe comes to Belém with our clear climate goals and our solidarity for those most at risk.The world needs strong multilateral action to face the climate… pic.twitter.com/g90CWKpyYb— António Costa (@eucopresident) November 6, 2025Eppure l’urgenza per cambiare rotta non è mai stata tanta. La doccia fredda è arrivata questa settimana da parte dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), un’agenzia delle Nazioni Unite che ha pubblicato i dati che mostrano come il 2023, il 2024 e il 2025 saranno i tre anni più caldi mai registrati da quando esistono le rilevazioni (cioè da 176 anni), continuando un trend almeno decennale.Echeggiando dichiarazioni diffuse nei giorni precedenti da altri enti dell’ONU, l’OMM ha anche riconosciuto che è ormai “praticamente impossibile” limitare il riscaldamento globale a 1,5ºC rispetto ai livelli del 1990, come prescritto dall’Accordo di Parigi del 2015. Stando ai calcoli dell’UNEP (il Programma per l’ambiente dell’ONU), attualmente il mondo va verso un innalzamento medio delle temperature compreso tra i 2,3 e i 2,5ºC, un livello che secondo gli esperti provocherà un aumento massiccio degli eventi meteorologici estremi e danni devastanti a molti ecosistemi naturali.Una critica sferzante è arrivata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che insieme a Lula co-presiede la conferenza. Il capo dell’ONU ha puntato il dito contro i leader mondiali, colpevoli di non aver dato seguito agli impegni sottoscritti dieci anni fa poiché “prigionieri degli interessi radicati” di aziende e lobby che “stanno realizzando profitti record grazie alla devastazione climatica“. Il padrone di casa ha inaugurato quella che definisce “la COP della verità“, ammonendo che la “finestra di opportunità” per agire “si sta chiudendo” ed evidenziando la necessità di “invertire la deforestazione e superare la dipendenza dai combustibili fossili“.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Parlando alla sessione plenaria al fianco di Costa, von der Leyen ha esortato i leader a “triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030“, mantenendo gli obiettivi di Parigi e “le promesse fatte ai Paesi più vulnerabili agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici”. Stasera, il presidente del Consiglio europeo interverrà alla sessione tematica dedicata a foreste e oceani, mentre il capo dell’esecutivo Ue prenderà la parola domani durante il panel su transizione energetica e decarbonizzazione dell’industria.Per volere degli stessi organizzatori, la COP30 non dovrà rappresentare un palcoscenico per nuove altisonanti promesse bensì, piuttosto, concentrarsi sull’implementazione degli impegni assunti fin qui. L’iniziativa degna di maggior rilievo è il lancio del Tropical forest forever fund (TFFF), un fondo globale per la tutela delle foreste tropicali col quale il Brasile mira a mobilitare 125 miliardi di dollari (25 dagli erari statali e gli altri 100 da investitori privati). Per il momento, tuttavia, né l’Ue né il Regno Unito parteciperanno a questo ennesimo strumento di green finance.La presidenza brasiliana ha articolato i lavori intorno a sei pilastri principali. Si parlerà di transizione energetica, industriale e dei trasporti; di gestione delle foreste, degli oceani e della biodiversità; della trasformazione dell’agricoltura e dei sistemi alimentari; della resilienza di città, infrastrutture e risorse idriche; della promozione dello sviluppo umano e sociale; e, infine, dei cosiddetti “acceleratori“, cioè quegli elementi che possono facilitare i progressi in tutti i precedenti ambiti anche sui versanti finanziario, tecnologico e logistico.Il logo della COP30 di Belém (foto: Dati Bendo/Commissione europea)L’Ue arriva alle discussioni di Belém con una posizione meno ambiziosa rispetto al quinquennio precedente, caratterizzato dall’adozione del Green deal. Per quanto von der Leyen definisca quello raggiunto ieri al Consiglio Ambiente un “risultato storico” per la riduzione delle emissioni di CO2, in realtà i Ventisette hanno fissato dei target più modesti rispetto alla proposta originaria della Commissione: una forbice tra il 66,25 e il 72,5 per cento da qui al 2035, per poi salire all’85 per cento entro il 2040.Del resto, è l’intera politica climatica internazionale a trovarsi in serie difficoltà in questa fase storica. La forte crescita elettorale dei movimenti populisti, scettici o apertamente negazionisti nei confronti del cambiamento climatico, combinata con una generalizzata contrazione dell’economia mondiale, ha portato molte cancellerie a rimangiarsi gli impegni presi di recente. Particolarmente pesante in questo senso il voltafaccia di Washington: oggi Trump sta facendo uscire (di nuovo) gli Usa dal trattato di Parigi, nonostante sia stata proprio l’amministrazione a stelle e strisce a fornire la spinta diplomatica decisiva per concluderlo.

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    “Rischio di complicità” Tunisia-UE. Amnesty denuncia le violenze di Tunisi contro i migranti

    Bruxelles – “I leader europei rischiano di diventarne complici della Tunisia. Questo perché ogni giorno continuano a sostenere il loro pericoloso attacco ai diritti dei migranti.” Non usa mezze misure Heba Morayef, direttrice generale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. Le sue parole commentano il report pubblicato oggi, 6 novembre, sul “pericoloso cambiamento sulla politica migratoria della Tunisia”. Nel mirino della ONG c’è l’accordo UE-Tunisia, firmato nel 2023, che ha come obiettivo ridurre il numero di migranti diretti verso l’Europa.Secondo Amnesty l’accordo non ha in alcun modo migliorato la situazione. Anzi, si legge nel documento, “le testimonianze rivelano un sistema di migrazione e asilo concepito per escludere e punire anziché proteggere”. Un approccio quello di Tunisi caratterizzato da violenze di ogni genere: speronamenti pericolosi contro le imbarcazioni dirette verso nord, abbandono sistematico di migranti, richiedenti asilo e rifugiati in aree remote e desertiche. Un’altra piaga, denuncia l’organizzazione, è la retorica razziale verso i le persone nere. Questa è portata avanti dalle stesse autorità, che alimentano un clima di discriminazione e violenza che peggiora le condizione dei richiedenti asilo.Da sx: Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorgia Meloni alla firma del Memorandum d’Intesa Ue-Tunisia, 17 luglio 2023L’accordo Tunisia-UnioneNonostante questo la Tunisia beneficia di una vantaggiosa intesa con l’Unione Europea. Il memorandum datato luglio 2023 prevede una cooperazione estesa in diversi ambiti: la migrazione è solo uno dei cinque pilastri, insieme a transizione verde, economia e stabilità macrofinanziaria. Il tema centrale resta però la gestione dei flussi migratori. A tale scopo, Bruxelles ha stanziato circa 105 milioni di euro in fondi comunitari destinati a potenziare la guardia costiera tunisina, finanziare programmi di rimpatrio e sostenere la formazione tecnica.Il commissario europeo all’immigrazione Magnus Brunner ha rivendicato il successo dell’accordo già a giugno, parlando di “progressi tangibili in tutti i settori”. La principale soddisfazione del commissario è quella di aver ridotto dell’80 per cento gli arrivi irregolari dalla Tunisia. Tuttavia, ciò è avvenuto in un contesto di gravi violazioni dei diritti umani documentate da Amnesty International.@amnesty’s new report warns of the EU’s risk of complicity in refugee & migrant rights violations in Tunisia where the migration system is built on racist violence, reckless sea interceptions, arbitrary detention & unlawful collective expulsions.https://t.co/HfRLOnF8ZO— Amnesty EU (@AmnestyEU) November 6, 2025Le violenzeQueste violenze vengono messe alla luce nel documento pubblicato oggi. La ONG ha raccolto le testimonianze di 120 rifugiati nelle città tunisine di Sfax, Zarzis e Tunisi. Molti racconti descrivono episodi di abusi e deportazioni forzate. “Ezra”, un cittadino ivoriano, ha riferito ad Amnesty: “Siamo arrivati alla zona di confine con la Libia verso le sei del mattino. Un agente ci ha detto: ‘Andate in Libia, vi uccideranno’. Un altro ha aggiunto: ‘O nuotate o correte in Libia’. Ci hanno dato una borsa piena dei nostri telefoni rotti”. Secondo le stime di Amnesty, tra giugno 2023 e maggio 2025 circa 11.500 persone sono state espulse forzatamente verso la Libia o l’Algeria.Il rapporto sottolinea inoltre come la retorica razzista sia ormai parte integrante della vita pubblica tunisina. “I rifugiati e i migranti neri sono stati presi di mira da una profilazione razziale sistematica”, si legge nel testo. Un clima alimentato, spiega Amnesty, da una “propaganda pubblica dell’odio razziale”, scaturita “dalle dichiarazioni del presidente Kais Saied nel febbraio 2023”.Nonostante le evidenti violazioni dei diritti umani documentate, il memorandum tra Tunisia e Italia non prevede né clausole di recesso formale né limiti di validità automatica. Per questo motivo, l’accordo resterà in vigore anche dopo la pubblicazione di questo rapporto. Portando più soldi a Tunisi e meno migranti in Europa.

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    Passi indietro sui diritti e “evidente narrativa anti-UE”, la Serbia entra tra i ‘cattivi’ candidati all’adesione

    Bruxelles – Insieme ai soliti sospetti Turchia e Georgia, anche la Serbia entra di diritto tra i ‘cattivi’ Paesi candidati all’adesione all’Unione europea. Il rapporto annuale sull’Allargamento pubblicato oggi (4 novembre) dalla Commissione europea non lascia spazio a interpretazioni: se non ancora compromesso, il decennale percorso di Belgrado verso il club a 12 stelle si è impantanato nella gestione sempre più autoritaria dell’apparato statale da parte di Aleksandar Vučić, la violenta repressione delle proteste studentesche e gli ammiccamenti sfrontati del presidente verso Mosca.La valutazione di Bruxelles è decisamente dura, dall’inizio alla fine. “C’è una narrativa anti-UE evidente non solo nei media serbi, ma anche utilizzata dai titolari di cariche politiche, anche ai livelli più alti”, esordisce il rapporto, chiedendo alle autorità nazionali di “assumersi molte più responsabilità per una comunicazione proattiva e più oggettiva sul processo di adesione della Serbia all’UE e sull’Unione stessa, nonché per contrastare la disinformazione e la manipolazione delle informazioni”. Concetto ribadito da Marta Kos, commissaria per l’Allargamento, che ha presentato i risultati del rapporto in mattinata alla commissione Affari esteri del Parlamento europeo: “La Serbia eviti retoriche anti-UE o contro i membri del Parlamento europeo”, ha intimato Kos.Kaja Kallas e Marta Kos presentano il rapporto sull’Allargamento 2025, 04/11/25Non si tratta solo di ‘sputare nel piatto’ in cui dici di voler mangiare: c’è uno “stallo a livello giudiziario e dei diritti fondamentali” e addirittura “uno slittamento sulla libertà di espressione“, ha rilevato la commissaria. A ormai undici anni dall’inizio dei negoziati di adesione, la Serbia ha smesso di fare progressi e la chiusura dei 22 capitoli negoziali su 35 totali è oggi più lontana di allora.“Nessun progresso” nel funzionamento della magistratura, “un contesto sempre più difficile” per l’azione di ong e società civile, violenze contro manifestanti che si sono “intensificate” con il persistere delle proteste e “uso eccessivo della forza” da parte della polizia, “un regresso” per quanto riguarda la libertà di espressione e un contesto dell’informazione “notevolmente peggiorato“. Dopo mesi di dichiarazioni titubanti da parte dei massimi vertici dell’Unione, che non hanno scaricato Vučić nemmeno di fronte alle manifestazioni oceaniche innescate dall’incidente alla stazione ferroviaria di Novi Sad che un anno fa costò la vita a 16 persone, nel rapporto sull’allargamento la Commissione europea ha lasciato da parte ogni ambiguità.Il presidente russo Vladimir Putin (sinistra) e il suo omologo serbo Aleksandar Vučić (foto: Alexander Zemlianichenko/Afp)L’altro capitolo disastroso – che avvicina la Serbia a Georgia e Turchia – è l’evidente disallineamento di Belgrado alla politica estera dell’Unione. “Alcune azioni e dichiarazioni della Serbia sono state in contrasto con le posizioni chiave” di Bruxelles, “in particolare per quanto riguarda la Federazione russa“, rileva il rapporto. Oltre all’intensificazione dei contatti bilaterali di alto livello con la Russia – la Commissione non ha dimenticato la partecipazione di Vučić alla parata militare del 9 maggio a Mosca, in occasione della Giornata della Vittoria -, il rapporto sottolinea le “ricorrenti narrazioni anti-occidentali” che sollevano “ulteriori interrogativi sulla direzione strategica della Serbia”.Una valle di lacrime, una pugnalata – alle spalle, o forse in pieno petto – per Vučić, un passo avanti per la famiglia socialista europea, secondo cui “finalmente la Commissione europea sembra prendere coscienza della serietà della situazione in Serbia”.Una situazione che – dal punto di vista del processo di adesione – rischia di precipitare ancora verso uno “stallo”, un “punto morto”, come Bruxelles ha definito quelli relativi a Turchia e Georgia, gli altri due grandi malati tra i dieci Paesi candidati all’ingresso nell’Unione europea. Per quanto riguarda Ankara, “le serie serie preoccupazioni riguardo al continuo deterioramento degli standard democratici, dello Stato di diritto, dell’indipendenza della magistratura e del rispetto dei diritti fondamentali non sono state affrontate”, mentre Tbilisi, “anziché dimostrare il proprio impegno a favore di un’ulteriore integrazione nell’UE e portare avanti le riforme necessarie”, si è “ulteriormente allontanata”, adottando “una retorica ostile e senza precedenti nei confronti dell’UE, spesso facendo eco alla disinformazione in stile russo”.

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    Tanzania, l’UE chiede il rilascio dei prigionieri politici e indagini su sparizioni e violenze durante le elezioni

    Bruxelles – Un altro partner dell’UE in Africa mostra il suo volto illiberale in occasione delle elezioni presidenziali. In Tanzania, la presidente Samia Suluhu Hassan è stata confermata con il 98 per cento dei consensi, dopo aver escluso dalla partita i leader dei principali partiti d’opposizione. Dal giorno del voto, il 29 ottobre, dal Paese – in cui è stata sospesa la connessione Internet – giungono notizie di centinaia di vittime negli scontri con le forze dell’ordine. In un comunicato a nome dei Paesi membri, l’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, si è detta “molto preoccupata”, e ha chiesto “il rilascio di tutti i politici detenuti” e indagini “rapide e approfondite su tutti i casi segnalati di rapimenti, sparizioni e violenze“.Suluhu Hassan è al potere dal 2021, ma il suo partito – il Chama Cha Mapinduzi (Partito della Rivoluzione, in lingua swahili) – guida ininterrottamente il Paese da oltre mezzo secolo. Il plebiscito che l’ha riconfermata era prevedibile. Già ad aprile, il vicepresidente e candidato del principale partito di opposizione, Tundu Lissu di Chadema (Partito della Democrazia e dello Sviluppo) , era stato arrestato e accusato di tradimento e reati informatici. Sorte simile è toccata il mese scorso al candidato di ACT-Wazalendo (Alleanza per il Cambiamento e la Trasparenza), un altro partito di opposizione: il suo leader, Luhaga Mpina, è stato squalificato per vizi di forma dalla corsa elettorale.Chadema aveva lanciato una campagna di boicottaggio del voto in seguito all’arresto del proprio leader, e negli ultimi mesi si sono susseguiti diversi casi di sparizioni forzate di oppositori e critici del governo. Dopo l’annuncio della vittoria di Suluhu Hassan da parte della Commissione elettorale nazionale indipendente (INEC), migliaia di persone hanno protestato per giorni a Dar es Salaam e nei principali centri del Paese. Chadema ha accusato le forze di sicurezza di aver ucciso tra le 500 e le 800 persone durante gli scontri. Il governo ha imposto il coprifuoco e sospeso la connessione internet in tutto il Paese e le notizie sono difficilmente verificabili. Già il 31 ottobre, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani (OHCHR), riportava la morte di almeno 10 persone a Dar es Salaam, Shinyanga e Morogoro, a seguito dell’utilizzo di “armi da fuoco e gas lacrimogeni” da parte delle forze di sicurezza per disperdere i manifestanti.Nella giornata di ieri, l’Unione europea ha diffuso una nota sottolineando che “le notizie attendibili relative a un numero elevato di vittime e feriti gravi destano estrema preoccupazione”. Il capo della diplomazia UE ha chiesto “il rilascio di tutti i politici detenuti e un processo trasparente ed equo per le persone arrestate su una solida base giuridica, nonché indagini rapide e approfondite su tutti i casi segnalati di rapimenti, sparizioni e violenze”. Bruxelles è legata al Paese dell’Africa orientale da un partenariato di lunga data: Kallas ha ribadito che l’UE “apprezza” la cooperazione e il dialogo con la Tanzania, rinforzato proprio nel 2021 con l’insediamento di Suluhu Hassan, che ruota intorno a tre priorità: Green Deal, capitale umano e occupazione, governance. L’UE ha stanziato 585 milioni di euro in sovvenzioni per il partenariato con la Tanzania nel periodo 2021-2027.

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    Serbia, un anno di proteste guidate dagli studenti. Nessuna apertura da Vučić e un’UE in grande difficoltà

    Bruxelles – A poche ore dal primo anniversario del crollo della tettoia alla stazione ferroviaria di Novi Sad, che costò la vita a 16 persone, decine di migliaia di cittadini serbi stanno muovendo in direzione della città a nord di Belgrado: domani (1 novembre) ricorderanno le vittime e ribadiranno che non hanno alcuna intenzione di fermare il più grande movimento di protesta della storia del Paese. Nonostante la ferocia con cui il presidente, Aleksandar Vučić, si è mostrato finora determinato a rimanere al potere.Ieri sera, a Inđija, a metà strada tra la capitale e Novi Sad, circa tremila giovani hanno dormito a cielo aperto, nella strada principale della città, grazie ai materassi e alle coperte messi a disposizione dai cittadini. Il sindaco di Inđija, esponente del partito del presidente (SNS), si è rifiutato di aprire qualsiasi spazio pubblico per accogliere gli studenti. L’appuntamento è alle 11:52 di domani mattina – l’ora esatta del tragico incidente – alla stazione di Novi Sad, dove saranno osservati 16 simbolici minuti di silenzio.Dopo un anno di proteste imponenti contro la corruzione e la gestione autoritaria dell’apparato statale, è tempo di qualche bilancio. Secondo Srđan Cvijić, presidente dell’International Advisory Committee of the Belgrade Centre for Security Policy, “non è stata fatta alcuna apertura” da parte del presidente. Dall’enorme manifestazione di Belgrado, lo scorso 28 giugno, Vučić ha solamente stretto le maglie della repressione “andando al di là di qualsiasi linea rossa vista finora” nel Paese candidato di lunga data all’adesione all’Unione europea. Diversi report di media indipendenti e organizzazioni della società civile hanno denunciato molestie sessuali contro le studentesse arrestate nelle stazioni di polizia e l’utilizzo di armi e sostanze chimiche illegali per respingere i manifestanti. Nel frattempo, il governo ha rinforzato la narrazione che vuole che l’incidente di Novi Sad sia stato in realtà un atto terroristico.Srđan Cvijić, presidente dell’International Advisory Committee of the Belgrade Centre for Security PolicyA sostenere pubblicamente questa “teoria del complotto” anche Ana Brnabić, presidente del Parlamento di Belgrado che interverrà al Forum Ue sull’Allargamento, a Bruxelles, il prossimo 18 novembre. L’Unione europea d’altronde, sulla situazione nel paese nel cuore dei Balcani, è in grande difficoltà. Il report annuale sullo stato dell’arte nei Paesi candidati all’adesione, che sarà svelato martedì 4 novembre, dovrebbe adottare un linguaggio molto duro nei confronti di Belgrado. E, pochi giorni fa, il Parlamento europeo ha adottato ad ampia maggioranza una risoluzione in cui ha chiesto a Vučić di fermare la repressione e di “essere serio” nel percorso di adesione.Eppure, uno dopo l’altro, la commissaria Ue per l’Allargamento Marta Kos, il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si sono recati a Belgrado per confermare il supporto a Vučić, in quello che Cvijić ha definito un “bisogno masochista dell’Europa di credere in questo governo, perché ha paura di un salto nel buio”. Due settimane fa, in conferenza stampa insieme a Vučić, von der Leyen ha usato il bastone e la carota: dopo aver sottolineato che Bruxelles sta dalla parte “della libertà anziché dell’oppressione, compreso il diritto di riunirsi pacificamente“, ha “accolto con favore i recenti progressi” compiuti con l’istituzione del registro elettorale unificato e con le nomine del consiglio della Commissione Regolatrice dei Media Elettronici (REM).Ursula von der Leyen e Aleksandar Vucic a Belgrado, 15/10/25 (Photo by Andrej ISAKOVIC / AFP)Proprio quest’ultimo punto – ha commentato Cvijić – mostra il “faticoso gioco” che sta portando avanti il presidente. Secondo la ricostruzione dell’analista politico, è vero che diverse organizzazioni indipendenti sono “entrate con difficoltà e molti rischi per la loro legittimità pubblica” in dialogo con il governo per eleggere i membri del REM, ma “per l’ennesima volta” l’esecutivo “ha usato degli escamotage” per assicurarsi la maggioranza dei membri di questa commissione di controllo.Il gioco di Vučić è su diversi fronti: mostrare finte aperture a Bruxelles, delegittimare i manifestanti e i loro sostenitori – lo stesso Cvijić è stato attaccato da un alto funzionario del governo dopo aver pubblicato un editoriale sul quotidiano britannico The Guardian – e nel frattempo “utilizzare ogni possibilità per approfondire fratture nel movimento democratico”. Perché qualche crepa nel fronte studentesco sulla strategia da perseguire esiste, e ruota intorno al comportamento da tenere in vista di uno degli obiettivi primari, quello di ottenere elezioni legislative anticipate.Una veduta dall’alto delle proteste oceaniche in Serbia contro il presidente Aleksandar Vučić (foto: Tadija Anastasijevic/Afp)In un primo momento, il movimento studentesco aveva rifiutato con convinzione qualsiasi interazione con le istituzioni politiche consolidate, compresi i partiti di opposizione. Ora gli studenti che sostengono con forza la necessità di tornare alle urne hanno annunciato che presenteranno una lista elettorale, che sarà resa pubblica solamente quando e se verranno convocate le elezioni. Una vasta parte della società serba sostiene questa richiesta e ha invitato tutti i partiti dell’opposizione a non partecipare alle eventuali elezioni, in segno di sostegno ai candidati degli studenti. Questo sta inevitabilmente portando a timori e tensioni nel vasto movimento democratico.Ed è lì che sta provando a inserirsi Vučić per allargare le crepe. Secondo Cvijić, il presidente non sta convocando le elezioni perché “non è sicuro di poterle vincere”, e quindi “sta lavorando per rompere il fronte” dell’opposizione e riconquistare terreno. Da calendario istituzionale, la Serbia dovrà in ogni caso tenere le elezioni presidenziali nella primavera del 2027 e quelle per rinnovare il parlamento prima della fine dello stesso anno. Il tempo è dalla parte di Vučić. La storia dalla parte degli studenti. E di quei 16 cittadini schiacciati dalla tettoia di una stazione ferroviaria inaugurata pochi mesi prima, che ha svelato l’inadeguatezza dei lavori e la corruzione dilagante dell’apparato statale del Paese.