INTERVISTA / L’eurodeputata Chloé Ridel (S&D): “L’Ue contrasti la repressione transnazionale”
Bruxelles – La repressione del dissenso da parte dei regimi autoritari ha molte forme. Oltre al pugno di ferro interno, i governi di diversi Stati stanno aumentando la capacità di colpire anche all’estero, prendendo di mira gli oppositori politici e gli attivisti ben al di là dei propri confini nazionali. Per capire meglio le dinamiche di questo fenomeno, e le carenze legislative nell’Unione europea, Eunews ha fatto alcune domande a Chloé Ridel, eurodeputata del Parti socialiste francese (S&D) e relatrice dell’Aula sul tema. La bozza del suo rapporto è datata 16 giugno e verrà discussa dall’emiciclo nei prossimi mesi.“Si parla di repressione transnazionale quando un governo autoritario agisce al di fuori dei propri confini nazionali per costringere, controllare o mettere a tacere i dissidenti, i difensori dei diritti umani, i giornalisti, gli attivisti, le comunità della diaspora e in generale i propri cittadini all’estero“, ci spiega Ridel. Gli Stati sono i principali responsabili, continua, e “si avvalgono spesso di proxy, che possono essere aziende private, reti criminali o collaboratori nella diaspora”.Nel concreto, per quel che riguarda le modalità di questa repressione, “la tattica più comune è la detenzione” mentre altre tattiche “includono minacce fisiche, sparizioni forzate e rapimenti, spesso finalizzati al rimpatrio forzato, ma anche richieste di estradizione e abuso delle segnalazioni all’Interpol per motivi politici e varie altre forme di pressione amministrativa: divieti di viaggio, rifiuto di documenti di identità e di servizi consolari o bancari” e così via.Recentemente, precisa Ridel, “è in crescita la repressione digitale: sorveglianza online, hacking, utilizzo di spyware, molestie sui social e doxing“, cioè una forma di cyberbullismo che consiste nel diffondere dati privati in rete. Soprattutto, puntualizza, “le donne sono oggetto di violenza di genere online in modo sproporzionato“.Il presidente cinese Xi Jinping (sinistra) e il suo omologo russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Si tratta di un fenomeno in aumento a livello globale, ma una decina di regimi sono responsabili per circa l’80 per cento dei casi: Bielorussia, Cambogia, Cina, Egitto, Iran, Russia, Tagikistan, Turchia, Turkmenistan e Uzbekistan. “Solo nel 2023, almeno 300 difensori dei diritti umani sono stati uccisi” per ordine di questi governi, afferma l’eurodeputata, “nel tentativo di zittirli e fermare il loro lavoro”.Qual è la situazione in Europa? Qui, dice la relatrice, “la mancanza di una definizione giuridica condivisa e la scarsità di dati ufficiali stanno permettendo al fenomeno di crescere ed espandersi, in un contesto globale in cui aumenta il numero dei regimi autoritari”. “Il coordinamento rimane debole” all’interno dell’Unione, lamenta l’europarlamentare, con le disposizioni nazionali che procedono in ordine sparso, “ma speriamo di cambiare questa situazione grazie alla presente relazione“, la prima mai redatta dall’Aula sul tema.Tra i Ventisette, spiega, “solo una manciata di governi ha introdotto disposizioni specifiche per affrontare la repressione transnazionale, e le politiche per tradurle in azioni concrete sono ancora agli inizi”. Alcuni Stati membri (la Germania, la Slovacchia e i Baltici) hanno firmato la Dichiarazione di princìpi per combattere la repressione transnazionale, uno strumento volontario elaborato nel 2023 da Freedom House. In Svezia (così come in altri Paesi extra-Ue come Norvegia e Svizzera), lo spionaggio ai danni dei rifugiati è codificato come un reato penale.In Italia, in particolare, ci segnala “l’arresto, nel 2016, dell’attivista iraniano Mehdi Khosravi sulla base di una segnalazione rossa italiana all’Interpol“. Il Belpaese ha funzionato come centro “di transito e di accoglienza in cui i responsabili di queste violazioni hanno cercato di manipolare la cooperazione dell’Interpol o della polizia locale“, prosegue.In realtà, la lacuna legislativa è ben più ampia del solo Vecchio continente: “Non esiste una definizione giuridica unica a livello internazionale“, ammette Ridel, aggiungendo che “anche l’attuazione è disomogenea”. Ma quali misure urgenti si possono adottare per mitigare il fenomeno in Ue? Per la deputata, ci sono almeno tre cose da fare.Una passa per il “miglioramento dei meccanismi di raccolta, tracciamento e segnalazione dei dati sui casi di repressione”, da realizzarsi attraverso “punti di contatto negli Stati membri e un meccanismo a livello comunitario per raccogliere e tracciare gli incidenti“.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen (foto: Consiglio europeo)A quel punto, “gli Stati membri potrebbero includere la repressione transnazionale nelle loro leggi domestiche e utilizzare tutta la flessibilità consentita dalle loro politiche in materia di visti per proteggere i difensori dei diritti umani”. Senza dimenticare “la formazione dei professionisti“, cioè i dipendenti delle agenzie governative e statali, i fornitori di servizi esterni, gli addetti alla sicurezza informatica, le forze dell’ordine e tutto il personale coinvolto nella gestione dei flussi migratori (incluse le pratiche di estradizione).Secondo, bisogna “ridurre l’uso di segnalazioni Interpol motivate da ragioni politiche“. Questo è un compito per l’Europol, che dovrebbe “sottoporre ad esame approfondito le segnalazioni in arrivo e le richieste di estradizione che coinvolgono difensori dei diritti umani, giornalisti, esponenti dell’opposizione o altre persone a rischio”.Infine, va messa in campo un’azione seria di contrasto alla repressione online. Come? Ad esempio “attuando normative più severe sui facilitatori, tra cui i social media e le industrie che producono spyware“, ci dice Ridel, proponendo un embargo sulla vendita di questi software agli Stati che si rendono responsabili di queste azioni criminose, sanzionando gli operatori che continuano ad esportare verso i Paesi inclusi in un’ipotetica blacklist.“Oggi la tecnologia è una potente arma di oppressione da parte dei regimi autoritari“, ribadisce la relatrice, ma purtroppo “la normativa è molto indietro”. L’esecutivo comunitario dovrebbe aggiornare gli strumenti a sua disposizione, sostiene, e può farlo in vari modi: “Coinvolgendo le piattaforme social e applicando pienamente il Digital services act (Dsa)“, come primo passo, ma anche “mobilitando la società civile e i difensori dei diritti umani per non lasciare spazio alla repressione e promuovere invece un ambiente online libero e sicuro”. LEGGI TUTTO