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    Perché l’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile è fondamentale per la prossima Commissione Europea

    Bruxelles – Per l’avanzamento nella realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg), questi sono giorni cruciali, dato che il vertice che si tiene a New York è volto a segnare l’inizio di una nuova fase di accelerazione con orientamenti politici di alto livello.
    (credits: Timothy A. Clary / Afp)
    Nel settembre 2015, i leader mondiali, riuniti alle Nazioni Unite per adottare l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, articolata in 17 obiettivi, hanno cercato di affrontare sfide globali urgenti tenendo conto della dimensione economica al pari di quella sociale e di quella ambientale. Oggi, a metà del cammino verso il 2030, è essenziale fare il punto sui progressi compiuti, sulle sfide affrontate e sul percorso che rimane da compiere per raggiungere questi ambiziosi obiettivi. La realtà è che siamo in ritardo sulla tabella di marcia, e sembra che, anche se disponiamo di tutte le risorse e le tecnologie necessarie, ci manchi la determinazione politica di andare avanti a un ritmo adeguato.
    Durante il Forum politico di alto livello che si è svolto a New York in luglio è stato ricordato che dall’edizione speciale del rapporto delle Nazioni Unite sui progressi degli obiettivi di sviluppo sostenibile è emerso che solo il 12 per cento degli obiettivi è a buon punto a livello mondiale. L’Europa è in una situazione migliore rispetto ad altri continenti, dato che ha compiuto progressi per alcuni degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Tuttavia, non tutti stanno avanzando su questa strada e non così velocemente come dovrebbero. Inoltre, tra uno Stato membro e l’altro e tra una regione e l’altra dell’Ue vi sono disparità, e abbiamo ancora molta strada da fare dal momento che crisi multiple e consecutive, come la pandemia e la guerra in Ucraina, stanno destabilizzando il mondo e i nostri sforzi.
    La strada dinanzi a noi
    La mancanza di un riferimento esplicito all’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile nel discorso sullo Stato dell’Unione tenuto dalla presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, il 13 settembre dimostra che gli obiettivi di sviluppo sostenibile non costituiscono l’elemento propulsore nel cambiamento delle politiche dell’Ue. Quella a cui assistiamo nell’integrazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile è in certa misura un’operazione di facciata. Invece di considerarli come un quadro generale che definisce le nostre azioni per il cambiamento sistemico, ci limitiamo a prendere decisioni disorganiche e a esprimere una valutazione dei relativi effetti sull’attuazione di obiettivi specifici.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen (13 settembre 2023)
    La prossima Commissione Europea dovrebbe prendere sul serio l’impegno politico a favore dell’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. La realizzazione dell’Agenda 2030 richiede cambiamenti strutturali, soluzioni innovative e la collaborazione tra governi, società civile, imprese e organizzazioni internazionali. Abbiamo bisogno di un piano di trasformazione a lungo termine che vada oltre il 2030. Il Cese e altre organizzazioni della società civile hanno chiesto fin dall’inizio una strategia globale per l’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. E questo richiede coraggio politico e impegno non solo per incanalare adeguatamente le risorse finanziarie e umane disponibili, ma anche per ristrutturare il modo di funzionare dell’amministrazione e per superare le compartimentazioni.
    Stiamo assistendo a inondazioni, siccità e incendi senza precedenti, all’aumento delle disuguaglianze sociali e, con esse, a disordini sociali e a un sentimento di disprezzo verso i nostri attuali rappresentanti politici e i nostri decisori. Vediamo come i grandi attori economici stiano migliorando la loro posizione sul mercato e come stia diventando invece sempre più difficile per i piccoli sopravvivere. L’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile è l’unica soluzione valida per tutti. La loro realizzazione richiede un’azione collettiva, soluzioni innovative e una rinnovata volontà a costruire un mondo migliore per le generazioni attuali e future. Non possiamo permettere che il nostro futuro sia dominato dall’incertezza.

    Maria Nikolopoulou, membro del Cese, rappresentante della Confederazione sindacale spagnola delle commissioni operaie, membro delle sezioni Agricoltura, Sviluppo rurale e ambiente (Nat) e Trasporti, energia, infrastrutture e società dell’informazione (Ten)

    Maria Nikolopoulou, membro del Comitato economico e sociale europeo (Cese), mette in luce la necessità dell’Ue di spingere sull’Agenda 2030: “Richiede coraggio politico e impegno per ristrutturare il modo di funzionare dell’amministrazione e per superare le compartimentazioni”

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    Why is the implementation of the Sustainable Development Goals key for the next European Commission?

    Brussels – These days are critical for the advancement of the Sustainable Development Goals (SDGs), as the 2023 SDG Summit taking place in New York aims to mark the beginning of a new phase in accelerating the implementation of the SDGs with high-level political guidance.
    (credits: Timothy A. Clary / Afp)
    In September 2015, world leaders, gathered at the United Nations to adopt the 2030 Agenda for Sustainable Development, which included 17 Sustainable Development Goals (SDGs), sought to address pressing global challenges by taking into account, on an equal footing, the economic, social and environmental dimensions. Now, half way to 2030, it is essential to take stock of the progress made, the challenges faced, and the path forward towards achieving these ambitious goals. The reality is that we are currently falling behind schedule, and it appears that even if we have all the required resources and technology, we are lacking the political determination to move forward at an adequate pace.
    During the High-Level Political Forum in July in New York, it was mentioned that the UN special edition of the SDGs Progress Report made clear that only 12 percent of the Sustainable Development Goals are on track globally. Europe is in better shape than other continents as there has been progress in some of the SDGs. Nevertheless, not all of them are progressing and not as fast as they should. In addition to this, there are disparities among EU Member States and regions and we still have a long way to go as multiple and consecutive crisis such as the pandemic and the war in Ukraine are destabilising the world and our efforts.
    The Road Ahead
    The lack of explicit mention of the implementation of the Sustainable Development Goals in President Ursula Von der Leyen‘s State of the Union speech on 13 September, shows that the SDGs are not the driving force of change of the EU policies. There is a certain “SDG washing”. Instead of considering them as an umbrella that defines our actions for systemic change, we just take fragmented decisions and state how it affects the implementation of specific goals.
    The president of the European Commission, Ursula Von der Leyen (13 September 2023)
    The incoming EU Commission should take the political commitment to implementing the Sustainable Development Goals seriously. Achieving the 2030 Agenda requires structural changes, innovative solutions, and collaboration among governments, civil society, businesses, and international organisations. We need a long-term transformative plan that will go beyond 2030. The European Economic and Social Committee (Eesc) and other civil society organisations have been calling for an overarching strategy to implement the SDGs since the beginning. And this requires political courage and commitment not only to adequately channel the available financial and human resources but also to restructure the way the administration works and to break silos.
    We are experiencing unprecedented floods, drought and wildfires. We are witnessing how social inequalities are rising and with them social unrest and disdain for our current politicians and policy-makers. We are seeing how the big economic players are improving their market position and how it’s getting harder and harder for the small ones to survive.  The implementation of the SDGs is the only reliable solution for all. Achieving the Sustainable Development Goals demands collective action, innovative solutions, and a renewed dedication to building a better world for current and future generations. We can’t allow the uncertainty to govern our future.

    Maria Nikolopoulou, is a member of the European Economic and Social Committee (Eesc) and a member of the Spanish Trade Union Confederation Comisiones Obreras

    Maria Nikolopoulou, member of the European Economic and Social Committee (Eesc), points out the need for the EU to achieve the 2030 Agenda: “This requires political courage and commitment to restructure the way the administration works and to break silos”

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    Green Deal, adesso la sfida geopolitica dell’Ue è con gli Stati Uniti

    Bruxelles – Alla fine il Green Deal si scontra con la realpolitik. L’enfasi, sia pur giustificata e comprensibile, su una trasformazione dell’economia in senso nuovo e più sostenibile, ora fa i conti con il mondo reale. L’Unione europea ha deciso di essere leader, di dare il buon esempio. Nel fare da apri-pista, però, si è improvvisamente schiacciata da un partner deciso a superarla, gli Stati Uniti, e il mondo orientale – Paesi del golfo, Cina e India su tutti – ancora legata a quei vecchi sistemi produttivi che invece l’Ue vorrebbe superare. Il blocco a dodici stelle può rivendicare una svolta ‘green’ oltre Atlantico, che però rischia di tradursi in una sfida Ue-Stati Uniti tutta nuova.
    Le ripercussioni a livello globale della guerra tra Russia e Ucraina hanno indotto l’amministrazione Biden al varo dell’Inflation reduction act. Il provvedimento, varato per frenare l’inflazione, finisce per favorire quel settore in cui l’Ue vorrebbe tanto essere all’avanguardia. Credito d’imposta per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili per i progetti che iniziano la costruzione prima dell’1 gennaio 2025, 250 milioni di dollari in sovvenzioni per la produzione domestica di pompe di calore disponibili fino a settembre 2024, sovvenzioni per 5,8 miliardi di dollari per l’industria ad alta intensità energetica per l’installazione di tecnologie avanzate per ridurre le emissioni di gas serra delle strutture. Ancora, credito d’imposta sulla produzione per la produzione nazionale di componenti per l’energia solare ed eolica, inverter, componenti per batterie e minerali critici, programma di sovvenzioni da 2 miliardi di dollari per la produzione nazionale di veicoli puliti (ibridi, ibridi elettrici plug-in, elettrici plug-in e a celle a combustibile a idrogeno).
    L’Unione europea si vede ‘aggredita’ su quel terreno di sviluppo industriale dove cercava di ricostruire una competitività persa. A oriente l’Europa degli Stati l‘Ue dipende dalla Russia per una quota significativa delle sue importazioni per tre materie prime critiche, platino, palladio e titanio, materiali indispensabili per lo sviluppo della tecnologia dell’idrogeno. Ancora più a est l’Ue dipende fortemente dalla Cina da tutte le materie prime utilizzate per la produzione di batterie, ad eccezione del litio. L’Ue non ciò di cui ha bisogno per le sue transizioni, e al contempo deve rispondere al dilemma statunitense.
    C’è il rischio che il massiccio piano degli Stati Uniti possa mettere questi in una posizione di vantaggio a scapito dell’Europa delle verdi ambizioni. L‘industria europea teme di perdere la corsa globale per la competitività, con l’impatto maggiore delle industrie automobilistiche e delle tecnologie pulite dell’Ue, come i produttori di batterie o di apparecchiature per l’energia solare o eolica. Timori aggravati dalla prospettiva che i prezzi dell’energia in Europa rimangano più alti che negli Stati Uniti e in altre parti del mondo nel medio termine, come conseguenza della guerra della Russia in Ucraina e dell’allontanamento dal gasdotto russo.
    Non è un caso se la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato il piano industriale per il Green Deal. Ma servirà prudenza. Se da una parte non agire di fronte all’Inflation Reduction Act potrebbe avere conseguenze negative sull’industria dell’Ue, dall’altra parte una guerra commerciale in piena regola con gli Stati Uniti minerebbe l’unità transatlantica in tempo di guerra e trasmetterebbe l’immagine di un Occidente diviso sia alla Russia che alla Cina. “L’Ue si trova di fronte alla sfida di impostare una reazione coerente agli Stati Uniti“, mettono in rilievo gli analisti del centro ricerche del Parlamento.
    L’Ue deve fare i conti con la realtà, e la realtà è che il conflitto in Ucraina rischia di far saltare tutta la strategie a dodici stelle. La situazione che si è creata – azzeramento delle relazioni con la Russia, aumento dei prezzi, crisi energetica, dipendenza dalla Cina – è “aggravata dal limitato spazio di manovra dell’amministrazione Biden che rende altamente improbabili modifiche legislative all’Inflation Reduction Act“. Servirà una capacità negoziale nell’auspicio che il partner transatlantico non spinga troppo sull’acceleratore di un svolta green che potrebbe spazzare via le velleità europee.

    L’Inflation Reduction Act rischia di vedere l’Ue inseguire il progresso Usa anziché essere leader. Gli analisti avvertono: “Altamente improbabili modifiche legislative, una guerra commerciale non aiuterebbe”

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    La strategia russa di lasciare l’Ucraina al buio e al freddo è un crimine contro l’umanità

    Impotente ad avanzare sul campo, anzi dovendo subire l’umiliazione della ripresa di Kherson sotto controllo ucraino, gli obiettivi dell’”operazione speciale” di Putin sono diventati le principali città e infrastrutture strategiche del paese, costringendo al freddo e al buio milioni e milioni di civili.
     Una sorta di vendetta, insomma, per gli smacchi subiti che, con l’aiuto del “generale Inverno” può mettere seriamente in difficoltà la forte fibra degli ucraini attraverso un metodo che non può che qualificarsi di crimine contro l’umanità, come giustamente rivendica Volodymyr Zelenski, tanto colpisce trasversalmente tutte le fasce della popolazione, comprese le più deboli e inermi, bambini, malati, anziani eccetera.
     Si tratta di un ulteriore escalation di una guerra abbietta e spietata al cuore dell’Europa, che non può che suscitare ulteriore sdegno per il carattere indiscriminato dei raid, a prescindere dalla natura militare o strategica dei target da colpire.
    La guerra, insomma, non è più tesa alla presunta “denazificazione” del paese, o  debellare le sue forze armate, ma è condotta virtualmente contro l’intero popolo ucraino col risultato paradossale, peraltro, che i russi bombardano la stessa Kherson, di cui avevano solo poche settimane fa decretano l’annessione.
    Bene ha fatto il Parlamento europeo a dichiarare, a larga maggioranza, che la Russia è “uno stato sponsor del terrorismo” che “utilizza mezzi terroristici”, invitando le istituzioni europee e i suoi Paesi a creare un quadro giuridico adeguato e considerare di aggiungere la Russia a tale lista.
    Nel mirino anche i mercenari della famigerata “Brigata Wagner” e altri gruppi e milizie armate, Ciò farebbe scattare una serie ulteriore di misure nei confronti della Russia, tanto che si sta lavorando ad un nono pacchetto di sanzioni, a partire dal famoso “price cap” sulle forniture energetiche russe.
    Il Parlamento chiede inoltre all’Unione europea di isolare ulteriormente la Russia a livello internazionale, anche per quanto riguarda l’adesione ad organizzazioni e organismi internazionali, di ridurre i legami diplomatici con la Russia e di limitare i contatti dell’UE con rappresentanti russi al minimo indispensabile.
    A far saltare i nervi al leader del Cremlino c’è stato anche il mezzo fallimento del vertice di Erevan, in Armenia, con i capi di alcune delle ex repubbliche sovietiche che non hanno particolarmente sostenuto Putin nella sua strategia dominatrice – dal loro punto di vista in modo del tutto comprensibile, tanto che i russi non sono nemmeno riusciti a ottenere un comunicato congiunto finale.
    Siamo, insomma, ad una fase forse cruciale del conflitto. E non ci si illuda eccessivamente: nella visione di Putin non c’è il pareggio, non sta giocando un campionato mondiale.
    Sta giocando la finale, o vince o perde la partita della sua vita.

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    Aborto, gli Stati Uniti ricordano all’UE che i valori non sono solidi come pietre

    Bruxelles – L’Europa reagisce, per niente compatta, al  diritto all’aborto negato da una sentenza della Corte suprema che riporta indietro l’America indietro di 50 anni.
    Una decisione arrivata mentre a Bruxelles i leader dell’Ue erano impegnati nei lavori del vertice del Consiglio europeo, ma che non sembra incontrato particolare resistenze. La Commissione resta silente. Solo l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue dice: “Le donne e le ragazze devono avere il diritto illimitato di decidere sul proprio corpo e sul proprio futuro”. Fine del commento di Josep Borrell, per quella che si materializza come una critica ‘light’. Silenzio della presidente von der Leyen, con il commissario Paolo Gentiloni che si limita a ritwittare un messaggio di Barack Obama in cui l’ex presidente democratico si rammarica per la scelta di “attaccare le libertà essenziali di milioni di americani”.

    Today, the Supreme Court not only reversed nearly 50 years of precedent, it relegated the most intensely personal decision someone can make to the whims of politicians and ideologues—attacking the essential freedoms of millions of Americans.
    — Barack Obama (@BarackObama) June 24, 2022

    Dove ferve il dibattito è in Parlamento europeo. Non a livello di massime cariche, viste le posizioni personali anti-abortiste dell’attuale presidente. Il presidente della commissione Diritti delle donne, il socialdemocratico Robert Biedroń , pubblica una nota ufficiale in cui si dichiara “sconvolto” e ricordare come l’Eurocamera “ha fermamente condannato il regresso dei diritti delle donne e della salute e dei diritti sessuali e riproduttivi in ​​atto a livello globale, compresi gli Stati Uniti e in alcuni Stati membri dell’UE”. Per questo “continueremo a stare con le donne e le ragazze negli Stati Uniti”. Questo sì che è prendere le distanze. Dal Parlamento una lezione alla Commissione.
    Indignati i Verdi (“Un duro colpo per il diritto all’aborto“, il commento del gruppo), di “grave regressione dei diritti e la messa in pericolo di milioni di donne” parla il PPE attraverso Frances Fitzgerald, membro delle commissioni Affari economici e Diritti delle donne.
    I liberali non ci vanno giù teneri. “Trump ha nominato non solo tre giudici della Corte Suprema, ma anche circa 200 giudici federali negli Stati Uniti per  portare a termine l’agenda repubblicana reazionaria”, l’analisi di Sophie in ‘t Veld, che vede una ‘polonizzazione’ degli Stati Uniti. L’indignazione di un’Europa che fa sempre più fatica a vedere riconosciuti i diritti e i valori ancora validi nel territorio dell’UE, fa i conti con un partner chiave che sceglie altre strade, un partner con cui malgrado tutto l’Ue deve continuare a fare i conti.
    Emmanuel Macron e Kyriakos Mitsotakis condannano. A differenza di altri, impegnati come loro nei lavori del Consiglio europeo prima e del G7 poi, i leader di Francia e Grecia, un liberale e un cristiano-democratico, si sfilano. “L’aborto è un diritto fondamentale per tutte le donne”, sostiene l’inquilino dell’Eliseo. “Deve essere protetto. Desidero esprimere la mia solidarietà alle donne le cui libertà sono state minate dalla Corte Suprema degli Stati Uniti”. Mentre il leader ellenico si dice “turbato” per ciò che considera “un importante passo indietro nella lotta per i diritti delle donne”.
    Intanto però l’UE si ritrova con un partner considerato democratico per antonomasia che ora rischia di esserlo un po’ meno, se l’amministrazione Biden, come ha promesso di fare, non riuscirà a recuperare. Un nuovo problema, per l’Europa dei valori. 

    Reazioni tra il tiepido e il distaccato in Commissione, indignazione del Parlamento, leader del Consiglio in ordine sparso. La sentenza che elimina il diritto di interrompere la gravidanza ora mette alla prova la credibilità dell’Ue sui principi

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    Oliver Röpke (CESE): Fermiamo la guerra. Tuteliamo i lavoratori. Salviamo la democrazia

    L’urgenza della situazione in Ucraina, il dramma del popolo ucraino, il fatto che tenga testa, con coraggio e successo, a un nemico molto più potente – tutto questo ha scosso fin nelle fondamenta quello che, solo pochi mesi fa, era spesso considerato l’ordine naturale delle cose in Europa.
    La guerra stessa, che si svolge alle porte dell’Unione europea, ci ha ricordato che esiste un mondo al di là dei nostri confini. Le immagini e le notizie da cui siamo bersagliati quotidianamente ci rammentano la brutalità della guerra – un conflitto che è in corso sulla soglia di casa nostra -, compresa la recente scoperta di fosse comuni e di indizi di quelli che potrebbero essere veri e propri crimini di guerra. . Le forze armate e i razzi di Putin hanno colpito Kyiv e, anche dopo il parziale ritiro delle truppe russe e il contrattacco degli ucraini, l’offensiva prosegue con immutata violenza e i civili continuano a morire. Dopo aver rinunciato a un Blitzkrieg nei primi giorni di guerra e aver subito gravi perdite, Putin sembra essere passato alla strategia di un attacco mirato e più graduale, devastando ogni metro di terreno conquistato. Sfruttando l’enorme superiorità della Russia negli equipaggiamenti convenzionali, e in particolare nelle armi pesanti, Putin continua ad avanzare, costringendo migliaia di persone ad abbandonare le loro case e uccidendone molte altre. Gli indizi che siano stati effettivamente perpetrati dei crimini di guerra e l’altissimo numero di profughi suggeriscono che l’obiettivo della strategia è fare in modo che quasi nessun ucraino rimanga nelle retrovie per contestare l’annessione di fatto (anche con il rilascio di passaporti russi) dei territori ucraini occupati. Nell’UE le conseguenze economiche del conflitto stanno già colpendo duramente i più vulnerabili, e se la guerra perdura la situazione probabilmente non farà che peggiorare.
    Per fortuna la risposta, dopo un’iniziale esitazione, è stata unitaria e netta: un pacchetto di misure per sanzionare Putin e il suo regime, la solidarietà con i milioni di profughi in fuga dinanzi all’invasione russa e un chiaro sostegno al popolo ucraino. La direttiva sulla protezione temporanea è stata un elemento fondamentale di questa risposta. La priorità assoluta è assistere l’Ucraina e prestare aiuto e soccorso ai profughi ucraini e alle società che li accolgono. La società civile ha svolto e continuerà a svolgere un lavoro straordinario, dalla raccolta e l’invio di donazioni all’offerta di un tetto e di assistenza alle persone in fuga. Il gruppo Lavoratori del CESE, unitamente alla Confederazione europea dei sindacati (CES/ETUC), condanna l’aggressione russa ed esprime la sua solidarietà al popolo ucraino. Siamo in contatto permanente con i nostri omologhi ucraini per garantire che il maggior numero possibile di aiuti giunga là dove è più necessario. Ora è più importante che mai mantenere i nostri sforzi a questo stesso ritmo, evitando che la situazione si “normalizzi” e di rivolgere altrove la nostra attenzione. Un sostegno continuo con tutti i mezzi disponibili è l’unico modo per conseguire la pace, e l’Ucraina ha un gran bisogno delle risorse necessarie per fermare l’invasione: fintantoché Putin considererà probabile una vittoria militare, si siederà al tavolo dei negoziati solo per inscenare una finzione utile a serrare i ranghi del suo esercito.
    Dobbiamo inoltre ricordare che questa guerra è solo l’ultimo anello di una lunga catena, a partire dalla Cecenia fino alla Georgia e alla Crimea. Qualora ci fosse ancora bisogno che ci venisse ricordato, Putin ci fornisce continuamente la prova di come l’Ucraina sia solo un ulteriore tassello di una visione imperialista di più ampio respiro, secondo la quale intere regioni d’Europa dovrebbero piegarsi al suo regime autocratico o essere considerate degli aggressori. È da ingenui pensare che questa volta il presidente russo si potrà accontentare di quello che ha già ottenuto. Un altro aspetto di questo conflitto è la guerra che Putin sta combattendo contro il suo stesso popolo: mantenuto in stato di terrore, disinformato dalla propaganda, diviso dalla polarizzazione delle opinioni, in un paese in cui il dissenso equivale al tradimento e chi osa parlare chiaro e forte viene direttamente eliminato.
    Come è avvenuto per la pandemia di coronavirus, anche l’invasione dell’Ucraina ci ha colto impreparati: in questo caso, sono molti i paesi che non hanno provveduto a diversificare le loro forniture di energia rispetto alle importazioni di combustibili fossili dalla Russia. Questa dipendenza incauta e sconsiderata, dannosa sia per il clima che per la nostra sovranità, deve cessare. Sicuramente le conseguenze della guerra graveranno molto di più sugli ucraini, ma anche altri non ne rimarranno indenni: le sanzioni e la recessione colpiranno duramente i lavoratori più vulnerabili della Russia e dell’UE. L’impennata dei prezzi dell’energia, il tasso di inflazione galoppante, l’aumento dei costi dei prodotti di base… siamo solo all’inizio. Nel frattempo, su molti paesi che non possono più contare sulle esportazioni ucraine incombe una potenziale penuria di derrate alimentari e una crisi dovuta a carestia e fame.
    L’UE e i suoi Stati membri devono agire, salvaguardando il tenore di vita dei cittadini europei, garantendo che la speculazione sui prezzi dell’energia non spinga ancora di più le nostre famiglie verso la precarietà energetica e le nostre industrie verso il collasso, e anche sostenendo le società che accolgono milioni di profughi. Servono inoltre riforme a lungo termine in un mercato dell’energia che ha chiaramente mostrato di star funzionando male e come qualsiasi perturbazione abbia ripercussioni dirette sui lavoratori e sui cittadini in generale. Il peggioramento della situazione attuale degli europei dovrebbe anche servire loro da ammonimento, dato che i leader autocratici prosperano sul terreno delle disuguaglianze e della povertà. La democrazia è minacciata da autocrati come Putin, che considera l’Ucraina – e anche altri paesi – territorio russo, e si impadronisce delle risorse dei suoi vicini con il pretesto di voler tutelare determinate identità etniche.
    La democrazia è minacciata anche da alcuni leader politici nella stessa UE che vorrebbero costruire un modello simile e che traggono alimento dalla crescita delle disuguaglianze e della povertà. Il sostegno alla concessione all’Ucraina dello status di paese candidato è un segnale positivo forte: l’Europa non deve più essere un terreno di gioco delle superpotenze, ma deve invece formare un’Unione coesa e pacifica che si batte per la libertà e il benessere dei suoi cittadini. Tuttavia, lo status di paese candidato è solo la prima tappa di un lungo percorso, ed è anche un’opportunità per fissare standard dell’UE per il processo di ricostruzione postbellica dell’Ucraina. Tra questi standard europei figurano il rafforzamento dell’autonomia delle parti sociali e della democrazia sociale, il rispetto integrale dei diritti sociali e il recepimento nella legislazione nazionale di tutto il rimanente acquis comunitario, nonché la garanzia del pieno rispetto dello Stato di diritto.
    Sebbene all’Ucraina sia stato concesso lo status di paese candidato, va detto che l’UE non è ancora pronta per un nuovo e importante allargamento: le norme attuali non sono adeguate; è questo il chiaro messaggio emerso dalle raccomandazioni formulate durante la Conferenza sul futuro dell’Europa. L’Unione europea deve accelerare le sue riforme, semplificando e rendendo più democratici i suoi processi decisionali e modificando i suoi meccanismi affinché da un sistema concepito per pochi Stati membri si passi a un sistema in grado di tenere insieme i quasi 30 paesi che potrebbero costituire l’UE nel prossimo futuro.
    Il gruppo Lavoratori, per parte sua, continuerà a monitorare la situazione delle persone in fuga dall’Ucraina a causa della guerra, e in particolare l’assistenza che ricevono nei paesi di accoglienza e la loro integrazione nel mercato del lavoro dell’UE, per poter mettere in campo misure volte a scongiurare il lavoro precario e lo sfruttamento della manodopera. Continueremo inoltre ad essere a fianco dei sindacati nei loro sforzi per raccogliere e far pervenire gli aiuti ai lavoratori e ai sindacati ucraini.
    *Oliver Röpke, presidente del gruppo Lavoratori del Comitato economico e sociale europeo

    L’attacco ha scosso l’UE tutta intera e svelato, ancora una volta, l’autentico volto delle autocrazie. Continueremo ad essere a fianco dei sindacati nei loro sforzi per raccogliere e far pervenire gli aiuti ai lavoratori e ai sindacati ucraini

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    Oliver Röpke (EESC): Stop the war. Protect workers. Save democracy

    The urgency of the situation in Ukraine, the plight of its people, their courageous and successful defence against a much more powerful enemy – all of this has shaken the foundations of what, until a few months ago, was often assumed the natural order of things in Europe.
    The war itself, on the very borders of the European Union, has reminded us that the world is still out there. The images and news we receive every day remind us of the brutality of war – one that is taking place on our very doorstep – including the recent finding of mass graves and signs of what could be war crimes. It has shaken the EU and has shown, once again, the real face of autocracies. Putin’s forces and rockets hit Kyiv and, even after their partial retreat and the Ukrainian counter-attack, the offensive rages on and civilians keep dying. Having discarded the blitzkrieg of the early days of the war, and after suffering heavy losses, Putin seems to have shifted to a targeted and more progressive attack, devastating each metre of conquered land. Using the massive superiority that Russia enjoys on conventional equipment, and particularly heavy weaponry, Putin keeps making gains, forcing thousands out of their homes and killing many more. The signs of war crimes and the sheer number of refugees suggest that this strategy will leave very few Ukrainians behind the lines to contest the current de facto annexation (including the issuing of Russian passports) of occupied Ukrainian territory. In the EU, the economic consequences are already hitting the most vulnerable people hard and the situation is only likely to worsen as the war lingers on.
    Fortunately, the response, after the initial hesitation, was united and clear: measures to punish Putin and his regime, solidarity with the millions of refugees fleeing the Russian invasion and clear support for the Ukrainian people. The Temporary Protection Directive was a key piece of this response. The first priority is to assist Ukraine and its refugees and host societies. Civil society has done, and will continue doing, an outstanding job, from channelling donations to providing shelter and helping those fleeing. The EESC Workers’ Group, together with the ETUC, condemn the Russian aggression and express solidarity with the people of Ukraine. We are constantly in contact with our Ukrainian counterparts, ensuring that as much help as possible arrives where it is most needed. It is now more important than ever to maintain our efforts and avoid normalising this situation and shifting our attention elsewhere. Continuous support by every means available is the only way to achieve peace, and Ukraine badly needs the resources to stop the invasion: as long as Putin considers a military victory likely, he will only sit at the negotiating table as a masquerade to regroup his troops.
    We must also remember that this war is the latest example of a long trend, from Chechnya and Georgia to Crimea. In case we needed any further reminders, Putin continuously shows us how Ukraine is just another step in a longer imperialist vision where entire parts of Europe should bow to his autocratic regime or be considered aggressors. It is foolish to think this time he will have had enough. Another side to this conflict is the war that Putin is waging against his own people: keeping them afraid and misinformed with propaganda, dividing them through polarisation, equating dissent with treason and directly eliminating those who dare to speak up.
    As with the pandemic, this invasion has found us unprepared, in this case with many countries lacking any diversification from Russian supplies of fossil fuels. This reckless dependency, damaging both the climate and our sovereignty, needs to end. Ukrainians will certainly bear the brunt of this, but others will not be immune. Sanctions and recession will hit Russia’s and the EU’s most vulnerable workers hard. Soaring energy prices, rampant inflation levels, rising costs for basic items – this is just the beginning. Meanwhile, a potential food shortage and starvation crisis is looming in many countries that can no longer count on Ukrainian exports.
    The EU and its Member States need to act, protecting our citizens’ living conditions, ensuring that speculation with energy prices does not force our families even further into energy poverty and our industries to collapse, and supporting the societies hosting millions of refugees. Moreover, long-term reforms are needed in an energy market that has clearly shown how dysfunctional it is and how directly any disturbance spills over to workers and other members of the public. The worsening conditions for Europeans should also serve as a cautionary tale, as autocratic leaders thrive on inequality and poverty. Democracy is threatened by people like Putin, who considers Ukraine his, some other countries also his, and seizes his neighbours’ resources under the cover of protecting certain ethnic identities. It is also under threat by political leaders within the EU who hope to build a similar model and who feed on rising inequality and poverty. The support for Ukraine’s EU candidate status is a strong positive sign: Europe must no longer be a chessboard for superpowers, but rather a united and peaceful Union striving for the freedom and wellbeing of its citizens. However, the candidate status is just the beginning of a long procedure, which is also an opportunity to set EU standards when rebuilding Ukraine after the war. This includes strengthening the autonomy of social partners and social democracy, fully respecting social rights and embedding in the country’s legislation all the rest of the acquis communautaire, ensuring full respect for the rule of law. Notwithstanding this candidate status, it must also be noted that the EU is not yet ready for a further major enlargement: rules are not fit for purpose; this much was clear in the recommendations made during the Conference on the Future of Europe. The European Union must speed up its reforms, making its decision-making procedures more democratic and straightforward and moving its mechanisms away from a system designed for only a few members to a system that can cope with the nearly 30 countries that might make up the EU in the near future.
    From our side, the Workers’ Group will continue to monitor the situation of people fleeing Ukraine as a consequence of the war, specifically the assistance they are receiving in their host countries and their integration into the EU labour market, with a view to implementing measures to avoid precarious employment and labour exploitation. Furthermore, we will continue to assist trade unions’ efforts to channel help towards Ukrainian workers and trade unions.
    Oliver Röpke, President of the Workers’ Group in the European Economic and Social Committee
    (Il testo in italiano seguirà a breve)

    The conflict itself, on the very borders of the European Union, has reminded us that the world is still out there

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    Questa volta è un fallimento su tutta la linea. L’UE non riesce a rispettare nessuna promessa ai Balcani Occidentali

    Bruxelles – C’è un limite anche all’ottimismo esibito. E al vertice UE-Balcani Occidentali del 23 giugno 2022 è stato superato abbondantemente. Sia chiaro, non è una questione nuova, né inedita, ma a forza di fare promesse e di non rispettarle, prima o poi ci si deve aspettare che la frustrazione si trasformi in disillusione. Dopo anni di negoziati, incontri bilaterali, vertici di alto livello in cui è stata portata avanti la “prospettiva europea” e l’inevitabile “prospettiva dell’adesione” all’Unione per i sei Paesi balcanici (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), il summit di Bruxelles che avrebbe dovuto imprimere una svolta all’inerzia nel processo di allargamento UE nella regione si è dimostrato un nuovo fiasco. Come quello dello scorso anno in Slovenia, ma più grave, perché è passato un altro anno e perché intanto è scoppiata una guerra sul continente europeo.
    Il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, con il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, e della Commissione, Ursula von der Leyen (23 giugno 2022)
    Il fallimento dei Ventisette nei confronti dei Balcani Occidentali si è concretizzato nell’assenza: di progressi su tutti i dossier in agenda, di una dichiarazione conclusiva, di una conferenza stampa al termine del vertice (giustificata dai portavoce del Consiglio con i ritardi della riunione e con l’inizio a stretto giro del vertice dei leader UE). “Sono stati politicamente intelligenti a non presentarsi alla stampa, si sentivano male per quello che è successo dopo essersi spesi tanto, ma c’è qualcosa di guasto nel processo”, ha attaccato il premier albanese, Edi Rama, nel corso di una conferenza stampa congiunta con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski (che sarebbe dovuta essere parallela a quella dei vertici delle istituzioni comunitarie).
    Oggi si parla di fallimento e non più di fiasco perché gli intensi sforzi degli ultimi mesi per risolvere lo stallo del veto bulgaro all’avvio dei negoziati di adesione all’UE della Macedonia del Nord (e dell’Albania, legata dallo stesso dossier) non hanno prodotto, ancora, nessun risultato concreto. Le speranze di una revoca immediata al veto – che a causa della regola dell’unanimità in Consiglio sta bloccando tutto il processo di adesione – durante il vertice era iniziata a tramontare già ieri, con il voto di sfiducia al governo bulgaro guidato da Kiril Petkov, ma ancora rimanevano delle speranze sul voto favorevole del Parlamento per consegnare in extremis allo stesso primo ministro sfiduciato il mandato di negoziare a Bruxelles lo sblocco dei negoziati sull’adesione di Skopje. Niente di tutto questo è successo e nei confronti di Sofia sono arrivati duri attacchi dai leader balcanici. “Sono passati quasi 18 anni dalla nostra candidatura, ma siamo ancora qui fermi, è un serio problema per la credibilità dell’Unione“, è stato il commento secco del premier macedone, mentre l’omologo albanese ha sottolineato che “anche cambiare nome per la Macedonia non è stato abbastanza [in riferimento all’accordo del 2018 con la Grecia sul cambio di nome in Macedonia del Nord, ndr], pensate se dovessero farlo Francia o Italia per entrare nell’UE”. Secondo Rama, “bisogna dire la verità, la Bulgaria è una disgrazia, ma è solo l’espressione più evidente di un processo di allargamento ormai guasto“.
    Se il biasimo è indirizzato contro Sofia, il “dispiacere” è tutto per l’Unione Europea, “incapace di liberare due ostaggi, che sono anche membri NATO, dalla Bulgaria, proprio nel giorno che chiamano storico”, ha continuato nel suo affondo il premier albanese. “Mentre nel cortile d’Europa c’è la guerra, dentro ci sono 26 Paesi impotenti“, con riferimento alla guerra russa in Ucraina che “ha dimostrato che le minacce non sono teoriche, ma reali”. L’invasione dell’Ucraina ha invece portato “molti problemi” alla Serbia, come ha sottolineato il presidente Vučić: “Non nascondo che c’è stata molta pressione sulla questione del nostro rapporto con la Russia“, in particolare per il non-allineamento alle sanzioni internazionali. Facendo un riferimento implicito alla questione energetica – per cui il Paese si vedrà quasi sicuramente tagliare i rifornimenti di petrolio russo in transito via oleodotto dalla Croazia – il leader serbo ha avvertito che “speriamo di rivederci a dicembre con uno spirito più positivo, ma dovremo superare l’inverno“. Uno strappo sulla questione delle sanzioni è arrivato invece da Tirana: “Non capisco perché Bruxelles voglia spingere così tanto con un Paese che al momento non potrebbe impegnarsi fino a questo punto, senza avere contraccolpi pesanti a livello sociale”, ha dichiarato un po’ a sorpresa Rama, facendo notare che “in Serbia la popolarità di Putin è all’80 per cento, ma Belgrado ha comunque condannato l’aggressione”.
    Un altro fallimento del vertice UE-Balcani Occidentali è stato sul fronte del Kosovo. Per l’ennesima volta non è stato trovato un accordo tra i Paesi membri sulla liberalizzazione dei visti per i cittadini kosovari, nonostante la Commissione abbia già riconosciuto da tempo che Pristina ha soddisfatto tutte le richieste: “Sono ancora in ostaggio, sono l’unico popolo sul suolo europeo che non può muoversi liberamente“, ha riassunto il problema il premier albanese, molto vicino alle posizioni di Pristina: “Ai tempi della Jugoslavia potevano viaggiare anche a Berlino, oggi invece no. È assurdo e impensabile”. Intanto si levano anche malumori sullo stato della Bosnia ed Erzegovina, ferma alla domanda di adesione del 2016, e che proprio oggi senza troppe sorprese sarà sorpassata da destra da Ucraina e Moldova (i leader UE dovrebbero raggiungere l’unanimità sulla concessione dello status di Paesi candidati). Nessun passo avanti sulla proposta di Slovenia, Croazia e Austria di concedere anche a Sarajevo lo status di candidato all’adesione. Per i tre leader balcanici la soluzione al momento è l’iniziativa Open Balkan, “la nostra idea per prenderci cura della nostra regione, senza essere frenati dall’esterno”, come ha rivendicato Vučić. “Ho chiesto il supporto inequivocabile, ma qui a Bruxelles sono divisi anche su quello che facciamo tra di noi“, ha continuato il suo affondo ai Ventisette Rama.
    L’unica prospettiva positiva per la regione al momento rimane la proposta del presidente francese, Emmanuel Macron, di creare una comunità politica europea per rendere più flessibile la cooperazione nel continente europeo e superare la visione binaria dentro/fuori dell’attuale processo di allargamento. “Può essere una piattaforma per il dialogo, ma non può sostituire l’adesione all’UE“, ha precisato il premier Kovačevski, mentre il presidente Vučić ha messo in chiaro che “questa proposta potrebbe essere l’unico modo per noi di essere ascoltati dai nostri colleghi UE”. A riassumere gli umori generali ci ha pensato, di nuovo, il premier Rama: “Dobbiamo supportare l’idea di Macron sugli obiettivi strategici comuni, intanto accettiamo la comunità politica europea per essere insieme nella stessa famiglia, magari nel prossimo secolo saremo anche membri dell’Unione Europea”.

    Anche nel 2022 il summit tra i leader dell’Unione e dei sei Paesi balcanici si chiude con un nulla di fatto. Ma questa volta i malumori nella regione per lo stallo sono espliciti: “La Bulgaria è una disgrazia, ma è solo l’espressione più evidente di un processo di allargamento ormai guasto”