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    Ucraina, migrazione e Niger. Perché il buco di Chigi sullo ‘scherzo telefonico’ russo a Meloni riguarda anche l’Ue

    Bruxelles – Il caso dello ‘scherzo telefonico’ alla premier italiana, Giorgia Meloni, da parte di due comici russi – che ha più i contorni di un attacco ibrido rispetto a un’innocente candid camera – arriva anche a Bruxelles, suscitando non poche perplessità per la gestione della sicurezza delle comunicazioni di Palazzo Chigi, oltre che sui contenuti della finta telefonata con il presidente dell’Unione Africana, Azali Assoumani. Non si sbottona la Commissione Ue, ma sono aspre le critiche degli eurodeputati dei partiti di opposizione al governo italiano in carica per un episodio negativo che è stato ripreso dai giornali di tutto il mondo.“Meloni ridicolizza l’Italia agli occhi del mondo, è impressionante la leggerezza che lo scherzo ha messo in luce“, è l’attacco del capo-delegazione del Partito Democratico al Parlamento Ue, Brando Benifei: “Gravissima la mancanza di filtri, da chi è circondata la presidente del Consiglio di un Paese del G7?” Su una linea simile l’eurodeputato di Italia Viva e vicepresidente del gruppo Renew Europe, Nicola Danti: “L’inganno telefonico consumato ai danni di Meloni ha dell’incredibile, aver trasformato la presidente del Consiglio di un Paese del G7 in una ‘macchietta’ non può essere tollerato”. Per questo motivo la richiesta è quella che “i responsabili dell’accaduto si dimettano“. Durissimo il commento della vicepresidente del gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici (S&D) all’Eurocamera, Elisabetta Gualmini: “Siamo in mano a dei dilettanti per l’ennesima volta”, come dimostrerebbe il fatto che “due comici sono entrati in contatto privato con la premier facendole esprimere pensieri e opinioni gravi sia sulla guerra in Ucraina che sulle strategie future internazionali del Paese”. Anche l’eurodeputato del Movimento 5 Stelle ed ex-vicepresidente del Parlamento Ue, Fabio Massimo Castaldo, parla di “una gravità senza precedenti“, sia per il fatto che “Palazzo Chigi non sia in grado di approntare misure di sicurezza e protocolli di verifica minimi” sia per le “dichiarazioni così pesanti” su Ucraina e migrazione.I contenuti della telefonata di MeloniLa prima ministra italiana, Giorgia MeloniOltre alla questione di come sia stato possibile che il corpo di consiglieri diplomatici di Meloni non abbia intercettato la minaccia, c’è anche da considerare il contenuto di quanto affermato dalla prima ministra italiana nel corso della finta telefonata con il presidente dell’Unione Africana. In primis sulla questione più calda, ovvero l’Ucraina. “Vedo che c’è molta stanchezza, devo dire la verità, da tutti i lati“, è il passaggio più criticato. Si tratta di un tipo di affermazione che certo non stupisce, ma che allo stesso tempo cozza con la narrativa del ‘staremo al fianco di Kiev per tutto il tempo che sarà necessario’ sempre pubblicamente rivendicato anche dalla premier Meloni. A questo si aggiunge il fatto che la telefonata è datata 18 settembre (ma è stata resa pubblica il primo novembre): quel giorno iniziava l’Assemblea Generale dell’Onu, in cui i leader occidentali cercavano di convincere il resto del mondo della necessità di non perdere la spinta a difesa del rispetto del diritto internazionale. Se “la controffensiva dell’Ucraina forse non sta funzionando come ci aspettavamo” è di per sé un dato di fatto, è un altro passaggio a gettare alcune ombre sull’impegno europeo: “Siamo vicini al momento in cui tutti capiranno che abbiamo bisogno di una via d’uscita“. Meloni ha parlato di “problema” a trovarne una “che possa essere accettabile per Kiev e Mosca senza distruggere il diritto internazionale” o “aprire altri conflitti”. A questo proposito la premier dice di avere alcune idee, ma di voler aspettare “il momento giusto per metterle sul tavolo”.Da sinistra: il primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente della Tunisia, Kaïs Saïed, e la prima ministra dell’Italia, Giorgia Meloni, alla firma del Memorandum d’Intesa Ue-Tunisia (17 luglio 2023)C’è poi la questione migrazione, su cui Meloni non ha risparmiato bordate alla Commissione Ue e a Ursula von der Leyen. “La Commissione Europea dice di capirlo [le necessità italiane, ndr], il problema è di quanto tempo ha bisogno per darci risposte concrete”, ha confessato la premier, facendo esplicito riferimento alla numero uno dell’esecutivo Ue: “Nelle parole capisce assolutamente, ma quando chiedi di prendere i soldi e di investire per aiutarci, per discutere con questi Paesi, lì diventa più difficile, devo dire la verità”. Questo riguarda anche la Tunisia, su cui Meloni si è presa i meriti di aver organizzato a luglio il memorandum tra l’Ue e il presidente tunisino, Kaïs Saïed. “Ma lui non ha visto ancora un euro”, ha attaccato la premier, dimenticando però che è stato proprio Saïed ad aver rifiutato la prima tranche da 60 milioni di euro. Ma l’attacco è molto più ampio e coinvolge anche i leader dei Paesi membri Ue: “Il problema è che agli altri non interessa, non hanno risposto al telefono quando li ho chiamati e sono tutti d’accordo sul fatto che l’Italia deve risolvere da sola questo problema“.In particolare si avverte una certa nota di fastidio nel passaggio in cui si parla del presidente francese, Emmanuel Macron, e della situazione in Niger dopo il colpo di Stato di quest’estate. “Vedo che la Francia sta spingendo per una sorta di intervento, ma io sto cercando di capire come possiamo sostenere uno sforzo diplomatico, dobbiamo stare attenti”, è l’avvertimento di Meloni, che ha accusato Parigi di avere “altre priorità, che non sono l’immigrazione in nazioni come il Niger”. Priorità “nazionali”, contro cui la premier italiana starebbe premendo per “non fare cose che ci creano più problemi di quanti già ne abbiamo” e a cui contrappone invece “un piano di investimento per l’energia in Africa”. Il Piano Mattei – che sarebbe dovuto arrivare in una conferenza a Roma a inizio novembre – con l’orizzonte del prossimo anno: “Mi piacerebbe concentrare la nostra presidenza del G7 soprattutto sul tema dell’Africa, andiamo verso un’epoca in cui è già troppo tardi, dobbiamo muoverci”, ha assicurato Meloni. Ignara che dall’altra parte della cornetta non c’era il presidente dell’Unione Africana, ma due comici russi.
    Critiche dagli eurodeputati a Bruxelles per l’attacco ibrido di Mosca concretizzatosi con una chiamata alla premier italiana da due comici, che hanno finto di essere il presidente dell’Unione Africana, Azali Assoumani: “Di una gravità senza precedenti, i responsabili si dimettano”

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    L’Italia ha aperto alla possibilità di ‘spacchettare’ il dossier macedone-albanese per sbloccare l’adesione UE di Tirana

    Bruxelles – Tra fallimenti, accuse e proposte per sbloccare gli stalli, la due giorni di vertici – dei leader UE e con i Balcani Occidentali – ha lasciato il segno anche per l’Italia. Per la prima volta, il governo italiano ha aperto esplicitamente alla possibilità di ‘spacchettare’ il dossier sull’adesione UE Macedonia del Nord-Albania, per permettere a Tirana di avanzare con il suo processo senza più attendere che si risolva la controversia tra Skopje e la Bulgaria.
    Nel corso della conferenza stampa post-vertice, il premier Mario Draghi ha messo in chiaro che “uno degli effetti della riunione di ieri è stato che non ci saranno più ritardi” per quanto riguarda l’avanzamento dei sei Paesi balcanici (oltre ai due già nominati, anche Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Montenegro e Serbia). “Da un lato significa che i governi di questi Paesi dovranno impegnarsi nelle riforme richieste, dall’altro lato significa che l’Unione e i suoi membri devono aiutarli”. Tuttavia, il primo ministro italiano ha riferito ai 26 colleghi che “se i lavori sulla Macedonia del Nord si dovessero bloccare di nuovo, chiederemo che l’Albania prosegua da sola“. Quanto suggerito dal premier Draghi è il significato pratico del cosiddetto ‘spacchettamento’. Il dossier sull’allargamento UE che al momento vincola l’una all’altra Tirana e Skopje potrebbe essere diviso in due pacchetti – uno macedone e uno albanese – da affrontare ciascuno indipendentemente dai progressi dell’altro.
    La possibilità ventilata oggi è una novità assoluta per l’Italia, che finora difendeva quella che fonti diplomatiche – nel corso del vertice UE-Balcani Occidentali dello scorso anno a Kranj (Slovenia) – definivano “una questione di coerenza“. Tra il 2018 e il 2019 – e fino al Consiglio UE del marzo 2020 – il dossier macedone-albanese si era bloccato in Consiglio per l’opposizione di Francia, Danimarca e Paesi Bassi, con la richiesta di implementare le riforme strutturali in particolare dell’Albania, mentre la Macedonia del Nord era pronta a cominciare. Allora l’Italia aveva deciso che fosse prioritario mandare il messaggio alla regione che nessun Paese sarebbe stato lasciato indietro. Dopo il veto bulgaro nel dicembre 2020 all’avvio dei negoziati con Skopje, la situazione si è ribaltata e l’Italia ha voluto mantenere la posizione “seria” di rinunciare a fare giravolte sulle promesse fatte fino a pochi mesi prima.
    Il possibile passo indietro deriva invece dal persistere di una situazione di stallo tra Bulgaria e Macedonia del Nord che sembra non si riesca a risolvere, a causa della decisione di Sofia di non rinunciare al proprio diritto di veto in seno al Consiglio sull’avvio dei negoziati, per una disputa bilaterale di natura storico-culturale. Le frustrazioni stanno montando non solo a Skopje, ma anche a Tirana, che si sta vedendo negare da anni l’apertura dei capitoli negoziali senza nemmeno essere direttamente coinvolta nella contesa. Lo ha evidenziato con particolare durezza il premier Edi Rama nel corso della conferenza stampa post-vertice UE-Balcani Occidentali: “Sono dispiaciuto per l’UE, incapace di liberare due ostaggi, che sono anche membri NATO, dalla Bulgaria“. Qualche speranza ora è rappresentata dal voto favorevole del Parlamento di Sofia alla revoca del veto all’avvio dei negoziati di adesione della Macedonia del Nord – e di conseguenza anche dell’Albania – ma le condizioni altamente sfavorevoli per Skopje rendono probabili ulteriori rallentamenti nel prossimo futuro. Il premier Draghi, come tutti i leader dell’Unione, ne è consapevole: ecco perché gli anni del temporeggiamento sono finiti e anche lo ‘spacchettamento’ del dossier macedone-albanese non sarà più un tabù per l’Italia.

    Il premier, Mario Draghi, ha annunciato che “se i lavori sulla Macedonia del Nord si dovessero bloccare di nuovo, chiederemo che Tirana prosegua da sola”. Finora il governo italiano si è attenuto a un “principio di coerenza” sul mantenere legati i due cammini verso l’adesione

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    L’UE ha coordinato la prima operazione di evacuazione di bambini ucraini malati dalla Polonia all’Italia

    Bruxelles – Si è messa in moto l’operazione MEDical EVACuation (Med Evac), la prima operazione di trasporto di persone ferite per prestare le cure mediche necessarie messa in piedi dall’Unione Europea all’interno del meccanismo europeo di solidarietà per i trasferimenti medici intra-UE di rifugiati e sfollati. Sostenuta finanziariamente e operativamente dal meccanismo di protezione civile dell’UE, l’operazione ha coordinato l’evacuazione di bambini ucraini malati dalla Polonia all’Italia.
    Dopo i bombardamenti delle città in Ucraina, tra cui anche l’ospedale pediatrico di Mariupol mercoledì scorso (9 marzo), Bruxelles ha coordinato l’operazione di evacuazione dei bambini ucraini malati e sfollati in Polonia. Su richiesta proprio delle autorità polacche, un team medico italiano ha condotto la missione ieri (domenica 13 marzo).
    Nel frattempo, di fronte a un numero di rifugiati dall’Ucraina che ha superato la soglia delle 2,5 milioni di persone, l’UE sta continuando a fornire assistenza di emergenza alla Polonia. In coordinazione con Italia, Francia, Germania, Danimarca e Austria, sono stati offerti medicinali, attrezzature mediche e di ricovero e vaccini pediatrici.

    La prima operazione MEDical EVACuation (Med Evac) è stata condotta da un team medico italiano, all’interno del meccanismo europeo di solidarietà per i trasferimenti medici intra-UE di rifugiati e sfollati dell’Unione Europea

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    L’UE spinge sugli aiuti all’Ucraina, e Draghi cerca di convincere Putin a sedersi al tavolo dei negoziati

    Bruxelles – Una chiamata da Roma a Mosca per allentare la tensione tra le potenze occidentali e la Russia. Mentre l’UE ha presentato formalmente il piano di aiuti da 1,2 miliardi di euro per l’Ucraina già annunciato la settimana scorsa dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, il primo ministro italiano, Mario Draghi, ha tenuto stamattina (martedì primo febbraio) un colloquio telefonico con il presidente russo, Vladimir Putin, per tentare di portare avanti la strada del dialogo (come fatto anche dal presidente francese, Emmanuel Macron).
    Una nota di palazzo Chigi rende noto che “al centro dei colloqui ci sono stati gli ultimi sviluppi della crisi ucraina e le relazioni bilaterali” tra Italia e Russia, con il premier Draghi che ha sottolineato “l’importanza di adoperarsi per una de-escalation delle tensioni“, anche considerate le “gravi conseguenze che avrebbe un inasprimento della crisi”. Insieme al presidente Putin “è stato concordato un impegno comune per una soluzione sostenibile e durevole della crisi“, ma si è anche sottolineata “l’esigenza di ricostruire un clima di fiducia”.
    Una conversazione telefonica avvenuta sullo sfondo della proposta da parte della Commissione UE per il nuovo programma di assistenza macrofinanziaria di emergenza per l’Ucraina, che dovrà essere soggetto ora al vaglio di Consiglio e Parlamento Europeo (ed eventualmente adottato). “Questo pacchetto aiuterà l’Ucraina ad affrontare il suo fabbisogno finanziario dovuto alle sfide economiche e politiche che il Paese sta vivendo”, ha commentato la presidente von der Leyen. Secondo l’esecutivo UE, “una rapida adozione di questa proposta permetterà di erogare immediatamente una prima tranche di 600 milioni di euro all’Ucraina“.
    Parallelamente alla proposta sul programma di emergenza, la Commissione UE ha deciso di aumentare “significativamente” l’assistenza bilaterale che fornirà nel 2022 all’Ucraina sotto forma di sovvenzioni. Dal 2014, le istituzioni finanziarie europee hanno stanziato oltre 17 miliardi di euro in sovvenzioni e prestiti a Kiev per sostenere la lotta alla corruzione, lo Stato di diritto e il rafforzamento delle strutture statali.

    As I announced last week, the @EU_Commission has proposed a €1.2 billion financial assistance package for Ukraine.
    I call on @Europarl_EN and EU countries to agree swiftly, so we can disburse a first tranche of €600 million as soon as possible.
    The EU stands with Ukraine. pic.twitter.com/TqBivrTM4V
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) February 1, 2022

    A proposito della questione del rafforzamento delle capacità di risposta di Kiev agli attacchi ibridi di Mosca, la commissione speciale sulle Ingerenze straniere nei processi democratici e la disinformazione (INGE) del Parlamento Europeo ha tenuto questo pomeriggio un’audizione sulla strategia della Russia nello spazio informatico. “I cyberattacchi russi hanno un effetto cognitivo, cioè vogliono dimostrare la debolezza nella capacità di riposta dei Paesi colpiti, per mettere in discussione la loro stessa esistenza“, ha spiegato agli eurodeputati Sanda Svetoka, esperta del Centro di eccellenza NATO per le comunicazioni strategiche.
    Come dimostrato dal caso dell’Ucraina di poche settimane fa – a cui l’UE ha fornito immediata assistenza – “nel caso delle azioni offensive a livello informatico c’è una zona grigia più ampia su quello che consideriamo guerra o no“. In questo caso, la “vittoria” sugli avversari avviene “danneggiando infrastrutture critiche, come i sistemi informatici, elettrici o di traffico, con un’interruzioni dei servizi”, ha precisato Svetoka.

    “E’ stato concordato un impegno comune per una soluzione sostenibile e durevole della crisi”, ma anche sottolineata “l’esigenza di ricostruire un clima di fiducia”

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    Accordo tra Italia e Grecia: fissati i confini marittimi, potenziata la cooperazione tra Roma e Atene

    Bruxelles – L’incontro alla Farnesina trai ministri degli Esteri di Italia Grecia ha visto lo scambio degli strumenti di ratifica dell’accordo sui confini marittimi dei due Paesi. Nikos Dendias, in una lettera indirizzata all’omologo italiano Luigi di Maio, ha parlato di “un atto simbolico di eccezionale importanza”.
    L’accordo tra Italia e Grecia e la ZEE
    Un’intesa era stata già trovata nel giugno del 2020, poi pubblicata in Gazzetta ufficiale nel 2021. Adesso l’accordo diventa realtà anche sul piano internazionale. I confini marittimi ricalcano quelli disegnati già nel 1977. All’epoca però non erano state definite le specificità funzionali delle zone disegnate. Adesso Atene e Roma si sono accordate per delimitare le rispettive Zone economiche esclusive (ZEE). 
    Si tratta della prima ZEE formalmente dichiarata dall’Italia. Fino al 2020 la Penisola era uno dei pochi Paesi Mediterranei a non aver esteso il proprio diritto esclusivo su un braccio di mare oltre le 12 miglia di acque territoriali. Tutt’oggi i confini marittimi e di sfruttamento delle risorse italiani sono fonte di controversie con Malta, Algeria e Tunisia, non esistendo una zona definita nel Canale di Sicilia e al largo delle coste sarde.
    Luigi di Maio auspica che l’accordo odierno possa “rappresentare un modello per il futuro”. Le ZEE sono in genere proclamate tramite decisioni unilaterali, ma solo l’accordo con i Paesi confinanti assicura che le delimitazioni vengano realmente rispettate. Un approccio simile a quello tenuto con la Grecia potrebbe ad esempio essere replicato con le nazioni sull’altro lato dell’Adriatico, con cui Roma ha in generale buoni rapporti.

    Non solo confini marittimi
    Ma i ministri non hanno discusso solo di confini marittimi. Come ha dichiarato di Maio, Italia e Grecia hanno affrontato una serie di dossier che spaziano dal “rafforzare il ruolo di hub energetici in Europa” alla “collaborazione sui temi europei, in particolare sulla necessità di un accordo sulle migrazioni”. L’incontro ha confermato che le due diplomazie sono d’accordo per una soluzione promossa dall’UE per evitare l’instabilità nei Balcani occidentali.
    Sul tavolo anche la Libia. Dendias ha ribadito la sua fiducia nella Conferenza internazionale sul futuro del Paese che inizierà a Parigi il 12 novembre. Lo scopo fondamentale per il ministro greco è quello di “favorire l’uscita dei mercenari dal Paese”, insieme a “un impegno di lungo periodo per ricostruire lo Stato”.
    Stando alle dichiarazioni dei funzionari del governo italiano l’accordo è solo una questione tra Roma ed Atene. Ma la lettera scritta dal ministro degli Esteri greco è indirizzata anche ad un altro interlocutore, la Turchia. Nel documento Dendias fa riferimento alle continue “violazioni del diritto internazionale” operate dalla marina turca nel Mediterraneo orientale e alla “ricerca di un casus belli” contro la Grecia.
    Dichiarazioni che fanno pensare che l’accordo con l’Italia, almeno per la Grecia, è una risposta all’intesa che Erdogan ha raggiunto con il governo dell’ex premier libico al-Sarraj nel 2019, per la creazione di un corridoio economico esclusivo tra Turchia e Libia. Questa delimitazione comprende anche alcuni tratti di mare a largo dell’isola di Creta che Atene rivendica come di propria competenza.

    L’accordo sulla delimitazione dei confini marittimi era stato firmato nel giugno del 2020 e riprendeva i confini di un’intesa siglata già nel 1977, ma negli ultimi 45 anni non erano ancora state individuate le rispettive zone di giurisdizione funzionale

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    COP26, da oltre 100 leader globali l’impegno a fermare la deforestazione entro il 2030

    Bruxelles – Da Italia, Francia, Germania e ancora Indonesia, Brasile e Turchia. Sono oltre 100 i leader globali che ieri (primo novembre) nel quadro della COP26 di Glasgow si sono impegnati a lavorare insieme per arrestare e invertire la deforestazione e il degrado del suolo entro il 2030. Il primo risultato concreto della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite che ha preso il via domenica (31 ottobre) nella città scozzese e sottoscritto nella Dichiarazione dei leader di Glasgow sulle foreste e l’uso del suolo.
    L’accordo è destinato a far parlare di sé: sia per la sua portata – le oltre 100 firme alla dichiarazione sono di Paesi, come il Brasile e l’Indonesia, che insieme rappresentano oltre l’86 per cento delle foreste mondiali – sia perché di fatto non è un impegno vincolante per nessuno dei governi, e quindi rischia di restare solo un buon proposito. Solo nel 2014, al vertice sul clima di New York, quasi 200 parti tra governi, aziende e ONG si erano impegnati a dimezzare la deforestazione entro il 2030 e azzerarla entro il 2050.
    La piattaforma di monitoraggio Global Forest Watch stima solo nel 2020 la perdita di 258mila chilometri quadrati di foreste nel mondo, sintomo che per ora quegli impegni sono caduti nel vuoto. La rilevanza delle foreste nella lotta al riscaldamento terrestre è nota: sono in grado di assorbire le emissioni di anidride carbonica dall’atmosfera e gli impediscono di riscaldare la temperatura della terra. Sono “il polmone del pianeta”, scrive su twitter il premier britannico Boris Johnson su twitter salutando questa mattina l’accordo.

    Forests are the lungs of our planet.
    Today @COP26, over 100 leaders representing 85% of the world’s forests will take landmark action to end deforestation by 2030.
    With this pledge, we have a chance to end humanity’s long history as nature’s conqueror, and become its custodian.
    — Boris Johnson (@BorisJohnson) November 2, 2021

    Dopo l’impegno di ieri, oggi sono state dettagliate le iniziative governative e private per aiutare a raggiungere questo obiettivo di deforestazione. A sostegno di questo obiettivo saranno mobilitati circa 19 miliardi di dollari (circa 16 miliardi di euro) tra finanziamenti pubblici e privati. Una nota della presidenza britannica della COP26 ne spiega nel dettaglio la composizione: 12 paesi donatori si sono impegnati a fornire 12 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici per il clima dal 2021 al 2025 attraverso la “Global Forest Finance Pledge”. L’Unione Europea – come annunciato da Ursula von der Leyen alla vigilia della partenza per il G20 di Roma – ha donato un miliardo di euro a questa causa, per l’azione nei paesi in via di sviluppo, compreso il ripristino di terreni degradati, la lotta agli incendi e la promozione dei diritti dei popoli indigeni e delle comunità locali.
    Ursula von der Leyen
    “Forniremo un miliardo di euro per l’impegno globale per le foreste”, ha annunciato la presidente della Commissione Europea oggi a Glasgow. “Di questi, 250 milioni di euro saranno destinati specificamente all’impegno nel bacino del Congo”. Sono i consumatori europei a non voler acquistare prodotti “responsabili della deforestazione o del degrado forestale”, ha aggiunto.Almeno 7,2 miliardi di dollari arriveranno dal settore privato.
    Un gruppo ristretto di 28 governi – tra cui l’Unione Europea e l’Italia – hanno firmato inoltre una dichiarazione specifica su foreste, agricoltura e commercio di materie prime (FACT), dedicata a rendere il commercio sostenibile e ridurre la pressione sulle foreste dovuta ad agricoltura e catene di approvvigionamento. E’ noto che la causa principale della deforestazione è dovuta alla volontà dei governi di abbattere gli alberi per lasciare spazio a coltivazioni e aree di allevamento intensivo. Olio di palma, soia, cacao e carne bovina: l’UE stessa è uno dei principali importatori al mondo, dopo la Cina, di materie prime legate alla deforestazione tropicale e sta lavorando internamente per una nuova legislazione che riduca l’impatto sulle foreste all’estero dei prodotti che vengono poi immessi sul mercato europeo.
    Timori di attivisti e ONG verdi che anche questo impegno resti lettera morta ce ne sono. Non passa inosservato che tra i firmatari ci sia anche il Brasile del leader populista Jair Bolsonaro, al centro di molte polemiche per aver aumentato a dismisura la deforestazione della foresta amazzonica, arrivando a un picco da oltre 10 anni.

    Tra il 2021 e il 2025 oltre 16 miliardi di euro, tra finanziamenti pubblici e privati, a sostegno dell’obiettivo. Tra i firmatari oltre all’Italia e l’Unione Europea anche il Brasile di Bolsonaro, al centro di polemiche per la deforestazione della foresta amazzonica. Roma e Bruxelles si impegnano anche per ridurre la pressione agricola e commerciale sul suolo

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    Afghanistan, ultime ore degli europei a Kabul. Da Roma a Berlino, chiusi in fretta i ponti aerei

    Bruxelles – Mantenere aperto e al sicuro il passaggio all’aeroporto di Kabul per portare a termine le operazioni di evacuazione, di civili e contingente militare. E’ stata questa una delle principali priorità dei leader europei nella notte tra giovedì 26 e venerdì 27 agosto, dopo essersi impegnati a portare avanti le operazioni di evacuazione della capitale afghana nonostante ma anche soprattutto a causa dell’attentato terroristico che ieri ha scosso l’aeroporto di Kabul. Facendo concludere vent’anni di presenza occidentale sul territorio afghano nel peggiore dei modi possibili.
    L’attentato è stato rivendicato ieri (26 agosto) dalla divisione afghana dell’ISIS, lo Stato islamico, e ha causato la morte di almeno 13 marines statunitensi e una settantina di civili afghani. La scadenza per il ritiro da Kabul era comunque fissato al 31 agosto su volere di Joe Biden, presidente statunitense, e i Paesi europei avevano evacuato gran parte dei propri cittadini, dei civili afghani che hanno collaborato con le truppe occidentali e la forze NATO ma anche coloro ritenuti vulnerabili al punto da portarli nel Continente.
    Avevano messo in conto che le prossime 24/36 ore sarebbero state decisive per portare a termine le operazioni con largo anticipo rispetto alla data del 31 agosto, per dare modo anche al contingente militare di andare via in sicurezza. Come prevedibile, la minaccia di nuovi attentati terroristici ai danni dell’aeroporto – unica via di fuga attraverso un “canale” occidentale (per ora) – ha ulteriormente accelerato la situazione. Uno dopo l’altro, tra ieri e questa mattina, i Paesi europei e la stessa Unione europea stanno mettendo fine alle operazioni con il sostegno della NATO, dando priorità a evacuare il maggior numero di persone in sicurezza il più rapidamente possibile.
    Ultimo C-130 da Kabul per l’Italia con a bordo il console Tommaso Claudi (in foto il terzo da sinistra)
    Si chiude oggi il ponte aereo italiano con l’Afghanistan, con la partenza dell’ultimo volo da Kabul. “Tutti gli italiani che volevano essere evacuati sono stati evacuati dall’Afghanistan assieme a circa 4.900 cittadini afghani”, ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, a margine dei colloqui a Roma con l’omologo russo Sergej Lavrov. Ha confermato che “nelle prossime ore partirà da Kabul l’ultimo aereo C-130 dall’aeroporto di Kabul con a bordo il console italiano Tommaso Claudi e l’ambasciatore Stefano Pontecorvo che coordina per conto della Nato le operazioni allo scalo afghano e tutti i militari che hanno contribuito alle operazioni di evacuazione”.
    Già concluse le operazioni per la Spagna: “Questa mattina (27 agosto) è atterrato a Dubai l’ultimo volo di evacuazione spagnolo con il personale e i collaboratori rimasti in Afghanistan fino all’ultimo minuto per rendere possibile questa missione di rimpatrio”, ha fatto sapere il premier spagnolo Pedro Sanchez. Da Madrid arriva la promessa di non volere lasciare solo il popolo afghano, quello rimasto lì. “Rimaniamo impegnati a difendere i diritti umani e la libertà nel Paese, cercando modi per aiutare a evacuare il maggior numero di persone che hanno collaborato con la Spagna e la comunità internazionale”, ha aggiunto.
    Promessa simile arriva dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Berlino promette assistenza anche oltre 31 agosto, anche se la Germania ha concluso già ieri le operazioni militari di evacuazione. “Non dimenticheremo coloro che non hanno potuto essere portati in salvo attraverso il ponte aereo [militare]”, ha detto Merkel. “Continueremo gli sforzi in modo che possano andarsene”. Berlino stima in 5.347 le persone evacuate dal 16 agosto, compresi più di 4.000 cittadini afgani mentre il ministro tedesco degli Esteri, Heiko Maas, conferma che Berlino sta lavorando per trovare altre vie, che non siano il ponte aereo, per evacuare “quelli in Afghanistan per i quali abbiamo una sorta di responsabilità”.
    Oltremanica, il premier britannico Boris Johnson ha fatto sapere ieri che le operazioni guidate da Londra per portare via circa 15mila persone (per lo più afgani, ma anche britannici e alcuni altri occidentali) erano agli sgoccioli. Secondo il Guardian, il premier conservatore ha confermato che la “grande maggioranza” degli afgani che hanno collaborato con Londra è stata ora portata in salvo nel Regno Unito, ma ha anche sottolineato che questa è solo la “prima fase” del processo, e che se dovesse esserci bisogno di lasciare l’Afghanistan dopo il 31 agosto, allora bisognerà trovare il modo di farlo.
    La Francia aveva programmato la fine delle evacuazioni da Kabul questa sera, dopo aver già evacuato dall’Afghanistan oltre 2mila afghani e un centinaio di francesi da quando l’operazione ha preso il via la scorsa settimana. Il governo dei Paesi Bassi ha anticipato a ieri sera il rimpatrio di tutti i cittadini olandesi presenti in Afghanistan, dopo aver evacuato già 1.200 persone, ma centinaia di cittadini olandesi e afgani che hanno lavorato per le forze armate olandesi stanno ancora aspettando di lasciare il Paese. Anche la Polonia ha chiuso ieri la sua missione di evacuazione da Kabul, dopo aver trasportato più di 1.300 persone, ha detto il viceministro degli Esteri Marcin Przydacz, sottolineando che la missione “organizzata per i polacchi e per i collaboratori dalla Polonia” si è conclusa “per motivi di sicurezza”.
    Conclusa ieri anche la missione del Belgio, della Danimarca e dell’Ungheria, dopo aver trasportato in aereo circa 540 persone tra cittadini ungheresi, afgani e le loro famiglie che in precedenza avevano lavorato per le forze ungheresi. Mentre in Svezia sono arrivate nella mattina di oggi le parole del ministro del ministro degli Esteri svedese, Ann Linde, secondo cui “in tutto circa 1.100 persone sono state evacuate dal ministero degli Esteri. Tutto il personale dell’ambasciata impiegato a livello locale e le loro famiglie sono state evacuate”, ha detto.
    Le operazioni dell’Unione Europea
    Accanto al lavoro che singolarmente stanno svolgendo i Paesi europei per chiudere in sicurezza il ponte aereo, c’è quello che sta facendo l’Unione Europea per portare a casa lo staff che è rimasto ancora su territorio e chi ha collaborato con la delegazione europea negli anni. Secondo Peter Stano, portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna che fa capo a Josep Borrell, la maggior parte dello staff europeo è stato tutto evacuato da Kabul, tranne una piccolissima quantità di persone che è rimasta lì per aiutare con gli sforzi di evacuazione in corso.
    Per ragioni di sicurezza, parlando con la stampa Stano non ha rivelato quante siano le persone ancora a Kabul. Quanto invece al personale locale che ha lavorato per la delegazione dell’UE a Kabul, sono circa 400 le persone – compresi i membri della famiglia – che Bruxelles è riuscita portare via da lì, anche se restano ancora alcune persone che è nell’interesse di Bruxelles far fuggire. La promessa nelle parole di Stano è che l’UE “rimarrà lì per tutto il tempo necessario”, fino a quando ce ne sarà bisogno. Oggi, alla luce delle violenze di ieri, arriva la conferma che il team dell’UE è ancora a lavoro per fornire il supporto necessario in questa operazione. “Non stiamo lasciando indietro il nostro personale nazionale afgano in Afghanistan , con l’aiuto dell’UE continuano a raggiungere un rifugio sicuro in Europa”, si legge in un tweet dell’account del meccanismo europeo di protezione civile e aiuto umanitario.

    We are not leaving our national Afghan staff behind in #Afghanistan, with help of the EU they continue to reach safe haven in Europe. Our EU team is working hard to provide them with the necessary support on this journey.
    📷 @FcoSerrato pic.twitter.com/v0xy0K7sWG
    — EU Civil Protection and Humanitarian Aid 🇪🇺 (@eu_echo) August 27, 2021

    Da più parti, come è evidente, è arrivata la promessa di continuare a fornire assistenza a chi, pur avendone pieno diritto, non è riuscito a salire su un volo per la salvezza. Il problema è capire come. Un dibattito su come organizzare un piano di assistenza umanitaria per chi non è riuscito a salire su quei voli – e che non contempli solo la gestione di emergenza migratoria che l’Europa si aspetta – dovrebbe arrivare proprio in sede europea, incapace finora di trovare un comune punto di vista sulla politica estera e di difesa. La presidenza di Slovenia, di turno alla guida dell’UE, ha convocato per la prossima settimana un Consiglio straordinario dei ministri responsabili per gli Affari Interni che avrà luogo il 31 agosto, nel giorno fissato per evacuare Kabul ma che presumibilmente troverà una Kabul ormai vuota dalla presenza occidentale.

    Da molti leader europei la promessa di fornire assistenza ai cittadini afghani che non riusciranno a imbarcarsi sugli ultimi voli prima della scadenza del 31 agosto, ma senza una vera proposta su come farlo. Settimana prossima previsto un Consiglio Affari interni straordinario per affrontare insieme l’emergenza

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    Sui migranti Italia si sente nuovamente isolata, e cresce il risentimento nei confronti dell’UE

    Mentre tutti preparano i festeggiamenti per i primi soldi del Recovery Fund da Bruxelles ( 26 miliardi di euro), come tutte le estati si rinnova il problema degli sbarchi di migliaia di migranti sulle coste italiane. La Lega ha fatto sentire la sua voce di dissenso, attraverso il sottosegretario agli Interni Nicola Molteni, che ha criticato il suo ministro Lamorgese, in merito agli ultimi sbarchi di circa 800 migranti sulle coste siciliane. “Salvini ha dimostrato che bloccare l’immigrazione clandestina era ed è assolutamente possibile”, le sue parole. “La politica dei decreti sicurezza che qualcuno ha smantellato, e penso al governo Conte II, sta producendo più sbarchi più partenze e più morti e più costi di accoglienza”.
    Ma anche il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, ha lanciato tramite la sua pagina facebook un accorato appello a governo ed istituzioni europee perché si intervenga per fermare una situazione ormai insostenibile. “Non amo ripetermi – ha scritto sulla sua bacheca telematica – e neppure alimentare polemiche sterili. Dico con forza che la Sicilia continua a essere presa d’assalto dagli sbarchi e che le politiche nazionali non riescono a bloccare questo criminale commercio di carne umana”. I viaggi dei ministri degli Esteri e dell’Interno sull’altra sponda del Mediterraneo, lamenta, “non stanno raggiungendo gli obiettivi sperati”. In tutto questo “l’Europa guarda complice e silente”. La Sicilia, continua, “è la frontiera a Sud di un Continente che preferisce girarsi dall’altro lato, mentre la disperazione sale dall’Africa, cercando in Sicilia la porta di accesso a una vita che in queste condizioni non potrà mai essere migliore». Poi l’appello accorato al presidente del Consiglio: «Serve un segnale forte e ormai può venire solo da lui. Faccia quello che non ha voluto fare chi l’ha preceduto e dichiari lo stato di emergenza per gli sbarchi”.
    Secondo i dati dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNCHR) nei primi sette mesi del 2021 in Italia sono arrivati circa 29mila migranti, che rappresentano un aumento del 107% rispetto allo stesso periodo del 2020. La prima nazione di provenienza con il 24% è la Tunisia, seguita da Bangladesh ed Egitto. Solo a Luglio gli arrivi sono stati ottomila. Se si considera tutta la zona euro  gli arrivi sono stati circa 51mila contro i 39mila del 2020. Il nostro paese è il primo paese di approdo seguita dalla Spagna con circa 16mila arrivi e dalla Grecia con 4400.
    Sulla base di questi dati si pensava che al Consiglio Europeo di fine giugno si prendessero decisioni in merito. Il premier italiano Draghi era convinto, spalleggiato dal leader spagnolo Sanchez, di poter ottenere risultati concreti da parte della Ue sul tema migranti.
    Invece come al solito e come ha affermato, alla fine dei lavori, in Parlamento il presidente dell’Ecr Raffaele Fitto ” si è preferito non decidere rinviando ogni soluzione ad ottobre, quando invece avremmo avuto bisogno di progressi immediati, urgenti”. Aggiungendo che l’Europa sembra sorda alle richieste di Spagna Italia e Grecia per una redistribuzione equa dei migranti in tutti gli Stati dell’Unione.
    Il punto è che l’Europa nel senso di istituzioni comunitarie ha poca voce in capitolo. La Commissione europea già nella precedente legislatura con Jean-Claude Juncker ha messo sul tavolo la proposta di un meccanismo per la ripartizione tra Stati membri dei richiedenti asilo che arrivano nei Paesi di frontiera europea, come Italia e Grecia. La proposta è stata impallinata dai governi. Bruxelles ha cercato di giustificare la mossa come la risposta all’emergenza del 2015, ma la politica solidale legata all’emergenza non ha saputo trovare repliche.
    Gli Stati membri dell’UE proprio non vogliono sentire parlare di redistribuzione dei migranti, preferendo coprire di euro la Turchia per evitare di aprire un nuovo fronte, quello balcanico che potrebbe colpire direttamente Germania e Francia, solo a parole sono solidali con Italia, Spagna e Grecia. E la situazione complicata che si è aperta in Tunisia dal punto di vista politico, certo non può che preoccupare ulteriormente proprio chi come il nostro paese è in prima linea sul fronte sbarchi dai paesi del nord Africa.
    Ma a guardare i recenti dati dell’UNCHR il rischio che la situazione diventi presto incontrollabile è altissimo. Alla fine del 2020, erano 82,4 milioni le persone sfollate in tutto il mondo, il numero più alto mai registrato, e 235,4 milioni di persone, una su 33 in tutto il mondo, avevano bisogno di aiuti di emergenza.  L’Ufficio delle Nazioni Unite del Coordinatore per l’Assistenza Umanitaria attribuisce queste crescenti esigenze ai conflitti globali prolungati, alla crisi climatica e in particolare alle ricadute economiche della pandemia di COVID-19, che ha causato il più grande calo annuale del reddito pro capite globale su base percentuale da quando  1870.
    Gli accordi di Malta del 2020 si sono rivelati ennesimo fallimento di una politica europea che sul tema migranti continua a non decidere e a lasciare la patata bollente a Italia, Spagna e Grecia. Basti pensare che tra ottobre 2019 e marzo 2021, con gli accordi di Malta il nostro paese ha ricollocato circa 990 persone su 44.300 sbarcati, il 2,2% del totale, come ha osservato Matteo Villa, dell’Osservatorio migrazioni dell’ISPI.
    Il tempo delle discussioni sembra ormai finito e se l’Europa vuole dimostrare di essere una vera unione deve mettere in campo una strategia comune, chiara, decisa per porre un argine ad un fenomeno, che presto potrebbe divenire incontrollabile.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

    In Sicilia aumentano gli arrivi e gli amministratori locali non si sentono sostenuti. Malumori anche nel governo. Ma l’Unione europea può poco, decidono gli Stati. Il governo ha bisogno di creare consensi e trovare alleanze in seno al Consiglio