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    Clima, al via la COP30 in Brasile. L’ONU avverte: “Impossibile c’entrare gli obiettivi di Parigi”

    Bruxelles – I leader mondiali sono arrivati a Belém per dare il via alla 30esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. La COP30, ospitata dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, inizierà formalmente i lavori il prossimo 10 novembre e si concluderà il 21, ma oggi e domani (6-7 novembre) i capi di Stato e di governo si incontreranno nella città ai margini della foresta amazzonica per una serie di dibattiti, bilaterali e sessioni tematiche.Tra i presenti, diversi pesi massimi del Vecchio continente. Fra gli altri, ci saranno il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il primo ministro britannico Keir Starmer, mentre il club a dodici stelle è rappresentato da un trio: il numero uno del Consiglio europeo, António Costa, il capo dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, e il ministro danese al Clima Lars Aagaard per la presidenza del Consiglio Ue.Ma ci sono anche assenze di peso. Su tutte, quelle del presidente statunitense Donald Trump, dei suoi omologhi cinese e russo, Xi Jinping e Vladimir Putin, nonché del premier indiano Narendra Modi, cioè i leader di quattro tra i principali inquinatori mondiali. Solo una sessantina dei Paesi partecipanti alla conferenza ha inviato delegazioni al massimo livello. Per l’Italia c’è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.We’re together in Belém with @antonioguterres.You’ve always spoken up for our planet and we thank you for that.Europe comes to Belém with our clear climate goals and our solidarity for those most at risk.The world needs strong multilateral action to face the climate… pic.twitter.com/g90CWKpyYb— António Costa (@eucopresident) November 6, 2025Eppure l’urgenza per cambiare rotta non è mai stata tanta. La doccia fredda è arrivata questa settimana da parte dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), un’agenzia delle Nazioni Unite che ha pubblicato i dati che mostrano come il 2023, il 2024 e il 2025 saranno i tre anni più caldi mai registrati da quando esistono le rilevazioni (cioè da 176 anni), continuando un trend almeno decennale.Echeggiando dichiarazioni diffuse nei giorni precedenti da altri enti dell’ONU, l’OMM ha anche riconosciuto che è ormai “praticamente impossibile” limitare il riscaldamento globale a 1,5ºC rispetto ai livelli del 1990, come prescritto dall’Accordo di Parigi del 2015. Stando ai calcoli dell’UNEP (il Programma per l’ambiente dell’ONU), attualmente il mondo va verso un innalzamento medio delle temperature compreso tra i 2,3 e i 2,5ºC, un livello che secondo gli esperti provocherà un aumento massiccio degli eventi meteorologici estremi e danni devastanti a molti ecosistemi naturali.Una critica sferzante è arrivata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che insieme a Lula co-presiede la conferenza. Il capo dell’ONU ha puntato il dito contro i leader mondiali, colpevoli di non aver dato seguito agli impegni sottoscritti dieci anni fa poiché “prigionieri degli interessi radicati” di aziende e lobby che “stanno realizzando profitti record grazie alla devastazione climatica“. Il padrone di casa ha inaugurato quella che definisce “la COP della verità“, ammonendo che la “finestra di opportunità” per agire “si sta chiudendo” ed evidenziando la necessità di “invertire la deforestazione e superare la dipendenza dai combustibili fossili“.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Parlando alla sessione plenaria al fianco di Costa, von der Leyen ha esortato i leader a “triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030“, mantenendo gli obiettivi di Parigi e “le promesse fatte ai Paesi più vulnerabili agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici”. Stasera, il presidente del Consiglio europeo interverrà alla sessione tematica dedicata a foreste e oceani, mentre il capo dell’esecutivo Ue prenderà la parola domani durante il panel su transizione energetica e decarbonizzazione dell’industria.Per volere degli stessi organizzatori, la COP30 non dovrà rappresentare un palcoscenico per nuove altisonanti promesse bensì, piuttosto, concentrarsi sull’implementazione degli impegni assunti fin qui. L’iniziativa degna di maggior rilievo è il lancio del Tropical forest forever fund (TFFF), un fondo globale per la tutela delle foreste tropicali col quale il Brasile mira a mobilitare 125 miliardi di dollari (25 dagli erari statali e gli altri 100 da investitori privati). Per il momento, tuttavia, né l’Ue né il Regno Unito parteciperanno a questo ennesimo strumento di green finance.La presidenza brasiliana ha articolato i lavori intorno a sei pilastri principali. Si parlerà di transizione energetica, industriale e dei trasporti; di gestione delle foreste, degli oceani e della biodiversità; della trasformazione dell’agricoltura e dei sistemi alimentari; della resilienza di città, infrastrutture e risorse idriche; della promozione dello sviluppo umano e sociale; e, infine, dei cosiddetti “acceleratori“, cioè quegli elementi che possono facilitare i progressi in tutti i precedenti ambiti anche sui versanti finanziario, tecnologico e logistico.Il logo della COP30 di Belém (foto: Dati Bendo/Commissione europea)L’Ue arriva alle discussioni di Belém con una posizione meno ambiziosa rispetto al quinquennio precedente, caratterizzato dall’adozione del Green deal. Per quanto von der Leyen definisca quello raggiunto ieri al Consiglio Ambiente un “risultato storico” per la riduzione delle emissioni di CO2, in realtà i Ventisette hanno fissato dei target più modesti rispetto alla proposta originaria della Commissione: una forbice tra il 66,25 e il 72,5 per cento da qui al 2035, per poi salire all’85 per cento entro il 2040.Del resto, è l’intera politica climatica internazionale a trovarsi in serie difficoltà in questa fase storica. La forte crescita elettorale dei movimenti populisti, scettici o apertamente negazionisti nei confronti del cambiamento climatico, combinata con una generalizzata contrazione dell’economia mondiale, ha portato molte cancellerie a rimangiarsi gli impegni presi di recente. Particolarmente pesante in questo senso il voltafaccia di Washington: oggi Trump sta facendo uscire (di nuovo) gli Usa dal trattato di Parigi, nonostante sia stata proprio l’amministrazione a stelle e strisce a fornire la spinta diplomatica decisiva per concluderlo.

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    Clima, al via la COP30 in Brasile. L’ONU avverte: “Impossibile centrare gli obiettivi di Parigi”

    Bruxelles – I leader mondiali sono arrivati a Belém per dare il via alla 30esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. La COP30, ospitata dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, inizierà formalmente i lavori il prossimo 10 novembre e si concluderà il 21, ma oggi e domani (6-7 novembre) i capi di Stato e di governo si incontreranno nella città ai margini della foresta amazzonica per una serie di dibattiti, bilaterali e sessioni tematiche.Tra i presenti, diversi pesi massimi del Vecchio continente. Fra gli altri, ci saranno il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il primo ministro britannico Keir Starmer, mentre il club a dodici stelle è rappresentato da un trio: il numero uno del Consiglio europeo, António Costa, il capo dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, e il ministro danese al Clima Lars Aagaard per la presidenza del Consiglio Ue.Ma ci sono anche assenze di peso. Su tutte, quelle del presidente statunitense Donald Trump, dei suoi omologhi cinese e russo, Xi Jinping e Vladimir Putin, nonché del premier indiano Narendra Modi, cioè i leader di quattro tra i principali inquinatori mondiali. Solo una sessantina dei Paesi partecipanti alla conferenza ha inviato delegazioni al massimo livello. Per l’Italia c’è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.We’re together in Belém with @antonioguterres.You’ve always spoken up for our planet and we thank you for that.Europe comes to Belém with our clear climate goals and our solidarity for those most at risk.The world needs strong multilateral action to face the climate… pic.twitter.com/g90CWKpyYb— António Costa (@eucopresident) November 6, 2025Eppure l’urgenza per cambiare rotta non è mai stata tanta. La doccia fredda è arrivata questa settimana da parte dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), un’agenzia delle Nazioni Unite che ha pubblicato i dati che mostrano come il 2023, il 2024 e il 2025 saranno i tre anni più caldi mai registrati da quando esistono le rilevazioni (cioè da 176 anni), continuando un trend almeno decennale.Echeggiando dichiarazioni diffuse nei giorni precedenti da altri enti dell’ONU, l’OMM ha anche riconosciuto che è ormai “praticamente impossibile” limitare il riscaldamento globale a 1,5ºC rispetto ai livelli del 1990, come prescritto dall’Accordo di Parigi del 2015. Stando ai calcoli dell’UNEP (il Programma per l’ambiente dell’ONU), attualmente il mondo va verso un innalzamento medio delle temperature compreso tra i 2,3 e i 2,5ºC, un livello che secondo gli esperti provocherà un aumento massiccio degli eventi meteorologici estremi e danni devastanti a molti ecosistemi naturali.Una critica sferzante è arrivata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che insieme a Lula co-presiede la conferenza. Il capo dell’ONU ha puntato il dito contro i leader mondiali, colpevoli di non aver dato seguito agli impegni sottoscritti dieci anni fa poiché “prigionieri degli interessi radicati” di aziende e lobby che “stanno realizzando profitti record grazie alla devastazione climatica“. Il padrone di casa ha inaugurato quella che definisce “la COP della verità“, ammonendo che la “finestra di opportunità” per agire “si sta chiudendo” ed evidenziando la necessità di “invertire la deforestazione e superare la dipendenza dai combustibili fossili“.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Parlando alla sessione plenaria al fianco di Costa, von der Leyen ha esortato i leader a “triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030“, mantenendo gli obiettivi di Parigi e “le promesse fatte ai Paesi più vulnerabili agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici”. Stasera, il presidente del Consiglio europeo interverrà alla sessione tematica dedicata a foreste e oceani, mentre il capo dell’esecutivo Ue prenderà la parola domani durante il panel su transizione energetica e decarbonizzazione dell’industria.Per volere degli stessi organizzatori, la COP30 non dovrà rappresentare un palcoscenico per nuove altisonanti promesse bensì, piuttosto, concentrarsi sull’implementazione degli impegni assunti fin qui. L’iniziativa degna di maggior rilievo è il lancio del Tropical forest forever fund (TFFF), un fondo globale per la tutela delle foreste tropicali col quale il Brasile mira a mobilitare 125 miliardi di dollari (25 dagli erari statali e gli altri 100 da investitori privati). Per il momento, tuttavia, né l’Ue né il Regno Unito parteciperanno a questo ennesimo strumento di green finance.La presidenza brasiliana ha articolato i lavori intorno a sei pilastri principali. Si parlerà di transizione energetica, industriale e dei trasporti; di gestione delle foreste, degli oceani e della biodiversità; della trasformazione dell’agricoltura e dei sistemi alimentari; della resilienza di città, infrastrutture e risorse idriche; della promozione dello sviluppo umano e sociale; e, infine, dei cosiddetti “acceleratori“, cioè quegli elementi che possono facilitare i progressi in tutti i precedenti ambiti anche sui versanti finanziario, tecnologico e logistico.Il logo della COP30 di Belém (foto: Dati Bendo/Commissione europea)L’Ue arriva alle discussioni di Belém con una posizione meno ambiziosa rispetto al quinquennio precedente, caratterizzato dall’adozione del Green deal. Per quanto von der Leyen definisca quello raggiunto ieri al Consiglio Ambiente un “risultato storico” per la riduzione delle emissioni di CO2, in realtà i Ventisette hanno fissato dei target più modesti rispetto alla proposta originaria della Commissione: una forbice tra il 66,25 e il 72,5 per cento da qui al 2035, per poi salire all’85 per cento entro il 2040.Del resto, è l’intera politica climatica internazionale a trovarsi in serie difficoltà in questa fase storica. La forte crescita elettorale dei movimenti populisti, scettici o apertamente negazionisti nei confronti del cambiamento climatico, combinata con una generalizzata contrazione dell’economia mondiale, ha portato molte cancellerie a rimangiarsi gli impegni presi di recente. Particolarmente pesante in questo senso il voltafaccia di Washington: oggi Trump sta facendo uscire (di nuovo) gli Usa dal trattato di Parigi, nonostante sia stata proprio l’amministrazione a stelle e strisce a fornire la spinta diplomatica decisiva per concluderlo.

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    Von der Leyen: “Global Gateway meglio delle attese, ora la piattaforma per le imprese”

    Bruxelles – Il Global Gateway funziona. La strategia lanciata nel 2021 dalla Commissione europea per una cooperazione mondiale volta a promuovere la doppia transizione energetica e digitale ha prodotto anche più di quello che ci si era prefissato. “Il nostro obiettivo iniziale era di mobilitare 300 miliardi di euro in cinque anni. Ma oggi abbiamo già raggiunto questo obiettivo“, annuncia la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, aprendo i lavori dell’edizione 2025 del Global Gateway Forum. “In quattro anni, abbiamo già mobilitato oltre 306 miliardi di euro. E sono fiduciosa che supereremo i 400 miliardi di euro entro il 2027“. Buone notizie, in un mondo meno prevedibile e in cui l’Unione europea fa fatica a posizionarsi. Il Global Gateway nasce per rispondere innanzitutto alla penetrazione e all’avanzata commerciale cinese, ma torna di maggiore utilità soprattutto oggi, scandisce von der Leyen, in un momento in cui “dazi e barriere commerciali tornano a essere uno strumento di geopolitica e geoeconomia”. Ogni riferimento agli Stati Uniti di Donald Trump non è casuale, visto che l’accordo UE-USA sui dazi sembra non considerare quella green economy, mentre con il Global Gateway “stiamo cercando di rafforzare la nostra autonomia in settori strategici, dall’energia pulita all’intelligenza artificiale“. Avanti con la doppia transizione, dunque, a vele spiegate e anche di più. L’entusiasmo per i risultati ottenuti induce von der Leyen ad annunciare il Global Gateway Investment Hub, “una piattaforma unica per le aziende che vogliono proporre investimenti” alla politica. Questo ‘hub’ intende essere “un luogo in cui Stati membri, banche di sviluppo, agenzie di credito all’esportazione e aziende si incontrano per elaborare offerte coordinate”. Perché, insiste, la presidente della Commissione europea, “insieme possiamo offrire solidi rendimenti per gli investitori, valore strategico per l’Europa e benefici duraturi per i nostri partner”.João Manuel Gonçalves Lourenço, presidente dell’Angola e dell’Unione Africana, al Global Gateway Forum 2025 [Bruxelles, 9 ottobre 2025]“La cooperazione tra Unione europea e Africa attraverso il Global Gateway ha un potenziale enorme“, riconosce Joao Manual Gonçalves Lourenço, presidente dell’Angola e dell’Unione africana. “In un momento di profonde interconnessioni questioni come sicurezza energetica, inclusione sociale e resistenza ai cambiamenti climatici diventano di vitale importanza”, ammette, promettendo di “dare più valore alla materie prime che abbiamo in Africa” e che sono fondamentali per la doppia transizione.Commissione europea ed Europa degli Stati trovano il sostegno e la sponda anche del Sudafrica, membro del G20 e dei BRICS, e dunque partner strategico in quanto attore ‘amico’ di Paesi quali Cina, Russia, India, tutti competitor dell’UE sullo scenario globale. “I dazi non dovrebbero essere usati come arma, ma regolamentati secondo le regole dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO)”, sottolinea Cyril Ramaphosa, presidente del Sudafrica, Paese che del G20 detiene la presidenza di turno. “Siamo pronti a collaborare con l’UE”, su questo punto come su altri. “Dobbiamo usare il commercio come strumento per rafforzare economia e industrializzazione e il Global Gateway rappresenta un buon modo per farlo”.Il mondo e la situazione globale visti dal sud America appaiono in modo diverso, tanto che Gustavo Francisco  Petro Urrego, presidente della Colombia e della comunità dei Paesi dell’America latina e dei Caraibi (CELAC), invita l’UE e i partner mondiali a riconsiderare le relazioni con Mosca, al centro di una guerra contro l’Ucraina che bisognerà imparare a superare. “Se vogliamo connetterci con l’est dobbiamo includere Cina, Giappone, e magari anche la Russia“, scandisce. Questo perché “gli Stati Uniti vogliono isolarsi, oggi la realtà è questa” e bisogna farci i conti. Mentre a livello di agenda politica Urrego guarda al Global Gateway per rilanciare fibra ottica, sostenibilità e lotta ai cambiamenti climatici.

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    Clima, l’Eurocamera chiede ai leader riuniti alla Cop29 di sposare il principio “chi inquina paga”

    Bruxelles – Tutti i Paesi dovrebbero contribuire a finanziare la lotta ai cambiamenti climatici. È il messaggio ribadito con forza dall’Eurocamera, indirizzato ai leader riuniti a Baku, in Azerbaigian, per la 29esima Conferenza delle Parti (Cop).La linea guida emersa durante la sessione Plenaria in corso a Bruxelles conferma il principio “chi inquina paga”, verso un nuovo obiettivo post-2025 che sia socialmente equo e si basi su fonti di finanziamento pubbliche, private e innovative. Una delegazione del Parlamento parteciperà all’incontro tra il 18 e il 22 novembre e potrà portare la posizione europea comune su questo argomento.Il grande argomento sul tavolo della Cop29 riguarda proprio i finanziamenti. Dopo essersi impegnati durante la Cop28 per quanto riguardava l’eliminazione dei combustibili fossili, considerando l’allineamento con gli stessi obiettivi europei del Fitfor55, dalla Cop29 si vuole inviare un “segnale inequivocabile”.Nella risoluzione non legislativa approvata giovedì (14 novembre) con 429 voti a favore, 183 contrari e 24 astensioni, si invitano tutti i Paesi a concordare un nuovo obiettivo collettivo.  Lo scopo per i deputati europei è che tutte le principali economie emergenti, soprattutto quelle ad emissioni e Pil elevato, contribuiscano proporzionalmente all’azione globale per il clima.Nessuno degli emendamenti proposti da Patrioti per l’Europa e Europa delle Nazioni Sovrane ha raggiunto la maggioranza ed è stato accolto, tanto che la destra europea ha votato compattamente contro la risoluzione. Gli emendamenti di PfE e Esn, riassumendo, proponevano un impegno per il clima nettamente meno totalizzante di quello attuale. Uno di questi parlava chiaramente di “rivedere il Green Deal europeo” e invitava la Commissione europea a considerare meglio l’impatto sociale ed economico delle misure, altri chiedevano la revisione dei target per le auto (dibattuti in lungo ed in largo nell’Ue).Si chiede che la diplomazia climatica dell’Ue si intensifichi, contribuendo a creare delle condizioni di parità a livello internazionale, evitando che si rilocalizzino le emissioni di carbonio e si aumenti il sostegno pubblico per l’azione climatica.Non solo, visti anche gli obiettivi precedentemente stabiliti, l’Europarlamento si aspetta anche un impegno comunitario per incoraggiare meccanismi di fissazione del prezzo del carbonio per altri Paesi. Contemporaneamente, si dovrebbe anche migliorare il sistema di scambio di quote di emissione e il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere.Questi tre strumenti sono stati votati dal Parlamento europeo nel 2023 per contribuire in modo sostanziale alla neutralità climatica entro il 2050 e la riduzione delle emissioni del 55 per cento entro il 2030. Il principio “chi inquina paga” è alla base del sistema di scambio di quote di emissione (Ets), con l’obbligo per le industrie a comprare quote per ogni tonnellata di Co2 che emettono. Il meccanismo di adeguamento alle frontiere (la cui sigla è Cbam) prevede il pagamento di prezzo per il carbonio emesso durante la produzione di beni ad alta intensità di carbonio fuori dall’Ue, con lo scopo di tutelare i beni europei (la cui produzione green è più costosa) e incoraggiare una produzione industriale più pulita nei paesi terzi.Al di là degli obiettivi tecnici riguardo al cambiamento climatico, non sono passate inosservate le grandi assenze alla Cop29. A livello europeo, pesa il vuoto lasciato del presidente francese Emmanuel Macron, del cancelliere tedesco Olaf Scholz (alle prese col crollo del governo e le elezioni anticipate) e della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (anche lei alle prese con una maggioranza traballante).Dal gruppo dei Verdi/Ale arrivano critiche: “Anche l’Europa non deve sottrarsi alle proprie responsabilità: la Presidente von der Leyen, così come il cancelliere Scholz e il presidente Macron, hanno saltato la Cop quando avevano l’obbligo di essere presenti e di svolgere un ruolo di primo piano“, dice l’eurodeputato Michael Bloss, presente nella delegazione che nei prossimi giorni andrà a Baku. Stoccata al Ppe dalla relatrice ombra dei Verdi/Ale presso la Commissione Ambiente, Lena Schilling: “È deplorevole che il Ppe non sia riuscito ad accordarsi sull’obiettivo minimo di ridurre le emissioni del novanta per cento entro il 2040”.Per quanto la risoluzione sia passata, le scintille in seno al Parlamento europeo non accennano a spegnersi nemmeno per una risoluzione in cui tutti i gruppi dell’arco europeista hanno votato in modo unitario. Il Ppe resta al centro delle discussioni e delle perplessità della sinistra europea, a cui la moderazione (e una buona dose di ambiguità) non va bene più.

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    La Mongolia non arresta Putin, ma l’Ue non può alzare troppo la voce: servono le materie prime critiche per il Green Deal

    Bruxelles – La guerra russo-ucraina, rispetto di diritto internazionale, Stato di diritto e diritti fondamentali. E poi la partita delle risorse, indispensabile per le ambizioni di motore ‘green’ globale. L’Unione europea ha tanto da guadagnare con nuovi, maggiori, rapporti con la Mongolia e la visita del presidente russo Vladimir Putin crea insofferenze e imbarazzi. Non si può forzare la mano né fare troppo la voce grossa visto gli interessi geopolitici in ballo con Ulan Bator, ma la Commissione europea, attraverso la portavoce Nabila Massrali, non nasconde il disappunto per l’inazione delle autorità mongole.“C’è un mandato di arresto della Corte penale internazionale, e la Mongolia in quanto aderente allo Statuto di Roma ha degli obblighi giuridici“, il commento di Massrali ad una visita che ha permesso al leader russo di giocare la sua partita in senso anti-occidentale ed europeo. Gli accordi per le forniture di gas sono introiti per le casse di Mosca e un modo per aggirare le sanzioni a dodici stelle, mentre l’intesa per le materie prime critiche sono una sottrazione alle ambizioni europee.Rame e terre rare sono tra le risorse che la Mongolia può offrire. Elementi utili al Green Deal dell’Unione europea, schiacciata tra l’esigenza di condannare la Russia di Putin e l’impossibilità di una linea troppo dura nei confronti di un partner strategico che rischia di sfuggire. Perché anche Elon Musk, ha considerato l’ipotesi di andare a produrre in Mongolia le batterie per le sue Tesla elettriche in ragione di quello che si trova nel sottosuolo mongolo. Che offre molto di più del rame. Ci sono litio, nichel e manganese, tutti utili per le batterie, il molibdeno, strategico come componente delle celle solari, e ancora la grafite, necessaria per i transistor, i dispositivi elettronici presenti nei semiconduttori di cui l’Ue ha bisogno per la sua doppia transizione verde e tecnologica.L’accordo di cooperazione Ue-Mongolia è entrato in vigore nel 2017, e l’aggressione russa dell’Ucraina nel 2022 ha indotto il blocco dei Ventisette a dover ridisegnare ogni agenda e la necessità di una diversificazione degli approvvigionamenti. A Bruxelles si sono resi conto che la dipendenza dell’Unione europea da catene di fornitura credibili e sicure per materie prime critiche utili a tradurre in pratica la doppia transizione e gli sforzi della Mongolia per diversificare in modo sostenibile le sue relazioni economiche potrebbero avvicinare i due soggetti, tenuto conto anche delle esigenze europee di affrancarsi dal fornitore cinese.Gli analisti del Parlamento europeo fanno un punto della situazione, in un documento di lavoro che riassume passato, presente, e potenziali scenari futuri: “Mentre la corsa alle materie critiche è in pieno svolgimento e i principali paesi importatori di queste materie prime hanno progettato politiche di riduzione del rischio economico per trovare alternative all’attuale quasi monopolio delle esportazioni della Cina come le terre rare, l’Ue e la Mongolia potrebbero stipulare una partnership sulle materie prime critiche“.Un partenariato di tale tipo e natura sarebbe una formula vincente per entrambi i contraenti. La produzione energetica della Mongolia ad oggi deriva al 95 per cento dal carbone, e il potenziale per le rinnovabili resta non sfruttato. L’Ue può offrire una mano per pulire l’economia mongola, e pulire la propria attraverso quelle risorse che non ha ma che potrebbe ottenere dal partner. Il dilemma tutto europeo è servito. La Mongolia acquista una rilevanza e una valenza tutta nuova in uno scacchiere internazionale sempre più complesso. In questa partita Putin sembra aver giocato d’anticipo, con le autorità di Ulan Bator che non ne hanno disposto l’arresto per un risultato che è una doppia beffa per l’Europa. “La Mongolia ha tutto il diritto di stabilire le proprie relazioni bilaterali”, il punto è proprio questo, e la portavoce della Commissione ne è consapevole tanto è vero che lo ricorda lei stessa. La Mongolia, schiacciata tra Russia e Cina, ha fatto le sue scelte, che non sorridono all’Ue.

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    Il partenariato Ue-Australia riparte dalle materie prime critiche. Siglato un Memorandum d’intesa bilaterale

    Bruxelles – Saltato l’accordo commerciale, Ue e Australia ripartono dalle materie prime critiche. A poco più di sei mesi dalla fumata nera sull’accordo di libero scambio, Bruxelles e Canberra hanno deciso di stringere i rapporti su uno dei fronti più caldi per il commercio globale e per le transizioni gemelle verde e digitale dell’Unione Europea. A dimostrarlo è la firma arrivata oggi (28 maggio) per un memorandum d’intesa sul partenariato bilaterale finalizzato alla cooperazione in materia di minerali critici e strategici sostenibili.Si tratta dell’ultimo memorandum d’intesa sulle materie prime critiche in ordine cronologico spinto dall’Ue con i partner globali come seguito prima del Piano d’azione e poi del Critical Raw Materials Act del marzo 2023. Una strategia che conta già come stretti alleati in questo campo Canada e Ucraina (dal 2021), Kazakistan e Namibia (dal 2022), Argentina, Cile, Zambia, Repubblica Democratica del Congo e Groenlandia (dal 2023) e Rwanda, Norvegia, Uzbekistan (da quest’anno) e ora Australia. “Questo partenariato mira a sostenere diversi obiettivi comuni, basandosi su vantaggi reciproci“, spiega la Commissione Europea dopo la firma da parte del suo vicepresidente esecutivo e commissario per il Commercio, Valdis Dombrovskis, e del commissario per il Mercato interno, Thierry Breton. A questo punto sarà sviluppata congiuntamente nei prossimi sei mesi una tabella di marcia con le azioni concrete per la messa a terra di questa intesa.Il partenariato tra l’Ue e l’Australia è considerato da Bruxelles un’altra pietra miliare per la diversificazione delle forniture di materiali necessari per la transizione verde e digitale, per non ricadere nello stesso errore compiuto con il gas russo. Coprendo l’intera catena del valore dei minerali critici e strategici – esplorazione, estrazione, lavorazione, raffinazione, riciclo e trattamento dei rifiuti estrattivi – contribuirà inoltre allo sviluppo del settore nazionale dei minerali critici australiani. A questo si somma il fatto che, oltre a sviluppare congiuntamente progetti lungo l’intera catena del valore, sarà esplorata un’ulteriore cooperazione su “interessi comuni”, inclusa la riduzione dell’impatto ambientale, i benefici per le comunità locali e la spinta a tecnologie e servizi innovativi e digitali per l’estrazione mineraria.Fermo restando che il pesce grosso rimane l’accordo di libero scambio, a cui Bruxelles non ha mai chiuso la porta, il memorandum d’intesa siglato oggi tra Ue e Australia traccia la strada per riprendere e approfondire i contatti, a partire dal quadro di riferimento sulle aree di cooperazione per la creazione di catene del valore “sicure e sostenibili” di minerali critici e strategici. In primis l’integrazione delle stesse catene di valore, “compresa la creazione di reti, l’agevolazione congiunta di progetti” – anche attraverso joint venture – “la creazione di nuovi modelli di business e la promozione e agevolazione dei collegamenti commerciali e degli investimenti”. Il secondo ambito è quello della cooperazione per la ricerca e l’innovazione, “compresa la conoscenza dei minerali e la minimizzazione dell’impronta ambientale e climatica”, ma anche per la promozione di standard e pratiche ambientali, sociali e di governance “elevati”, soprattutto sul “pieno rispetto delle condizioni e della sicurezza dei lavoratori”.

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    L’Ue è pronta a mettere a terra un Patto per curare le “cicatrici ambientali” della guerra in Ucraina

    Bruxelles – L’obiettivo è sul tavolo delle discussioni, mentre l’Ucraina si avvicina ai due anni di invasione russa con ancora la guerra in casa. “Stiamo lanciando il Patto per l’ambiente, la nostra strategia per il ripristino” delle “cicatrici ambientali” del conflitto, è quanto annunciato oggi (9 febbraio) dal commissario europeo per l’Ambiente, Virginijus Sinkevičius, al suo arrivo a Kiev per una due-giorni di visita nel Paese per confronti politici sulla ricostruzione verde dell’Ucraina. In particolare con il presidente Volodymyr Zelensky, con cui è previsto un punto sui lavori tecnici del Gruppo di lavoro di alto livello. “Non è solo una politica, ma la nostra promessa che il risanamento dell’Ucraina sarà inesorabile e che la Russia sarà ritenuta finanziariamente responsabile della sua devastazione ambientale“, è la promessa sancita a Kiev.

    “L’Europa è un alleato incrollabile nella vostra lotta per la libertà”, ha messo in chiaro il responsabile per l’Ambiente del gabinetto von der Leyen, gettando le basi delle discussioni sul nuovo piano in via di ultimazione. Come rende noto l’esecutivo comunitario, il Patto stabilisce raccomandazioni strategiche su tre pilastri: valutazione dei danni ambientali della guerra, ripresa e ricostruzione ecologica dell’Ucraina, e responsabilità legale per i crimini di guerra ambientali. Il confronto all’interno del Gruppo di lavoro di alto livello sulle conseguenze ambientali della guerra è iniziato nel giugno 2023 e ha visto tra i momenti più significativi la Conferenza sulla ripresa verde dell’Ucraina organizzata dalla Commissione Ue a fine novembre dello scorso anno. Il viaggio del commissario Sinkevičius si concentrerà sia sullo stato della ricostruzione e della ripresa ecologica dell’Ucraina sia sul lavoro di Kiev sulle priorità ambientali del processo di adesione all’Unione.

    Da sinistra: il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il commissario europeo per l’Ambiente, Virginijus Sinkevičius, a Kiev (9 febbraio 2024)La necessità di discussioni serrate su risorse e azioni sul campo su questo fronte non solo parte dal presupposto che l’Ucraina è in prospettiva un futuro membro dell’Ue, ma considera anche la situazione contingente del conflitto. Secondo i dati forniti la stessa Commissione Europea, i danni della guerra russa sull’ambiente e sulle infrastrutture ambientali finora ammontano complessivamente a oltre 52 miliardi di euro. Si contano 497 strutture di gestione dell’acqua danneggiate o distrutte, oltre 1,4 miliardi di euro di danni nel settore forestale e il 20 per cento delle aree protette minacciato. Oggi l’Ucraina “è il Paese più minato al mondo”, senza dimenticare che la devastazione ambientale causata dalla distruzione della centrale idroelettrica di Kakhovka “è il peggior disastro causato dall’uomo dai tempi dell’incidente di Chernobyl”.Gli strumenti Ue per l’Ucraina verdeCon l’obiettivo di sostenere la ripresa verde dell’Ucraina, l’Ue sta analizzando gli strumenti a disposizione per spingere il suo supporto a Kiev. In primis l’iniziativa Phoenix, una combinazione di diversi programmi messa sul tavolo per la prima volta a inizio febbraio dello scorso anno, quando 15 commissari europei (guidati dalla presidente Ursula von der Leyen) si erano recati in visita a Kiev per una serie di incontri con le controparti del governo ucraino. Phoenix si articola in due direttrici: un bando da 5 milioni di euro nel contesto del Nuovo Bauhaus Europeo e 7 milioni di euro in finanziamenti dai programmi Horizon Europe e Life, tutti con il focus della gestione dei rifiuti, del riutilizzo dei detriti nel settore dell’edilizia e delle costruzioni e della conservazione della natura.

    Il commissario europeo per l’Ambiente, Virginijus Sinkevičius, alla Conferenza sulla ripresa verde dell’Ucraina (28 novembre 2023)A questo proposito va ricordato che il Nuovo Bauhaus Europeo – l’iniziativa per combinare il Green Deal con la realtà degli spazi abitativi – ha come obiettivo in Ucraina la ricostruzione sostenibile, accessibile e basata sui bisogni delle persone: il network del Bauhaus è già attivo a sostenere città e regioni ucraine su questioni specifiche, come i materiali riciclabili da edifici demoliti e l’uso di metodi di costruzione circolare. Per quanto riguarda il secondo elemento dell’iniziativa – i finanziamenti Life e Horizon Europe per le città climaticamente neutre e intelligenti – i due bandi di gara dedicati appositamente all’Ucraina sono pensati per incoraggiare gli standard di sostenibilità e di circolarità negli sforzi di ricostruzione e di sviluppo della pianificazione urbana in vista del futuro comune tra Kiev e i Ventisette.

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    Gli aiuti allo sviluppo dell’Ue sono un problema per l’Africa

    Bruxelles – Gli aiuti dell’UE all’Africa non aiutano il continente e i suoi Stati. Al contrario, per come sono concepiti, accrescono i problemi, soprattutto economici, dei Paesi in cui l’azione concepita per portare contributi utili allo sviluppo. La strategie dell’Unione europea per i Paesi più poveri, soprattutto africani, dovrebbero essere dunque riviste. Il Parlamento europeo accende i riflettori su partenariati che, così, come sono, finiscono per produrre effetti contrari a quelli desiderati.La nota di accompagnamento alla relazione per la cooperazione allo sviluppo dell’Ue a sostegno dell’accesso all’energia nei paesi in via di sviluppo, che l’Aula del Parlamento europeo, da calendario, discuterà il 17 gennaio in occasione della prima sessione plenaria del nuovo anno, evidenzia le carenze dell’azione a dodici stelle.Tra il 2014 e il 2020, recita il passaggio allegato al testo legislativo, l’insieme dei Ventisette ha fornito 13,8 miliardi di euro complessivi di assistenza all’Africa per lo sviluppo sostenibile. Innanzitutto l’importo “non è ancora sufficiente e occorre compiere maggiori sforzi” se si vuole permettere una crescita sostenibile da un punto di vista climatico-ambientale. Ma, soprattutto, “il 53 per cento degli esborsi è avvenuto sotto forma di prestiti”, il che si traduce in “debito aggiuntivo che riduce la capacità di questi paesi di investire negli obiettivi di sviluppo sostenibile”.Aumenta in sostanza il debito dei Paesi africani, che si trovano in una situazione di difficoltà. Tanto che, viene messo in risalto, risulta che  “21 paesi africani a basso reddito si trovano o sono a rischio di sofferenza debitoria nel 2023“.C’è un’ulteriore considerazione da fare, e che viene fatta. La cooperazione allo sviluppo dell’UE, per com’è concepita, non è a misura di Green Deal europeo. “La maggior parte dei progetti finanziati dall’UE mirano a promuovere grandi infrastrutture di generazione elettrica e l’interconnessione delle reti di trasmissione per creare mercati elettrici integrati, che hanno un impatto minimo sulla promozione dell’accesso all’elettricità per coloro che non ce l’hanno”. C’è da ripensare l’intera architettura della politica per lo sviluppo. La relazione che sta per approdare in Aula chiede perciò agli Stati membri dell’UE di aumentare l’importo dell’aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore energetico in Africa, “dando priorità alle sovvenzioni rispetto ai prestiti nei paesi a rischio di indebitamento“. C’è di più. Perché si suggerisce di cambiare il modello di business condotto fin qui. “Per superare la povertà energetica in Africa, i finanziamenti dell’UE dovrebbero essere ri-orientati verso i paesi con tassi di accesso all’elettricità più bassi”.Un altro, poi, riguarda l‘idrogeno verde, quello prodotto attraverso le energie rinnovabili. L’Africa non appare una regione ottimale per spingere per questo particolare tipo di investimenti. “Sebbene possa potenzialmente svolgere un ruolo significativo” nel raggiungimento degli obiettivi internazionali di sostenibilità incardinati negli accordi di Parigi , allo stesso tempo “potrebbe innescare conflitti sull’uso del territorio e aggravare la povertà“. Questo perché produrre idrogeno verde implica estrazione mineraria e uso di materie prime e terre rare, che richiedono grandi quantità di acqua dolce e generano inquinamento idrico. Per il sud del mondo, povero di acqua e sistemi di raccolta, l’idrogeno verde “può avere impatti sociali e ambientali negativi”. L’UE, insomma, sta sbagliando calcoli e strategie, e dovrebbe correggere il tiro.