More stories

  • in

    Che cosa implicano le misure “temporanee e reversibili” (e non trasparenti) della Commissione Ue contro il Kosovo

    Bruxelles – Non una comunicazione, non una nota, non una pubblicazione scritta. Le misure “temporanee e reversibili” – perché la Commissione Europea è attenta che nessuno le chiami sanzioni – contro il Kosovo sono tutto fuorché trasparenti e solo analizzando pazientemente le parole dei funzionari e mettendo in fila i commenti rilasciati dai portavoce si può arrivare a ricostruire a grandi linee di cosa si tratta nel concreto. E di come l’azione di Bruxelles abbia un peso specifico – che va ben oltre le sole parole e minacce – al momento concentrato quasi solo su Pristina.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (22 giugno 2023)
    “La Commissione adotterà una serie di misure che saranno comunicate formalmente nel corso della settimana”, aveva annunciato martedì scorso (27 giugno) il direttore generale di Dg Near (direzione generale della Commissione responsabile per la Politica di vicinato e negoziati di allargamento), Gert Jan Koopman, nel corso di un’audizione alla commissione per gli Affari esteri (Afet) del Parlamento Ue. Misure comunicate effettivamente il 28 giugno al Kosovo – come ha reso noto a Eunews il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano – ma che non sono in nessun modo disponibili sul sito dell’esecutivo comunitario per la consultazione pubblica. “Voglio sottolineare molto chiaramente che non prendiamo queste azioni alla leggera e che devono essere viste come temporanee e reversibili, a seconda dei passi credibili, decisivi e tempestivi che ci aspettiamo che le autorità del Kosovo compiano per smorzare la situazione” nel nord del Paese, aveva affermato lo stesso Koopman, senza scendere nei dettagli con gli eurodeputati.
    È il portavoce del Seae a tratteggiare quanto è stato messo in atto contro il Kosovo per fare pressione su Pristina e arrivare a una de-escalation della situazione dopo lo scoppio delle violente proteste di fine maggio e le conseguenze socio-politiche del mese successivo. “Purtroppo il Kosovo non ha ancora preso le misure necessarie” richieste dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, nel corso riunione di emergenza a Bruxelles del 22 giugno, ed è per questo che Bruxelles è passata all’azione (coercitiva). Prima di tutto l’Ue ha “temporaneamente sospeso il lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione” avviato nel 2016, mentre sul piano diplomatico i rappresentanti del Kosovo “non saranno invitati a eventi di alto livello” e saranno sospese le visite bilaterali, “fatta eccezione per quelle incentrate sulla risoluzione della crisi nel nord del Kosovo nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue”, precisa Stano. Dure anche le due decisioni sul piano finanziario: sospesa la programmazione dei fondi per il Kosovo nell’ambito dell’esercizio di programmazione Ipa 2024 (Strumento di assistenza pre-adesione) e le proposte presentate da Pristina nell’ambito del Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) “non sono state sottoposte all’esame del Consiglio di amministrazione” riunitosi il 29-30 giugno.
    “Queste misure sono temporanee e completamente reversibili, a seconda degli sviluppi sul campo e delle decisioni di attenuazione prese dal primo ministro Kurti”, continuano a ripetere dal Berlaymont. Se al momento l’azione di pressione diplomatica si sta concentrando prevalentemente su Pristina, nemmeno Belgrado è esentata dal rispetto delle richieste di Bruxelles: “Stiamo monitorando attentamente e siamo pronti ad adottare misure contro la Serbia in caso di inadempienza“, ha spiegato sempre il portavoce del Seae parlando con Eunews. Lo stesso avvertimento è stato lanciato oggi (5 luglio) dal rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, in visita al presidente serbo, Aleksandar Vučić, nel corso della sua due-giorni tra Serbia e Kosovo per spingere il dialogo tra i due Paesi. La Serbia deve esentarsi dall’appoggiare i manifestanti violenti nel nord del Kosovo e di interferire in modo indiretto con la sicurezza del Paese vicino, anche attraverso l’aumento delle accuse e della retorica incendiaria contro Pristina.
    Cosa sta succedendo tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
    Proprio mentre il direttore di Dg Near Koopman informava gli eurodeputati sulle misure previste contro il Kosovo, l’alto rappresentante Borrell ha messo in guardia che “gli Stati membri stanno perdendo la pazienza davanti a una situazione che continua a deteriorarsi“. La questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i leader Ue hanno condannato “i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo” e hanno chiesto “un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione Europea il 3 giugno 2023″ (riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese). Entrambe le parti sono state invitate a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo“, con la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. La soluzione risiede sempre nella ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo), con l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.

    A causa della mancanza di “azioni necessarie” da parte di Pristina per diminuire la tensione nel nord del Paese, l’esecutivo comunitario ha deciso di sospendere “temporaneamente” le visite bilaterali, i fondi Ipa 2024 e il lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione

  • in

    I progressi a metà del guado. La Commissione Ue presenta il primo stato delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia

    Bruxelles – Il primo rapporto, un inedito che rompe la tradizione dei Pacchetti di allargamento Ue autunnali “su base eccezionale”. È il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a illustrare oggi (22 giugno) alla stampa dopo il Consiglio Affari Generali informale la presentazione orale dello stato di avanzamento delle riforme in Ucraina, Moldova e Georgia, i tre Paesi che per ultimi hanno intrapreso il percorso verso l’adesione all’Unione Europea (candidati i primi due, con la sola prospettiva europea il terzo). “Abbiamo ricevuto una chiara richiesta dai 27 Stati membri per un rapporto orale su come questi Paesi stanno progredendo sulle priorità stabilite dalla Commissione, non l’abbiamo mai fatto e ci focalizziamo solo su queste”, ha messo ben in chiaro lo stesso commissario, spiegando ai giornalisti quanto presentato poche ore prima ai ministri degli Affari europei a Stoccolma.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Una richiesta che – come sottolineato dalla ministra svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Jessika Roswall – parte dalla necessità di “iniziare le discussioni su come prepararci per un futuro allargamento”. Ed è per questo che la Commissione Ue ha deciso di sbilanciarsi prima dell’appuntamento atteso per il prossimo mese di ottobre, per “dare un incentivo positivo” ai tre Paesi, ha spiegato Várhelyi: “Hanno fatto molto lavoro, ma molto altro è ancora all’orizzonte e nel Pacchetto allargamento Ue non saranno questi gli unici criteri che prenderemo in considerazione“. A proposito dei criteri presi in considerazione, sono cinque le categorie considerate: nessun progresso (ovvero nessun passo intrapreso), progressi limitati (stadio preliminare), alcuni progressi (diverse riforme, ma alcune importanti ancora mancanti), buoni progressi (almeno metà delle richieste implementate) e completato. Va letto così – o ascoltato, considerato il fatto che si è trattato di un rapporto orale – quanto elencato dal commissario per l’Allargamento: Kiev ha completato 2 priorità su 7, Chișinău 3 su 9 e Tbilisi 3 su 12, ma l’attenzione va rivolta a quanto è “in corso”. Più o meno sulla buona strada.
    Per l’Ucraina sono 7 le priorità identificate, di cui 2 completate già ora: quella sulla riforma di due organi giudiziari (l’alto Consiglio della giustizia e l’alta Commissione per le alte qualifiche dei giudici) e quella sull’area dei media (legislazione “pienamente in linea” con la direttiva Ue sui servizi media). Buoni progressi sono stati identificati nell’ambito delle riforme della Corte Costituzionale (ancora in sospeso per la seconda lettura in Parlamento, per cui potrebbero arrivare emendamenti “entro il 24 giugno”). Per le restanti quattro priorità ci sono alcuni progressi: nell’area dell’anti-corruzione (con la nomina dell’ufficio del procuratore e dell’ufficio nazionale, “ma ora servono misure sistematiche”), nell’area dell’anti-riciclaggio (allineamento agli standard internazionali), nell’area della de-oligarchizzazione (implementazione del piano d’azione) e nell’area della tutela delle minoranze (“in particolare sull’uso delle lingue nella sfera pubblica, nell’amministrazione, nei media e nella stampa).
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e la ministra svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Jessika Roswall
    Per la Moldova sono 9 le priorità identificate, di cui 3 completate: quella sulle riforme giudiziarie (con il Codice elettorale), quella sul rafforzamento del coinvolgimento della società civile nel processo decisionale e quella sulla tutela dei gruppi vulnerabili e contro la violenza di genere. Per quanto riguarda le restanti 6, buoni progressi sono stati registrati in 3 priorità (riforma della giustizia, de-oligarchizzazione e riforme finanziamento dell’amministrazione pubblica) e alcuni progressi in altre 3 (anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata e anti-riciclaggio). Più complessa la situazione della Georgia, con 3 priorità completate su 12: quella sull’uguaglianza di genere e sulla lotta contro la violenza di genere, quella sull’implementazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei tribunali nazionali e quella sulla nomina di un difensore d’ufficio nei processi. In altre 7 priorità sono stati registrati alcuni progressi: impegno contro la polarizzazione politica, funzionamento delle istituzioni pubbliche e del sistema elettorale, adozione delle riforme giudiziarie, rafforzamento delle agenzie anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata, rafforzamento della difesa dei diritti umani e coinvolgimento della società civile nel processo decisionale. Solo progressi limitati nella de-oligarchizzazione, mentre nessun progresso sul pluralismo dei media e gli standard sui procedimenti contro i proprietari dei media.
    Ucraina, Moldova e Georgia verso l’Ue
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio dal presidente Volodymyr Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgiae Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano Irakli Garibashvili e della presidente moldava Maia Sandu. In soli quattro giorni (7 marzo) gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordatodi invitare la Commissione a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate dai tre Paesi richiedenti, da trasmettere poi al Consiglio per la decisione finale sul primo step del processo di allargamento Ue.
    Prima di dare il via libera formale, un mese più tardi (8 aprile) a Kiev la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, ha consegnato al presidente Zelensky il questionario necessario per il processo di elaborazione del parere della Commissione, promettendo che sarebbe stata “non come al solito una questione di anni, ma di settimane”. Lo stesso ha fatto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’11 aprile. Meno di settanta giorni dopo, il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde a tutti e tre i Paesi, specificando che Ucraina e Moldova meritavano subito lo status di Paesi candidati, mentre la Georgia avrebbe dovuto lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Dall’inizio di quest’anno sono già arrivate le richieste dall’Ucraina e dalla Georgia rispettivamente di iniziare i negoziati di adesione e di diventare Paese candidato “entro la fine del 2023”.
    Come funziona il processo di allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.
    Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.

    Illustrato dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, al Consiglio Affari Generali informale il rapporto orale dello stato di avanzamento dei percorsi verso l’Ue dei tre Paesi. Kiev ha completato 2 priorità su 7, Chișinău 3 su 9 e Tbilisi 3 su 12

  • in

    Due mesi di guerra civile in Sudan. L’Ue guida la risposta umanitaria con 190 milioni di euro di assistenza

    Bruxelles – Due mesi di guerra civile che, tra tregue violate ed escalation di violenze, non dà segno di volgere al termine. Dopo la fuga di fine aprile dal Sudan, l’Unione Europea cerca di trovare soluzioni percorribili per supportare la popolazione colpita dai combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), che hanno già causato oltre duemila morti e più di due milioni di sfollati interni o in altri Paesi limitrofi. È per questo che la Commissione Ue ha deciso di stanziare 190 milioni di euro in assistenza umanitaria e allo sviluppo, come parte dello sforzo europeo da mezzo miliardo complessivo raccolto alla Conferenza di alto livello per il Sudan.
    L’annuncio è arrivato nella giornata di ieri (19 giugno) dal commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, precisando i dettagli del pacchetto di supporto: 52 milioni di euro sono destinati all’assistenza umanitaria immediata, 8 milioni al sostegno dei Paesi vicini al Sudan per far fronte all’arrivo dei profughi (Etiopia, Sud Sudan, Ciad ed Egitto) e 130 milioni per la sicurezza alimentare e la salute delle persone più vulnerabili. “Nel 2022 le persone bisognose erano 16 milioni, oggi il numero complessivo ha raggiunto i 25 milioni, quasi tre volte la popolazione della Svizzera“, ha avvertito il commissario a Ginevra, nel corso della Conferenza convocata da Ue, Nazioni Unite, Unione Africana, Egitto, Germania, Qatar e Arabia Saudita. Per affrontare la situazione “abbiamo bisogno di più fondi, gli sforzi umanitari delle Nazioni Unite sono finanziati solo per il 15 per cento”, e per questo l’Ue nel 2023 sta aumentando lo sforzo a sostegno del Sudan “a più di 270 milioni di euro, con un ulteriore impegno di 226 milioni di euro da parte degli Stati membri“.
    Se l’appello del commissario Lenarčič alla comunità internazionale è di “colmare il gap di finanziamenti, perché sostenere le persone in difficoltà è una responsabilità da condividere”, non può essere dimenticata la causa scatenante della crisi del 2023. “Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco sostenibile” da entrambe le parti in conflitto in Sudan, che sono chiamate anche a “garantire il rispetto della dichiarazione di Gedda” di metà maggio per la protezione dei civili. Nel “pieno rispetto” del diritto internazionale – “spetta a ciascuno di noi esigerlo dalle parti in conflitto” – per Bruxelles è prioritario garantire un accesso umanitario “sicuro” al Sudan, “anche nelle aree colpite dal conflitto e in quelle che ospitano gli sfollati interni”. In questo senso le autorità sudanesi sono chiamate a “rimuovere le barriere amministrative e le restrizioni ai movimenti” per permettere il ritorno degli operatori umanitari nel Paese.
    La guerra civile in Sudan
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    La guerra in Sudan è iniziata lo scorso 15 aprile, con lo scontro armato tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 presidente del Paese) e le forze paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati in guerra civile.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra. Nel corso delle ultime settimane di guerra civile i combattimenti si sono tornati a concentrare soprattutto nel Darfur, dove il governatore Khamis Abakar è stato rapito e ucciso lo scorso 14 giugno per aver accusato le Rsf di genocidio in atto (di nuovo) contro la popolazione della regione.

    Raccolto mezzo miliardo a livello europeo a sostegno della popolazione sudanese colpita dai combattimenti, di cui quasi la metà stanziata dalla Commissione Ue. Sono oltre 2 milioni gli sfollati e quasi 25 milioni quelli che hanno bisogno di sostegno umanitario internazionale

  • in

    L’Ue ha siglato un nuovo accordo con il Montenegro per dispiegare Frontex lungo tutte le frontiere del Paese

    Bruxelles – Il secondo Paese dei Balcani Occidentali, il terzo partner dell’Ue candidato all’adesione che a partire dal primo luglio garantirà il dispiegamento provvisorio degli agenti Frontex anche lungo le frontiere non comuni con l’Unione. Il Montenegro ha siglato oggi (16 maggio) un accordo con la Commissione Europea sul nuovo mandato dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che consentirà di organizzare operazioni congiunte e di dispiegare squadre di gestione delle frontiere nel Paese balcanico candidato all’adesione.
    La commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, e il ministro degli interni del Montenegro, Filip Adžić
    L’accordo tra Bruxelles e Podgorica è stato firmato al Palazzo del Berlaymont (sede dell’esecutivo comunitario) tra la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, il ministro degli interni montenegrino, Filip Adžić, e il ministro svedese per la Giustizia e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Gunnar Strömmer, a uno solo giorno dal via libera dei 27 titolari Ue per la Giustizia e gli Affari interni. “L’intero processo è stato estremamente efficiente e ha definito uno standard su cui future negoziati saranno misurate, sono passati solo sei mesi dall’inizio dei negoziati e dalla presentazione del Piano sulla rotta balcanica”, ha commentato la commissaria Johansson nel corso della cerimonia di firma dell’intesa. Dal primo luglio l’intesa sarà applicata in maniera provvisoria, in attesa del via libera definitivo dal Parlamento Ue. “La migrazione è una sfida che possiamo affrontare solo se siamo uniti”, ha aggiunto Johansson, sottolineando che “dobbiamo implementare un modello di gestione delle frontiere sicuro, dignitoso e che assicuri che chi ha diritto alla protezione possa averne accesso”.
    L’accordo con Podgorica si inserisce nell’ambito del nuovo regolamento di Frontex del 2019, che prevede l’assistenza dell’Agenzia Ue ai Paesi partner in tutto il territorio nazionale e non solo nelle regioni confinanti con l’Unione: il Montenegro è il caso più esemplificativo, dal momento in cui è l’unico Paese balcanico a non avere alcun tratto di confine in comune con l’Ue (si potrebbe dire lo stesso del Kosovo, ma rimane ancora un buco nero per l’assenza di unanimità tra i Ventisette sul riconoscimento della sua sovranità e di conseguenza di un accordo in vigore con Frontex). L’accordo così negoziato consentirà all’Agenzia di assistere le autorità di Podgorica nella gestione delle persone migranti in arrivo, nel contrastare l’immigrazione irregolare e nell’affrontare la criminalità trans-frontaliera e – a differenza del precedente mandato – con poteri esecutivi, come i controlli di frontiera e la registrazione delle persone. In altre parole, i corpi permanenti dell’Agenzia Ue saranno dispiegati con pieni poteri esecutivi lungo i confini del Paese balcanico con Albania, Serbia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo.
    Gli accordi Frontex con i Balcani Occidentali
    Il dispiegamento degli agenti Frontex su tutte le frontiere del Montenegro si basa sulla decisione dello scorso 18 novembre da parte del Consiglio dell’Ue di autorizzare la Commissione ad avviare negoziati con tutti i Paesi dei Balcani Occidentali e con la Repubblica di Moldova per ampliare gli accordi sulla cooperazione dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, su raccomandazione dello stesso esecutivo comunitario il 26 ottobre.
    Gli accordi sullo status di Frontex nell’ambito del precedente mandato dell’Agenzia europea erano stati conclusi con l’Albania nell’ottobre 2018, con il Montenegro nell’ottobre 2019 e con la Serbia un mese più tardi, mentre dal 2017 è in stallo quello con la Bosnia ed Erzegovina, mai firmato dal momento dell’entrata in vigore del regolamento rivisto.
    Al momento sono tre i Paesi con cui è entrato in vigore il nuovo mandato Frontex: Moldova, Macedonia del Nord e Montenegro (rimangono ancora Albania, Bosnia ed Erzegovina e Serbia). L’accordo con Chișinău è arrivato nel marzo dello scorso anno, seguito a sette mesi di distanza da quello con Skopje, nel corso della tappa nella capitale macedone della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen (nel contesto del suo viaggio nei Balcani Occidentali). Il 26 ottobre la numero uno dell’esecutivo comunitario ha dato il benestare al dispiegamento dei corpi Frontex sia alle frontiere con l’Unione (Grecia e Bulgaria) sia con gli altri Paesi balcanici extra-Ue (Serbia, Kosovo e Albania). Si è trattato del primo documento ufficiale firmato dal momento dell’avvio dei negoziati di adesione all’Ue della Macedonia del Nord, in cui ha rivestito un ruolo significativo la traduzione anche in lingua macedone.

    Con l’intesa firmata dalla commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, i corpi permanenti dell’Agenzia potranno operare anche alle frontiere interne del partner balcanico. Lo stesso è stato fatto con Macedonia del Nord e Moldova (in attesa di Albania, Bosnia ed Erzegovina e Serbia)

  • in

    L’Ue esce allo scoperto sulle imminenti elezioni in Turchia: “Ci aspettiamo trasparenza, inclusività e standard democratici”

    Bruxelles – L’attore geopolitico più coinvolto dalle elezioni in Turchia, che non si sbilancia ma allo stesso tempo è direttamente interessato dall’esito dell’imminente tornata elettorale, finalmente esce allo scoperto. “La Turchia è un partner importante in molti campi per l’Unione Europea, seguiamo il ciclo elettorale nel Paese da molto vicino e ci aspettiamo trasparenza, inclusività e allineamento agli standard democratici“, è il commento a tre giorni dal voto per le presidenziali e parlamentari in Turchia da parte del portavoce del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (Seae), Peter Stano.
    Manifesti elettorali di Recep Tayyip Erdoğan (a sinistra) e di Kemal Kılıçdaroğlu (a destra), in vista delle elezioni presidenziali in Turchia (credits: Ozan Kose / Afp)
    Rispondendo alle domande della stampa di Bruxelles, il portavoce ha messo in chiaro che l’Unione attende il risultato del primo turno di domenica (14 maggio), anche se la questione più cruciale è il rispetto degli standard per elezioni libere e trasparenti: “Tutte le parti devono rispettare la legge e la volontà dei cittadini, è importante che sia garantita la pluralità e la libertà dei media, ma anche un uguale trattamento per tutti i partiti politici e i candidati“, ha puntualizzato Stano. Un messaggio che arriva alla vigilia di un momento epocale per la storia recente turca, da cui emergerà il nome del futuro presidente della Repubblica: o, ancora una volta, Recep Tayyip Erdoğan, o lo sfidante che potrebbe incarnare il rinnovamento politico, l’economista Kemal Kılıçdaroğlu. L’Ue non prevede “nessuna missione di osservazione elettorale in Turchia”, è quanto precisato dal portavoce del Seae, anche se Bruxelles accoglie “con favore” l’invito delle autorità turche all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce): “È un passo importante perché dimostra la volontà di assicurare la trasparenza del voto“.
    Gli sfidanti alle presidenziali 2023 in Turchia
    Il presidente della Turchia è eletto direttamente con il sistema del doppio turno. Se nessun candidato conquista la maggioranza semplice (più del 50 per cento dei voti) al primo turno, si svolge un ballottaggio tra i due candidati più votati. Gli aspiranti presidenti devono avere almeno 40 anni e devono aver completato l’istruzione superiore. Qualsiasi partito che abbia ottenuto il 5 per cento dei voti nelle precedenti elezioni parlamentari può presentare un candidato, si possono formare alleanze e schierare candidati comuni, mentre gli indipendenti possono candidarsi solo se raccolgono 100 mila firme.
    La presidenziali del 2023 sono considerate una sfida politica e personale tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu. Da una parte c’è il presidente e leader conservatore del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) al potere da 20 anni esatti – dal 2003 al 2014 come primo ministro, dal 2014 a oggi come capo di Stato – dall’altra lo sfidante outsider, un politico 73enne noto per la sua onestà e frugalità a livello comunicativo – ma non solo – e per le vittorie del suo Partito popolare repubblicano (Chp) a Istanbul e Smirne nel 2019.
    A sostegno di Kılıçdaroğlu si è formata la cosiddetta ‘Tavola dei Sei’, un patto tra sei partiti di opposizione per esprimere un candidato comune, che può essere al contempo l’elemento di forza e quello di debolezza per il leader del Chp. Lo sfidante di Erdoğan ha proposto una piattaforma di riforme in cui spicca l’abolizione del presidenzialismo (la figura del primo ministro è stata abolita nel 2018 proprio dal leader dell’Akp), ma allo stesso tempo la coalizione che lo sostiene spazia dal centrosinistra alla destra nazionalista e l’unico elemento che davvero sembra tenerla unita è il tentativo di estromettere Erdoğan dal potere. D’altro canto Erdoğan è indebolito da due fattori che pesano su una fetta consistente dell’elettorato. L’inflazione galoppante da mesi sta mettendo in crisi la classe media, mentre a livello di opinione pubblica il presidente turco ha faticato a difendersi dalle critiche sulla gestione del terremoto dello scorso 6 febbraio che ha causato oltre 50 mila morti: al centro delle polemiche c’è l’abusivismo edilizio nelle zone colpite dal sisma reso possibile dalla rete clientelare e di corruzione che fa capo al partito di Erdoğan, considerato uno degli elementi che ha più favorito il collasso di intere città nel sud del Paese.
    Sul piano dei sondaggi pre-elezioni questo si è tradotto in un crollo dei consensi per Erdoğan, anche se nelle ultime settimane si è evidenziato un recupero rispetto alle proiezioni che davano Kılıçdaroğlu in vantaggio con oltre il 55 per cento delle preferenze. Considerata la presenza di altri due candidati minori – Muharrem İnce del Partito della Patria e l’indipendente Sinan Oğan sostenuto dall’Alleanza Ata – alle presidenziali più decisive della storia recente della Turchia lo scenario più verosimile è una sfida al secondo turno tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu, in programma il 28 maggio. Questo solo se i due candidati più forti non si troveranno da soli a sfidarsi già domenica: İnce ha annunciato oggi il ritiro dalla corsa elettorale e non è da escludere che Oğan faccia lo stesso a stretto giro.

    Il portavoce del Servizio Europeo per l’Azione Esterna, Peter Stano, ha chiarito che Bruxelles seguirà “da molto vicino” le presidenziali che vedono la sfida tra Erdoğan e il candidato delle opposizioni unite Kılıçdaroğlu: “Tutte le parti devono rispettare la legge e la volontà dei cittadini”

  • in

    Tre pilastri per un unico obiettivo nell’undicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia: evitarne l’elusione da Paesi terzi

    Bruxelles – Se i portavoce della Commissione Europea solo ieri (8 maggio) preferivano non sbilanciarsi troppo sul contenuto dell’undicesimo pacchetto di sanzioni Ue contro la Russia, oggi si capisce il perché. A fornire i primi dettagli della proposta dell’esecutivo comunitario che sono ora sul tavolo del Consiglio dell’Ue è stata la stessa presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel corso della sua visita al numero uno ucraino, Volodymyr Zelensky, a Kiev nella Giornata dell’Europa. “Permettetemi di approfondire brevemente tre elementi di questo pacchetto”, ha annunciato in conferenza stampa von der Leyen, parlando per la prima volta apertamente della nuova tornata di misure restrittive contro Mosca a oltre due mesi dall’ultimo pacchetto.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, a Kiev (9 maggio 2023)
    Dopo un mese di lavori “venerdì scorso [5 maggio, ndr] la Commissione ha adottato la sua proposta per l’undicesimo pacchetto di sanzioni”, ha ricordato von der Leyen. Come accennato dai portavoce durante il punto quotidiano con la stampa di 24 ore fa, “questo pacchetto si concentra ora sulla repressione dell’elusione” delle misure restrittive già in vigore, con uno “stretto coordinamento con i nostri partner internazionali, in particolare con il G7”, è quanto puntualizzato dalla leader dell’esecutivo Ue. Sanzioni che, sempre secondo le parole di von der Leyen, “stanno funzionando”, come dimostrato dalle stime che ciclicamente la Commissione tende a ricordare: “Abbiamo ridotto le nostre importazioni dalla Russia di quasi due terzi, privandola così di flussi di reddito cruciali”, ha precisato al fianco del presidente ucraino Zelensky. Dopo dieci tornate “abbiamo già imposto un prezzo pesante al Cremlino” per la sua invasione dell’Ucraina e Bruxelles continuerà a “fare tutto ciò che è in nostro potere per erodere la macchina da guerra di Putin e le sue entrate”.
    È per questo motivo che, prima di andare a colpire nuovi settori dell’economia russa, secondo il gabinetto von der Leyen è necessario azzerare le entrate che ancora sono possibili grazie all’aggiramento delle misure restrittive attraverso Paesi terzi. Per farlo la Commissione ha deciso di fondare la propria strategia su tre fondamenta. “In primo luogo stiamo affinando i nostri strumenti esistenti, con altri prodotti al nostro divieto di transito“, ha spiegato von der Leyen: “Prodotti tecnologici avanzati o parti di aeromobili destinati a Paesi terzi attraverso la Russia non finiranno più nelle mani del Cremlino”. Sarà poi messo in campo un lavoro di contrasto alle “entità ‘ombra’ della Russia e dei Paesi terzi che aggirano intenzionalmente le nostre sanzioni”.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, a Kiev (9 maggio 2023)
    Ma è soprattutto la terza parte della strategia a interessare l’opinione pubblica e la diplomazia di tutto il mondo, con reazioni minacciose che arrivano anche dalla Cina. “Di recente abbiamo assistito a una crescita di flussi commerciali molto insoliti tra l’Unione Europea e alcuni Paesi terzi, queste merci finiscono poi in Russia“, è il duro avvertimento di von der Leyen. Per Bruxelles è arrivato il tempo di mettere fine a un commercio quasi di contrabbando e con questa intenzione “stiamo proponendo un nuovo strumento per combattere l’elusione delle sanzioni”. Cosa significa, lo spiega la stessa presidente della Commissione Ue: “Se ci accorgiamo che le merci passano dall’Unione Europea a Paesi terzi e poi finiscono in Russia, potremmo proporre agli Stati membri di sanzionare l’esportazione di queste merci“. Si tratterà comunque di una “risorsa ultima, da usare con cautela”, a seguito di una “analisi dei rischi molto accurata e dopo l’approvazione degli Stati membri dell’Ue”.

    We are proposing an 11th package of sanctions:
    The focus is now on cracking down on circumvention, together with our international partners.
    We are:
    1 – Sharpening our existing tools, adding more products to our transit ban.
    2 – Proposing a new tool to combat sanctions… pic.twitter.com/kWIiQnTBfb
    — European Commission (@EU_Commission) May 9, 2023

    Cosa non c’è nell’undicesimo pacchetto di sanzioni
    Nel discorso di von der Leyen c’è però un grande assente: il nucleare russo. “È un lavoro duro, ma alcuni Paesi membri stanno facendo progressi e potete contare che continueremo a spingere in questo senso“, ha voluto specificare la presidente dell’esecutivo comunitario, rispondendo a una domanda specifica sulla presenza o meno del settore nucleare del Cremlino nel nuovo pacchetto di misure restrittive. Gli umori dei 27 governi sono stati testati dalla Commissione attraverso i cosiddetti ‘confessionali’, colloqui riservati tra l’esecutivo comunitario e ciascun ambasciatore presso l’Ue dei 27 Stati membri per raccogliere considerazioni senza filtri da parte dei governi prima di presentare la proposta di sanzioni. Quanto emerge dalle parole di von der Leyen a Kiev è che l’unità ancora non c’è su questo punto e difficilmente si assisterà a un colpo di scena dell’ultimo momento. Secondo quanto confermano fonti europee, la prima discussione tra gli ambasciatori è in programma domani (10 maggio) al Comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue (Coreper), a cui ne seguirà una seconda venerdì.
    È proprio il presidente ucraino Zelensky a chiedere insistentemente da tempo a Bruxelles di inserire l’industria nucleare russa nelle misure restrittive internazionali, come evidenziato anche nella prima storica visita di persona a Bruxelles lo scorso 9 febbraio. Nel mirino in particolare c’è Rosatom, il colosso di Stato fondato nel 2007 che controlla l’energia nucleare civile e l’arsenale di armi nucleari del Cremlino e che nell’ultimo anno di invasione dell’Ucraina è diventato anche gestore della centrale nucleare occupata di Zaporizhzhia. Le resistenze di parte dei Ventisette alle intenzioni di Bruxelles e Berlino derivano soprattutto dal fatto che l’Unione dipende dalla Russia per le importazioni di uranio, componente essenziale per la produzione di energia nucleare. Secondo le ultime stime dell’agenzia di approvvigionamento di Euratom (la Comunità europea dell’energia atomica), nel 2020 il 20 per cento dell’uranio naturale importato nell’Ue arrivava proprio da Mosca, seconda solo al Niger. “Stiamo lavorando molto intensamente con i nostri Stati membri per diversificare ed essere indipendenti”, è l’ultima promessa di von der Leyen al presidente Zelensky. Con vista già a un possibile dodicesimo pacchetto di sanzioni.

    La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha fornito qualche dettaglio sulle nuove misure restrittive. Divieto di transito di prodotti tecnologici avanzati, contrasto alle entità ‘ombra’ e nuovo strumento per sanzionare l’esportazione di merci che finiscono a Mosca

  • in

    Von der Leyen è arrivata a Kiev: “I nostri valori difesi ogni giorno, appropriato festeggiare qui la Giornata dell’Europa”

    Bruxelles – Il quinto viaggio, uno dei più simbolici almeno da un punto di vista nella scelta della data. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, è arrivata questa mattina (9 maggio) a Kiev, nella capitale di un’Ucraina che da oltre un anno resiste all’invasione russa e punta dritto all’ingresso nell’Unione Europea. E l’occasione non potrebbe essere più adatta: “È bello tornare a Kiev dove i valori a noi cari vengono difesi ogni giorno, è quindi un luogo appropriato per celebrare la Giornata dell’Europa“, ha commentato su Twitter la stessa numero uno dell’esecutivo comunitario, pubblicando la foto del suo arrivo in stazione a Kiev.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    La Giornata dell’Europa, il 9 maggio, è il giorno in cui in tutta l’Unione si celebra la pace e l’unità sul continente – dal 24 febbraio 2022 minacciata dall’autocrate russo, Vladimir Putin – e che presto sarà festeggiato anche nel Paese che aspira ad aderire all’Ue: “Accolgo la decisione del presidente Volodymyr Zelensky di rendere il 9 maggio Giornata dell’Europa anche qui in Ucraina“. A oggi il 9 maggio in Ucraina si celebra la Giornata della vittoria, la festa nazionale nei Paesi dell’Europa orientale in memoria della capitolazione della Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, ieri il leader ucraino ha reso noto di voler spostare la festività all’8 maggio (quando effettivamente fu firmata nel 1945 la resa a Berlino), in modo da poter unirsi alle celebrazioni della Giornata dell’Europa il giorno successivo insieme ai Ventisette.
    Arrivata a Kiev la presidente von der Leyen ha visitato il muro della memoria dei caduti per l’Ucraina di fronte al monastero di San Michele, prima di spostarsi nella piazza dove ha potuto osservare i resti dei carri armati e mezzi russi esposti. Parlando in conferenza stampa, la numero uno della Commissione ha ricordato che “stiamo continuando ad aumentare la pressione sulla Russia, l’attenzione è ora rivolta alla rigorosa attuazione delle sanzioni e all’adozione di misure contro l’elusione”, facendo riferimento all’undicesimo pacchetto di sanzioni oggi sul tavolo dei Ventisette: “Siamo determinati a chiudere le scappatoie esistenti, nessuno ne dubiti“. Se la presenza nella capitale ucraina “è simbolica”, non è da sottovalutare il “segno molto concreto del fatto che l’Ue lavora fianco a fianco con l’Ucraina su molte questioni”, ha puntualizzato von der Leyen.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky (9 maggio 2023)
    È proprio su questo che si sono concentrate le discussioni con il presidente Zelensky a Kiev: dalla ricostruzione post-bellica del Paese al percorso di adesione Ue, dall’export di grano ucraino (su cui il presidente ucraino ha denunciato “restrizioni assolutamente inaccettabili”) alla responsabilità di Mosca per i crimini di guerra, incluso il tema della costituzione di un tribunale internazionale e dell’utilizzo dei beni confiscati agli oligarchi russi. “I nostri valori comuni possono essere portati a compimento solo se siamo insieme, conto che a giugno sarà presentata una relazione positiva sui progressi dell’Ucraina“, ha dichiarato in conferenza stampa il presidente Zelensky. A questo proposito a partire da oggi si dovrà valutare approfonditamente il percorso di riforme per mettere davvero in campo questo impegno: oltre le parole e i simboli, la verifica minuziosa da parte dell’esecutivo comunitario per puntare a raccomandare al Consiglio l’apertura dei negoziati di adesione entro la fine dell’anno.
    A questi si aggiunge la questione dell’invio delle armi. “Abbiamo discusso la questione della rapidità di consegna delle munizioni, perché ne abbiamo bisogno ora sul campo di battaglia”, ha ricordato Zelensky, ringraziando von der Leyen per la “prontezza dell’Unione Europea nel fornirci un miliardo di proiettili di artiglieria”. La numero uno della Commissione ha messo in chiaro che “la prima priorità è aiutare ad assicurare le munizioni di cui l’Ucraina ha bisogno”, lavorando su tre percorsi: “Il più veloce è il rilascio immediato di munizioni dalle riserve degli Stati membri, abbiamo stanziato un miliardo di euro e sta funzionando”, considerato il fatto che “un numero considerevole di munizioni è stato inviato o è in dirittura di arrivo, ma va fatto di più, urgentemente”. Il secondo percorso è l’accordo della scorsa settimana per “fornire un miliardo di euro per l’approvvigionamento congiunto di munizioni da 152 e 155 millimetri” e “per accelerare questo, il terzo percorso è aiutare gli Stati membri ad aumentare la produzione e accelerare la consegna delle munizioni per rispondere ai bisogni dell’Ucraina e degli Stati membri”.
    Il quinto viaggio di von der Leyen a Kiev
    È la quinta volta dallo scoppio della guerra in Ucraina il 24 febbraio 2022 che la presidente von der Leyen si reca in viaggio a Kiev. La prima visita è datata 8 aprile 2022, quando la numero uno dell’esecutivo comunitario – insieme con l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell – aveva prima visitato i luoghi dei massacri russi sui civili ucraini a Bucha e poi aveva consegnato nelle mani del presidente Zelensky il questionario per l’adesione del Paese all’Ue. Il ritorno a Kiev aveva avuto luogo due mesi più tardi, con un nuovo round di colloqui con il leader ucraino sul supporto Ue e sull’allargamento dell’Unione l’11 giugno.
    La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, con i 15 commissari europei a Kiev con il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il primo ministro, Denys Shmyhal (2 febbraio 2023)
    Dopo l’estate la terza visita. Il 15 settembre è stato il momento dell trionfo diplomatico per la presidente von der Leyen, quando ha assistito all’incisione del suo nome nella ‘Walk of the Brave’, la strada dei valorosi che hanno combattuto contro la Russia. Con una pausa temporale di cinque mesi, il 2023 si è aperto con la visita ‘doppia’ a Kiev a inizio febbraio. Il 2 febbraio von der Leyen si è messa alla testa di 15 commissari del suo gabinetto per un incontro con le rispettive controparti del governo Shmyhal. Il giorno successivo è andato in scena il 24esimo vertice Ue-Ucraina alla presenza di Zelensky e del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, il primo svoltosi dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina.

    Incontro tra la numero uno della Commissione e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che ha annunciato la volontà di anticipare di un giorno la Giornata della vittoria per festeggiare il 9 maggio insieme ai Ventisette la pace e unità in Europa. Confronto su ricostruzione adesione Ue

  • in

    Ora a Bruxelles si teme che la crisi in Sudan si propaghi oltre i confini del Paese: “Le conseguenze sarebbero disastrose”

    Bruxelles – Diciassette giorni di combattimenti, tregue che non reggono e la diplomazia internazionale che è fuggita da un Paese travolto dalla guerra civile. E che ora potrebbe innescare una crisi in tutta la regione dell’Africa subsahariana centrale e orientale. Il Sudan rischia di trasformarsi nella miccia per il crollo degli equilibri in Stati vicini “altamente fragili”, è l’avvertimento del commissario europeo per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič: “Il rischio che la crisi si propaghi agli Stati circostanti della regione è reale, le conseguenze sarebbero disastrose, nessuno può volerlo“.
    In un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt il commissario Lenarčič ha fatto il punto della situazione a una settimana dall’evacuazione della delegazione Ue in Sudan (e dell’ambasciatore Aidan O’Hara), che non presenta alcun elemento di positività. “La crisi può solo peggiorare”, dal momento in cui “il Paese è in fiamme e manca tutto: acqua pulita, cibo, medicine e carburante“. Quello che era iniziato come uno scontro tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf) alla fine si è trasformato in una vera e propria guerra civile, e ha già causato oltre 500 morti e più di quattromila feriti: centinaia di programmi umanitari sono stati sospesi, i magazzini degli operatori umanitari a Khartum e in altre città del Paese sono stati saccheggiati e distrutti, e la maggioranza degli ospedali della capitale è stata costretta a chiudere. Secondo le Nazioni Unite almeno 75 mila persone sarebbero già fuggite all’estero, soprattutto nel vicino Ciad, ma decine di migliaia sarebbero sfollate internamente.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Ufficialmente in Sudan sarebbe in atto una tregua tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 presidente del Paese) e le forze paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo vicepresidente del Sudan), dopo il cessate il fuoco negoziato con la mediazione degli Stati Uniti ed esteso per altre 72 ore domenica (30 aprile). Tuttavia i combattimenti non si sono mai effettivamente arrestati, considerato il fatto che il cessate il fuoco non regge in particolare a Khartum e nella regione occidentale del Darfur (già teatro di guerra civile e genocidio tra il 2003 e il 2006, anche se la tensione non è mai scomparsa): l’esercito sta cercando di respingere le Rapid Support Forces dalla capitale con bombardamenti aerei, mentre i paramilitari stanno organizzando una guerriglia urbana, saccheggiando uffici pubblici, sedi di organizzazioni internazionali e abitazioni private.
    In stretta collaborazione con i partner internazionali e regionali, l’Unione Europea sta cercando di pressare le due parti per arrivare a un “cessate il fuoco duraturo e a lungo termine“, è l’esortazione del commissario Lenarčič: “La priorità assoluta deve essere quella di far rinsavire le due parti in guerra, le uniche responsabili” della crisi in Sudan che è “pagata dalla popolazione civile”. Ecco perché la base di un cessate il fuoco effettivo – e non violato continuamente come nell’ultima settimana – deve essere costituita dal “rispetto del diritto internazionale, in modo che gli attori umanitari possano tornare a fare il loro lavoro“, ha messo in chiaro il titolare della Gestione delle crisi per il gabinetto von der Leyen.
    La guerra in Sudan
    Esplosioni nella capitale Khartum (credits: Afp)
    La guerra nella capitale Khartum e nel resto del Sudan è iniziata lo scorso 15 aprile, con lo scontro armato tra l’esercito regolare e le forze paramilitari composte da 100 mila membri. Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati in guerra civile.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra.

    Dopo più di due settimane di combattimenti il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, avverte che la situazione “può solo peggiorare”, perché “manca tutto: acqua pulita, cibo, medicine e carburante”. Appello per un cessate il fuoco “duraturo e a lungo termine”