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    Clima, al via la COP30 in Brasile. L’ONU avverte: “Impossibile centrare gli obiettivi di Parigi”

    Bruxelles – I leader mondiali sono arrivati a Belém per dare il via alla 30esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. La COP30, ospitata dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, inizierà formalmente i lavori il prossimo 10 novembre e si concluderà il 21, ma oggi e domani (6-7 novembre) i capi di Stato e di governo si incontreranno nella città ai margini della foresta amazzonica per una serie di dibattiti, bilaterali e sessioni tematiche.Tra i presenti, diversi pesi massimi del Vecchio continente. Fra gli altri, ci saranno il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il primo ministro britannico Keir Starmer, mentre il club a dodici stelle è rappresentato da un trio: il numero uno del Consiglio europeo, António Costa, il capo dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, e il ministro danese al Clima Lars Aagaard per la presidenza del Consiglio Ue.Ma ci sono anche assenze di peso. Su tutte, quelle del presidente statunitense Donald Trump, dei suoi omologhi cinese e russo, Xi Jinping e Vladimir Putin, nonché del premier indiano Narendra Modi, cioè i leader di quattro tra i principali inquinatori mondiali. Solo una sessantina dei Paesi partecipanti alla conferenza ha inviato delegazioni al massimo livello. Per l’Italia c’è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.We’re together in Belém with @antonioguterres.You’ve always spoken up for our planet and we thank you for that.Europe comes to Belém with our clear climate goals and our solidarity for those most at risk.The world needs strong multilateral action to face the climate… pic.twitter.com/g90CWKpyYb— António Costa (@eucopresident) November 6, 2025Eppure l’urgenza per cambiare rotta non è mai stata tanta. La doccia fredda è arrivata questa settimana da parte dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), un’agenzia delle Nazioni Unite che ha pubblicato i dati che mostrano come il 2023, il 2024 e il 2025 saranno i tre anni più caldi mai registrati da quando esistono le rilevazioni (cioè da 176 anni), continuando un trend almeno decennale.Echeggiando dichiarazioni diffuse nei giorni precedenti da altri enti dell’ONU, l’OMM ha anche riconosciuto che è ormai “praticamente impossibile” limitare il riscaldamento globale a 1,5ºC rispetto ai livelli del 1990, come prescritto dall’Accordo di Parigi del 2015. Stando ai calcoli dell’UNEP (il Programma per l’ambiente dell’ONU), attualmente il mondo va verso un innalzamento medio delle temperature compreso tra i 2,3 e i 2,5ºC, un livello che secondo gli esperti provocherà un aumento massiccio degli eventi meteorologici estremi e danni devastanti a molti ecosistemi naturali.Una critica sferzante è arrivata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che insieme a Lula co-presiede la conferenza. Il capo dell’ONU ha puntato il dito contro i leader mondiali, colpevoli di non aver dato seguito agli impegni sottoscritti dieci anni fa poiché “prigionieri degli interessi radicati” di aziende e lobby che “stanno realizzando profitti record grazie alla devastazione climatica“. Il padrone di casa ha inaugurato quella che definisce “la COP della verità“, ammonendo che la “finestra di opportunità” per agire “si sta chiudendo” ed evidenziando la necessità di “invertire la deforestazione e superare la dipendenza dai combustibili fossili“.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Parlando alla sessione plenaria al fianco di Costa, von der Leyen ha esortato i leader a “triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030“, mantenendo gli obiettivi di Parigi e “le promesse fatte ai Paesi più vulnerabili agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici”. Stasera, il presidente del Consiglio europeo interverrà alla sessione tematica dedicata a foreste e oceani, mentre il capo dell’esecutivo Ue prenderà la parola domani durante il panel su transizione energetica e decarbonizzazione dell’industria.Per volere degli stessi organizzatori, la COP30 non dovrà rappresentare un palcoscenico per nuove altisonanti promesse bensì, piuttosto, concentrarsi sull’implementazione degli impegni assunti fin qui. L’iniziativa degna di maggior rilievo è il lancio del Tropical forest forever fund (TFFF), un fondo globale per la tutela delle foreste tropicali col quale il Brasile mira a mobilitare 125 miliardi di dollari (25 dagli erari statali e gli altri 100 da investitori privati). Per il momento, tuttavia, né l’Ue né il Regno Unito parteciperanno a questo ennesimo strumento di green finance.La presidenza brasiliana ha articolato i lavori intorno a sei pilastri principali. Si parlerà di transizione energetica, industriale e dei trasporti; di gestione delle foreste, degli oceani e della biodiversità; della trasformazione dell’agricoltura e dei sistemi alimentari; della resilienza di città, infrastrutture e risorse idriche; della promozione dello sviluppo umano e sociale; e, infine, dei cosiddetti “acceleratori“, cioè quegli elementi che possono facilitare i progressi in tutti i precedenti ambiti anche sui versanti finanziario, tecnologico e logistico.Il logo della COP30 di Belém (foto: Dati Bendo/Commissione europea)L’Ue arriva alle discussioni di Belém con una posizione meno ambiziosa rispetto al quinquennio precedente, caratterizzato dall’adozione del Green deal. Per quanto von der Leyen definisca quello raggiunto ieri al Consiglio Ambiente un “risultato storico” per la riduzione delle emissioni di CO2, in realtà i Ventisette hanno fissato dei target più modesti rispetto alla proposta originaria della Commissione: una forbice tra il 66,25 e il 72,5 per cento da qui al 2035, per poi salire all’85 per cento entro il 2040.Del resto, è l’intera politica climatica internazionale a trovarsi in serie difficoltà in questa fase storica. La forte crescita elettorale dei movimenti populisti, scettici o apertamente negazionisti nei confronti del cambiamento climatico, combinata con una generalizzata contrazione dell’economia mondiale, ha portato molte cancellerie a rimangiarsi gli impegni presi di recente. Particolarmente pesante in questo senso il voltafaccia di Washington: oggi Trump sta facendo uscire (di nuovo) gli Usa dal trattato di Parigi, nonostante sia stata proprio l’amministrazione a stelle e strisce a fornire la spinta diplomatica decisiva per concluderlo.

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    Alla Cop29 il focus è su chi paga per il cambiamento climatico. Da von der Leyen a Lula, i leader disertano

    Bruxelles – Comincia oggi (11 novembre) la 29esima Conferenza delle parti (Cop), il forum delle Nazioni unite dove si discute di come combattere il cambiamento climatico. I leader mondiali si riuniscono quest’anno a Baku, in Azerbaigian, ma l’edizione 2024 non si annuncia come risolutiva. Da un lato, non ci si aspettano grandi progressi nei negoziati tra i partecipanti, soprattutto quando si parlerà di chi dovrà pagare la transizione energetica. Dall’altro, nella capitale caucasica si registrano una serie di assenze di peso, dall’Ue al Brasile. Infine, aleggerà sui dibattiti il fantasma della prossima presidenza Trump, che ritirerà (di nuovo) gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, complicando ulteriormente il già difficile cammino globale verso la neutralità carbonica.Il nodo dei finanziamentiLa Cop29, iniziata ufficialmente oggi a Baku, durerà fino al 22 novembre, ma gli osservatori non si aspettano che dalla sessione di negoziati escano risultati particolarmente ambiziosi. L’argomento principale sul tavolo dovrebbe essere quello dei finanziamenti, vale a dire di chi metterà i soldi (e quanti) per tradurre in pratica le decisioni prese l’anno scorso alla Cop28 di Dubai, che in molti avevano definito “storica”. Tra gli accordi raggiunti a nel dicembre 2023 nella capitale emiratina c’era quello sull’introduzione di un fondo internazionale di compensazione per le perdite e i danni provocati dal cambiamento climatico, nonché per sostenere gli sforzi di adattamento e mitigazione.In teoria, dovrebbero essere i Paesi più ricchi e sviluppati a sostenere almeno in parte i costi della transizione ecologica nei Paesi in via di sviluppo e sottosviluppati, nonché a rimediare ai danni che l’inquinamento storico delle economie più avanzate ha causato nel sud del mondo. Uno dei punti più controversi riguarderà l’eventuale partecipazione di Pechino a questo fondo monstre – che era stato istituito con l’obiettivo di fornire 100 miliardi di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo, una cifra che i diretti interessati vorrebbero aumentare fino a 1000 miliardi. La Cina, pur essendo la seconda economia mondiale, viene ancora considerata un Paese in via di sviluppo, il che le permetterebbe di usufruire dei generosi finanziamenti climatici senza dovervi contribuire – un vantaggio che le cancellerie occidentali reputano indebito.Nel suo discorso alla cerimonia di apertura Simon Stiell, capo della Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc), ha tenuto a precisare che “il finanziamento degli aiuti climatici da parte dei paesi ricchi non è un beneficenza ed è nell’interesse di tutti”, poiché “nessuna economia, neanche quelle del G20, potrà sopravvivere a un riscaldamento globale fuori controllo”. Sulla falsariga di Stiell anche l’intervento di António Guterres, segretario generale dell’Onu: “Coloro che cercano disperatamente di ritardare e negare l’inevitabile fine dell’era dei combustibili fossili cercano di trasformare l’energia pulita in una parolaccia. Perderanno. L’economia è contro di loro. Le soluzioni non sono mai state più economiche e accessibili”.Il segretario generale dell’Onu António Guterres (foto: Joaquin Sarmiento/Afp)A supportare queste considerazioni c’è uno studio dello scorso settembre intitolato Why investing in climate action makes good economic sense (“Perché investire nell’azione climatica ha senso economicamente”) e condotto dal Boston consulting group insieme alla Cambridge judge business school e al Cambridge climate traces lab. Il dato evidenziato dalla rilevazione è che, se gli Stati non intervengono con azioni coordinate per contrastare il cambiamento climatico, le perdite economiche potrebbero ammontare al 10-15 per cento del Pil globale entro il 2100. Tali impatti potrebbero essere scongiurati con un investimento di meno del 2 per cento del Pil mondiale, che dovrebbe permettere di mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2ºC.L’ombra di TrumpA pendere sopra i negoziati sul clima come un’enorme spada di Damocle c’è l’indiscrezione dei media statunitensi che il giorno stesso del proprio insediamento Donald Trump ritirerà gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi del 2015, uno degli architravi della lotta al cambiamento climatico targata Onu, come aveva già fatto nel 2019 (prima che il suo successore Joe Biden riportasse dentro Washington nel 2021). Gli Usa sono il maggior produttore globale di petrolio e gas, e uno dei principali responsabili delle emissioni di CO2 a livello planetario (con quasi 15 tonnellate pro-capite nel 2022, contro le 8 della Cina).Il neo-rieletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump (foto: Mandel Ngan/Afp)Alla Cop21 ospitata nella capitale transalpina i leader mondiali erano riusciti a concordare degli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti per contenere il riscaldamento globale entro dei limiti che avrebbero dovuto impedire conseguenze catastrofiche per il pianeta: un amento di non oltre 2ºC rispetto all’era preindustriale (1850-1900), e possibilmente inferiore agli 1,5ºC. Ma quei target potrebbero ormai essere irraggiungibili. Stamattina, l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha dichiarato che quegli obiettivi “sono in grave pericolo” dopo aver annunciato che il 2024 è “sulla strada” per diventare l’anno più caldo mai registrato, con temperature medie di 1,54ºC superiori ai livelli preindustriali nel periodo tra gennaio e settembre.Ora che la partecipazione degli Usa è rimessa in discussione, secondo un alto funzionario Ue ci sarà “incertezza” nella cooperazione internazionale in ambito di contrasto al cambiamento climatico. John Podesta, l’inviato dell’amministrazione del presidente uscente Joe Biden, ha provato a gettare acqua sul fuoco: “Anche se il governo federale degli Stati Uniti sotto Donald Trump sospenderà l’azione sul clima, il lavoro per contenere il cambiamento climatico continuerà negli Stati Uniti con impegno, passione e fede”. Ma già dall’inizio del 2025 (l’inaugurazione del 47esimo presidente è in calendario per il 20 gennaio) questo impegno verrà meno.Assenze e contraddizioniA pesare sulla Cop29 ci sono poi una serie di assenze di peso tra i leader mondiali, cui è dedicata una sessione specifica tra martedì 12 e mercoledì 13. Mancheranno all’appello, tra gli altri, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz (alle prese con una crisi di governo che rischia di precipitare Berlino nel caos proprio nel momento in cui va approvato il bilancio per il 2025), la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (impegnata con la transizione istituzionale verso il suo secondo mandato, proprio mentre gli eurodeputati interrogheranno i suoi vicepresidenti esecutivi nell’ultimo giorno delle audizioni parlamentari dei commissari designati), il presidente russo Vladimir Putin e quello brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. A rappresentare l’Ue ci sarà, martedì 12 novembre, il commissario uscente al Clima Wopke Hoekstra, mentre oggi c’è il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel (sinistra) incontra il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ai margini della Cop29 a Baku (foto: European Union)Infine, la conferenza di Baku si terrà all’insegna di una lampante contraddizione: come già l’edizione dell’anno scorso negli Emirati Arabi Uniti, la Cop29 è ospitata da un grande produttore di petrolio e gas naturale (da cui Bruxelles sta acquistando ingenti quantità di metano per sostituire la propria dipendenza energetica da Mosca), che non brilla certo per gli impegni presi nella tutela dell’ambiente.E nemmeno, se è per quello, per il rispetto dei diritti fondamentali o della democrazia, a partire dalla libera espressione del dissenso: nei giorni e settimane precedenti alla riunione dell’Onu, nel Paese caucasico sono stati arrestati svariati attivisti ambientalisti. La co-capogruppo dei Verdi all’Europarlamento, Terry Reintke, ha scritto su X che i lavori della Conferenza sono ospitati “da un regime corrotto, che vive di petrodollari” e che “mette dietro le sbarre i critici”. Il tutto dopo che Baku ha ripreso il controllo, nell’autunno 2023, dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh con un’operazione militare che ha provocato una grave crisi umanitaria condannata da Bruxelles.

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    Dall’accesso ai vaccini al digitale. Per l’UE il Giappone è “un alleato fondamentale”

    Bruxelles – Un nuovo summit col Giappone, il primo bilaterale con il nuovo primo ministro nipponico Yoshihide Suga. Multilateralismo, democrazia e stato di diritto: sono questi gli elementi che secondo i 27 Stati membri europei, la Commissione europea e il governo di Tokyo tengono viva l’alleanza tra Unione Europea e Giappone e che si propongono di rinsaldarla.
    A quasi tre anni dalla firma degli accordi sulla partnership strategica economica e digitale e nel mezzo della pandemia di COVID-19 l’alleanza tra Bruxelles e Tokyo mostra i suoi progressi, “anche se resta molto da fare”, come ha affermato in conferenza stampa dopo il vertice bilaterale di giovedì mattina 27 maggio la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.
    Tre i macrotemi all’ordine del giorno. Il primo, quello delle sfide globali, include l’ottimismo per gli sforzi fatti da entrambi i fronti. Il Giappone è il primo importatore di vaccini dall’UE con 100 milioni di dose ricevute da Bruxelles, ma è soprattutto un alleato affidabile sul piano della solidarietà globale. L’obiettivo dei due alleati è arrivare al 30 per cento della popolazione mondiale vaccinata entro la fine del 2021, ma soprattutto di individuare e rimuovere i colli di bottiglia nella produzione e nelle esportazioni di dosi. “La campagna di vaccinazione non è una battaglia tra Paesi, ma una battaglia contro il tempo”, si legge nel comunicato congiunto pubblicato al termine del Summit.
    E l’impegno sul cambiamento climatico non è da meno. “Per accelerare l’azione nel campo ambientale stiamo lanciando un alleanza verde UE-Giappone“, si dichiara. Le due parti faranno squadra “nella transizione energetica (in particolare nell’idrogeno e nell’eolico offshore), nella protezione ambientale, nella cooperazione economica, nella ricerca e nello sviluppo e nella finanza sostenibile”. L’imperativo è ottenere il massimo dagli obiettivi dalla Conferenza sul clima di Glasgow a novembre 2021 ed esigere un’agenda assertiva sulla biodiversità durante la Conferenza di Kunming a ottobre, coinvolgendo il più possibile gli altri attori internazionali in queste ambizioni.
    Sulla sfida globale del digitale poi il Giappone viene definito da von der Leyen come il “migliore alleato”. L’Unione Europea ha già la sua agenda per il decennio digitale, ma vuole camminare insieme al partner asiatico. “Lavoreremo insieme per promuovere standard globali e un approccio comprensivo per le politiche digitali e per le tecnologie nel campo della cybersicurezza, del 5G, del 6G, dell’uso etico dell’intelligenza artificiale”, ha illustrato il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Nel campo della connettività la missione è migliorare l’infrastruttura digitale nei Paesi terzi, nelle aree di confine dei due alleati (i Balcani occidentali e l’Est Europa per l’UE e la regione Indo-Pacifica per il Giappone), ma anche in Asia Centrale e in Africa.
    Ma il dossier delle relazioni tra UE e Giappone tiene conto anche delle relazioni bilaterali tra le due parti e della politica estera e di sicurezza. Delle prime si parla relativamente alla piena attuazione degli accordi firmati nel 2018; i passi in avanti che von der Leyen richiede riguardano l’accesso al mercato giapponese dei prodotti agricoli europei, lo scambio dei prodotti sanitari e fitosanitari e il miglioramento del quadro sul flusso libero dei dati informatici.
    Quanto alla politica estera l’osservato speciale è il Sud-Est asiatico. Le due parti auspicano una cooperazione “inclusiva e basata sullo stato di diritto e sui valori democratici”, contrastando prima di tutto la disinformazione dilagante. Il sodalizio si presenta anche in chiave antimilitarista: oltre ad opporsi alla proliferazione delle armi nucleari nella regione (nel documento il riferimento esplicito è rivolto alla Nord Corea), le due parti condannano “ogni tentativo di cambiare lo status quo e di aumentare la tensione”. La sicurezza marittima è una preoccupazione seria per Tokyo. A ottobre 2020 con un’esercitazione antipirateria congiunta a largo di Gibuti, Giappone e Unione Europea hanno sperimentato una collaborazione nel campo navale. Bruxelles, da parte sua, ha più volte in dichiarato di voler aumentare la sua presenza nel Pacifico per contribuire alla stabilità dell’area.

    Dalla firma degli accordi di partnership 2018 si registrano progressi, ma “restano molti passi in avanti da fare” nel campo dell’accesso al mercato nipponico per l’UE. Tokyo conta su Bruxelles per la stabilità del Pacifico

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    Elezioni Europee 2019, il programma del PD

    Rilanciare il ruolo dell’Italia all’interno delle istituzioni europee e dare una spinta  alla crescita attraverso politiche economiche espansive, mettendo da parte l’austerity. Sono questi i due mantra del programma elettorale del Partito Democratico, che si presenterà alle elezioni europee in calendario domenica in una lista comune assieme al movimento Siamo Europei, fondato dall’ex ministro dello Sviluppo […]