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    Marta Kos in Bosnia ed Erzegovina: “Se non accelerate sulle riforme, rischiate di perdere i fondi europei”

    Bruxelles – Spronare la Bosnia ed Erzegovina a procedere ventre a terra con le riforme pre-adesione. Questa la missione di Marta Kos, la commissaria all’Allargamento, durante il suo viaggio di tre giorni che prende il via oggi (22 settembre) nel Paese balcanico, mentre si acuiscono le tensioni con la minoranza serba.Il tour di Kos è cominciato stamattina a Sarajevo, dove ha incontrato la premier Borjana Krišto e i leader della presidenza tripartita della Bosnia ed Erzegovina, cioè i rappresentanti eletti delle tre comunità nazionali: bosgnacchi, croati e serbi. “Credo nel futuro europeo di questo Paese“, ha esordito Kos parlando accanto a Krišto in una conferenza stampa congiunta.La commissaria ha reiterato il sostegno di Bruxelles per gli sforzi di Sarajevo verso l’ingresso nel club a dodici stelle, ma ribadendo la necessità di superare l’opposizione di una parte della complessa macchina statale bosniaca, cioè quella serba. “Abbiamo visto alcuni passi positivi“, ha continuato, per ammonire però sulle “rinnovate sfide poste dalla legislazione incostituzionale e secessionista adottata dalla Republika Srpska“, l’entità della comunità serbo-bosniaca che insieme alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina – quella delle comunità bosgnacca e croata – costituisce la Repubblica federale in base agli accordi di Dayton del 1995.I met chairwoman @KristoBorjana to discuss how to advance Bosnia and Herzegovina’s EU accession path: judicial reforms, adoption of the Reform Agenda still this month & appointment of a chief negotiator. The EU needs a counterpart in BiH to move forward with technical work. pic.twitter.com/qlHPujQqUn— Marta Kos (@MartaKosEU) September 22, 2025“Le istituzioni democratiche devono essere rispettate“, ha scandito la commissaria prima di esortare l’esecutivo di Krišto a “riprendere il percorso delle riforme“, a cominciare da quella del sistema giudiziario, e a mettere in campo “tutte le misure necessarie” a far partire la prima conferenza intergovernativa e aprire formalmente i primi capitoli negoziali con l’Ue.Sarajevo, dice, “deve inviare al più presto l’Agenda delle riforme per non perdere i fondi del Piano per la crescita“, lo strumento da 6 miliardi con cui la Commissione sta cercando di stimolare l’economia dei Balcani occidentali per creare uno slancio propedeutico all’adesione di questi Paesi candidati. Un appello, quello ad accelerare sulle riforme, tutt’altro che nuovo da parte dell’esecutivo comunitario, che ha già congelato l’anno scorso alcuni fondi destinati alla Bosnia ed Erzegovina proprio per l’incapacità di sbloccare questo punto.La padrona di casa si è detta “ottimista” sulla possibilità di fare presto progressi sul dossier delle riforme, ma ha riconosciuto che finora il Consiglio dei ministri non è riuscito a trovare alcun accordo. “Le riforme sono nell’interesse di tutti”, ha osservato, “e dobbiamo portarle a termine”. Soprattutto, ha evidenziato, “i rappresentanti politici devono mostrare un approccio responsabile e funzionale“: “Dobbiamo smetterla con gli alibi, dobbiamo prenderci le nostre responsabilità di fronte ai nostri elettori”, ha rimarcato.Ma potrebbe non essere così semplice. Milorad Dodik, ex presidente della Republika Srpska e leader del partito di governo Snsd, ha annunciato che lui e il suo partito boicotteranno tutti gli incontri con Kos, incluso il discorso finale al Parlamento bicamerale di Sarajevo (in calendario per dopodomani). La stessa commissaria, del resto, considera Dodik un “separatista” e rifiuta di interloquire con chi mina l’unità del Paese balcanico.L’ex leader serbo è stato recentemente raggiunto da una sentenza del tribunale federale bosniaco che lo ha condannato ad un anno di carcere per inadempienza ai suoi doveri istituzionali nel quadro della leale collaborazione tra le entità federate, dichiarandolo ineleggibile alla carica di presidente della Republika Srpska per sei anni. Il suo mandato è dunque decaduto e sono state indette nuove elezioni per il prossimo 23 novembre.La scorsa settimana, Dodik ha visto il titolare degli Esteri russo, Sergei Lavrov, per cercare la sponda di Mosca con l’obiettivo di mantenere il potere. Verso fine agosto, l’Snsd ha votato nell’assemblea nazionale della Republika Srpska per indire un referendum sulla decadenza dell’ex presidente dalla carica, nonché sulla sua estromissione dai pubblici uffici. La consultazione popolare – che tecnicamente non potrebbe modificare la decisione della corte – è stata fissata per il 25 ottobre.Da diverso tempo, la Bosnia ed Erzegovina è attraversata da una crisi politica legata principalmente all’irrigidimento delle posizioni della Republika Srpska, che sta ponendo in discussione l’autorità di Sarajevo. E mettendo a repentaglio, di riflesso, l’avvicinamento della Bosnia ed Erzegovina al club a dodici stelle. Nel marzo 2024 il Consiglio europeo ha dato il via libera politico all’avvio dei negoziati, ma non è ancora stata convocata la prima conferenza intergovernativa per l’apertura formale dei capitoli negoziali.

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    INTERVISTA / Nataša Kovačev: “In Serbia, i manifestanti si sentono abbandonati da Bruxelles”

    Bruxelles – Da una decina di mesi, la Serbia è sconvolta dalle proteste popolari più partecipate della sua storia recente. In gioco, nelle strade dove gli studenti vengono manganellati e i giornalisti assaliti, non c’è solo la tenuta democratica di un Paese che, sulla carta, è candidato ad entrare nell’Unione europea. C’è anche la credibilità della stessa Ue, che rischia di sgretolarsi sotto il peso dell’inazione. La giornalista serba Nataša Kovačev ha condiviso con Eunews le sue riflessioni sulle dinamiche perverse che si stanno innescando nel suo Paese, alimentate anche dalla freddezza della reazione comunitaria.“Le persone che stanno protestando da oltre 10 mesi – cioè da quando una quindicina di persone sono rimaste uccise nel crollo di una pensilina a Novi Sad (la città natale di Kovačev) lo scorso novembre, scatenando una risposta popolare mai vista dall’implosione della Yugoslavia – si aspettavano una reazione più decisa da parte dell’Ue“, scandisce Kovačev. Invece, negli ultimi mesi, sono arrivati solo mezzi silenzi: come quello del presidente del Consiglio europeo António Costa e quello dell’Alta rappresentante Kaja Kallas.Nataša Kovačev (foto: Nataša Kovačev/LinkedIn)Quello che arriva da Bruxelles, continua, è invece un desolante combinato di “reazioni tiepide e segnali contrastanti“, una cacofonia politica che confonde e scoraggia chi ha creduto in un futuro europeo per la Serbia. E che ora ci crede sempre meno. “Se guardiamo i sondaggi, notiamo che oggi solo il 33 per cento degli intervistati sostiene convintamente la prospettiva dell’adesione” al club a dodici stelle, illustra la giornalista. Nel 2015, l’anno dopo l’apertura dei primi capitoli negoziali con Belgrado, questa cifra si aggirava intorno al 59 per cento.Gli studenti e i loro alleati nel movimento di protesta, già impegnati a resistere coi propri corpi (timpani inclusi) alla brutale repressione messa in campo dall’autoritario presidente Aleksandar Vućič, temono ora di venire abbandonati anche da quelle stesse istituzioni a cui hanno rivolto accorati appelli, affinché li aiutassero a difendere quanto rimane della democrazia e dello Stato di diritto in Serbia.Lo spettacolo che arriva dai rappresentanti comunitari, in effetti, è tutt’altro che edificante. “Durante l’ultima plenaria a Strasburgo, abbiamo sentito cose piuttosto diverse”, spiega: “Marta Kos (la commissaria all’Allargamento, ndr) ha parlato chiaramente della situazione in Serbia e ha preso una posizione netta al riguardo”, ragiona Kovačev, mentre la numero uno del Berlaymont, Ursula von der Leyen, “non si è neanche disturbata a menzionare quello che succede nel suo discorso sullo stato dell’Unione”.D’altro canto, concede la giornalista, Manfred Weber – capo-padrone del Partito popolare europeo, la più potente forza politica del Vecchio continente, da cui proviene anche la presidente della Commissione – “ha ventilato l’ipotesi di sospendere l’Sns (il Partito progressista serbo di Vućič, ndr) dal Ppe”, nel quale è attualmente un membro osservatore. Tuttavia, puntualizza, “è una decisione unilaterale di un partito politico, non una mossa comune dell’Unione”.Il presidente serbo Aleksandar Vućič (foto: Alex Halada/Afp)“Forse qualcosa sta iniziando a muoversi“, rileva con cautela Kovačev, “e pare che tra i vertici comunitari si cominci ad avvertire la necessità di una risposta più incisiva“. “Spero che questo si traduca presto in un’azione concreta, soprattutto per ridare speranza a chi continua a scendere in piazza“, osserva. Auspica un segnale inequivocabile per mettere in chiaro che, oltre alla retorica stucchevole, Bruxelles intende davvero “tutelare lo Stato di diritto ovunque, a maggior ragione in un Paese candidato“.Finora, sotto il regime illiberale di Vućič la spirale di violenza non sembra accennare a fermarsi. In diverse occasioni, spiega Kovačev, il presidente si è dichiarato disponibile a discutere direttamente coi leader della protesta. “Ma i manifestanti non vogliono parlare con lui, vogliono che le istituzioni facciano il loro lavoro, che la corruzione finisca, che lo Stato serbo funzioni“, dice. Invece, ammette, “la repressione del dissenso si fa più asfissiante e si moltiplicano le detenzioni arbitrarie ed extragiudiziali“.Peraltro, aggiunge, “ogni qualvolta Vućič apre a qualche forma di dialogo, si registrano nuovi incidenti“. Come quello dello scorso gennaio, quando a Novi Sad alcuni uomini affiliati all’Sns hanno rincorso degli studenti che stavano affiggendo manifesti, aggredendoli fisicamente. “Hanno tirato fuori una mazza da baseball e li hanno picchiati, rompendo la mascella ad una ragazza“, racconta. Così, alla successiva mano tesa fintamente dal capo dello Stato ai manifestanti, questi hanno risposto per le rime: “Difficile parlare con la mascella rotta”, si leggeva nei comunicati dell’epoca.Poliziotti in tenuta antisommossa a Belgrado (foto: Marko Djokovic/Afp)Il problema, nota Kovačev, è “l’impunità pressoché assoluta” di cui godono le forze dell’ordine. Nel caso di gennaio, ricorda, “quegli uomini furono arrestati e processati, ma a processo ancora in corso Vućič li graziò, prima che venisse emessa qualunque sentenza”. Anche lei ha visto coi propri occhi queste dinamiche, dato che, ci dice, “il dibattito pubblico e lo spazio mediatico sono estremamente polarizzati e ci sono frequenti attacchi contro giornali e giornalisti”.Come certificato da Media freedom rapid response nel suo ultimo rapporto, la situazione in Serbia è “emergenziale”. Nei primi sei mesi di quest’anno si sono verificate 96 aggressioni contro operatori mediatici: una dozzina in più di quelle commesse nell’arco di tutto il 2024 (84) e quasi il doppio del 2023 (49). “Persino se documenti gli attacchi, se li riprendi, non accade nulla“, lamenta Kovačev. Lo scorso novembre, ci racconta, il suo cameraman è stato scaraventato a terra di fronte agli uffici dell’Sns a Novi Sad mentre stava filmando le proteste.Ad aggredirlo era stato un uomo uscito dall’edificio stesso, dopo aver confabulato con alcuni membri della sezione locale del partito. “Avevamo l’incidente sul nastro“, sottolinea la giornalista, “e lo portammo alla polizia e al procuratore, ma nulla si mosse per mesi”. Poi, quando Kovačev e colleghi riuscirono a dimostrare che l’aggressore era uno stretto alleato del sindaco, furono chiamati a testimoniare dal procuratore. Eppure, alla fine, tutto si risolse in una bolla di sapone e gli inquirenti “derubricarono l’incidente ad un banale alterco tra privati, anziché considerarlo un reato penale”.In Serbia, come in altri Paesi candidati (su tutti la Georgia), l’impunità di un potere che prevarica i suoi stessi cittadini è un problema urgente e gravissimo. Da un’Ue che tanto ama dipingersi come paladina del diritto e dei diritti, illudendosi di poter ancora proiettare all’esterno qualche tipo di soft power, ci si aspetterebbe un intervento risoluto contro lo scivolamento autoritario delle fragili democrazie ai suoi stessi confini.Tanto più che, spesso, nell’allontanarsi da Bruxelles questi Paesi si avvicinano a Mosca, a Pechino e ad altri attori geopolitici che l’Europa considera come antagonisti. Magari, ipotizza Kovačev, è precisamente la consapevolezza di trovarsi su un piano inclinato così ripido a “innervosire le gerarchie comunitarie“. “Sanno benissimo che in Serbia le violazioni sono estese, ma forse l’assenza di reazioni deriva dalla paura di spingere Vućič ancora di più tra le braccia della Russia o della Cina“, ragiona.

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    L’Albania corre verso l’Ue. Per Rama l’Unione è “l’impero dei valori e dei diritti”

    Bruxelles – L’Albania procede spedita nella sua corsa verso l’adesione all’Ue. Certo, la strada è tutt’altro che conclusa, ma secondo l’esecutivo comunitario i progressi compiuti da Tirana sono “impressionanti”. Il primo ministro Edi Rama punta ad aprire gli ultimi capitoli negoziali entro la fine dell’anno e a chiudere il lavoro tecnico entro la fine del 2027.Si è tenuta stamattina (16 settembre) la sesta conferenza intergovernativa Ue-Albania a Bruxelles, alla presenza del primo ministro Edi Rama. Oggi è stato ufficialmente aperto il cluster numero quattro (intitolato “Agenda verde e connettività sostenibile” e contenente quattro capitoli negoziali), portando così i cluster aperti da Tirana a cinque su sei in poco meno di un anno per un totale di 28 capitoli sui 33 in cui è condensato l’acquis communautaire (l’immenso corpus giuridico dell’Unione, che i Paesi candidati devono trasporre nella propria legislazione domestica).Nello specifico, i capitoli aperti oggi riguardano trasporti, energia, reti trans-europee e, infine, tutela dell’ambiente e contrasto al cambiamento climatico. Rimangono dunque da aprire i cinque capitoli relativi al quinto cluster (“Risorse, agricoltura e coesione“) che trattano tra le altre cose di agricoltura, sviluppo rurale, sicurezza alimentare, pesca e politiche regionali. Dallo scorso ottobre l’Albania ha già aperto quattro cluster, nell’ordine: “Fondamentali”, “Relazioni esterne”, “Mercato interno” e “Competitività e crescita inclusiva”.La commissaria all’Allargamento Marta Kos (foto: Consiglio europeo)Per l’ennesima volta, le padrone di casa – la commissaria all’Allargamento Marta Kos e la ministra danese agli Affari europei Marie Bjerre – si sono sperticate nell’elogiare il ritmo sostenuto con cui il premier socialdemocratico sta mettendo in campo le riforme pre-adesione, a partire dalla riforma della giustizia e dalla lotta anti-corruzione.“La conferenza intergovernativa mostra che l’allargamento sta procedendo e che le vere riforme producono risultati concreti“, ha evidenziato Bjerre incontrando i giornalisti al termine dei lavori. “Avete fatto la vostra parte, e meritate che questo venga riconosciuto“, ha rimarcato rivolgendosi al suo ospite, pur concedendo che “rimane ancora molto lavoro” da fare ma ribadendo che “un futuro dell’Ue con l’Albania è molto importante per tutti noi”.Le ha fatto eco Kos, osservando che “la velocità dell’Albania è davvero impressionante“. Secondo la commissaria, “le riforme che chiediamo non sono facili ma l’Albania dimostra che il cambiamento positivo è possibile e che l’Ue lo ricompensa”. Un messaggio rivolto agli altri Paesi candidati, soprattutto quelli dove i progressi sono più lenti. Come Rama, Kos è convinta di riuscire a chiudere tutti i capitoli negoziali entro la fine del 2027. “Non è semplice aprire i cluster, ma è ancora più difficile chiudere i capitoli“, ha scandito, incoraggiando il suo ospite a “fare di tutto” per centrare questo ambizioso obiettivo.Le riforme che Tirana si impegna ad implementare con l’apertura del quarto cluster, continua la commissaria, servono a “coniugare la crescita economica con la protezione delle ricchezze naturali“, ma anche a “modernizzare le strade, espandere le reti ferroviarie e integrare pienamente l’Albania” nei sistemi europei di mobilità e connettività. Infine, si tratterà di “promuovere la concorrenza leale, espandere le fonti rinnovabili e rafforzare la sicurezza energetica“.Tra gli immancabili siparietti, Rama ha rimarcato che, per quanto difficile, quella delle riforme “è l’unica strada” per entrare nell’Unione. “Per la prima volta nella nostra storia possiamo scegliere liberamente con chi ci vogliamo sposare“, ha proseguito: “Siamo stati sposati forzatamente con altri imperi nel passato”, ha puntualizzato, “ma questo è un impero di cui vogliamo far parte, un impero di valori, diritti e sicurezza“. E ha concluso la sua serie di lusinghe sostenendo che l’Ue sia “la benedizione del nostro Paese e di altri come noi nella regione”, dal momento che essa “ti fornisce gli strumenti per reinventarti come nazione, come Paese e come Stato“. “Dobbiamo amare l’Europa con tutta la nostra passione”, ha aggiunto.Se tutto continuerà a procedere per questo verso, l’Albania e il Montenegro saranno i primi ad entrare nel club a dodici stelle. Sulla carta, Podgorica è più avanti (ha aperto tutti i capitoli negoziali e ne ha già chiusi sette), ma negli ultimi mesi Tirana ha tirato una vera e propria volata. Al momento della verità, tuttavia, potrebbero venire al pettine anche alcuni nodi che sembrano per il momento trascurati: come la reale salute dello Stato di diritto (incluse l’indipendenza della magistratura e la libertà dei media), la conduzione opaca delle ultime elezioni politiche e il rispetto dei diritti umani nonché del diritto internazionale nel caso dei controversi centri per i migranti costruiti dall’Italia in Albania.

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    Macron, Merz e Tusk in Moldova per sostenere il percorso europeo di Chisinau

    Bruxelles – L’Unione europea rimane salda al fianco della Moldova, nella sua resistenza all’assertività della Russia e nel suo percorso verso l’adesione. O almeno questo è il messaggio consegnato da Emmanuel Macron, Friedrich Merz e Donald Tusk alla presidente della Repubblica, Maia Sandu. La visita, in occasione del 34esimo anniversario dell’indipendenza di Chisinau, arriva ad un mese da elezioni legislative che si preannunciano ad alta tensione a causa delle temute interferenze del Cremlino.Il presidente francese Emmanuel Macron ha offerto il “sostegno determinato” di Parigi alla Moldova nel suo percorso per aderire all’Ue, ammonendo sulle “menzogne” russe durante una visita nella capitale con il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il primo ministro polacco Donald Tusk. I tre leader europei, rappresentanti del cosiddetto triangolo di Weimar, si sono recati in Moldova oggi (27 agosto) per mostrare a Chisinau la vicinanza di Bruxelles in questa delicata fase storica.La padrona di casa, la presidente pro-europea Maia Sandu, ha accolto il trio con tutti gli onori, sottolineando che la presenza dei leader “dimostra non solo il vostro sostegno alla Moldova, ma anche che il progetto europeo continua e che noi ne facciamo parte”. “Non c’è alternativa all’Europa“, ha scandito la presidente, in un momento in cui “la nostra indipendenza, la nostra sovranità e la nostra pace sono messe alla prova forse più che mai“.So glad to welcome our dear friends @EmmanuelMacron, @donaldtusk, @_FriedrichMerz — honoured to celebrate Moldova’s Independence Day together. pic.twitter.com/QTvA0WZMJG— Maia Sandu (@sandumaiamd) August 27, 2025La scelta della data è tutt’altro che casuale. Il simbolismo politico richiama il passato ma parla anche al presente e all’immediato futuro del piccolo ma strategico Paese balcanico. Il 27 agosto 1991, Chisinau dichiarò la propria indipendenza dall’Unione sovietica, tre giorni dopo Kiev.Quanto al presente, la visita odierna va letta nel contesto regionale di crescente volatilità geopolitica, acuita dall’aggressione russa dell’Ucraina. Tra un mese, il prossimo 28 settembre, gli elettori saranno chiamati alle urne per rinnovare il Parlamento monocamerale moldavo, in un voto cruciale che segnerà anche la traiettoria geopolitica del Paese per i prossimi anni. Il timore, a Chisinau come a Bruxelles, è che il Cremlino scateni l’ennesima campagna di interferenze elettorali.È già accaduto lo scorso novembre, quando Sandu centrò il bis per il rotto della cuffia e l’ultranazionalista filorusso Călin Georgescu vinse a sorpresa il primo turno delle presidenziali romene, sprofondando Bucarest in una profonda crisi politico-istituzionale. L’incubo peggiore sarebbe uno sviluppo analogo a quello avvenuto in Georgia, scivolata (di nuovo) nell’orbita di Mosca a seguito delle elezioni truccate di ottobre.“La propaganda del Cremlino ci dice che gli europei vogliono prolungare la guerra e che l’Ue opprime i popoli: queste sono menzogne”, ha dichiarato Macron. “A differenza della Russia, l’Ue non minaccia nessuno e rispetta la sovranità di tutti“, ha aggiunto intervenendo alla conferenza stampa congiunta accanto alla sua omologa moldava.Il presidente russo Vladimir Putin (foto: Vyacheslav Prokofyev/Sputnik via Afp)Sandu suona da tempo l’allarme circa il rischio di “un’ingerenza elettorale senza precedenti” nel prossimo appuntamento con le urne. Ad oggi, i sondaggi pre-elettorali danno il suo Partito di azione e solidarietà (Pas), di centro-destra, in vantaggio con circa il 39 per cento dei consensi, mentre il Partito socialista (Psrm), filorusso, si attesta nei dintorni del 15 per cento. Alle elezioni del 2021, il Pas aveva ottenuto poco meno del 53 per cento.Del resto, Mosca può far ricorso a varie armi nel suo ampio arsenale di guerra ibrida: non solo disinformazione e interferenze elettorali, ma anche la strumentalizzazione dei flussi energetici, ad esempio. Una tecnica già collaudata proprio nella regione separatista moldava della Transnistria, lasciata senza elettricità lo scorso inverno con l’obiettivo di mettere sotto pressione Chisinau.Infine, il viaggio dei leader europei a Chisinau aveva anche l’obiettivo di riaffermare l’impegno dei Ventisette ad accogliere la nazione balcanica nel club a dodici stelle nel futuro prossimo, magari nel giro di qualche anno. “La porta dell’Ue è aperta per la Moldova“, ha dichiarato Merz, aggiungendo che Berlino “farà tutto il possibile per aprire il primo capitolo dei negoziati in autunno“.Il Paese è ufficialmente candidato dal giugno 2022 ma i negoziati di adesione sono cominciati due anni dopo, in parallelo a quelli dell’Ucraina. Nonostante i progressi compiuti dallo Stato balcanico, riconosciuti in diverse occasioni dai vertici comunitari, al momento attuale non è aperto nessuno dei 35 capitoli negoziali per allineare le leggi moldave all’acquis communautaire.Nelle ultime settimane è addirittura circolata l’ipotesi di un disaccoppiamento delle domande d’adesione di Moldova e Ucraina, dato che sulla seconda continua a mettersi di traverso l’Ungheria di Viktor Orbán. Tra i corridoi di Bruxelles si ragionerebbe sulla possibilità di aprire a breve il primo cluster per Chisinau, prima delle elezioni, per consentire a Sandu – che ha fatto dell’adesione all’Ue, considerata “irreversibile”, un pilastro centrale della propria piattaforma politica – di tirare la volata nelle urne.Ma potrebbe trattarsi di una mossa politicamente rischiosa, capace d’incrinare i rapporti con Kiev nel momento in cui la diplomazia internazionale sembra brancolare nel buio e non si vede all’orizzonte una fine della guerra con la Russia. Gli stessi ucraini si dicono fiduciosi che l’intercessione di Donald Trump nei confronti del premier magiaro possa sbloccare l’impasse.

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    Serbia, Vučić tenta la carta del dialogo coi manifestanti: “Discutiamo insieme”

    Bruxelles – Aleksandar Vučić, l’autoritario presidente della Serbia al potere dal 2014, tenta l’azzardo per provare ad ammorbidire il movimento di protesta che sta scuotendo da mesi il Paese balcanico, che manifesta contro la corruzione e lo scivolamento verso l’orbita di Mosca. Ma la sua offerta di dialogo non sembra convincere studenti e opposizioni, che vogliono le dimissioni dell’uomo forte di Belgrado.Con una mossa piuttosto inaspettata, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha teso la mano ai manifestanti che da oltre nove mesi riempiono le piazze del Paese balcanico per chiedere la fine della corruzione dilagante e un generale ricambio della classe politica. Incluso il capo dello Stato: “Arrestate Vučić” è uno dei cartelli che capita di leggere alle proteste, scoppiate lo scorso novembre in seguito al crollo di una pensilina a Novi Sad, nel quale sono morte 16 persone.Così, in un discorso alla nazione trasmesso in tv oggi (22 agosto), il presidente ha azzardato la sua proposta, offrendosi di intrattenere “discussioni e dibattiti su tutte le nostre televisioni, su tutti i nostri siti, coi rappresentanti legittimi” del movimento di protesta. Vučić si dice intenzionato ad “affrontare le diverse visioni” allo scopo di “risolvere la questione attraverso il dialogo e il confronto” e con l’obiettivo ultimo di “ricostruire il Paese, per riportarlo alla situazione in cui si trovava nove mesi fa”.Fino ad oggi, l’autoritario leader sembrava avviato irrevocabilmente sulla strada della repressione, delegata a forze dell’ordine autorizzate a ricorrere anche a dispositivi illegali come i cannoni sonici per disperdere i contestatori. Negli ultimi giorni, la tensione era salita pericolosamente con scontri anche violenti tra manifestanti e fazioni filogovernative, conditi da assalti ad alcune sedi dei partiti che compongono l’esecutivo e diffusi abusi di potere commessi dagli apparati di sicurezza.Le proteste per le strade di Belgrado, il 15 agosto 2025 (foto: Marko Djoković/Afp)Ma i critici di Vučić – sia in piazza sia in Parlamento – non sembrano disposti a bersi la storia del suo improvviso ravvedimento. “Un presidente che ricorre alla violenza non è qualcuno con cui si può discutere di questioni politiche, questo è un governo corrotto che calpesta la democrazia e i diritti umani“, il commento caustico di Savo Manojlović, leader del partito centrista Kreni-Promeni.Opposizioni e studenti chiedono a Vučić di dimostrare la sua buona fede facendosi da parte e convocando al più presto elezioni presidenziali anticipate, prima del 2027 quando scadrà il suo secondo mandato (e anche l’ultimo, a rigor di Costituzione). Il capo dello Stato “non ha una risposta alla ribellione popolare“, si legge in una nota degli studenti dell’Università di Belgrado, in cui accettano di discutere ma solo “durante la campagna elettorale“.Finora, l’unico risultato concreto a cui hanno portato le oceaniche proteste popolari – probabilmente le più ampie nella storia del Paese balcanico da quando è implosa la Jugoslavia – è rappresentato dalle dimissioni dell’ex primo ministro Miloš Vučević, rassegnate a fine gennaio nel tentativo, egregiamente fallito, di placare i manifestanti.Da anni, l’uomo forte di Belgrado pone un dilemma geopolitico di non poco conto all’Ue. La Serbia è ufficialmente un Paese candidato all’adesione al club a dodici stelle ma, oltre alla repressione delle proteste e alle violazioni di massa dei diritti fondamentali, a provocare forti grattacapo a Bruxelles c’è anche l’imbarazzante vicinanza di Vučić a Vladimir Putin.Il presidente russo Vladimir Putin (foto: Vyacheslav Prokofyev/Sputnik via Afp)Incurante degli ammonimenti dell’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas, il presidente serbo si è recato a Mosca lo scorso 9 maggio per celebrare l’80esimo anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista, in tribuna d’onore sulla Piazza Rossa insieme allo zar e al premier slovacco Robert Fico, uno dei due enfants terribles dell’Unione. Con l’altro, il primo ministro ungherese Viktor Orbán, Vučić sta lavorando per prolungare l’oleodotto Druzhba e far arrivare fino in Serbia il greggio della Federazione, acuendo ulteriormente la frizione diplomatica tra Budapest e Kiev.Allo stesso tempo, tuttavia, Vučić si mostra ambivalente nei confronti dell’Ucraina. A giugno si è presentato a sorpresa a Odessa, dove ha partecipato ad una riunione convocata da Volodymyr Zelensky in persona, e da qualche tempo Mosca sta accusando Belgrado di aver tradito la tradizionale amicizia tra i due Paesi vendendo armi a Kiev.Le alte sfere di Bruxelles hanno sempre sostenuto di stare dalla parte degli studenti, ma nelle loro più recenti visite nella capitale serba tanto Kallas quanto António Costa, presidente del Consiglio europeo, sono stati piuttosto morbidi nel mettere Vučić di fronte alle proprie responsabilità. Per una curiosa coincidenza, del resto, la Commissione europea ha incluso la Serbia tra gli 11 Paesi terzi in cui finanzierà progetti per l’approvvigionamento delle materie prime critiche, essenziali per mantenere la competitività del Vecchio continente nel XXI secolo.

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    Le proteste in Serbia stanno diventando violente

    Bruxelles – Si stringono le maglie della repressione in Serbia. Il presidente filorusso Aleksandar Vučić intende usare il pugno di ferro contro i manifestanti che da cinque giorni stano protestando per le strade delle principali città del Paese balcanico. L’escalation della violenza potrebbe segnare un punto di svolta nella contestazione antigovernativa, ma per ora l’Ue non ha niente da dire al riguardo.“Arrestate Vučić“: è una delle tante scritte comparse sui cartelli che hanno punteggiato le piazze di mezza Serbia durante il weekend, in quella che gli osservatori descrivono come una recrudescenza dello scontro tra manifestanti e governo, che si protrae ininterrottamente dallo scorso autunno.Negli ultimi cinque giorni le proteste sono diventate violente in tutto il Paese, soprattutto a Belgrado, con scontri accesi tra alcune fazioni filogovernative e i manifestanti, alcuni dei quali hanno dato alle fiamme delle sedi dell’Sns, il partito del presidente Aleksandar Vučić al potere dal 2012, e dei loro alleati di coalizione. Le forze dell’ordine sono state accusate di uso eccessivo della forza per sedare i disordini.(credits: Angela Weiss / Afp)Ma il capo dello Stato non ha intenzione di mollare la presa sul potere e, anzi, promette l’ennesimo giro di vite contro il dissenso. “Se non mettiamo in atto misure più severe, è solo questione di giorni prima che loro (i manifestanti, ndr) uccidano qualcuno“, ha dichiarato ieri (17 agosto), bollando le proteste come “puro terrorismo” orchestrato da fantomatiche forze esterne che avrebbero ordito un complotto per disarcionarlo. “Sarete testimoni della determinazione dello Stato serbo“, ha minacciato l’autoritario leader, ammonendo che “useremo tutti i mezzi a nostra disposizione per ripristinare la pace e l’ordine nel Paese”.Quella degli scorsi giorni è la più grave escalation delle oceaniche proteste – considerate le più grosse dall’implosione della Jugoslavia e rimaste finora ampiamente pacifiche – contro la corruzione dilagante esplose quando, lo scorso novembre, il crollo di una pensilina a Novi Sad ha ucciso una quindicina di persone. Guidato soprattutto dagli studenti, il movimento popolare non ha mai smesso di contestare la leadership di Vučić, il quale ha risposto con la repressione.Repressione che, almeno finora, non è parsa disturbare particolarmente i resposabili di Bruxelles. Nei mesi scorsi, tanto il presidente del Consiglio europeo, António Costa, quanto l’Alta rappresentante Kaja Kallas si sono recati a Belgrado per reiterare l’impegno dell’Ue verso l’adesione della Serbia. Chiudendo un occhio, anzi entrambi, sulle gravi violazioni dei diritti umani nonché sull’imbarazzante vicinanza di Vučić al presidente russo Vladimir Putin.

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    Ucraina, indietro tutta: Zelensky ripristina l’indipendenza delle agenzie anti-corruzione

    Bruxelles – Nessuna stretta sugli enti-corruzione in Ucraina. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha firmato i decreti che di fatto annullano le precedenti disposizioni di legge e che tornano a garantire indipendenza all’Ufficio nazionale anti-corruzione (Nabu) e all’Ufficio del procuratore speciale anti-corruzione (Sapo). Non ci sarà più, dunque, il controllo del procuratore generale, nominato direttamente dalla presidenza della Repubblica. La decisione di Zelensky arriva dopo le proteste di piazza e le pressioni internazionali dei partner di Kiev, a cominciare dall’Unione europea.Esultano proprio nella capitale dell’Unione europea. “La firma della legge che ripristina l’indipendenza di Nabu e Sapo è benvenuta”, commentano i presidenti di Consiglio europeo e Commissione Ue, Antonio Costa e Ursula von der Leyen, in una nota congiunta. “Riforme in senso di lotta alla corruzione e tutela dello Stato di diritto restano di fondamentale importanza per la via europea dell’Ucraina”, aggiunge, ricordando gli impegni necessari in ottica di adesione all’Ue.Rientrato il caso, ora l’invito e proseguire lungo il percorso concordato. “L’Unione europea continuerà a sostenere questi sforzi” di riforma necessari per l’avvicinamento di Kiev al club a dodici stelle, sottolineano i leader Ue. Certo Zelensky non fa un bella figura con i partner, e adesso lui e il suo Paese resteranno sorvegliati speciali.

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    INTERVISTA / Oliver Röpke (Cese): “Dialogo sociale sia condizione necessaria per l’allargamento”

    Bruxelles – In una fase storica in cui si parla con insistenza di allargamento dell’Unione europea, è importante mettere al centro le componenti della società civile e le parti sociali. E che il cammino verso l’adesione di nuovi Paesi al progetto comunitario sia supportato da strutture efficaci e risorse finanziarie adeguate. È quanto spiega a Eunews il presidente del Comitato economico e sociale europeo (Cese), il sindacalista austriaco Oliver Röpke, durante un’intervista a margine dei lavori della plenaria in corso tra ieri e oggi a Bruxelles.Stamattina (17 luglio) si è tenuto il secondo forum di alto livello sull’allargamento (la prima edizione risale allo scorso ottobre, agli sgoccioli del primo mandato di Ursula von der Leyen al timone dell’esecutivo comunitario), focalizzato sull’importanza di istituzionalizzare un confronto strutturato tra le parti sociali e di creare uno spazio civico solido nella prospettiva dell’espansione del club a dodici stelle già entro la fine del decennio. Stavolta gli ospiti d’onore erano i ministri agli Affari europei di Spagna (Fernando Sampedro), Macedonia del Nord (Orhan Murtezani) e Montenegro (Maida Gorčević).Dialogo sociale e allargamento“Un forte dialogo civile e sociale è il dna del Comitato, dunque è la nostra principale richiesta anche quando si parla di allargamento”, ci spiega Röpke. Quello dell’allargamento, osserva, è un “processo aperto”, che rappresenta “non solo un imperativo geopolitico ma anche una promessa democratica, un impegno morale e sociale“.In effetti, il focus del presidente del Cese sulla società civile non è certo una novità. Così come non lo è l’attenzione verso l’integrazione graduale dei Paesi candidati – Albania, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina – verso l’Ue. Un approccio che prevede l’estensione a questi Stati di alcune politiche comunitarie (come il roaming o l’area dei bonifici Sepa) e l’introduzione di specifici strumenti di cooperazione (si veda il Piano di crescita per i Balcani occidentali) ancora prima del loro formale ingresso nel club europeo.Il presidente del Comitato economico e sociale europeo, Oliver Röpke (foto: Cese)Nel settembre 2023, pochi mesi dopo essere stato eletto a capo dell’organo consultivo, Röpke ha lanciato l’iniziativa Ecm – acronimo di Enlargement countries members – per coinvolgere i rappresentanti delle parti sociali (cioè lavoratori e datori di lavoro) e della società civile di questi Paesi nei lavori del Comitato. L’idea di fondo, rimarca il presidente, è che “l’integrazione deve chiamare in causa non solo le dirigenze politiche ma anche coloro che portano in ultima istanza il peso delle riforme, cioè la società civile, i lavoratori, i giovani”.Röpke definisce “un successo” l’iniziativa e assicura che rimarrà in piedi anche nel prossimo mandato del Cese, che inizierà il prossimo ottobre. Bisogna tuttavia fare attenzione a non confondere i mezzi coi fini, e a non creare surrogati de facto dell’allargamento: “L’Ecm è uno strumento che deve servire a facilitare l’adesione all’Unione – ammonisce – ma non può finire per sostituirla“, rischiando di lasciare i Paesi candidati in un limbo.Ad ogni modo, incalza il sindacalista, il confronto tra le componenti della società “non è un lusso ma una necessità strutturale per costruire democrazie resilienti prima che questi Stati entrino in Ue”. Al punto che il Comitato ha chiesto all’esecutivo Ue di includere formalmente il dialogo sociale come un criterio di condizionalità nei negoziati di adesione.Come si fa nel concreto a promuovere simili sviluppi? “Naturalmente non c’è un unico modello che vada bene per tutti, ma riteniamo che istituzionalizzare il dialogo sociale e dargli un quadro di riferimento chiaro, ad esempio nell’ottica di rafforzare la contrattazione collettiva, sia fondamentale“, ragiona Röpke. Per esempio, ci racconta non senza una punta di orgoglio, “alcuni Paesi candidati vogliono aggiornare i loro sistemi di dialogo e vogliono costruire qualcosa di simile al Cese“.La 598esima plenaria del Comitato economico e sociale europeo, il 17 luglio 2025 (foto: Cese)Il Comitato propone l’introduzione nei Paesi candidati di “comitati di monitoraggio nazionali“, composti da parti sociali e società civile con l’obiettivo di supervisionare non solo gli sforzi e le riforme pre-adesione ma anche la messa a terra dei vari piani di crescita.Progressi e regressiIl presidente del Cese considera positivamente gli sviluppi in corso. “Vediamo progressi in diversi Paesi“, ci dice, anche se rimane ancora “molto lavoro da fare”. Addirittura, in alcuni casi gli standard sono più elevati che negli Stati Ue. Se prendiamo l’indice relativo alla libertà di stampa, ad esempio, scopriamo che Macedonia del nord e Montenegro vanno meglio di Bulgaria, Cipro, Croazia, Grecia, Italia, Malta, Romania e Ungheria. Oppure, continua Röpke, sulla riforma del sistema giudiziario Paesi come l’Albania stanno facendo “passi da giganti“, per quanto rimangano problemi su altri aspetti come trasparenza e contrasto alla corruzione.Purtroppo, non si registrano progressi dappertutto. In alcuni Stati, riconosce Röpke, “le riforme sono deboli e procedono lentamente, mentre in altri si sono addirittura verificati dei contraccolpi“. È il caso della Georgia, dove da mesi il governo autoritario e filorusso sta reprimendo brutalmente il dissenso democratico, della Serbia di Aleksandar Vučić e della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, dove continua a contrarsi lo spazio civico.Manifestanti protestano contro il governo georgiano a Tbilisi (foto: Sebastien Canaud/Afp)Anche in Ucraina – cui pure il presidente del Cese tiene a ribadire il “pieno sostegno” del Comitato – si registrano dei problemi: “Pure in queste difficili circostanze Kiev deve procedere sulla strada delle riforme“, riflette, “ma abbiamo assistito a sviluppi preoccupanti come l’incarcerazione di diversi leader sindacali negli ultimi mesi”.Il nodo dei finanziamentiOra, è evidente che l’allargamento è risalito prepotentemente nell’agenda di Bruxelles negli ultimi anni. “Ho piena fiducia nella presidente von der Leyen e nella commissaria Marta Kos (la titolare del portafoglio Allargamento, ndr) per portare avanti un processo di allargamento basato sul merito e dargli nuova linfa”, confida Röpke a Eunews, dichiarandosi contento del fatto che tale percorso “sia stato accelerato per alcuni Paesi candidati” – soprattutto Albania, Montenegro e Ucraina – e auspicando che “se questi assolveranno ai loro impegni possano concludere i negoziati entro il 2028“.Del resto, è altrettanto chiaro che perché l’allargamento dell’Unione abbia successo servono risorse adeguate, oltre ad una reale volontà politica da parte dei Ventisette. Il Cese adotterà a breve la propria posizione sulla proposta di nuovo bilancio comunitario (il Qfp 2028-2034) targata von der Leyen e già bocciato dall’Eurocamera, dagli enti regionali e da una parte delle cancellerie.Röpke la considera “una buona opportunità per incorporare i finanziamenti pre-adesione nel bilancio Ue in maniera più strategica”, includendo oltre all’assistenza tecnica anche un più organico sostegno alle riforme nei Paesi candidati. E ribadisce un concetto basilare: “Non può esserci una politica di allargamento credibile senza un supporto finanziario sostenibile e mirato“, ricorda.La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Sicuramente, aggiunge il sindacalista, “chiediamo di proteggere ed espandere gli stanziamenti già esistenti per le riforme pre-adesione e per il sostegno alla società civile e la cooperazione transfrontaliera nel prossimo Qfp”. Parrebbe muoversi in questa direzione il fondo Global Europe voluto dalla timoniera del Berlaymont. Questo strumento è dotato complessivamente di 200 miliardi di euro, di cui 42,6 da destinarsi specificamente all’allargamento (un aumento del 37 per cento rispetto al budget dell’attuale Qfp, dove i miliardi a disposizione sono 31).Nel complesso, comunque, la valutazione di Röpke è positiva: “Sono contento che sia stato annunciato un bilancio per l’allargamento potenziato e in generale sono soddisfatto della cassetta degli attrezzi contenuta nel fondo Global Europe“, afferma. Ribadendo che, come dichiarato dalla stessa von der Leyen ieri, “non si tratta solo di un obiettivo politico ma di un investimento strategico nella stabilità e nella prosperità del continente“.