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    Le proteste in Serbia stanno diventando violente

    Bruxelles – Si stringono le maglie della repressione in Serbia. Il presidente filorusso Aleksandar Vučić intende usare il pugno di ferro contro i manifestanti che da cinque giorni stano protestando per le strade delle principali città del Paese balcanico. L’escalation della violenza potrebbe segnare un punto di svolta nella contestazione antigovernativa, ma per ora l’Ue non ha niente da dire al riguardo.“Arrestate Vučić“: è una delle tante scritte comparse sui cartelli che hanno punteggiato le piazze di mezza Serbia durante il weekend, in quella che gli osservatori descrivono come una recrudescenza dello scontro tra manifestanti e governo, che si protrae ininterrottamente dallo scorso autunno.Negli ultimi cinque giorni le proteste sono diventate violente in tutto il Paese, soprattutto a Belgrado, con scontri accesi tra alcune fazioni filogovernative e i manifestanti, alcuni dei quali hanno dato alle fiamme delle sedi dell’Sns, il partito del presidente Aleksandar Vučić al potere dal 2012, e dei loro alleati di coalizione. Le forze dell’ordine sono state accusate di uso eccessivo della forza per sedare i disordini.(credits: Angela Weiss / Afp)Ma il capo dello Stato non ha intenzione di mollare la presa sul potere e, anzi, promette l’ennesimo giro di vite contro il dissenso. “Se non mettiamo in atto misure più severe, è solo questione di giorni prima che loro (i manifestanti, ndr) uccidano qualcuno“, ha dichiarato ieri (17 agosto), bollando le proteste come “puro terrorismo” orchestrato da fantomatiche forze esterne che avrebbero ordito un complotto per disarcionarlo. “Sarete testimoni della determinazione dello Stato serbo“, ha minacciato l’autoritario leader, ammonendo che “useremo tutti i mezzi a nostra disposizione per ripristinare la pace e l’ordine nel Paese”.Quella degli scorsi giorni è la più grave escalation delle oceaniche proteste – considerate le più grosse dall’implosione della Jugoslavia e rimaste finora ampiamente pacifiche – contro la corruzione dilagante esplose quando, lo scorso novembre, il crollo di una pensilina a Novi Sad ha ucciso una quindicina di persone. Guidato soprattutto dagli studenti, il movimento popolare non ha mai smesso di contestare la leadership di Vučić, il quale ha risposto con la repressione.Repressione che, almeno finora, non è parsa disturbare particolarmente i resposabili di Bruxelles. Nei mesi scorsi, tanto il presidente del Consiglio europeo, António Costa, quanto l’Alta rappresentante Kaja Kallas si sono recati a Belgrado per reiterare l’impegno dell’Ue verso l’adesione della Serbia. Chiudendo un occhio, anzi entrambi, sulle gravi violazioni dei diritti umani nonché sull’imbarazzante vicinanza di Vučić al presidente russo Vladimir Putin.

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    Ucraina, indietro tutta: Zelensky ripristina l’indipendenza delle agenzie anti-corruzione

    Bruxelles – Nessuna stretta sugli enti-corruzione in Ucraina. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha firmato i decreti che di fatto annullano le precedenti disposizioni di legge e che tornano a garantire indipendenza all’Ufficio nazionale anti-corruzione (Nabu) e all’Ufficio del procuratore speciale anti-corruzione (Sapo). Non ci sarà più, dunque, il controllo del procuratore generale, nominato direttamente dalla presidenza della Repubblica. La decisione di Zelensky arriva dopo le proteste di piazza e le pressioni internazionali dei partner di Kiev, a cominciare dall’Unione europea.Esultano proprio nella capitale dell’Unione europea. “La firma della legge che ripristina l’indipendenza di Nabu e Sapo è benvenuta”, commentano i presidenti di Consiglio europeo e Commissione Ue, Antonio Costa e Ursula von der Leyen, in una nota congiunta. “Riforme in senso di lotta alla corruzione e tutela dello Stato di diritto restano di fondamentale importanza per la via europea dell’Ucraina”, aggiunge, ricordando gli impegni necessari in ottica di adesione all’Ue.Rientrato il caso, ora l’invito e proseguire lungo il percorso concordato. “L’Unione europea continuerà a sostenere questi sforzi” di riforma necessari per l’avvicinamento di Kiev al club a dodici stelle, sottolineano i leader Ue. Certo Zelensky non fa un bella figura con i partner, e adesso lui e il suo Paese resteranno sorvegliati speciali.

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    INTERVISTA / Oliver Röpke (Cese): “Dialogo sociale sia condizione necessaria per l’allargamento”

    Bruxelles – In una fase storica in cui si parla con insistenza di allargamento dell’Unione europea, è importante mettere al centro le componenti della società civile e le parti sociali. E che il cammino verso l’adesione di nuovi Paesi al progetto comunitario sia supportato da strutture efficaci e risorse finanziarie adeguate. È quanto spiega a Eunews il presidente del Comitato economico e sociale europeo (Cese), il sindacalista austriaco Oliver Röpke, durante un’intervista a margine dei lavori della plenaria in corso tra ieri e oggi a Bruxelles.Stamattina (17 luglio) si è tenuto il secondo forum di alto livello sull’allargamento (la prima edizione risale allo scorso ottobre, agli sgoccioli del primo mandato di Ursula von der Leyen al timone dell’esecutivo comunitario), focalizzato sull’importanza di istituzionalizzare un confronto strutturato tra le parti sociali e di creare uno spazio civico solido nella prospettiva dell’espansione del club a dodici stelle già entro la fine del decennio. Stavolta gli ospiti d’onore erano i ministri agli Affari europei di Spagna (Fernando Sampedro), Macedonia del Nord (Orhan Murtezani) e Montenegro (Maida Gorčević).Dialogo sociale e allargamento“Un forte dialogo civile e sociale è il dna del Comitato, dunque è la nostra principale richiesta anche quando si parla di allargamento”, ci spiega Röpke. Quello dell’allargamento, osserva, è un “processo aperto”, che rappresenta “non solo un imperativo geopolitico ma anche una promessa democratica, un impegno morale e sociale“.In effetti, il focus del presidente del Cese sulla società civile non è certo una novità. Così come non lo è l’attenzione verso l’integrazione graduale dei Paesi candidati – Albania, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina – verso l’Ue. Un approccio che prevede l’estensione a questi Stati di alcune politiche comunitarie (come il roaming o l’area dei bonifici Sepa) e l’introduzione di specifici strumenti di cooperazione (si veda il Piano di crescita per i Balcani occidentali) ancora prima del loro formale ingresso nel club europeo.Il presidente del Comitato economico e sociale europeo, Oliver Röpke (foto: Cese)Nel settembre 2023, pochi mesi dopo essere stato eletto a capo dell’organo consultivo, Röpke ha lanciato l’iniziativa Ecm – acronimo di Enlargement countries members – per coinvolgere i rappresentanti delle parti sociali (cioè lavoratori e datori di lavoro) e della società civile di questi Paesi nei lavori del Comitato. L’idea di fondo, rimarca il presidente, è che “l’integrazione deve chiamare in causa non solo le dirigenze politiche ma anche coloro che portano in ultima istanza il peso delle riforme, cioè la società civile, i lavoratori, i giovani”.Röpke definisce “un successo” l’iniziativa e assicura che rimarrà in piedi anche nel prossimo mandato del Cese, che inizierà il prossimo ottobre. Bisogna tuttavia fare attenzione a non confondere i mezzi coi fini, e a non creare surrogati de facto dell’allargamento: “L’Ecm è uno strumento che deve servire a facilitare l’adesione all’Unione – ammonisce – ma non può finire per sostituirla“, rischiando di lasciare i Paesi candidati in un limbo.Ad ogni modo, incalza il sindacalista, il confronto tra le componenti della società “non è un lusso ma una necessità strutturale per costruire democrazie resilienti prima che questi Stati entrino in Ue”. Al punto che il Comitato ha chiesto all’esecutivo Ue di includere formalmente il dialogo sociale come un criterio di condizionalità nei negoziati di adesione.Come si fa nel concreto a promuovere simili sviluppi? “Naturalmente non c’è un unico modello che vada bene per tutti, ma riteniamo che istituzionalizzare il dialogo sociale e dargli un quadro di riferimento chiaro, ad esempio nell’ottica di rafforzare la contrattazione collettiva, sia fondamentale“, ragiona Röpke. Per esempio, ci racconta non senza una punta di orgoglio, “alcuni Paesi candidati vogliono aggiornare i loro sistemi di dialogo e vogliono costruire qualcosa di simile al Cese“.La 598esima plenaria del Comitato economico e sociale europeo, il 17 luglio 2025 (foto: Cese)Il Comitato propone l’introduzione nei Paesi candidati di “comitati di monitoraggio nazionali“, composti da parti sociali e società civile con l’obiettivo di supervisionare non solo gli sforzi e le riforme pre-adesione ma anche la messa a terra dei vari piani di crescita.Progressi e regressiIl presidente del Cese considera positivamente gli sviluppi in corso. “Vediamo progressi in diversi Paesi“, ci dice, anche se rimane ancora “molto lavoro da fare”. Addirittura, in alcuni casi gli standard sono più elevati che negli Stati Ue. Se prendiamo l’indice relativo alla libertà di stampa, ad esempio, scopriamo che Macedonia del nord e Montenegro vanno meglio di Bulgaria, Cipro, Croazia, Grecia, Italia, Malta, Romania e Ungheria. Oppure, continua Röpke, sulla riforma del sistema giudiziario Paesi come l’Albania stanno facendo “passi da giganti“, per quanto rimangano problemi su altri aspetti come trasparenza e contrasto alla corruzione.Purtroppo, non si registrano progressi dappertutto. In alcuni Stati, riconosce Röpke, “le riforme sono deboli e procedono lentamente, mentre in altri si sono addirittura verificati dei contraccolpi“. È il caso della Georgia, dove da mesi il governo autoritario e filorusso sta reprimendo brutalmente il dissenso democratico, della Serbia di Aleksandar Vučić e della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, dove continua a contrarsi lo spazio civico.Manifestanti protestano contro il governo georgiano a Tbilisi (foto: Sebastien Canaud/Afp)Anche in Ucraina – cui pure il presidente del Cese tiene a ribadire il “pieno sostegno” del Comitato – si registrano dei problemi: “Pure in queste difficili circostanze Kiev deve procedere sulla strada delle riforme“, riflette, “ma abbiamo assistito a sviluppi preoccupanti come l’incarcerazione di diversi leader sindacali negli ultimi mesi”.Il nodo dei finanziamentiOra, è evidente che l’allargamento è risalito prepotentemente nell’agenda di Bruxelles negli ultimi anni. “Ho piena fiducia nella presidente von der Leyen e nella commissaria Marta Kos (la titolare del portafoglio Allargamento, ndr) per portare avanti un processo di allargamento basato sul merito e dargli nuova linfa”, confida Röpke a Eunews, dichiarandosi contento del fatto che tale percorso “sia stato accelerato per alcuni Paesi candidati” – soprattutto Albania, Montenegro e Ucraina – e auspicando che “se questi assolveranno ai loro impegni possano concludere i negoziati entro il 2028“.Del resto, è altrettanto chiaro che perché l’allargamento dell’Unione abbia successo servono risorse adeguate, oltre ad una reale volontà politica da parte dei Ventisette. Il Cese adotterà a breve la propria posizione sulla proposta di nuovo bilancio comunitario (il Qfp 2028-2034) targata von der Leyen e già bocciato dall’Eurocamera, dagli enti regionali e da una parte delle cancellerie.Röpke la considera “una buona opportunità per incorporare i finanziamenti pre-adesione nel bilancio Ue in maniera più strategica”, includendo oltre all’assistenza tecnica anche un più organico sostegno alle riforme nei Paesi candidati. E ribadisce un concetto basilare: “Non può esserci una politica di allargamento credibile senza un supporto finanziario sostenibile e mirato“, ricorda.La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Sicuramente, aggiunge il sindacalista, “chiediamo di proteggere ed espandere gli stanziamenti già esistenti per le riforme pre-adesione e per il sostegno alla società civile e la cooperazione transfrontaliera nel prossimo Qfp”. Parrebbe muoversi in questa direzione il fondo Global Europe voluto dalla timoniera del Berlaymont. Questo strumento è dotato complessivamente di 200 miliardi di euro, di cui 42,6 da destinarsi specificamente all’allargamento (un aumento del 37 per cento rispetto al budget dell’attuale Qfp, dove i miliardi a disposizione sono 31).Nel complesso, comunque, la valutazione di Röpke è positiva: “Sono contento che sia stato annunciato un bilancio per l’allargamento potenziato e in generale sono soddisfatto della cassetta degli attrezzi contenuta nel fondo Global Europe“, afferma. Ribadendo che, come dichiarato dalla stessa von der Leyen ieri, “non si tratta solo di un obiettivo politico ma di un investimento strategico nella stabilità e nella prosperità del continente“.

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    Allargamento, Kos: “Balcani occidentali accelerino sulle riforme”

    Bruxelles – I Balcani occidentali si muovono verso l’adesione all’Ue, chi più veloce e chi meno. Almeno a sentire la commissaria all’Allargamento Marta Kos, che ha incontrato i leader dei Paesi candidati per fare il punto sui progressi nell’implementazione delle riforme e promettere un sostegno continuato da parte dell’Unione. Senza dimenticare i nodi politici ancora da sciogliere.Si sono dati appuntamento a Skopje oggi (1 luglio) i leader dei sei candidati all’ingresso in Ue dei Balcani occidentali – Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – per incontrare la responsabile dell’Allargamento dell’esecutivo comunitario, Marta Kos.Con lei hanno fatto il punto sul Piano di crescita da 6 miliardi di euro, il maxi-strumento di investimenti con cui Bruxelles sta incentivando le riforme pre-adesione in cambio della cooperazione in diversi ambiti (ad esempio finanza, trasporti, turismo, connettività digitale) e l’integrazione delle economie regionali nel mercato unico, per accelerare la convergenza socio-economica coi Ventisette. Lo scorso ottobre, la Commissione ha approvato le agende presentate da cinque cancellerie (tutte tranne Sarajevo, che ha finalizzato il suo programma a fine giugno) e ha dato il via agli esborsi per quattro di loro, mentre sono ancora fermi i soldi per Pristina.Happy to be in Skopje for the Western Balkans leaders’ meeting.Good exchange with @MickoskiHM, whom I thanked for hosting tomorrow’s Summit.Our Growth Plan is already improving lives across the region, but we can do more! Tomorrow will be about delivering more & faster. pic.twitter.com/eleDG9pfbw— Marta Kos (@MartaKosEU) June 30, 2025“Vogliamo aiutare tutti voi a tagliare il traguardo“, ha dichiarato Kos rivolta ai leader dei partner regionali radunati nella capitale macedone. “Le riforme fondamentali che vi stiamo chiedendo non sono facili“, ha concesso: “Toccano le strutture di potere esistenti, sfidano gli interessi inveterati e richiedono una trasformazione profonda della società”. Ma vale la pena imbarcarsi in questo percorso, ha garantito, poiché “i benefici dell’appartenenza all’Ue sono molteplici: la stabilità, la sicurezza, la prosperità per tutti i cittadini”.Durante il vertice, Kos ha esortato i suoi interlocutori a premere sull’acceleratore. “C’è un chiaro consenso tra le capitali europee per l’allargamento in questo momento”, ha dichiarato, ma “la finestra d’opportunità potrebbe non rimanere aperta per sempre“. “Avete già fatto molto”, riconosce la commissaria, “e ora è il momento di accelerare sulla fase di implementazione“.Un secondo rapporto del Berlaymont sulle agende di riforma è atteso nel giro di un paio di settimane, ha annunciato. Un dettaglio importante, visto che i fondi europei verranno erogati integralmente solo una volta che le suddette riforme saranno state tradotte in realtà. E visto pure che il tempo stringe, perché il Piano di crescita sarà attivo solo fino al 2027, dopodiché le risorse rimaste inutilizzate riconfluiranno nel bilancio comunitario.Per il momento, a sentire Kos, il quadro generale è incoraggiante. L’Albania ha aperto tre cluster di negoziati (cioè la metà del totale) nell’ultimo semestre e di questo passo, sostiene, “potremmo aprire tutti i cluster entro la fine dell’anno“. Il Montenegro ha chiuso un altro capitolo la scorsa settimana, la Bosnia-Erzegovina ha finalmente consegnato la sua roadmap per le riforme, e anche la Serbia si sta muovendo collocazione internazionale di Belgrado(per quanto rimangano dubbi sulla ). Al premier kosovaro Albin Kurti la responsabile dell’Allargamento ha chiesto “un sacco di energia” per rilanciare il processo di adesione.L’allargamento dell’Ue nella storia (grafica di Eunews)Al padrone di casa, il primo ministro Hristijan Mickoski, Kos ha segnalato la disponibilità di Bruxelles ad aprire i negoziati sul cluster dei fondamentali non appena Skopje avrà apportato l’ennesima modifica alla Costituzione, come richiesto dalla Bulgaria che, in assenza di progressi da parte macedone, continua a mettersi di traverso sull’adesione della nazione balcanica.La commissaria ha sottolineato “l’importanza della fiducia e della comprensione reciproca“, aggiungendo che “non appena la Macedonia del Nord emenderà la propria Costituzione dovremmo procedere immediatamente con la conferenza intergovernativa senza ulteriori condizioni politiche”. Una frecciatina, nemmeno troppo velata, diretta al governo bulgaro, sulla scia di quella già scoccata dal presidente del Consiglio europeo António Costa lo scorso maggio.Ma rispetto all’ottimismo di Kos e alle sue osservazioni sulla tutela dell’identità nazionale (“l’adesione all’Ue è il modo migliore” per salvaguardarla, dice la commissaria), Mickoski preferisce mantenersi “cauto”. “Negli ultimi tre decenni abbiamo perso molti pezzi della nostra identità, cambiando la nostra bandiera e la Costituzione in diverse occasioni”, lamenta il premier nazionalista, e ora “non abbiamo alcuna garanzia che questa sarà l’ultima concessione che dovremo fare” per disinnescare il veto di Sofia.

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    Georgia, l’appello di società civile e opposizioni: “L’Europa intervenga contro la deriva autoritaria”

    Bruxelles – Non accenna ad arrestarsi la deriva autoritaria in Georgia, dove il partito di governo filorusso sta smantellando la democrazia a suon di leggi liberticide e repressione. Mentre la popolazione, una delle più europeiste tra quelle dei Paesi candidati all’ingresso in Ue, continua a scendere in piazza dallo scorso autunno, si moltiplicano gli appelli rivolti ai vertici comunitari dalla società civile e dalle forze politiche dell’opposizione. Chiedono a Bruxelles di intervenire prima che sia troppo tardi, per salvare la democrazia georgiana e, in prospettiva, la stessa credibilità del progetto europeo.Riporta la data di ieri (17 giugno) un appello firmato congiuntamente da oltre una ventina di associazioni nazionali, europee e globali che esortano l’Ue a darsi da fare per difendere la libertà di stampa nel Paese, finita nel mirino del governo autoritario di Irakli Kobakhidze, leader del partito populista e filorusso Sogno georgiano al potere dal lontano 2012.Senza stampa indipendente non c’è democrazia. Ed è appunto contro i media indipendenti che l’esecutivo di Tbilisi sta conducendo la sua crociata, denunciano i firmatari della lettera aperta, 24 organizzazioni e associazioni per la tutela della libertà di stampa e dei diritti umani tra cui spiccano il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), la Federazione europea dei giornalisti (Efj), Reporter senza frontiere (Rsf) e il Progetto di investigazione sulla corruzione e il crimine organizzato (Occrp).Il primo ministro georgiano Irakli Kobakhidze (foto: Irakli Genedidze/Afp)“I media indipendenti subiscono pressioni senza precedenti e sono ormai sull’orlo del baratro“, si legge nel comunicato, in cui si sottolinea che “i giornalisti sono sempre più spesso oggetto di arresti, aggressioni fisiche, multe arbitrarie, censura e repressione finanziaria e istituzionale“. Tutto questo, continua la missiva, a seguito dell’approvazione di una serie di provvedimenti liberticidi – come la normativa sugli agenti stranieri e gli emendamenti alle leggi sulle sovvenzioni e sulle trasmissioni radiotelevisive – il cui combinato disposto fa sì che “i media indipendenti in Georgia potrebbero avere solo pochi mesi prima di essere costretti a chiudere” definitivamente.La censura da parte del partito al potere si traduce non solo in restrizioni al lavoro dei giornalisti, soggetti a pesanti multe per la loro copertura delle proteste antigovernative in corso ininterrottamente da più di 200 giorni (e intensificatesi dopo che Sogno georgiano ha annunciato lo stop dei negoziati di adesione all’Ue). Ma anche in aggressioni verbali e fisiche, campagne diffamatorie, azioni legali strumentali e, in almeno una dozzina di casi, in arresti arbitrari.Dei protestanti sulle barricate a Tbilisi, nella notte tra l’1 e il 2 dicembre 2024 (foto: Giorgi Arjevanidze/Afp)Tra tali incarcerazioni, a destare più scalpore è stata sicuramente quella di Mzia Amaglobeli, fondatrice e direttrice di due importanti pubblicazioni indipendenti georgiane. Poco dopo essere finita dietro le sbarre lo scorso gennaio, ha avviato uno sciopero della fame per protestare contro quello che ritiene un arresto politicamente motivato.In parallelo all’appello delle associazioni giornalistiche, una delegazione di rappresentanti delle forze politiche dell’opposizione si è recata negli scorsi giorni a Bruxelles per perorare la causa di una Georgia democratica direttamente con membri e funzionari delle istituzioni comunitarie.Ai vertici Ue chiedono di promuovere e sostenere la ripetizione delle elezioni dello scorso ottobre, che gli osservatori hanno denunciato come truccate, e di esercitare una pressione costante sul governo e sul presidente della Repubblica, Mikheil Kavelashvili, insediatosi a fine dicembre ma ritenuto illegittimo dagli oppositori di Sogno georgiano (inclusa l’ex capo dello Stato, Salomé Zourabichvili, che esattamente sei mesi fa a Strasburgo rivolgeva agli eurodeputati i medesimi appelli).L’ex presidente della Georgia Salomé Zourabichvili si rivolge ai suoi sostenitori mentre pronuncia il suo ultimo discorso nel cortile di palazzo Orbeliani a Tbilisi, il 29 dicembre 2024 (foto: Giorgi Arjevanidze/Afp)Anche tramite sanzioni, se serve: che però richiedono l’unanimità e sono già saltate in passato a causa del veto dell’Ungheria. Il rischio, avvisano, è che se l’Europa fallirà a mettere in campo il proprio “potere normativo”, la Georgia reciderà progressivamente i suoi legami con l’Occidente per riorientarsi strategicamente verso potenze revisioniste come Russia, Cina e Iran.Il piccolo ma strategico Stato del Caucaso meridionale pareva vicino all’ingresso nel club a dodici stelle finché, a partire dalla primavera dell’anno scorso, Sogno georgiano ha impresso una brusca svolta alla traiettoria (geo)politica di Tbilisi, portandola sempre più lontana da Bruxelles e sempre più vicina a Mosca. Da un lato l’adozione di leggi liberticide, fotocopie di analoghi provvedimenti in vigore nella Russia di Vladimir Putin.Dall’altro, la repressione sistematica e violenta del dissenso democratico, che passa attraverso il silenziamento delle opposizioni, delle voci mediatiche indipendenti e in generale dell’intera società civile, dalle ong ai singoli cittadini (colpiti rispettivamente dalla cosiddetta legge sugli agenti stranieri e dalle restrizioni che si applicano alle proteste).Nonostante l’evidente deterioramento della democrazia e dello Stato di diritto, tuttavia, l’Ue non ha saputo esercitare pressioni politiche sufficientemente forti sulla dirigenza georgiana all’infuori di misure cosmetiche come la sospensione dei visti diplomatici per i funzionari governativi. Vuoto totale anche nel contesto di iniziative che, come la fumosa strategia per il Mar Nero, dovrebbero teoricamente servire a Bruxelles per proiettare il proprio soft power in quel quadrante strategico sia tramite accordi economici sia attraverso il rilancio del processo di allargamento.Da un anno, per Tbilisi quel processo è de facto congelato e non pare prossimo a sbloccarsi. Gli sviluppi degli ultimi mesi, durante i quali la situazione non ha fatto che incancrenirsi ulteriormente, non lasciano intravedere alcuna luce in fondo al tunnel. Anzi, nel tunnel, il buio si infittisce ogni giorno di più.

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    Serbia, il presidente filorusso Aleksandar Vučić per la prima volta in Ucraina

    Bruxelles – Colpo di scena tra i Balcani occidentali e l’Ucraina. Uno dei principali alleati europei di Vladimir Putin, il presidente serbo Aleksandar Vučić, ha partecipato a sorpresa ad un summit a Odessa, incontrando l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky nella sua prima visita ufficiale nel Paese. Potrebbe trattarsi di un tentativo di riposizionare Belgrado sullo scacchiere internazionale, più lontano da Mosca e più vicino a Bruxelles?L’annuncio, diffuso dall’ufficio della presidenza serba, ha colto tutti di sorpresa. Aleksandar Vučić si è recato oggi (11 giugno) a Odessa per una visita ufficiale di un giorno, mettendo piede in Ucraina per la prima volta da quando è salito al potere nel lontano 2012. L’autoritario leader balcanico ha partecipato ad un summit organizzato da Kiev che riunisce una dozzina di Paesi dell’Europa sud-orientale.Tra gli altri, erano presenti nella città portuale – colpita nelle scorse ore dall’ennesimo bombardamento russo – anche il neo-eletto presidente romeno Nicușor Dan, la presidente moldava Maia Sandu, il premier greco Kyriakos Mitsotakis e quello croato Andrej Plenković. Nessun invito, invece, per i rappresentanti del Kosovo: probabilmente un gesto di buona fede da parte ucraina nei confronti di Belgrado, che non riconosce l’indipendenza di Pristina.Grateful to all the leaders and partners who came together in Odesa for the Fourth Ukraine–Southeast Europe Summit.@sandumaiamd, @JakovMilatovic, @NicusorDanRO, @avucic, @R_JeliazkovPM, @AndrejPlenkovic, @kmitsotakis, @elisaspiropali, @IzetMexhiti, @tfajonYour presence sends… pic.twitter.com/Q58VCl0hdK— Volodymyr Zelenskyy / Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) June 11, 2025Secondo diversi osservatori, la comparsata a Odessa andrebbe letta come un segnale politico del leader serbo, che starebbe cercando di riposizionare il suo Paese un po’ più lontano dalla Russia e un po’ più vicino all’Ue. Vučić si era finora destreggiato in un complicato equilibrismo tra Mosca e Bruxelles, che non sembrava averlo ancora messo in particolare difficoltà.Uno dei più solidi alleati europei di Vladimir Putin (col quale ha celebrato l’80esimo anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista lo scorso 9 maggio), il presidente serbo mantiene con la Federazione profondi legami economici, energetici, strategici e storico-culturali.Per non alienarsi il Cremlino, sta cercando di restare “neutrale” rispetto alla guerra d’Ucraina: non ha aderito alle sanzioni dell’Ue contro Mosca (è in arrivo il 18esimo pacchetto) e fornisce aiuti umanitari (ma non militari) a Kiev, mentre alle votazioni in sede Onu si è ripetutamente schierato a favore dell’integrità territoriale del Paese aggredito, evitando di riconoscere la Crimea e le altre oblast’ parzialmente occupate come territorio russo de jure.Eppure, negli ultimi giorni il rapporto tra Mosca e Belgrado pare essersi improvvisamente incrinato. A fine maggio, l’intelligence russa ha accusato la Serbia di aver inviato armi a Kiev tramite triangolazioni con Paesi Nato come Bulgaria, Cechia e Polonia e altri intermediari africani, arrivando a parlare di una “pugnalata alle spalle” da parte del tradizionale alleato balcanico. La Serbia, come la Russia, è storicamente avversa alla Nato, avendone subito i bombardamenti nel 1999.Il presidente russo Vladimir Putin durante le celebrazioni per l’80esimo anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista, il 9 maggio 2025 a Mosca (foto: Vyacheslav Prokofyev/Sputnik via Afp)D’altra parte, almeno sulla carta, Vučić punta a portare Belgrado dentro il club a dodici stelle. Ma sul percorso verso l’adesione pesano – o erano pesate fin qui – sia la gestione sempre più autoritaria del potere da parte sua (a partire dalla repressione delle oceaniche proteste che stanno scuotendo il Paese da mesi) sia l’imbarazzante vicinanza con lo zar russo, nonostante i silenzi di António Costa e di Kaja Kallas.Attualmente, sono aperti 22 capitoli negoziali su un totale di 33 e un paio sono stati chiusi provvisoriamente, ma il processo è in naftalina da qualche anno. Nello specifico, i problemi sarebbero legati all’apertura del cluster 3 (crescita inclusiva), poiché i Ventisette non ritengono soddisfacente la situazione dello Stato di diritto, inclusi il contrasto alla corruzione, l’indipendenza della magistratura e la libertà dei media.La verità, ad ogni modo, è che l’avvicinamento della Serbia all’Ue – parallelamente all’allontanamento dalla Russia – è nell’interesse strategico di Bruxelles. È probabilmente ancora presto, tuttavia, per dire se siamo di fronte ad un riallineamento della politica estera di Belgrado, che comporterebbe l’abbandono di alleanze decennali da parte di Vučić, peraltro senza una prospettiva concreta di adesione.

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    Moldova, l’adesione è sempre più vicina. Ma la Russia rimane una minaccia esistenziale

    Bruxelles – La Moldova si muove a passi da gigante verso l’adesione al club a dodici stelle. Ma non deve mollare la presa sulle riforme, se vuole aprire nei prossimi mesi i primi capitoli negoziali. E, soprattutto, deve continuare a difendersi dalle interferenze russe. A partire da quelle tramite cui, con ogni probabilità, il Cremlino tenterà di far deragliare le elezioni parlamentari in programma per il prossimo settembre, ripetendo un copione già andato in scena lo scorso autunno.“La Moldova ha fatto buoni progressi nel suo percorso verso l’Ue“, ha certificato oggi pomeriggio (4 giugno) l’Alta rappresentante Kaja Kallas durante una conferenza stampa congiunta al termine della nona riunione del consiglio d’associazione Ue-Moldova. Nello specifico, ha sottolineato, ci sono stati “progressi impressionanti nel contrasto alla corruzione, nell’avanzamento della riforma giudiziaria e nella tutela dei valori democratici“.Certo, ha concesso, “le riforme rimangono essenziali per mantenere il ritmo”, ma nessuno a Bruxelles o a Chisinau nutre seri dubbi sulle capacità del piccolo Paese balcanico di realizzarle. “La Moldova appartiene all’Europa“, ha scandito il capo della diplomazia comunitaria. Il mese prossimo si terrà il primo summit di alto livello Ue-Moldova, durante il quale si discuterà tra le altre cose di energia, digitale ed istruzione.Da sinistra: il primo ministro moldavo Dorin Recean, l’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas e la commissaria all’Allargamento Marta Kos (foto: Consiglio europeo)La commissaria all’Allargamento, Marta Kos, parla addirittura di “velocità record“, e non esclude che Chisinau possa arrivare ad aprire tutti e 33 i capitoli negoziali entro la fine dell’anno, come vorrebbe il primo ministro moldavo Dorin Recean. Sulla carta, non è impossibile. Secondo gli esperti, Chisinau si muove ad un ritmo doppio rispetto agli altri Paesi candidati e tutto il lavoro tecnico potrebbe essere completato entro la fine del 2027.Per il premier, “l’adesione all’Ue non è più solo un sogno, ma sta avendo luogo di fatto“. La Commissione, come ricordato da Kos, ha già inoltrato agli Stati membri tre relazioni – una sul primo cluster (fondamentali), una sul secondo (mercato interno) e una sul sesto (relazioni esterne) – e si aspetta ora dal Consiglio una decisione sull’apertura dei primi capitoli negoziali “il prima possibile”.Di fatto, Chisinau gode già degli effetti dell’integrazione graduale. Secondo questo approccio, Bruxelles permette ai cittadini dei Paesi candidati di sperimentare in anticipo i benefici dell’adesione all’Ue, prima ancora che entrino effettivamente nel club, estendendo alcune delle politiche interne (soprattutto quelle relative al mercato unico).Great to meet HRVP @kajakallas ahead of the EU–Moldova Association Council & thank for the great support we receive for Moldova’s reform progress,regional security & the EU integration path.Together, we’re building a future rooted in resilience, democracy & a shared EU destiny. pic.twitter.com/jYH7jz8uYq— Dorin Recean (@DorinRecean) June 4, 2025Nel caso della Moldova, sono all’opera almeno tre strumenti di questa strategia: il Piano di crescita da 1,9 miliardi di euro stipulato il mese scorso per sostenere lo sviluppo infrastrutturale (la cui prima tranche dovrebbe arrivare nel giro di qualche settimana), l’estensione allo Stato balcanico dell’area unica per i bonifici in euro – meglio nota con l’acronimo inglese Sepa – e la possibilità di partecipare al fondo Safe da 150 miliardi per il riarmo del Vecchio continente, attraverso l’acquisto congiunto o la produzione di armamenti per i Paesi partecipanti.Ma il percorso verso l’Ue non è tutto rose e fiori, specialmente per chi ha gravitato nell’orbita dell’Unione sovietica. Il Cremlino ha varie armi a sua disposizione per tentare di impedire a nuovi Stati di avvicinarsi all’Ue. Una di queste è il ricatto energetico. Lo scorso inverno, Bruxelles ha messo in campo una strategia biennale per proteggere la sicurezza energetica della Moldova.Inoltre, Chisinau deve proteggersi dalle interferenze russe nei suoi processi democratici, come quelle registrate lo scorso autunno in occasione delle presidenziali, poi vinte dall’europeista Maia Sandu, e del referendum che ha portato all’inclusione in Costituzione dell’obiettivo di aderire all’Ue.La presidente della Moldova, Maia Sandu (foto: Daniel Mihaliescu/Afp)Il prossimo settembre, gli elettori saranno chiamati a rinnovare il Parlamento nazionale. Secondo Kallas, quell’appuntamento con le urne “sarà uno dei bersagli principali della guerra ibrida di Mosca“,  che ricorrerà probabilmente ad “una ragnatela di soldi, contenuti online e coercizione per cercare di influenzare il voto”. Bruxelles offrirà tutto il sostegno possibile a Chisinau, ha assicurato l’ex premier estone: una missione civile e una squadra di esperti per smantellare le reti di finanziamento illecito, nonché un team di contrasto alle minacce ibride. Basterà?A sentire Recean, il Cremlino starebbe puntando a truccare le elezioni per installare a Chisinau un governo fantoccio filorusso che acconsenta all’invio di “10mila soldati” di Mosca in Transnistria. L’obiettivo della Federazione sarebbe quello di provocare una “crisi umanitaria” nella regione secessionista e “usarla contro l’Ucraina e la Romania“.

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    Allargamento, Costa difende la Macedonia (e punzecchia la Bulgaria): “Si metta in pratica quanto pattuito”

    Bruxelles – Il penultimo stop del tour di António Costa nei Balcani occidentali è la Macedonia del nord. Il presidente del Consiglio europeo l’ha visitata stamattina (15 maggio), per ribadire al premier Hristijan Mickoski il proprio impegno personale a portare a termine il processo di adesione di Skopje all’Unione europea. Ma, come sottolineato dal padrone di casa, a bloccare il percorso della piccola nazione verso il club a dodici stelle c’è soprattutto l’ostruzionismo della Bulgaria, rispetto al quale lo stesso Costa è parso insofferente.Con un ritardo di un’ora abbondante (dovuto ad un bilaterale “esteso ma molto costruttivo”), il presidente del Consiglio europeo António Costa e il primo ministro macedone Hristijan Mickoski hanno tenuto una breve conferenza stampa congiunta nella tarda mattinata di oggi. Il socialista portoghese si è congratulato col leader conservatore per “l’eccellente lavoro compiuto dalla Macedonia del nord e dal vostro governo sull’agenda delle riforme” e per i progressi fatti fin qui, a cominciare dall’allineamento con la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione (Pesc).Ora serve “tirare dritto con le riforme” e sfruttare l’opportunità di “concludere investimenti strategici”, ha aggiunto Costa, notando che Skopje e Bruxelles “si stanno già avvicinando” come dimostrato dal partenariato sulla difesa e la sicurezza stipulato lo scorso novembre. Il processo d’adesione “è una maratona, non uno sprint”, ha tuttavia segnalato Costa, esortando il suo interlocutore a “mantenere la rotta” e a tenere duro attraverso un “sentiero che può essere impegnativo“.Il primo ministro della Macedonia del nord, Hristijan Mickoski (foto: Robert Atanasovski/Afp)Una frase profetica, e una nota dolente per il padrone di casa. Il quale non ha perso l’occasione per puntare il dito contro la vicina Bulgaria, che da tempo si è messa di traverso bloccando di fatto il cammino macedone verso l’Unione. “Stiamo camminando lungo il più difficile dei sentieri“, ha ammesso Mickoski, per poi chiedersi se “stiamo realmente camminando” poiché, ha lamentato, “siamo nello stesso punto dove ci trovavamo 20 anni fa“.“Siamo convinti che il futuro dei cittadini macedoni sia all’interno della famiglia europea“, ha detto, rimarcando tuttavia che il suo Paese merita di essere trattato “dignitosamente” sia da candidato sia, eventualmente, da membro dell’Ue. “Abbiamo un problema con la Bulgaria e vogliamo risolverlo“, certifica il premier, “ma è una strada a due corsie” e, sostiene, solo una delle due parti si sta realmente impegnando per fare passi avanti.“Abbiamo fatto molto per entrare in Ue“, ha ribadito Mickoski riferendosi alle varie modifiche apportate nel corso degli anni alla Costituzione, alla bandiera e al nome stesso del Paese, aggiungendo di essere disposto “a sedermi al tavolo, discutere e trovare una soluzione“. Ma per ora, dice, non si vede a Sofia una disponibilità analoga. “Il processo d’integrazione dovrebbe essere guidato dai valori e non dai negoziati bilaterali”, ha concluso, sostenendo di non poter “modificare per l’ennesima volta la Costituzione sapendo che uno Stato membro mette in discussione la nostra identità nazionale“.Da Costa è arrivata una sponda. “Questo processo è durato troppo, ora è il momento dei risultati“, ha concordato, sottolineando che tanto la Macedonia quanto la Bulgaria devono mettere in pratica i contenuti dell’accordo raggiunto nel luglio 2022. Quel patto prevedeva il riconoscimento della minoranza bulgara da parte della Macedonia (che aveva modificato la Carta fondamentale) e la rimozione del veto di Sofia all’accesso di Skopje.Il presidente del Consiglio europeo, António Costa (foto: European Council)Ma il perdurare dell’opposizione bulgara aveva portato, lo scorso autunno, ad un rallentamento dei negoziati di adesione. “Ciò che è stato concordato è stato concordato“, ha tagliato corto il presidente del Consiglio europeo, “e bisogna assicurarsi che nessuno chieda ora qualcosa in più di quanto già pattuito“. Chi doveva intendere, intenda.Quella di Skopje è la quinta tappa del tour balcanico di Costa. Negli scorsi giorni, ha fatto quattro visite in altrettanti Paesi della regione: martedì in Serbia (dove ha incontrato il presidente Aleksandar Vučić, fresco di un viaggio alla corte di Vladimir Putin) e Bosnia-Erzegovina, ieri in Montenegro (per congratularsi dei progressi “impressionanti” di Podgorica verso l’adesione) e a Pristina, la capitale del Kosovo (che pure non è riconosciuto, ad oggi, da cinque Stati membri su 27).La destinazione finale di Costa è Tirana, verso cui si sta dirigendo in queste ore. Lì, l’ex premier portoghese incontrerà domani (16 maggio) i leader di una quarantina di Paesi del Vecchio continente in occasione del sesto summit della Comunità politica europea per discutere di sicurezza, competitività, migrazione e democrazia.