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    L’UE sanziona il numero due delle RSF per le atrocità in Sudan. E chiede lo stop alla consegna di armi

    Bruxelles – L’Unione europea batte un colpo sul conflitto in corso in Sudan e sulle “gravi e continue atrocità perpetrate dalle Forze di sostegno rapido (RSF)”: i ministri degli Esteri dei 27 hanno adottato oggi misure restrittive nei confronti di Abdelrahim Hamdan Dagalo, numero 2 dell’esercito che si oppone alla capitale Khartoum. Nessun taglio però con gli Emirati Arabi Uniti, che alimentano la mattanza rifornendo di armi – anche quelle che Abu Dhabi compra dall’UE – le RSF e le altre milizie ribelli. “Esortiamo tutti gli attori esterni ad adottare le misure necessarie per porre fine alla vendita o alla fornitura di armi e materiale connesso a tutte le parti”, è l’appello di Kaja Kallas, Alta rappresentante per gli Affari esteri UE.Dopo la terribile conquista di El Fasher, a fine ottobre, da parte delle RSF, i riflettori sulla guerra civile in Sudan si sono riaccesi. Diciotto mesi di assedio alla città capoluogo del Darfur settentrionale, segnati da attacchi deliberati contro i civili, uccisioni per motivi etnici, esecuzioni sommarie, violenze sessuali e di genere sistematiche, hanno risvegliato le coscienze della comunità internazionale. Nel conflitto, scoppiato due anni e mezzo fa, sono rimaste uccise 50 mila persone e oltre 14 milioni di civili sono stati sfollati.L’Alta rappresentante per gli Affari esteri, Kaja Kallas, in conferenza stampa (20/11/25)L’UE si è detta “pronta a imporre ulteriori misure restrittive a tutti gli attori responsabili della destabilizzazione del Sudan e dell’ostacolo alla sua transizione politica”. Nel gennaio del 2024, l’Unione aveva già predisposto sanzioni per sei entità responsabili della produzione e approvvigionamento di armi per le parti in conflitto.In una nota a nome dei 27 Paesi membri, Kallas ha annunciato che Bruxelles “intensificherà il sostegno alla documentazione e alle indagini“, svolte in particolare dalla Corte penale internazionale e dalla missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite, “sui crimini commessi dalla RSF, dalla SAF (Le Forze armate sudanesi) e dai loro associati”.Pochi giorni fa, l’ambasciatore sudanese presso l’UE aveva avvertito del rischio che armi di fabbricazione europea stessero finendo sui campi di battaglia e alimentando le atrocità della guerra civile. Secondo diversi report, gli Emirati Arabi Uniti starebbero foraggiando le RSF con armi vendute ad Abu Dhabi anche da Paesi europei. A margine della riunione, Kallas ha confermato che “tutti i ministri intervenuti oggi hanno fatto riferimento a chi sostiene le parti in guerra”. I 27 avrebbero concordato “di avviare un’azione diplomatica nei confronti di quei Paesi”.Nella nota, il capo della diplomazia europea ha aggiunto: “Esortiamo tutti gli attori esterni ad adottare le misure necessarie per porre fine alla vendita o alla fornitura di armi e materiale connesso a tutte le parti, in conformità con l’embargo sulle armi stabilito dalle risoluzioni 1556 e 1591 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”.

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    Sul tavolo per il futuro di Gaza la carta dell’UE si chiama Autorità Palestinese

    Bruxelles – Domani (20 novembre) si terrà a Bruxelles la prima riunione del Gruppo di donatori per la Palestina, un’iniziativa annunciata da Ursula von der Leyen a settembre e che ora – alla luce della risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU sul piano di pace per Gaza – acquisisce una nuova centralità. La conferenza non raccoglierà nuovi impegni finanziari, né si concentrerà sulla ricostruzione della Striscia. Sarà invece, spiegano funzionari europei, una “piattaforma per l’Autorità Palestinese”.Ramallah potrà fare il punto sul suo percorso di riforma, elemento chiave per un futuro passaggio di consegne nel governo di Gaza e per la fondazione di uno Stato palestinese. “Finora l’Autorità Palestinese (AP) non ha avuto la possibilità di esprimersi”, sottolineano a Bruxelles. Il piano trumpiano è stato partorito senza coinvolgere Ramallah, così come la risoluzione ONU redatta da Washington e avallata dai Paesi arabi.In questo passaggio, previsto nel penultimo dei 20 punti del piano di pace, l’Unione europea rivendica un ruolo centrale, forte di un “partenariato unico” con l’AP, consolidato lo scorso aprile con un pacchetto da 1,6 miliardi di euro in tre anni vincolato all’attuazione di una serrato programma di modifiche istituzionali, amministrative, finanziarie. La riforma dell’Autorità Palestinese “è un esercizio in comproprietà”, rivendicano fonti UE, e Bruxelles è “il miglior attore per accompagnare l’AP in questo processo”.Il premier palestinese, Mohammad Mustafa, terrà una conferenza stampa congiunta con la commissaria UE per il Mediterraneo, Dubravka Suica. Sono attese a Bruxelles una sessantina di delegazioni, “tra le 20 e 25” a livello di ministri. Israele non è tra gli invitati, e “ci sono indicazioni che non avrebbero partecipato”, ammette un funzionario UE. D’altronde, nonostante il sostegno di massimo ribadito da Benjamin Netanyahu al piano di pace, persiste la “riluttanza” di Tel Aviv per il ruolo dell’Autorità Palestinese. Non è stata invitata nemmeno Francesca Albanese, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati, a Bruxelles in questi giorni per una serie di eventi. Ma Albanese incontrerà la Commissione europea “a livello della DG Mena (la direzione generale per il Medio Oriente, il Nord Africa e il Golfo, ndr)”, ha annunciato un funzionario.Il voto sul piano per Gaza al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Photo by ANGELA WEISS / AFP)L’Unione europea, contemporaneamente, cerca di sviluppare la sua azione su altri binari. È presente nel centro di coordinamento civile-militare (CMCC), istituito in Israele e guidato dagli Stati Uniti, che si occupa di supervisionare il piano di pace e darne seguito. Della struttura fanno parte 200 funzionari – “quasi tutti militari”, spiegano le fonti -, incluso un team UE di 10 persone, con un diplomatico di alto livello, Christian Berger, del Servizio europeo di Azione esterna.Bruxelles tiene viva la possibilità di rilanciare le due missioni già dispiegate in passato nella regione: EUBAM Rafah, con cui facilita il transito di persone e merci al valico meridionale tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, e EUPOL COPPS, l’operazione di addestramento delle forze di polizia palestinesi in Cisgiordania. L’UE punta ad allargare il mandato dei quest’ultima missione, per poter formare “almeno 3 mila” poliziotti della Striscia: “Sarà necessario stabilizzare Gaza con una forte forza di polizia – spiega un funzionario -, ci sono 7 mila poliziotti a Gaza, che sono ancora pagati dall’Autorità nazionale palestinese e, tra questi, circa 3mila potrebbero essere addestrati”. L’addestramento verrebbe effettuato fuori dall’exclave palestinese: “Stiamo discutendo con alcuni Paesi vicini”, confermano le fonti.Su altri due punti cruciali del piano di Trump, che dovranno prendere forma in questa “fase due”, molti dettagli restano ancora ignoti. Le Forze di Stabilizzazione Internazionale, il contingente militare che dovrà garantire la tenuta del cessate il fuoco e la sicurezza a Gaza in un primo momento, non faranno capo alle Nazioni Unite. E del Peace Board, l’organo che amministrerà fino al passaggio di consegne con l’Autorità Palestinese, l’unico nome che si conosce è quello di Trump, che lo presiederà. “Per il momento non ne facciamo parte, ma nessuno ne fa parte”, precisano le fonti. E “ovviamente pensiamo l’UE dovrebbe farne parte, dato il contributo che possiamo apportare al piano”.

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    Il Mercosur agita l’Europarlamento: il ‘no’ dei servizi al parere della Corte di giustizia scatena l’ira dei deputati

    Bruxelles – Accordo di libero scambio UE-Mercosur, la questione della compatibilità giuridica con i trattati dell’Unione europea provoca una battaglia tutta politica in seno al Parlamento europeo. La richiesta di verifica dell’intesa siglata a fine 2024 non verrà inoltrata alla Corte di giustizia europea perché i servizi dell’Eurocamera non ritengono sussistano le condizioni per farlo. Così denunciano i componenti del gruppo parlamentare informale sul Mercosur, che criticano quelle che definiscono “un’ingerenza politica all’interno dell’amministrazione del Parlamento europeo per facilitare l’adozione di un accordo commerciale”.A scoperchiare il vaso di Pandora i parlamentari Krzysztof Hetman e Céline Imart (PPE), Chloé Ride e Jean-Marc Germain (S&D), Benoît Cassart e Ciaran Mullooly (Renew), Majdouline Sbai e Saskia Bricmont (Verdi), Manon Aubry e Lynn Boylan (laSinistra). Sono loro a far sapere che i servizi del Parlamento non hanno voluto chiedere alla Corte di giustizia le verifiche dei testi dell’accordo commerciale “poiché il Consiglio non aveva ancora presentato la richiesta di approvazione del Parlamento”. Secondo gli europarlamentari però nella procedura prevista dall’articolo 218 del Trattato sul funzionamento dell’UE, “non si fa alcun riferimento al fatto che un’istituzione sia vincolata a un’altra per chiedere tale parere” ai giudici di Lussemburgo.Non finisce qui. Secondo il gruppo informale Mercosur la richiesta di 145 parlamentari non può essere scavalcata dai funzionari. E’ vero che la possibilità per la commissione parlamentare competente o almeno un decimo dei membri che compongono il Parlamento di proporre un parere alla Corte di giustizia sulla compatibilità di un accordo internazionale con i Trattati è prevista dall’articolo 117 del Regolamento del Parlamento europeo, ma “in ogni caso – denunciano gli esponenti dei gruppi parlamentari – la prerogativa del Parlamento conferita dai Trattati non può essere limitata da un’interpretazione delle nostre norme interne, poiché queste ultime sono inferiori nella gerarchia delle norme“.C’è poi poiché il precedente relativo all’adesione dell’Unione europea alla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Il 4 aprile 2009 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione chiedendo un parere alla Corte di giustizia dell’UE sulla compatibilità con i Trattati, prima che il Consiglio inviasse i documenti relativi alla procedura di approvazione. Insomma, per gli europarlamentari “non vi è alcuna base giuridica per giustificare” la negazione di chiedere un parere alla Corte. Il Mercosur dunque divide il Parlamento, e scatena una battaglia tutta interna all’istituzione.

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    L’UE saluta la risoluzione ONU sul piano di Gaza. Albanese: “Non conforme al diritto internazionale”

    Bruxelles – La risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che ha sostanzialmente avallato il piano di pace per Gaza è “un passo importante per porre fine al conflitto”. Oppure, “non è conforme al diritto internazionale”. Da un lato il commento della Commissione europea – e della maggior parte della comunità internazionale, comprese Israele e l’Autorità palestinese -, dall’altro l’avvertimento della relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese. Che dal Parlamento europeo rilancia l’attacco alle istituzioni comunitarie, la “foglia di fico” dietro cui si nascondono gli Stati membri nella loro complicità al genocidio del popolo palestinese.Ieri sera, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione redatta dagli Stati Uniti che sostiene il piano di pace di Donald Trump. Ci sono stati 13 voti a favore del testo, solo Russia e Cina astenute e nessun veto. La risoluzione autorizza la creazione di una forza internazionale di stabilizzazione (ISF) che collaborerebbe con Israele, Egitto e la polizia palestinese per garantire la sicurezza delle zone di confine e la smilitarizzazione della Striscia di Gaza. E appoggia inoltre la formazione di un Peace Board, un organo di governo transitorio per Gaza presieduto dallo stesso Trump, con un mandato fino alla fine del 2027.Assente nelle bozze, il testo finale include il riferimento a una Palestina indipendente, ad un vago percorso verso un futuro Stato di Palestina, il prezzo pagato da Washington per ottenere il sostegno del mondo arabo e islamico alla risoluzione. Una volta che l’Autorità palestinese avrà attuato le riforme richieste, “potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese”, afferma il testo.Il voto su Gaza al Consiglio di sicurezza dell’ONU (Photo by ANGELA WEISS / AFP)“Questo voto passerà alla storia come una delle più grandi approvazioni nella storia delle Nazioni Unite”, ha immediatamente rivendicato Trump. L’Autorità nazionale Palestinese ha “accolto con favore” la risoluzione, che “protegge il nostro popolo nella Striscia di Gaza, ne impedisce la deportazione, assicura il pieno ritiro delle forze di occupazione, consente la ricostruzione, sblocca la soluzione dei due Stati e impedisce l’annessione”. D’altra parte, Hamas ha respinto il testo, perché “qualsiasi forza internazionale, se istituita, deve essere dispiegata solo ai confini per separare le forze, monitorare il cessate il fuoco e deve essere completamente sotto la supervisione dell’ONU”.In Israele, il presidente Isaac Herzog e il premier Benjamin Netanyahu hanno accolto positivamente il voto. Netanyahu, in un post su X, ha affermato che il piano di Trump “è positivo per la pace e la prosperità perché include il completo disarmo e la deradicalizzazione della Striscia”. Ma sulla possibilità di veder sorgere uno Stato palestinese, il primo ministro – su cui pende un mandato di cattura internazionale – ha ribadito che l’opposizione di Israele “non è cambiata di una virgola”.Oggi, la Commissione europea ha dato il suo endorsement: il portavoce responsabile degli Affari esteri, Anouar El Anouni, ha affermato che “la risoluzione fornisce la base per passare alla fase successiva, compresi i lavori relativi alla forza internazionale di stabilizzazione e al Consiglio per la pace”. Un Peace Board, quest’ultimo, da cui l’Unione europea non vuole rimanere esclusa.Da qui prende le mosse il j’accuse di Francesca Albanese, al Parlamento europeo per una conferenza sulla ‘Palestina, il diritto internazionale e il ruolo dell’Europa’. Per la relatrice speciale delle Nazioni Unite, che per prima denunciò il genocidio in atto a Gaza e per questo è stata colpita da sanzioni dall’amministrazione USA, le richieste dell’UE di un maggior ruolo nell’amministrazione temporanea della Striscia “sono una vergogna coloniale”. Invece che voler stare al tavolo delle trattative “in questo modo rapace, da avvoltoi”, l’Unione europea avrebbe dovuto “stare al tavolo della discussione quando si poteva prevenire la distruzione di Gaza”.Albanese denuncia l’ipocrisia europea sul sostegno alla soluzione a due Stati, perché la realtà dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e della distruzione della Striscia rende “fatua qualsiasi discussione politica su due Stati”. La risoluzione approvata dall’ONU poi, “non è conforme al diritto internazionale” – denuncia l’esperta delle Nazioni Unite -, che prevede che “Israele lasci la Striscia, la Cisgiordania e Gerusalemme Est ai palestinesi, che smantelli le colonie, ritiri le truppe, smetta di sfruttare le risorse naturale e economiche dei palestinesi”. Oltre al nodo “dell’indennità da pagare per le violenze inflitte ai palestinesi”, completamente assente nel piano trumpiano.

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    L’UE critica Israele per il dossier sulle manifestazioni pro-Pal in Italia: “Contro ogni ingerenza”

    Bruxelles – Le critiche velate a Israele per ingerenze interne negli affari di uno Stato membro dell’UE, i richiami impliciti al governo Meloni per avere consentito di ‘spiare’ i manifestanti pro-Palestina. Il dossier sulle manifestazioni in Italia del 22 settembre diventa un caso, con tanto di interrogazione parlamentare di Mimmo Lucano (AVS/laSinistra) alla Commissione europea, che non può non prendere le distanze da quanto accaduto.L’accaduto risale a settembre, quando sulla scia della mobilitazione generale europea scioperi e manifestazioni vengono indette in Italia per criticare l’operato delle forze israeliane a Gaza in risposta alle offensive di Hamas, manifestazioni su cui il governo israeliano ha redatto un dossier con tutte le informazioni su luoghi di ritrovo e partecipanti attesi. Quattro pagine con i nomi di associazioni, collettivi, e loro origine e provenienza. Per Lucano tutto questo rappresenta “una grave ingerenza straniera negli affari interni di uno Stato membro dell’Unione europea, nonché una potenziale violazione della sovranità italiana e dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in particolare la libertà di espressione e di manifestazione”.Di fronte a questi rilievi l’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Kaja Kallas, risponde ribadendo quali sono i principi cardine alla base del funzionamento dell’UE e la linea della Commissione europea, in quella che si configura come una condanna dai toni blandi. “La Commissione si oppone a qualsiasi tentativo di ingerenza, minaccia o intimidazione straniera sul territorio sovrano degli Stati membri”, dice, senza citare apertamente Israele. Mentre al governo italiano Kallas ricorda che “la libertà di riunione è un diritto fondamentale sancito dall’articolo 12 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che, insieme alla libertà di espressione e alla libertà e al pluralismo dei media sanciti all’articolo 11, costituisce la base di una società libera, democratica e pluralista”.La sottolineatura di Kallas non sembra essere casuale, poiché, questa almeno la tesi sostenuta da Lucano, le autorità di Israele avrebbero raccolto e diffuso informazioni sulle manifestazioni organizzate in Italia a sostegno della popolazione palestinese con l’aiuto delle autorità italiane. Intanto Kallas, nel ricordare i fondamenti dell’UE, opera una tirata d’orecchi ai governi di Roma e Tel Aviv.

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    Zelensky a Parigi sigla un’intesa “storica” per l’acquisto di caccia, droni e sistemi antiaerei

    Bruxelles – Prosegue il nuovo tour europeo di Volodymyr Zelensky. Oggi (17 novembre), il presidente ucraino ha incontrato il suo omologo francese Emmanuel Macron per concordare una nuova cooperazione in ambito di difesa tra Kiev e Parigi, definita “storica” da entrambe le parti. I due leader hanno siglato un memorandum d’intesa per consegnare al Paese aggredito dalla Russia 100 jet da combattimento Rafale F4, fiore all’occhiello dell’aviazione militare transalpina, entro il 2035.Oltre ai velivoli, gli accordi firmati nella base di Villacoublay prevedono anche la fornitura di otto sistemi antiaereo SAMP-T di nuova generazione ancora in fase di sviluppo (la fabbricazione è franco-italiana), droni, missili e apparecchiature radar nonché 55 locomotive. A differenza dei caccia, la consegna di questi prodotti dovrebbe prendere le mosse già entro la fine di quest’anno.Nel pomeriggio, i due capi di Stato hanno visitato il quartier generale della “forza multinazionale” per garantire una potenziale tregua in Ucraina, imbastita nell’ambito della coalizione dei volenterosi sotto l’egida anglo-francese. Con questa intesa “superiamo una nuova tappa nell’integrazione con l’industria bellica ucraina“, ha dichiarato il padrone di casa durante una conferenza stampa congiunta all’Eliseo, riconoscendo il “momento difficile” che il suo ospite sta affrontando in questa fase della guerra.Grand jour.Великий день. pic.twitter.com/YwfGV4d7Ii— Emmanuel Macron (@EmmanuelMacron) November 17, 2025“Spero si riesca a ottenere la pace prima del 2027“, ha aggiunto, sottolineando la necessità di “accrescere la pressione come facciamo attraverso le sanzioni e la lotta contro la flotta fantasma” di Mosca. Macron ha rimarcato che gli accordi odierni guardano alla “rigenerazione dell’esercito ucraino in futuro“, in modo che sia “in grado di scoraggiare qualsiasi nuova incursione” una volta terminate le ostilità. “Questo è un accordo storico e apprezziamo molto il sostegno della Francia“, ha chiosato Zelensky prendendo parola al suo fianco.La differenza con le precedenti visite del leader ucraino è che, stavolta, la situazione in patria è particolarmente difficile. Sul piano militare, le truppe russe sembrano sul punto di prendere Pokrovsk, snodo chiave per il controllo della porzione di Donbass ancora nelle mani di Kiev. Peraltro, l’eventuale conquista della città permetterebbe a Vladimir Putin di dimostrare a Donald Trump che la linea del fronte è tutt’altro che stabile, rendendo più difficile sostenere la necessità di un cessate il fuoco.A livello interno, in queste settimane l’Ucraina è scossa dal più grosso scandalo di corruzione degli ultimi anni, esploso a seguito delle investigazioni di quelle agenzie indipendenti che lo stesso Zelensky aveva cercato di esautorare lo scorso luglio. Allora, la mossa del presidente aveva scatenato partecipatissime proteste di piazza e un’insolita strigliata di capo da parte di Bruxelles. Ora, le rilevazioni su un potenziale giro d’affari illeciti da 100 milioni di dollari hanno avuto come conseguenza il licenziamento di due ministri di punta del governo, e l’allontanamento di uno stretto collaboratore di Zelensky.Del resto, contrasto alla corruzione e tutela dello Stato di diritto sono due criteri chiave per progredire verso l’adesione all’UE. Zelensky ha riconosciuto che le azioni intraprese finora “non sono sufficienti”, promettendo di procedere con le riforme necessarie. L’inquilino dell’Eliseo si è detto “fiducioso” che la controparte ucraina porti avanti questi sforzi, “in particolare per quanto riguarda lo Stato di diritto, la trasparenza, la governance e la lotta alla corruzione“.Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky (sinistra), e quello francese, Emmanuel Macron (foto: Sarah Meyssonnier/Afp)Ieri, nella prima tappa del suo tour, Zelensky era ad Atene. Lì ha stretto un’intesa col premier greco Kyriakos Mitsotakis per la fornitura all’Ucraina di gas naturale liquefatto (GNL) statunitense, che arriva ai terminal ellenici via Mediterraneo. L’accordo sarà operativo dal prossimo dicembre fino al marzo 2026 e, nelle intenzioni dei contraenti, servirà non solo a puntellare l’approvvigionamento di Kiev (le cui infrastrutture sono bersaglio dei quotidiani raid russi) ma anche a rafforzare la sicurezza energetica dell’intera regione, rifornendo anche Paesi senza sbocchi sul mare – e pertanto maggiormente dipendenti dal metano di Mosca – come Slovacchia e Ungheria.Domani, il presidente ucraino sarà in Spagna, dove incontrerà il primo ministro Pedro Sánchez. Madrid ha recentemente deciso di partecipare al programma PURL (acronimo di Prioritised Ukraine Requirements List) della NATO, col quale i membri dell’Alleanza acquisteranno armamenti a stelle e strisce da inviare a Kiev.Nel frattempo, i Ventisette hanno da poco approvato il 19esimo pacchetto di sanzioni contro il Cremlino. Ma non sono ancora riusciti a trovare la quadra sul prestito di riparazione da 130 miliardi per l’Ucraina, che entro il primo trimestre del 2026 si ritroverà a un passo dal default a meno di un’iniezione di liquidità dai partner occidentali. L’esecutivo comunitario sta cercando di convincere le cancellerie a usare gli asset russi congelati per finanziare l’esborso, dal momento che le alternative – una nuova emissione di debito comune o contribuzioni bilaterali degli Stati membri – sono de facto impraticabili.Tuttavia, alcuni Paesi sono estremamente riluttanti a toccare i fondi sovrani di Mosca, per timore delle conseguenze giuridiche e legali (timori sollevati di recente anche dalla Banca centrale europea). Tra i governi nazionali, a puntare i piedi è soprattutto il Belgio, dove ha sede l’agenzia finanziaria Euroclear, detentrice degli attivi russi immobilizzati. Il premier Bart De Wever continua a chiedere misure solide di condivisione del rischio nel caso in cui la Federazione dovesse vincere un appello presso una corte di arbitrato internazionale. Il Consiglio europeo di dicembre dovrebbe essere il momento della verità.

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    Von der Leyen mette sul tavolo tre opzioni per garantire all’Ucraina 130 miliardi nel prossimo biennio

    Bruxelles – Un mese fa, i capi di stato e di governo dell’UE avevano tentennato di fronte alle mostruose necessità economiche dell’Ucraina nel prossimo biennio, e chiesto alla Commissione europea di studiare un ventaglio di opzioni per sostenerla. Oggi (17 novembre), in una lettera spedita alle capitali, Ursula von der Leyen ha messo sul tavolo tre opzioni. Prima, ha incontrato il premier belga, Bart De Wever, per provare a convincerlo che l’unica strada percorribile è quella di utilizzare gli asset congelati (in gran parte in Belgio) della Banca Centrale Russa. L’unica opzione che non graverebbe su bilanci nazionali già compromessi dopo tre anni di conflitto.Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale – e ipotizzando la fine della guerra entro la fine del 2026 -, attualmente Kiev ha da coprire un buco di circa 135,7 miliardi di euro per i prossimi due anni. Un gap da colmare immediatamente, perché l’Ucraina deve essere equipaggiata per “combattere questa sera”, ha sottolineato von der Leyen. Oltre ad essere tempestivo – la decisione va presa al più tardi entro la fine dell’anno -, il sostegno finanziario dovrebbe essere “altamente agevolato”, data “l’attuale situazione di sostenibilità del debito dell’Ucraina”, flessibile, e ripartito equamente tra gli Stati membri e con i partner internazionali.La prima opzione – la più diretta – prevederebbe che gli Stati membri versino sovvenzioni bilaterali all’Unione, che a sua volta procederebbe a un sostegno a fondo perduto all’Ucraina. Un’opzione – evidenzia la Commissione – che “non comporta nuove passività congiunte, non richiede garanzie o indennizzi supplementari”, ma che “ha un impatto immediato sui bilanci degli Stati membri”. Bisognerebbe fissare un obiettivo minimo di sostegno annuale di 45 miliardi di euro, con l’auspicio che i partner del G7 contribuiscano a finanziare il fabbisogno residuo. L’impatto rispettivo per i Paesi UE sarebbe compreso tra lo 0,16 e lo 0,27 per cento del PIL all’anno.Di spalle, Ursula von der Leyen, insieme ai capi di stato e di governo dell’UE al Consiglio europeo [foto: European Council]La strada alternativa è quella tortuosa di ricorrere al debito comune. Questa seconda opzione consisterebbe nella “concessione da parte dell’Unione di un prestito con ricorso limitato finanziato dall’Unione mediante prestiti sui mercati finanziari“, spiega il documento inviato alle cancellerie europee. Un prestito che l’Ucraina rimborserebbe solo nel caso di un risarcimento da parte della Russia, e che si reggerebbe su “garanzie giuridicamente vincolanti, incondizionate, irrevocabili e su richiesta”, fornite e distribuite tra gli Stati membri in base al loro Reddito Nazionale Lordo (RNL). Le capitali dovrebbero ripagarne gli interessi e – “nello spirito di ripartizione degli oneri” – aumentare proporzionalmente i propri contributi se qualcuno tra i 27 decidesse di tirarsi indietro.Anche in questo caso, gli interessi a carico degli Stati membri “inciderebbero direttamente sul loro disavanzo e sul loro debito“. Per non parlare delle stesse garanzie, anch’esse “suscettibili” di gravare sui bilanci nazionali. Una via d’uscita potrebbe essere che il prestito fosse garantito dal margine di manovra del bilancio dell’UE: in quel caso “non si prevederebbe alcun impatto di questo tipo”, rileva la Commissione. Per mettere a bilancio UE 90 miliardi di euro per i prossimi due anni – e la copertura degli interessi – bisognerebbe modificare il regolamento del Quadro Finanziario Pluriennale, che attualmente “non consente di contrarre prestiti per un Paese terzo”.Le barricate che diversi Paesi membri ergerebbero di fronte a queste due opzioni fanno propendere Bruxelles verso la terza e ultima carta, l’asso nella manica, per quanto rischiosa essa sia. Si tratta di un prestito finanziato con gli asset statali russi congelati sul territorio europeo, che ammontano a oltre 200 miliardi di euro. L’opzione è da mesi al vaglio degli esperti legali dell’esecutivo UE: l’Unione europea stipulerebbe un contratto di debito obbligatorio con i depositari centrali di titoli che detengono attività russe immobilizzate in “diversi Stati membri” a tasso zero, per poi prestare il contante all’Ucraina in diverse tranches. Kiev rimborserebbe il prestito solo una volta che la guerra sarà finita e che la Russia avrà pagato le riparazioni. Solo a quel punto, Bruxelles rimborserebbe a sua volta gli istituti finanziari.Bart De Wever e Ursula von der Leyen a palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea, il 14 novembre 2025. (Photo by Nicolas TUCAT / AFP)Il terreno è scivoloso, l’UE rischierebbe “ripercussioni” se il prestito venisse “erroneamente percepito da altri come una confisca”. Dal punto di vista legale, ma anche economico: “Non si può escludere che vi siano potenziali effetti a catena, anche per i mercati finanziari“, ha ammesso ancora von der Leyen, ribadendo al contempo che “la struttura di questa opzione garantisce il pieno rispetto del diritto internazionale in tutti gli scenari”.Ma soprattutto, a livello interno, c’è da superare la strenua opposizione del Belgio, il Paese in cui risiede Euroclear, la società che detiene circa 185 miliardi di Mosca e che sta già utilizzando gli interessi generati da tali asset per sostenere un prestito separato di 45 miliardi di euro per l’Ucraina. Sarebbero gli Stati membri a garantire che l’Unione europea sia in grado di rimborsare Euroclear anche senza ricevere alcun pagamento compensativo da Kiev. “L’esatta portata della copertura del rischio dovrebbe essere definita al fine di garantire la necessaria protezione degli Stati membri esposti, nonché una certezza sufficiente per gli altri Stati membri che forniscono garanzie volontarie”, sottolinea il documento.Inoltre, “in considerazione della necessaria solidarietà tra gli Stati membri, le garanzie potrebbero anche dover coprire i costi e le conseguenze finanziarie derivanti da lodi arbitrali o altre decisioni o procedimenti giudiziari contro uno Stato membro derivanti dal congelamento dei beni sovrani russi”. E il prestito all’Ucraina “dovrebbe essere concepito in modo da preservare la stabilità finanziaria degli istituti finanziari che detengono le attività immobilizzate”.Von der Leyen, e con lei la quasi totalità degli Stati membri – fatta eccezione per chi si oppone in generale a nuovi finanziamenti all’Ucraina -, sperano di scalfire le resistenze belghe, perché quella di ricorrere alle risorse della Banca Centrale Russa è per molte cancellerie l’unica opzione percorribile. Anche perché, a differenza dell’indebitamento sui mercati, le garanzie dei Paesi membri sarebbero in questo caso considerate “come passività potenziali”, senza dunque incidere sui debiti nazionali.

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    L’Albania ha aperto tutti i capitoli di adesione all’UE. Kos: “I prossimi anni il momento della verità”

    Bruxelles – Tirana continua a bruciare le tappe verso l’adesione all’Unione europea. Nel giro di poco più di un anno, ha convinto Bruxelles ad aprire tutti e sei i cosiddetti ‘cluster’ di capitoli negoziali. Oggi (17 novembre), è toccato all’ultimo rimasto, quello relativo ad agricoltura e pesca, sicurezza alimentare e politiche di coesione. “Il vero premio è la loro chiusura – ha avvertito una raggiante Marta Kos, commissaria UE per l’Allargamento -, i prossimi anni saranno il momento della verità“.Il primo ministro albanese, Edi Rama, tiene la barra dritta verso l’orizzonte del 2027, obiettivo fissato per concludere le trattative su tutti i 33 capitoli negoziali. La piena adesione al club a 12 stelle, nei piani di Rama, va ottenuta entro il 2030. Tutto dipende – aveva rilevato solo poche settimane fa la Commissione europea nel rapporto annuale sull’Allargamento – “dal mantenimento dello slancio delle riforme e dalla promozione di un dialogo politico inclusivo”.Marta Kos, commissaria UE per l’Allargamento,17/11/25Lo stesso Rama, a margine della Conferenza intergovernativa di questa mattina, ha sottolineato che “questi anni ci hanno insegnato di non dare mai nulla di scontato a Bruxelles“. L’Albania è ufficialmente un Paese candidato all’ingresso nell’UE da più di un decennio: era il 2014, e Rama guidava già il governo di Tirana. Dopo anni di stallo, “l’ultimo anno è stato fantastico, perché è stato gratificante, ma senza gli anni precedenti che non lo sono stati, quest’anno non sarebbe arrivato”, ha affermato il primo ministro albanese.Dal 15 ottobre 2024, quando è stato aperto il cluster dei cosiddetti ‘Fondamentali’, a dicembre sono state avviate le negoziazioni sulle ‘relazioni esterne’, in primavera quelle su ‘mercato interno’ e ‘competitività e crescita inclusiva’, a settembre ‘agenda verde e connettività sostenibile’. Oggi l’ultimo, il cluster 5, quello su ‘risorse, agricoltura e coesione’.Nell’incontro, la Commissione europea ha fissato i parametri di riferimento per la chiusura provvisoria dei cinque capitoli che appartengono al cluster 5: Sviluppo rurale e agricoltura, Politica di sicurezza alimentare, veterinaria e fitosanitaria, Pesca e acquacoltura, Politica regionale e coordinamento degli strumenti strutturali, Disposizioni finanziarie e di bilancio. “Il prossimo passo per l’Albania è soddisfare i parametri di riferimento intermedi”, ha spiegato Marta Kos. “Non sarà facile, ma avete qualcosa di molto potente a vostro favore: il sostegno pubblico degli albanesi e degli Stati membri“, ha aggiunto. Per prassi, tutti i passi avanti nel percorso di adesione di un Paese candidato vanno avallati all’unanimità dal Consiglio dell’UE.“Faremo tutto il possibile per andare avanti con la stessa intensità, disciplina e impegno, per garantire che questo progetto comune che stiamo costruendo mattone dopo mattone insieme ai nostri partner a Bruxelles e negli Stati membri non si fermi”, ha promesso Rama, che sull’adesione all’UE ha scommesso tutto il capitale politico che gli resta.Nonostante alcune ombre sulla reale salute dello Stato di diritto – incluse l’indipendenza della magistratura e la libertà dei media -, sulla lotta alla corruzione e sulla conduzione opaca delle ultime elezioni politiche, Rama può contare sull’ambizione europea della stragrande maggioranza della popolazione. “Una maggioranza come ai tempi del comunismo – ha affermato il premier -, era lo stesso con l’Impero Ottomano”. Perché l’Albania – ha concluso Rama con una sviolinata a Bruxelles – “è fedele agli impero, e questo (l’UE, ndr) è il primo impero in cui vogliamo stare”. L’impero “dei valori e dei diritti”, l’aveva già definito Rama in passato.