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    Von der Leyen vuole scippare a Kallas l’intelligence europea

    Bruxelles – La Commissione europea ha avviato la creazione di un nuovo organismo di intelligence sotto la presidenza di Ursula von der Leyen. Il leak, diffuso questa mattina dal Financial Times, è già stato confermato da palazzo Berlaymont: il piano c’è, è già più di un’idea, anche se “ancora allo stadio embrionale”. L’obiettivo non è una novità, è quello di migliorare la condivisione e l’utilizzo delle informazioni raccolte dai servizi segreti nazionali. Ma si inscrive in una tendenza all’accentramento di potere nelle mani di von der Leyen, che svuoterebbe il Servizio di Azione esterna (SEAE) di un’altra delle sue prerogative.Secondo il quotidiano britannico, la mossa sarebbe osteggiata dagli alti funzionari del SEAE, all’interno del quale esiste già il Centro di situazione e di intelligence dell’Unione europea – l’INTCEN -, posto sotto la diretta autorità dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri, oggi l’estone Kaja Kallas. Inoltre il piano – che mira a coinvolgere funzionari distaccati dalle agenzie di intelligence nazionali – non sarebbe stato ancora comunicato formalmente a tutti i 27 Stati membri, storicamente reticenti quando si tratta di investire nell’integrazione delle proprie agenzie di spionaggio. Due fonti avrebbero ammesso al Financial Times che con ogni probabilità le cancellerie europee si opporranno al progetto.“Siamo nella fase iniziale”, ha confermato oggi Balazs Ujvari, portavoce della Commissione europea, spiegando che “si sta valutando la creazione di una cellula dedicata all’interno del Segretariato Generale“, che “integrerà il lavoro della Direzione per la sicurezza della Commissione e collaborerà strettamente con i rispettivi servizi del Servizio europeo per l’azione esterna”. Qualche indicazione in più l’ha data Paula Pinho, portavoce capo dell’esecutivo: l’unità “sarà piuttosto piccola”, ha affermato, il numero di persone che ne faranno parte “sta più probabilmente in una mano che in due o tre”, e punta a “rafforzare le strutture che già esistono” nel SEAE.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e l’Alta rappresentante per gli Affari esteri, Kaja Kallas [Credits: European Commission]La condivisione di informazioni di intelligence è un argomento estremamente delicato per i Paesi membri. D’altra parte, le operazioni di guerra ibrida condotte da Russia e Bielorussia contro il blocco UE e la minaccia di disimpegno americano dal continente europeo – Trump questa primavera aveva sospeso temporaneamente il supporto di intelligence all’Ucraina -, rivelano l’urgenza di migliorare la risposta a livello UE. “I servizi segretidegli Stati membri dell’Ue sanno molto. La Commissione sa molto. Abbiamo bisogno di un modo migliore per mettere insieme tutte queste informazioni ed essere efficaci e utili ai nostri partner. Nel campo dell’intelligence, per ottenere qualcosa bisogna dare qualcosa in cambio”, ha confidato una fonte al quotidiano britannico.Parallelamente, da quando Josep Borrell ha lasciato a Kaja Kallas la guida del SEAE, von der Leyen ha rosicchiato a poco a poco diverse competenze al capo della diplomazia UE, responsabile insieme agli Stati membri della politica estera dell’Unione. Ha nominato un commissario per la Difesa all’interno del suo collegio e ha creato una Direzione generale per il Mediterraneo che spazia fino al Golfo persico, a capo della quale ha messo Stefano Sannino, ex Segretario generale del Servizio europeo per l’azione esterna. Spostare al Berlaymont anche il servizio di intelligence sarebbe un ulteriore passo nella definizione del ‘gabinetto di guerra’ di von der Leyen. L’unica donna al comando.

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    Mercosur, la Francia adesso valuta il ‘sì’ alla ratifica dell’accordo commerciale

    Bruxelles – Mercosur, pourquoi pas? La Francia inizia a considerare l’ipotesi di sostenere a abbracciare l’accordo di libero scambio raggiunto tra Unione europea e Paesi dell’America Latina (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay). Il presidente francese, Emmanuel Macron, si è detto “piuttosto positivo” circa la possibilità di ratificare l’intesa, e aprire dunque la strada alla nuova alleanza commerciale euro-sudamericana.Considerazioni, quelle dell’inquilino dell’Eliseo, prodotte in occasione del viaggio a Belem, in Brasile, dove è in corso la conferenza mondiale sul clima (COP30). E’ qui, a margine dei lavori dei leader, che Macron ha lasciato cadere alcune delle resistenze per un accordo oggetto di critiche fin dall’inizio dell’annuncio. Il presidente francese lascia intendere che il suo via libera non è più impossibile, ma comunque legato a rassicurazioni e garanzie che pensa di aver trovato.Come ha avuto modo spiegare alla stampa, “siamo stati ascoltati dalla Commissione, che non solo ci ha dato una risposta positiva in merito alle clausole di salvaguardia, ma ha anche espresso la sua volontà di fornire supporto, in particolare al settore zootecnico, e di rafforzare le protezioni per il nostro mercato interno rafforzando la nostra unione doganale”. C’è inoltre la rassicurazione di Bruxelles circa l’attività per premere affinché queste clausole siano accettate. Se così fosse, allora la Francia potrebbe dare il proprio benestare, rendendo più agevole l’iter di approvazione e ratifica, comunque tutt’altro che semplice e scontata.Il cambio di approccio di Macron segna un nuovo capitolo nella storia dell’accordo di libero scambio. Fin dall’inizio la Francia aveva criticato l’accordo UE-Mercosur per i rischi che venivano visti per il settore agricolo e la possibile disparità di trattamento e regole nei confronti degli operatori del settore primario dei Paesi del sud America. Adesso, di fronte alle modifiche introdotte, Macron apre. Però, ha voluto mettere in chiaro, “resto vigile perché difendo anche gli interessi della Francia”.Le aperture di Macron sono certamente una buona notizia per la Commissione europea, che tanto si è spesa per chiudere questo accordo commerciale e che nel Mercosur vede uno strumento geopolitico strategico per tradurre in pratica l’agenda di sostenibilità verde e digitale, e rispondere alle nuove incertezze globali, prima fra tutte la nuova politica degli Stati Uniti di Donald Trump.

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    Trump va a caccia di terre rare in Asia centrale (e l’Europa rischia di rimanere a bocca asciutta)

    Bruxelles – Se Donald Trump non si reca in Asia centrale, l’Asia centrale vola da Donald Trump. Il presidente statunitense ha ospitato ieri (6 novembre) alla Casa Bianca i suoi omologhi dei cinque Paesi della regione, particolarmente strategica in questa fase storica: Kassym-Jomart Tokayev (Kazakistan), Sadyr Japarov (Kirghizistan), Emomali Rahmon (Tagikistan), Serdar Berdimuhamedow (Turkmenistan) e Shavkat Mirziyoyev (Uzbekistan).Era la prima volta che i capi di Stato centro-asiatici venivano accolti tutti insieme nella capitale USA. L’incontro è stato l’occasione per celebrare il decimo anniversario del format C5+1, con cui Washington ha istituzionalizzato la sua cooperazione con Astana, Bishkek, Dushanbe, Ashgabat e Tashkent nei settori economico ed energetico, ma soprattutto sulla sicurezza (in particolare a seguito del ritiro dall’Afghanistan nel 2021 e dell’invasione russa dell’Ucraina, l’anno successivo).I leader del formato C5+1 (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan più Stati Uniti), alla Casa Bianca il 6 novembre 2025 (foto via Imagoeconomica)Ora, Trump vorrebbe fare delle materie prime critiche – di cui la regione centro-asiatica è ricca (con grandi riserve di uranio, rame, oro, tungsteno e terre rare, tra le altre cose) – il fulcro delle relazioni tra i membri del C5+1. I Paesi dell’area vendono già questi prodotti strategici a Pechino e Mosca, in quantità ben maggiori di quelle esportate verso i partner occidentali.A indispettire Washington e Bruxelles, tuttavia, è il fatto che la Cina detenga il monopolio mondiale dell’estrazione e la lavorazione di tali minerali, indispensabili per le tecnologie digitali, militari e green (e per contendersi l’egemonia globale nel XXI secolo), e ha recentemente messo in crisi tanto gli Stati Uniti quanto l’Ue mettendo mano ai controlli sulle esportazioni di questi prodotti chiave.Come visto di recente nell’incontro coi leader di Armenia e Azerbaigian, anche stavolta il tycoon ha messo in campo il suo approccio diretto, muscolare e transazionale. Do ut des. “Uno dei punti chiave della nostra agenda sono i minerali critici“, ha affermato candidamente, sottolineando la necessità di “ampliare le nostre catene di approvvigionamento” nel mondo. A partire dai Paesi che, ha specificato, “un tempo ospitavano l’antica Via della Seta che collegava l’Oriente e l’Occidente“.Ponte geografico ma anche, appunto, miniera ben fornita. Nel tentativo di spezzare il monopolio del Dragone, Washington ha istituito nel 2022 la Minerals Security Partnership (MSP) con Kazakistan e Uzbekistan, estesa l’anno scorso al resto dei C5. Coi colloqui di ieri, Trump ha ottenuto l’apertura di importanti giacimenti minerari nella regione allo sfruttamento delle aziende a stelle e strisce.La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (foto: Parlamento europeo)In cambio, lo zio Sam ha offerto opportunità di investimenti negli States in diversi settori cruciali, inclusi l’automotive, l’aviazione e il digitale, oltre ad aver concordato la vendita di decine di jet Boeing. Trump ha anche ottenuto la sottoscrizione, per quanto simbolica, degli accordi di Abramo da parte del Kazakistan, un Paese a maggioranza musulmana. I trattati del 2020, tra i principali lasciti del tycoon in politica estera nel suo primo mandato, mirano alla normalizzazione diplomatica tra Israele e i suoi vicini regionali in funzione anti-Iran.E l’Unione europea? I vertici comunitari paiono essersi accorti del potenziale strategico della regione abbastanza tardi. A gennaio 2024, hanno promesso investimenti per 10 miliardi di euro in mobilità sostenibile attraverso il corridoio transcaspico. Lo scorso aprile Ursula von der Leyen ha annunciato altri 12 miliardi per la cooperazione su materie prime critiche ed energia. Nei mesi successivi, Bruxelles ha iniziato a puntare sull’export del green tech made in EU verso l’Asia centrale, per concentrarsi quindi in maniera esplicita sulle terre rare.Ma, considerati gli attuali livelli di produzione, spezzare la dipendenza da Pechino è impresa tutt’altro che facile. Per ora, l’UE può tirare un sospiro di sollievo. Il pericolo di uno stop totale delle importazioni dalla Cina è stato scongiurato – e non certo per merito dei negoziatori europei – almeno per i prossimi 12 mesi. Resta da vedere se e come questo anno “guadagnato” verrà sfruttato per ribilanciare queste asimmetrie strutturali. Gli Stati Uniti di Trump hanno fatto la loro mossa. Quale carta giocheranno i Ventisette?

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    I leader disertano il vertice UE-CELAC in Colombia segnato dalle nuove pressioni USA sull’America Latina

    Bruxelles – Solo 12 leader su 60 e la defezione – ultima in ordine di tempo – della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Sono i numeri impietosi che ridimensionano un vertice, quello tra i 27 Paesi dell’Unione europea e i 33 latinoamericani e dei Caraibi del CELAC, carico di aspettative. Sebbene da Bruxelles affermino che von der Leyen (che si trova già in Sud America, a Belém, in Brasile, per la COP30) ha rinunciato alla tappa in Colombia a causa della “scarsa presenza dei capi di Stato e di Governo”, l’ombra che si allunga sul summit è quella degli Stati Uniti, della loro rinnovata pressione sul continente e sulle invitabili frizioni sul delicato argomento.L’ultima volta, a Bruxelles, nel luglio 2023, c’erano quasi tutti: si celebrava il primo vertice UE-CELAC dopo otto anni e Ursula von der Leyen giocava in casa per proseguire le trattative che da lì a un anno avrebbero portato alla finalizzazione dell’accordo commerciale con i quattro del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay).  Domenica 9 novembre a Santa Marta, in Colombia, ci sarà Antonio Costa, presidente del Consiglio europeo, mentre von der Leyen ha chiesto all’Alta rappresentante UE per gli Affari esteri, Kaja Kallas, di presenziare al posto suo.Bogotà ha confermato la partecipazione di 12 capi di Stato e di governo, 6 vicepresidenti e 23 ministri degli Esteri. Dal vecchio continente arriveranno il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, e quello portoghese, Luis Montenegro, legati da relazioni storiche, linguistiche, commerciali con l’America Latina. Ci saranno il premier finlandese, Petteri Orpo, il primo ministro dei Paesi Bassi, Dick Schoof, e quello della Croazia, Andrej Plenkovic. Mancano all’appello, tra i tanti, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, la premier italiana Giorgia Meloni, e il presidente francese Emmanuel Macron. Ed anche tra i 33 del CELAC, le defezioni importanti non mancano: non ci sarà Javier Milei, presidente dell’Argentina, e nemmeno Claudia Sheinbaum, presidente del Messico.Ci sarà invece il presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, che ha fatto sapere che non mancherà di esprimere la “solidarietà regionale” al Venezuela: il regime autoritario di Nicolas Maduro è sempre più apertamente minacciato dagli Stati Uniti, che a settembre hanno intrapreso alcune manovre militari nelle acque del Mar dei Caraibi di fronte a Caracas. Il ministro degli Esteri brasiliano, Mauro Vieira, ha spiegato da Belém che si tratta “della posizione della nostra politica estera”, e cioè che “l’America latina e, soprattutto, l’America del sud, in cui ci troviamo, è una regione di pace e cooperazione”.La rinnovata aggressività di Washington verso quello che duecento anni fa fu definito il “cortile di casa” degli Stati Uniti non è limitata al Venezuela, il Paese con i maggiori giacimenti petroliferi al mondo, ma colpisce anche la Colombia e il suo presidente, che presiederà il summit, Gustavo Petro. Solo due settimane fa, Donald Trump ha accusato il presidente colombiano di essere “il leader dei narcotrafficanti” e ha annunciato lo stop di tutti gli aiuti americani al Paese.Luiz Inacio Lula da Silva e Ursula von der Leyen al vertice UE-CELAC a Bruxelles, il 18 luglio 2023  (Photo by Emmanuel DUNAND / AFP)È in questo contesto che inevitabilmente le discussioni relative alla transizione energetica e digitale, alla cooperazione e all’integrazione commerciale rischiano di passare in secondo piano. Nonostante le cancellerie europee abbiano giustificato le assenze dei leader illustrando la fitta agenda di novembre – oltre alla COP30 in Brasile, ci sarà poi il G20 in Sudafrica e il vertice UE-Unione africana in Angola -, il timore di trovarsi nella posizione scomoda di dover condannare pubblicamente l’amministrazione americana potrebbe aver giocato la sua parte. D’altronde, anche se la stessa Commissione europea ha ricordato che “le relazioni UE-CELAC sono molto importanti in questo contesto di sfide e divisioni geopolitiche”, è inutile chiedere all’Unione europea di scegliere tra gli Stati Uniti e qualsiasi altro partner al mondo.A ben vedere, gli stessi Paesi latinoamericani potrebbero non scegliere l’Unione europea, se posti di fronte alla stessa domanda. L’assenza di Sheinbaum, ad esempio, mostra che la priorità del Messico, piuttosto che approfondire i rapporti con il club a dodici stelle, è rinegoziare i dazi con gli Stati Uniti, destinazione di oltre l’80 per cento dell’export del Paese. È proprio in questo contesto di “sfide e divisioni geopolitiche”, che ognuno – soprattutto i pesci più piccoli, come l’UE e l’America Latina – si promettono in matrimonio ma sono pronti a legarsi alle grandi potenze. È proprio in questo contesto che lo scorso maggio, infine, si è tenuto il quarto forum tra i 33 dell’America latina e dei Caraibi e la Cina, a Pechino, alla presenza di Xi Jinping.

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    Russia, niente più visti UE per ingressi multipli. Si dovrà fare richiesta ogni volta

    Bruxelles – Niente più visti per ingressi multipli nell’UE, d’ora in avanti ogni cittadino russo che intende soggiornare nell’UE anche per soggiorni di breve durata dovrà richiedere un visto ogni singola volta, per ogni singolo viaggio. E’ questa l’ultima misura anti-Russia adottata dalla Commissione europea, in nome della sicurezza. L’esecutivo comunitario con questa restrizione nel regime dei visti intende procedere ad un controllo approfondito e frequente dei richiedenti per mitigare qualsiasi potenziale rischio.Henna Virkkunen, vicepresidente esecutiva per la Sicurezza e la democrazia, presenta le nuove decisioni in materia di concessione dei visti come misura di sicurezza, citando rischi di “sabotaggio” e “disinformazione”. Si tratta dunque di evitare che possano entrare potenziali spie o male-intenzionati. Diversi i toni usati da Kaja Kallas, Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE: “Viaggiare e muoversi liberamente all’interno dell’UE è un privilegio, non un qualcosa di scontato”.Le restrizioni non scatteranno in modo automatico per tutti. La Commissione europea prevede eccezioni per casi limitati e giustificati, come giornalisti indipendenti e difensori dei diritti umani, garantendo un’applicazione uniforme in tutti gli Stati membri e impedendone l’elusione.La misura restrittiva segue quelle adottate finora, rappresentante dai 19 pacchetti di sanzioni contro la Russia al pari della completa sospensione dell’accordo di facilitazione dei visti tra l’Unione europea e la federazione russa. “In due anni con le nostre azioni abbiamo prodotto un’imponente riduzione nel numero di visti concessi, passati da quattro milioni a 400mila”, ricorda Markus Lammert, portavoce della Commissione per gli Affari interni,

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    Clima, al via la COP30 in Brasile. L’ONU avverte: “Impossibile centrare gli obiettivi di Parigi”

    Bruxelles – I leader mondiali sono arrivati a Belém per dare il via alla 30esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. La COP30, ospitata dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, inizierà formalmente i lavori il prossimo 10 novembre e si concluderà il 21, ma oggi e domani (6-7 novembre) i capi di Stato e di governo si incontreranno nella città ai margini della foresta amazzonica per una serie di dibattiti, bilaterali e sessioni tematiche.Tra i presenti, diversi pesi massimi del Vecchio continente. Fra gli altri, ci saranno il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il primo ministro britannico Keir Starmer, mentre il club a dodici stelle è rappresentato da un trio: il numero uno del Consiglio europeo, António Costa, il capo dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, e il ministro danese al Clima Lars Aagaard per la presidenza del Consiglio Ue.Ma ci sono anche assenze di peso. Su tutte, quelle del presidente statunitense Donald Trump, dei suoi omologhi cinese e russo, Xi Jinping e Vladimir Putin, nonché del premier indiano Narendra Modi, cioè i leader di quattro tra i principali inquinatori mondiali. Solo una sessantina dei Paesi partecipanti alla conferenza ha inviato delegazioni al massimo livello. Per l’Italia c’è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.We’re together in Belém with @antonioguterres.You’ve always spoken up for our planet and we thank you for that.Europe comes to Belém with our clear climate goals and our solidarity for those most at risk.The world needs strong multilateral action to face the climate… pic.twitter.com/g90CWKpyYb— António Costa (@eucopresident) November 6, 2025Eppure l’urgenza per cambiare rotta non è mai stata tanta. La doccia fredda è arrivata questa settimana da parte dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), un’agenzia delle Nazioni Unite che ha pubblicato i dati che mostrano come il 2023, il 2024 e il 2025 saranno i tre anni più caldi mai registrati da quando esistono le rilevazioni (cioè da 176 anni), continuando un trend almeno decennale.Echeggiando dichiarazioni diffuse nei giorni precedenti da altri enti dell’ONU, l’OMM ha anche riconosciuto che è ormai “praticamente impossibile” limitare il riscaldamento globale a 1,5ºC rispetto ai livelli del 1990, come prescritto dall’Accordo di Parigi del 2015. Stando ai calcoli dell’UNEP (il Programma per l’ambiente dell’ONU), attualmente il mondo va verso un innalzamento medio delle temperature compreso tra i 2,3 e i 2,5ºC, un livello che secondo gli esperti provocherà un aumento massiccio degli eventi meteorologici estremi e danni devastanti a molti ecosistemi naturali.Una critica sferzante è arrivata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che insieme a Lula co-presiede la conferenza. Il capo dell’ONU ha puntato il dito contro i leader mondiali, colpevoli di non aver dato seguito agli impegni sottoscritti dieci anni fa poiché “prigionieri degli interessi radicati” di aziende e lobby che “stanno realizzando profitti record grazie alla devastazione climatica“. Il padrone di casa ha inaugurato quella che definisce “la COP della verità“, ammonendo che la “finestra di opportunità” per agire “si sta chiudendo” ed evidenziando la necessità di “invertire la deforestazione e superare la dipendenza dai combustibili fossili“.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Parlando alla sessione plenaria al fianco di Costa, von der Leyen ha esortato i leader a “triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030“, mantenendo gli obiettivi di Parigi e “le promesse fatte ai Paesi più vulnerabili agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici”. Stasera, il presidente del Consiglio europeo interverrà alla sessione tematica dedicata a foreste e oceani, mentre il capo dell’esecutivo Ue prenderà la parola domani durante il panel su transizione energetica e decarbonizzazione dell’industria.Per volere degli stessi organizzatori, la COP30 non dovrà rappresentare un palcoscenico per nuove altisonanti promesse bensì, piuttosto, concentrarsi sull’implementazione degli impegni assunti fin qui. L’iniziativa degna di maggior rilievo è il lancio del Tropical forest forever fund (TFFF), un fondo globale per la tutela delle foreste tropicali col quale il Brasile mira a mobilitare 125 miliardi di dollari (25 dagli erari statali e gli altri 100 da investitori privati). Per il momento, tuttavia, né l’Ue né il Regno Unito parteciperanno a questo ennesimo strumento di green finance.La presidenza brasiliana ha articolato i lavori intorno a sei pilastri principali. Si parlerà di transizione energetica, industriale e dei trasporti; di gestione delle foreste, degli oceani e della biodiversità; della trasformazione dell’agricoltura e dei sistemi alimentari; della resilienza di città, infrastrutture e risorse idriche; della promozione dello sviluppo umano e sociale; e, infine, dei cosiddetti “acceleratori“, cioè quegli elementi che possono facilitare i progressi in tutti i precedenti ambiti anche sui versanti finanziario, tecnologico e logistico.Il logo della COP30 di Belém (foto: Dati Bendo/Commissione europea)L’Ue arriva alle discussioni di Belém con una posizione meno ambiziosa rispetto al quinquennio precedente, caratterizzato dall’adozione del Green deal. Per quanto von der Leyen definisca quello raggiunto ieri al Consiglio Ambiente un “risultato storico” per la riduzione delle emissioni di CO2, in realtà i Ventisette hanno fissato dei target più modesti rispetto alla proposta originaria della Commissione: una forbice tra il 66,25 e il 72,5 per cento da qui al 2035, per poi salire all’85 per cento entro il 2040.Del resto, è l’intera politica climatica internazionale a trovarsi in serie difficoltà in questa fase storica. La forte crescita elettorale dei movimenti populisti, scettici o apertamente negazionisti nei confronti del cambiamento climatico, combinata con una generalizzata contrazione dell’economia mondiale, ha portato molte cancellerie a rimangiarsi gli impegni presi di recente. Particolarmente pesante in questo senso il voltafaccia di Washington: oggi Trump sta facendo uscire (di nuovo) gli Usa dal trattato di Parigi, nonostante sia stata proprio l’amministrazione a stelle e strisce a fornire la spinta diplomatica decisiva per concluderlo.

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    Clima, al via la COP30 in Brasile. L’ONU avverte: “Impossibile c’entrare gli obiettivi di Parigi”

    Bruxelles – I leader mondiali sono arrivati a Belém per dare il via alla 30esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. La COP30, ospitata dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, inizierà formalmente i lavori il prossimo 10 novembre e si concluderà il 21, ma oggi e domani (6-7 novembre) i capi di Stato e di governo si incontreranno nella città ai margini della foresta amazzonica per una serie di dibattiti, bilaterali e sessioni tematiche.Tra i presenti, diversi pesi massimi del Vecchio continente. Fra gli altri, ci saranno il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il primo ministro britannico Keir Starmer, mentre il club a dodici stelle è rappresentato da un trio: il numero uno del Consiglio europeo, António Costa, il capo dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, e il ministro danese al Clima Lars Aagaard per la presidenza del Consiglio Ue.Ma ci sono anche assenze di peso. Su tutte, quelle del presidente statunitense Donald Trump, dei suoi omologhi cinese e russo, Xi Jinping e Vladimir Putin, nonché del premier indiano Narendra Modi, cioè i leader di quattro tra i principali inquinatori mondiali. Solo una sessantina dei Paesi partecipanti alla conferenza ha inviato delegazioni al massimo livello. Per l’Italia c’è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.We’re together in Belém with @antonioguterres.You’ve always spoken up for our planet and we thank you for that.Europe comes to Belém with our clear climate goals and our solidarity for those most at risk.The world needs strong multilateral action to face the climate… pic.twitter.com/g90CWKpyYb— António Costa (@eucopresident) November 6, 2025Eppure l’urgenza per cambiare rotta non è mai stata tanta. La doccia fredda è arrivata questa settimana da parte dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), un’agenzia delle Nazioni Unite che ha pubblicato i dati che mostrano come il 2023, il 2024 e il 2025 saranno i tre anni più caldi mai registrati da quando esistono le rilevazioni (cioè da 176 anni), continuando un trend almeno decennale.Echeggiando dichiarazioni diffuse nei giorni precedenti da altri enti dell’ONU, l’OMM ha anche riconosciuto che è ormai “praticamente impossibile” limitare il riscaldamento globale a 1,5ºC rispetto ai livelli del 1990, come prescritto dall’Accordo di Parigi del 2015. Stando ai calcoli dell’UNEP (il Programma per l’ambiente dell’ONU), attualmente il mondo va verso un innalzamento medio delle temperature compreso tra i 2,3 e i 2,5ºC, un livello che secondo gli esperti provocherà un aumento massiccio degli eventi meteorologici estremi e danni devastanti a molti ecosistemi naturali.Una critica sferzante è arrivata dal Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che insieme a Lula co-presiede la conferenza. Il capo dell’ONU ha puntato il dito contro i leader mondiali, colpevoli di non aver dato seguito agli impegni sottoscritti dieci anni fa poiché “prigionieri degli interessi radicati” di aziende e lobby che “stanno realizzando profitti record grazie alla devastazione climatica“. Il padrone di casa ha inaugurato quella che definisce “la COP della verità“, ammonendo che la “finestra di opportunità” per agire “si sta chiudendo” ed evidenziando la necessità di “invertire la deforestazione e superare la dipendenza dai combustibili fossili“.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Parlando alla sessione plenaria al fianco di Costa, von der Leyen ha esortato i leader a “triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030“, mantenendo gli obiettivi di Parigi e “le promesse fatte ai Paesi più vulnerabili agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici”. Stasera, il presidente del Consiglio europeo interverrà alla sessione tematica dedicata a foreste e oceani, mentre il capo dell’esecutivo Ue prenderà la parola domani durante il panel su transizione energetica e decarbonizzazione dell’industria.Per volere degli stessi organizzatori, la COP30 non dovrà rappresentare un palcoscenico per nuove altisonanti promesse bensì, piuttosto, concentrarsi sull’implementazione degli impegni assunti fin qui. L’iniziativa degna di maggior rilievo è il lancio del Tropical forest forever fund (TFFF), un fondo globale per la tutela delle foreste tropicali col quale il Brasile mira a mobilitare 125 miliardi di dollari (25 dagli erari statali e gli altri 100 da investitori privati). Per il momento, tuttavia, né l’Ue né il Regno Unito parteciperanno a questo ennesimo strumento di green finance.La presidenza brasiliana ha articolato i lavori intorno a sei pilastri principali. Si parlerà di transizione energetica, industriale e dei trasporti; di gestione delle foreste, degli oceani e della biodiversità; della trasformazione dell’agricoltura e dei sistemi alimentari; della resilienza di città, infrastrutture e risorse idriche; della promozione dello sviluppo umano e sociale; e, infine, dei cosiddetti “acceleratori“, cioè quegli elementi che possono facilitare i progressi in tutti i precedenti ambiti anche sui versanti finanziario, tecnologico e logistico.Il logo della COP30 di Belém (foto: Dati Bendo/Commissione europea)L’Ue arriva alle discussioni di Belém con una posizione meno ambiziosa rispetto al quinquennio precedente, caratterizzato dall’adozione del Green deal. Per quanto von der Leyen definisca quello raggiunto ieri al Consiglio Ambiente un “risultato storico” per la riduzione delle emissioni di CO2, in realtà i Ventisette hanno fissato dei target più modesti rispetto alla proposta originaria della Commissione: una forbice tra il 66,25 e il 72,5 per cento da qui al 2035, per poi salire all’85 per cento entro il 2040.Del resto, è l’intera politica climatica internazionale a trovarsi in serie difficoltà in questa fase storica. La forte crescita elettorale dei movimenti populisti, scettici o apertamente negazionisti nei confronti del cambiamento climatico, combinata con una generalizzata contrazione dell’economia mondiale, ha portato molte cancellerie a rimangiarsi gli impegni presi di recente. Particolarmente pesante in questo senso il voltafaccia di Washington: oggi Trump sta facendo uscire (di nuovo) gli Usa dal trattato di Parigi, nonostante sia stata proprio l’amministrazione a stelle e strisce a fornire la spinta diplomatica decisiva per concluderlo.

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    “Rischio di complicità” Tunisia-UE. Amnesty denuncia le violenze di Tunisi contro i migranti

    Bruxelles – “I leader europei rischiano di diventarne complici della Tunisia. Questo perché ogni giorno continuano a sostenere il loro pericoloso attacco ai diritti dei migranti.” Non usa mezze misure Heba Morayef, direttrice generale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. Le sue parole commentano il report pubblicato oggi, 6 novembre, sul “pericoloso cambiamento sulla politica migratoria della Tunisia”. Nel mirino della ONG c’è l’accordo UE-Tunisia, firmato nel 2023, che ha come obiettivo ridurre il numero di migranti diretti verso l’Europa.Secondo Amnesty l’accordo non ha in alcun modo migliorato la situazione. Anzi, si legge nel documento, “le testimonianze rivelano un sistema di migrazione e asilo concepito per escludere e punire anziché proteggere”. Un approccio quello di Tunisi caratterizzato da violenze di ogni genere: speronamenti pericolosi contro le imbarcazioni dirette verso nord, abbandono sistematico di migranti, richiedenti asilo e rifugiati in aree remote e desertiche. Un’altra piaga, denuncia l’organizzazione, è la retorica razziale verso i le persone nere. Questa è portata avanti dalle stesse autorità, che alimentano un clima di discriminazione e violenza che peggiora le condizione dei richiedenti asilo.Da sx: Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorgia Meloni alla firma del Memorandum d’Intesa Ue-Tunisia, 17 luglio 2023L’accordo Tunisia-UnioneNonostante questo la Tunisia beneficia di una vantaggiosa intesa con l’Unione Europea. Il memorandum datato luglio 2023 prevede una cooperazione estesa in diversi ambiti: la migrazione è solo uno dei cinque pilastri, insieme a transizione verde, economia e stabilità macrofinanziaria. Il tema centrale resta però la gestione dei flussi migratori. A tale scopo, Bruxelles ha stanziato circa 105 milioni di euro in fondi comunitari destinati a potenziare la guardia costiera tunisina, finanziare programmi di rimpatrio e sostenere la formazione tecnica.Il commissario europeo all’immigrazione Magnus Brunner ha rivendicato il successo dell’accordo già a giugno, parlando di “progressi tangibili in tutti i settori”. La principale soddisfazione del commissario è quella di aver ridotto dell’80 per cento gli arrivi irregolari dalla Tunisia. Tuttavia, ciò è avvenuto in un contesto di gravi violazioni dei diritti umani documentate da Amnesty International.@amnesty’s new report warns of the EU’s risk of complicity in refugee & migrant rights violations in Tunisia where the migration system is built on racist violence, reckless sea interceptions, arbitrary detention & unlawful collective expulsions.https://t.co/HfRLOnF8ZO— Amnesty EU (@AmnestyEU) November 6, 2025Le violenzeQueste violenze vengono messe alla luce nel documento pubblicato oggi. La ONG ha raccolto le testimonianze di 120 rifugiati nelle città tunisine di Sfax, Zarzis e Tunisi. Molti racconti descrivono episodi di abusi e deportazioni forzate. “Ezra”, un cittadino ivoriano, ha riferito ad Amnesty: “Siamo arrivati alla zona di confine con la Libia verso le sei del mattino. Un agente ci ha detto: ‘Andate in Libia, vi uccideranno’. Un altro ha aggiunto: ‘O nuotate o correte in Libia’. Ci hanno dato una borsa piena dei nostri telefoni rotti”. Secondo le stime di Amnesty, tra giugno 2023 e maggio 2025 circa 11.500 persone sono state espulse forzatamente verso la Libia o l’Algeria.Il rapporto sottolinea inoltre come la retorica razzista sia ormai parte integrante della vita pubblica tunisina. “I rifugiati e i migranti neri sono stati presi di mira da una profilazione razziale sistematica”, si legge nel testo. Un clima alimentato, spiega Amnesty, da una “propaganda pubblica dell’odio razziale”, scaturita “dalle dichiarazioni del presidente Kais Saied nel febbraio 2023”.Nonostante le evidenti violazioni dei diritti umani documentate, il memorandum tra Tunisia e Italia non prevede né clausole di recesso formale né limiti di validità automatica. Per questo motivo, l’accordo resterà in vigore anche dopo la pubblicazione di questo rapporto. Portando più soldi a Tunisi e meno migranti in Europa.