More stories

  • in

    Von der Leyen mette sul tavolo tre opzioni per garantire all’Ucraina 130 miliardi nel prossimo biennio

    Bruxelles – Un mese fa, i capi di stato e di governo dell’UE avevano tentennato di fronte alle mostruose necessità economiche dell’Ucraina nel prossimo biennio, e chiesto alla Commissione europea di studiare un ventaglio di opzioni per sostenerla. Oggi (17 novembre), in una lettera spedita alle capitali, Ursula von der Leyen ha messo sul tavolo tre opzioni. Prima, ha incontrato il premier belga, Bart De Wever, per provare a convincerlo che l’unica strada percorribile è quella di utilizzare gli asset congelati (in gran parte in Belgio) della Banca Centrale Russa. L’unica opzione che non graverebbe su bilanci nazionali già compromessi dopo tre anni di conflitto.Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale – e ipotizzando la fine della guerra entro la fine del 2026 -, attualmente Kiev ha da coprire un buco di circa 135,7 miliardi di euro per i prossimi due anni. Un gap da colmare immediatamente, perché l’Ucraina deve essere equipaggiata per “combattere questa sera”, ha sottolineato von der Leyen. Oltre ad essere tempestivo – la decisione va presa al più tardi entro la fine dell’anno -, il sostegno finanziario dovrebbe essere “altamente agevolato”, data “l’attuale situazione di sostenibilità del debito dell’Ucraina”, flessibile, e ripartito equamente tra gli Stati membri e con i partner internazionali.La prima opzione – la più diretta – prevederebbe che gli Stati membri versino sovvenzioni bilaterali all’Unione, che a sua volta procederebbe a un sostegno a fondo perduto all’Ucraina. Un’opzione – evidenzia la Commissione – che “non comporta nuove passività congiunte, non richiede garanzie o indennizzi supplementari”, ma che “ha un impatto immediato sui bilanci degli Stati membri”. Bisognerebbe fissare un obiettivo minimo di sostegno annuale di 45 miliardi di euro, con l’auspicio che i partner del G7 contribuiscano a finanziare il fabbisogno residuo. L’impatto rispettivo per i Paesi UE sarebbe compreso tra lo 0,16 e lo 0,27 per cento del PIL all’anno.Di spalle, Ursula von der Leyen, insieme ai capi di stato e di governo dell’UE al Consiglio europeo [foto: European Council]La strada alternativa è quella tortuosa di ricorrere al debito comune. Questa seconda opzione consisterebbe nella “concessione da parte dell’Unione di un prestito con ricorso limitato finanziato dall’Unione mediante prestiti sui mercati finanziari“, spiega il documento inviato alle cancellerie europee. Un prestito che l’Ucraina rimborserebbe solo nel caso di un risarcimento da parte della Russia, e che si reggerebbe su “garanzie giuridicamente vincolanti, incondizionate, irrevocabili e su richiesta”, fornite e distribuite tra gli Stati membri in base al loro Reddito Nazionale Lordo (RNL). Le capitali dovrebbero ripagarne gli interessi e – “nello spirito di ripartizione degli oneri” – aumentare proporzionalmente i propri contributi se qualcuno tra i 27 decidesse di tirarsi indietro.Anche in questo caso, gli interessi a carico degli Stati membri “inciderebbero direttamente sul loro disavanzo e sul loro debito“. Per non parlare delle stesse garanzie, anch’esse “suscettibili” di gravare sui bilanci nazionali. Una via d’uscita potrebbe essere che il prestito fosse garantito dal margine di manovra del bilancio dell’UE: in quel caso “non si prevederebbe alcun impatto di questo tipo”, rileva la Commissione. Per mettere a bilancio UE 90 miliardi di euro per i prossimi due anni – e la copertura degli interessi – bisognerebbe modificare il regolamento del Quadro Finanziario Pluriennale, che attualmente “non consente di contrarre prestiti per un Paese terzo”.Le barricate che diversi Paesi membri ergerebbero di fronte a queste due opzioni fanno propendere Bruxelles verso la terza e ultima carta, l’asso nella manica, per quanto rischiosa essa sia. Si tratta di un prestito finanziato con gli asset statali russi congelati sul territorio europeo, che ammontano a oltre 200 miliardi di euro. L’opzione è da mesi al vaglio degli esperti legali dell’esecutivo UE: l’Unione europea stipulerebbe un contratto di debito obbligatorio con i depositari centrali di titoli che detengono attività russe immobilizzate in “diversi Stati membri” a tasso zero, per poi prestare il contante all’Ucraina in diverse tranches. Kiev rimborserebbe il prestito solo una volta che la guerra sarà finita e che la Russia avrà pagato le riparazioni. Solo a quel punto, Bruxelles rimborserebbe a sua volta gli istituti finanziari.Bart De Wever e Ursula von der Leyen a palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea, il 14 novembre 2025. (Photo by Nicolas TUCAT / AFP)Il terreno è scivoloso, l’UE rischierebbe “ripercussioni” se il prestito venisse “erroneamente percepito da altri come una confisca”. Dal punto di vista legale, ma anche economico: “Non si può escludere che vi siano potenziali effetti a catena, anche per i mercati finanziari“, ha ammesso ancora von der Leyen, ribadendo al contempo che “la struttura di questa opzione garantisce il pieno rispetto del diritto internazionale in tutti gli scenari”.Ma soprattutto, a livello interno, c’è da superare la strenua opposizione del Belgio, il Paese in cui risiede Euroclear, la società che detiene circa 185 miliardi di Mosca e che sta già utilizzando gli interessi generati da tali asset per sostenere un prestito separato di 45 miliardi di euro per l’Ucraina. Sarebbero gli Stati membri a garantire che l’Unione europea sia in grado di rimborsare Euroclear anche senza ricevere alcun pagamento compensativo da Kiev. “L’esatta portata della copertura del rischio dovrebbe essere definita al fine di garantire la necessaria protezione degli Stati membri esposti, nonché una certezza sufficiente per gli altri Stati membri che forniscono garanzie volontarie”, sottolinea il documento.Inoltre, “in considerazione della necessaria solidarietà tra gli Stati membri, le garanzie potrebbero anche dover coprire i costi e le conseguenze finanziarie derivanti da lodi arbitrali o altre decisioni o procedimenti giudiziari contro uno Stato membro derivanti dal congelamento dei beni sovrani russi”. E il prestito all’Ucraina “dovrebbe essere concepito in modo da preservare la stabilità finanziaria degli istituti finanziari che detengono le attività immobilizzate”.Von der Leyen, e con lei la quasi totalità degli Stati membri – fatta eccezione per chi si oppone in generale a nuovi finanziamenti all’Ucraina -, sperano di scalfire le resistenze belghe, perché quella di ricorrere alle risorse della Banca Centrale Russa è per molte cancellerie l’unica opzione percorribile. Anche perché, a differenza dell’indebitamento sui mercati, le garanzie dei Paesi membri sarebbero in questo caso considerate “come passività potenziali”, senza dunque incidere sui debiti nazionali.

  • in

    L’Albania ha aperto tutti i capitoli di adesione all’UE. Kos: “I prossimi anni il momento della verità”

    Bruxelles – Tirana continua a bruciare le tappe verso l’adesione all’Unione europea. Nel giro di poco più di un anno, ha convinto Bruxelles ad aprire tutti e sei i cosiddetti ‘cluster’ di capitoli negoziali. Oggi (17 novembre), è toccato all’ultimo rimasto, quello relativo ad agricoltura e pesca, sicurezza alimentare e politiche di coesione. “Il vero premio è la loro chiusura – ha avvertito una raggiante Marta Kos, commissaria UE per l’Allargamento -, i prossimi anni saranno il momento della verità“.Il primo ministro albanese, Edi Rama, tiene la barra dritta verso l’orizzonte del 2027, obiettivo fissato per concludere le trattative su tutti i 33 capitoli negoziali. La piena adesione al club a 12 stelle, nei piani di Rama, va ottenuta entro il 2030. Tutto dipende – aveva rilevato solo poche settimane fa la Commissione europea nel rapporto annuale sull’Allargamento – “dal mantenimento dello slancio delle riforme e dalla promozione di un dialogo politico inclusivo”.Marta Kos, commissaria UE per l’Allargamento,17/11/25Lo stesso Rama, a margine della Conferenza intergovernativa di questa mattina, ha sottolineato che “questi anni ci hanno insegnato di non dare mai nulla di scontato a Bruxelles“. L’Albania è ufficialmente un Paese candidato all’ingresso nell’UE da più di un decennio: era il 2014, e Rama guidava già il governo di Tirana. Dopo anni di stallo, “l’ultimo anno è stato fantastico, perché è stato gratificante, ma senza gli anni precedenti che non lo sono stati, quest’anno non sarebbe arrivato”, ha affermato il primo ministro albanese.Dal 15 ottobre 2024, quando è stato aperto il cluster dei cosiddetti ‘Fondamentali’, a dicembre sono state avviate le negoziazioni sulle ‘relazioni esterne’, in primavera quelle su ‘mercato interno’ e ‘competitività e crescita inclusiva’, a settembre ‘agenda verde e connettività sostenibile’. Oggi l’ultimo, il cluster 5, quello su ‘risorse, agricoltura e coesione’.Nell’incontro, la Commissione europea ha fissato i parametri di riferimento per la chiusura provvisoria dei cinque capitoli che appartengono al cluster 5: Sviluppo rurale e agricoltura, Politica di sicurezza alimentare, veterinaria e fitosanitaria, Pesca e acquacoltura, Politica regionale e coordinamento degli strumenti strutturali, Disposizioni finanziarie e di bilancio. “Il prossimo passo per l’Albania è soddisfare i parametri di riferimento intermedi”, ha spiegato Marta Kos. “Non sarà facile, ma avete qualcosa di molto potente a vostro favore: il sostegno pubblico degli albanesi e degli Stati membri“, ha aggiunto. Per prassi, tutti i passi avanti nel percorso di adesione di un Paese candidato vanno avallati all’unanimità dal Consiglio dell’UE.“Faremo tutto il possibile per andare avanti con la stessa intensità, disciplina e impegno, per garantire che questo progetto comune che stiamo costruendo mattone dopo mattone insieme ai nostri partner a Bruxelles e negli Stati membri non si fermi”, ha promesso Rama, che sull’adesione all’UE ha scommesso tutto il capitale politico che gli resta.Nonostante alcune ombre sulla reale salute dello Stato di diritto – incluse l’indipendenza della magistratura e la libertà dei media -, sulla lotta alla corruzione e sulla conduzione opaca delle ultime elezioni politiche, Rama può contare sull’ambizione europea della stragrande maggioranza della popolazione. “Una maggioranza come ai tempi del comunismo – ha affermato il premier -, era lo stesso con l’Impero Ottomano”. Perché l’Albania – ha concluso Rama con una sviolinata a Bruxelles – “è fedele agli impero, e questo (l’UE, ndr) è il primo impero in cui vogliamo stare”. L’impero “dei valori e dei diritti”, l’aveva già definito Rama in passato.

  • in

    Mercosur, nuove grane per von der Leyen: chieste verifiche di compatibilità alla Corte di giustizia UE

    Bruxelles – Nuovo capitolo nella ‘saga Mercosur’: per l’accordo di libero scambio tra l’Unione europea e i Paesi dell’America del sud (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) adesso viene chiesto lo stop per verifiche di compatibilità giuridica con i trattati UE. Con proposta di mozione di risoluzione, 145 europarlamentari di schieramenti diversi chiedono il rinvio alla Corte di giustizia dell’UE, perché i giudici di Lussemburgo si esprimano sul modo di agire della Commissione europea.Ciò che preoccupa è che la scissione dell’accordo UE-Mercosur in un accordo di partenariato UE-Mercosur (EMPA) e un accordo commerciale interinale (ITA) possa essere “incompatibile” con l’articolo 218 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, inoltre si teme che meccanismo di riequilibrio previsto dall’accordo UE-Mercosur potrebbe essere “quantomeno incompatibile” con gli articoli 11, 168, 169 e 191 dello stesso trattato.Da qui la richiesta, ai sensi dell’articolo 117 del regolamento del Parlamento europeo, di coinvolgere la Corte di giustizia dell’UE. Gli europarlamentari si avvalgono del dispositivo per cui “in qualsiasi momento prima della votazione del Parlamento su una richiesta di approvazione o di parere, la commissione competente o almeno un decimo dei deputati che compongono il Parlamento possono proporre che il Parlamento chieda il parere della Corte di giustizia sulla compatibilità di un accordo internazionale con i trattati“.L’accordo Ue-Mercosur accende gli animi. Cartellino rosso per agricoltori e attivisti climatici, forti perplessità anche nel Parlamento UeE’ questo un elemento importante dell’azione politica promossa da Verdi e laSinistra, e sostenuta da esponenti di tutto lo spettro politico. I 145 firmatari della mozione appartengono ai gruppi popolare (PPE), socialista (S&D), liberale (RE). Non si tratta di un voto di censura contro il Mercosur, quanto una verifica di compatibilità con i trattati.La mozione potrebbe essere votata dall’Aula già nella sessione plenaria di fine mese (24-27 novembre), per quello che diventa per la Commissione europea e la sua presidente, Ursula von der Leyen, un voto anche più rischioso delle mozioni di censura legate sempre allo stesso accordo commerciale (alla fine superate agevolmente): se l’emiciclo dovesse chiedere alla Corte di giustizia dell’UE le verifiche del caso, il Mercosur sarebbe di fatto bloccato e sospeso fino al pronunciamento dei giudici.Comunque vada a finire per von der Leyen il dato politico è un nuovo fuoco incrociato per un accordo commerciale da lei giudicato come strategico, per cui anche all’interno del PPE, suo partito di appartenenza, si nutrono di dubbi. Intanto Cristina Guarda, eurodeputata dei Verdi e firmataria della mozione, esulta: “La mozione richiedeva 72 firme, ne abbiamo raccolte molte di più”, commenta. Non solo: “I firmatari sono deputati di 21 diverse nazionalità”, sottolinea, per enfatizzare come sull’accordo UE-Mercosur le preoccupazioni siano diffuse ovunque. “Puntiamo a un voto in plenaria il 24 novembre“.

  • in

    Gli asset russi congelati restano l’opzione UE preferita per sostenere Kiev, che preoccupa per la corruzione

    Bruxelles – Prestiti all’Ucraina, nel momento in cui l’Ucraina e la sua leadership vengono travolti da accuse di corruzione. L’Unione europea si scontra con una realtà sempre più complessa, e una situazione dalla quale tirarsi indietro non è possibile. Ecco allora che i prestiti di riparazione concepiti per Kiev, attraverso gli asset russi congelati in Europa, finiscono con il produrre timori per ora velati ma pur esistenti attorno al tavolo dei Ventisette.In Ucraina sarebbe stata messa in piedi una vera e propria organizzazione a delinquere per l’appropriazione indebita nel settore dell’energia. Secondo gli organi anti-corruzione la rete criminale si sarebbe già intascata circa 100 milioni di dollari (circa 86 milioni di dollari), e in queste attività spiccano i nomi di Enerhoatom, l’operatore nucleare nazionale Enerhoatom, e soprattutto i ministri della Giustizia e dell’Energia, Herman Halushchenko e Svitlana Grynchuk, rimossi dall’incarico dal presidente ucraino, Volodomyr Zelensky.Da parte europea arriva la condanna dell’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Kaja, Kallas, che definisce “estremamente deplorevole” la vicenda. “Non ci può essere spazio per la corruzione”, afferma, men che meno adesso, nel bel mezzo di una guerra e di un processo di adesione considerato come in discesa e che impone a Kiev riforme chiare e precisa in materia.Zelensky alla caccia degli asset russi congelati. “Porteranno benefici agli europei e agli ucraini”Zelensky è intervenuto chiedendo e ottenendo la testa dei due ministri coinvolti, e questo è certamente un bene per lui e il suo Paese. Ma le perplessità non mancano. Del resto, ragiona a voce alta Kristunas Vaitiekunas, ministro delle Finanze della Lituania, “quali sono le opzioni? L’Ucraina è l’unica opzione“. La riunione del consiglio Ecofin viene inevitabilmente investita dallo scandalo corruzione in Ucraina, ma a detta della Lituania finché la guerra tra Kiev e Mosca prosegue deve proseguire anche il sostegno europeo.Eelko Heinen, ministro delle Finanze olandese, prova a far finta di niente e minimizzare: “La lotta alla corruzione è una sfida contro cui l’Ucraina deve comunque continuare a impegnarsi”, taglia corto prima di prendere parte ai lavori in programma a Bruxelles.Si può fornire denaro a chi ha persone accusate di corruzione che poi sono chiamate a gestire il denaro ricevuto? Questo il dilemma che aleggia sull’Unione europea, i cui Stati membri però sembrano doversi arrendere alle necessità di un conflitto in corso. Nessuno mette in discussione il sostegno all’Ucraina. Così i nordici e i baltici spingono per l’idea di schema di prestiti di riparazione attraverso gli asset russi congelati. Per la ministra della Finanze finlandese, Riika Purra, è il solo modo per evitare di gravare sui bilanci nazionali. La Lituania condivide questa linea e anche la presidenza danese del Consiglio dell’UE ritiene che i prestiti di riparazione tramite asset russi siano “l’opzione migliore”. Certo, ammette la ministra delle Finanze di Copenhagen, Stephanie Lose, “ci sono questioni da sciogliere”, ma ciò non toglie che “sono ottimista circa la capacità di trovare una  soluzione”, magari già al prossimo vertice dei leader di dicembre (18-19 dicembre).La riunione del consiglio Ecofin del 13 novembre 2025 [foto: European Council]I ministri economici dei Ventisette attendono che la Commissione europea metta sul tavolo la proposta per uno schema di riparazione, e mentre in sede di Ecofin i ministri ragionano tra loro su cosa fare, la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, anticipa ciò che sarà. Intervenendo in Parlamento europeo riunito a Bruxelles in sessione plenaria anticipa che allo studio ci sono tre opzioni. “La prima opzione è quella di utilizzare la flessibilità di bilancio per raccogliere fondi sui mercati dei capitali. La seconda opzione è quella di concludere un accordo intergovernativo in base al quale gli Stati membri stessi raccolgano il capitale necessario”. C’è poi la terza opzione, quella di “concedere un prestito di riparazione basato sui beni russi congelati”. Questo approccio si baserebbe sul saldo di cassa dei beni congelati. “Concederemmo un prestito all’Ucraina, che l’Ucraina rimborserebbe se la Russia pagasse le riparazioni di guerra”. Se. Per von der Leyen “questo è il modo più efficace per sostenere la difesa e l’economia dell’Ucraina, e il modo più chiaro per far capire alla Russia che il tempo non è dalla sua parte”, ma comunque rimesso alla  prova dei fatti. Se Mosca non paga, l’UE resta in mano di un credito deteriorato. Lo scandalo corruzione e appropriazione indebito in Ucraina esplode nel momento forse meno indicato.

  • in

    Von der Leyen vuole scippare a Kallas l’intelligence europea

    Bruxelles – La Commissione europea ha avviato la creazione di un nuovo organismo di intelligence sotto la presidenza di Ursula von der Leyen. Il leak, diffuso questa mattina dal Financial Times, è già stato confermato da palazzo Berlaymont: il piano c’è, è già più di un’idea, anche se “ancora allo stadio embrionale”. L’obiettivo non è una novità, è quello di migliorare la condivisione e l’utilizzo delle informazioni raccolte dai servizi segreti nazionali. Ma si inscrive in una tendenza all’accentramento di potere nelle mani di von der Leyen, che svuoterebbe il Servizio di Azione esterna (SEAE) di un’altra delle sue prerogative.Secondo il quotidiano britannico, la mossa sarebbe osteggiata dagli alti funzionari del SEAE, all’interno del quale esiste già il Centro di situazione e di intelligence dell’Unione europea – l’INTCEN -, posto sotto la diretta autorità dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri, oggi l’estone Kaja Kallas. Inoltre il piano – che mira a coinvolgere funzionari distaccati dalle agenzie di intelligence nazionali – non sarebbe stato ancora comunicato formalmente a tutti i 27 Stati membri, storicamente reticenti quando si tratta di investire nell’integrazione delle proprie agenzie di spionaggio. Due fonti avrebbero ammesso al Financial Times che con ogni probabilità le cancellerie europee si opporranno al progetto.“Siamo nella fase iniziale”, ha confermato oggi Balazs Ujvari, portavoce della Commissione europea, spiegando che “si sta valutando la creazione di una cellula dedicata all’interno del Segretariato Generale“, che “integrerà il lavoro della Direzione per la sicurezza della Commissione e collaborerà strettamente con i rispettivi servizi del Servizio europeo per l’azione esterna”. Qualche indicazione in più l’ha data Paula Pinho, portavoce capo dell’esecutivo: l’unità “sarà piuttosto piccola”, ha affermato, il numero di persone che ne faranno parte “sta più probabilmente in una mano che in due o tre”, e punta a “rafforzare le strutture che già esistono” nel SEAE.La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e l’Alta rappresentante per gli Affari esteri, Kaja Kallas [Credits: European Commission]La condivisione di informazioni di intelligence è un argomento estremamente delicato per i Paesi membri. D’altra parte, le operazioni di guerra ibrida condotte da Russia e Bielorussia contro il blocco UE e la minaccia di disimpegno americano dal continente europeo – Trump questa primavera aveva sospeso temporaneamente il supporto di intelligence all’Ucraina -, rivelano l’urgenza di migliorare la risposta a livello UE. “I servizi segretidegli Stati membri dell’Ue sanno molto. La Commissione sa molto. Abbiamo bisogno di un modo migliore per mettere insieme tutte queste informazioni ed essere efficaci e utili ai nostri partner. Nel campo dell’intelligence, per ottenere qualcosa bisogna dare qualcosa in cambio”, ha confidato una fonte al quotidiano britannico.Parallelamente, da quando Josep Borrell ha lasciato a Kaja Kallas la guida del SEAE, von der Leyen ha rosicchiato a poco a poco diverse competenze al capo della diplomazia UE, responsabile insieme agli Stati membri della politica estera dell’Unione. Ha nominato un commissario per la Difesa all’interno del suo collegio e ha creato una Direzione generale per il Mediterraneo che spazia fino al Golfo persico, a capo della quale ha messo Stefano Sannino, ex Segretario generale del Servizio europeo per l’azione esterna. Spostare al Berlaymont anche il servizio di intelligence sarebbe un ulteriore passo nella definizione del ‘gabinetto di guerra’ di von der Leyen. L’unica donna al comando.

  • in

    Mercosur, la Francia adesso valuta il ‘sì’ alla ratifica dell’accordo commerciale

    Bruxelles – Mercosur, pourquoi pas? La Francia inizia a considerare l’ipotesi di sostenere a abbracciare l’accordo di libero scambio raggiunto tra Unione europea e Paesi dell’America Latina (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay). Il presidente francese, Emmanuel Macron, si è detto “piuttosto positivo” circa la possibilità di ratificare l’intesa, e aprire dunque la strada alla nuova alleanza commerciale euro-sudamericana.Considerazioni, quelle dell’inquilino dell’Eliseo, prodotte in occasione del viaggio a Belem, in Brasile, dove è in corso la conferenza mondiale sul clima (COP30). E’ qui, a margine dei lavori dei leader, che Macron ha lasciato cadere alcune delle resistenze per un accordo oggetto di critiche fin dall’inizio dell’annuncio. Il presidente francese lascia intendere che il suo via libera non è più impossibile, ma comunque legato a rassicurazioni e garanzie che pensa di aver trovato.Come ha avuto modo spiegare alla stampa, “siamo stati ascoltati dalla Commissione, che non solo ci ha dato una risposta positiva in merito alle clausole di salvaguardia, ma ha anche espresso la sua volontà di fornire supporto, in particolare al settore zootecnico, e di rafforzare le protezioni per il nostro mercato interno rafforzando la nostra unione doganale”. C’è inoltre la rassicurazione di Bruxelles circa l’attività per premere affinché queste clausole siano accettate. Se così fosse, allora la Francia potrebbe dare il proprio benestare, rendendo più agevole l’iter di approvazione e ratifica, comunque tutt’altro che semplice e scontata.Il cambio di approccio di Macron segna un nuovo capitolo nella storia dell’accordo di libero scambio. Fin dall’inizio la Francia aveva criticato l’accordo UE-Mercosur per i rischi che venivano visti per il settore agricolo e la possibile disparità di trattamento e regole nei confronti degli operatori del settore primario dei Paesi del sud America. Adesso, di fronte alle modifiche introdotte, Macron apre. Però, ha voluto mettere in chiaro, “resto vigile perché difendo anche gli interessi della Francia”.Le aperture di Macron sono certamente una buona notizia per la Commissione europea, che tanto si è spesa per chiudere questo accordo commerciale e che nel Mercosur vede uno strumento geopolitico strategico per tradurre in pratica l’agenda di sostenibilità verde e digitale, e rispondere alle nuove incertezze globali, prima fra tutte la nuova politica degli Stati Uniti di Donald Trump.

  • in

    Trump va a caccia di terre rare in Asia centrale (e l’Europa rischia di rimanere a bocca asciutta)

    Bruxelles – Se Donald Trump non si reca in Asia centrale, l’Asia centrale vola da Donald Trump. Il presidente statunitense ha ospitato ieri (6 novembre) alla Casa Bianca i suoi omologhi dei cinque Paesi della regione, particolarmente strategica in questa fase storica: Kassym-Jomart Tokayev (Kazakistan), Sadyr Japarov (Kirghizistan), Emomali Rahmon (Tagikistan), Serdar Berdimuhamedow (Turkmenistan) e Shavkat Mirziyoyev (Uzbekistan).Era la prima volta che i capi di Stato centro-asiatici venivano accolti tutti insieme nella capitale USA. L’incontro è stato l’occasione per celebrare il decimo anniversario del format C5+1, con cui Washington ha istituzionalizzato la sua cooperazione con Astana, Bishkek, Dushanbe, Ashgabat e Tashkent nei settori economico ed energetico, ma soprattutto sulla sicurezza (in particolare a seguito del ritiro dall’Afghanistan nel 2021 e dell’invasione russa dell’Ucraina, l’anno successivo).I leader del formato C5+1 (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan più Stati Uniti), alla Casa Bianca il 6 novembre 2025 (foto via Imagoeconomica)Ora, Trump vorrebbe fare delle materie prime critiche – di cui la regione centro-asiatica è ricca (con grandi riserve di uranio, rame, oro, tungsteno e terre rare, tra le altre cose) – il fulcro delle relazioni tra i membri del C5+1. I Paesi dell’area vendono già questi prodotti strategici a Pechino e Mosca, in quantità ben maggiori di quelle esportate verso i partner occidentali.A indispettire Washington e Bruxelles, tuttavia, è il fatto che la Cina detenga il monopolio mondiale dell’estrazione e la lavorazione di tali minerali, indispensabili per le tecnologie digitali, militari e green (e per contendersi l’egemonia globale nel XXI secolo), e ha recentemente messo in crisi tanto gli Stati Uniti quanto l’Ue mettendo mano ai controlli sulle esportazioni di questi prodotti chiave.Come visto di recente nell’incontro coi leader di Armenia e Azerbaigian, anche stavolta il tycoon ha messo in campo il suo approccio diretto, muscolare e transazionale. Do ut des. “Uno dei punti chiave della nostra agenda sono i minerali critici“, ha affermato candidamente, sottolineando la necessità di “ampliare le nostre catene di approvvigionamento” nel mondo. A partire dai Paesi che, ha specificato, “un tempo ospitavano l’antica Via della Seta che collegava l’Oriente e l’Occidente“.Ponte geografico ma anche, appunto, miniera ben fornita. Nel tentativo di spezzare il monopolio del Dragone, Washington ha istituito nel 2022 la Minerals Security Partnership (MSP) con Kazakistan e Uzbekistan, estesa l’anno scorso al resto dei C5. Coi colloqui di ieri, Trump ha ottenuto l’apertura di importanti giacimenti minerari nella regione allo sfruttamento delle aziende a stelle e strisce.La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (foto: Parlamento europeo)In cambio, lo zio Sam ha offerto opportunità di investimenti negli States in diversi settori cruciali, inclusi l’automotive, l’aviazione e il digitale, oltre ad aver concordato la vendita di decine di jet Boeing. Trump ha anche ottenuto la sottoscrizione, per quanto simbolica, degli accordi di Abramo da parte del Kazakistan, un Paese a maggioranza musulmana. I trattati del 2020, tra i principali lasciti del tycoon in politica estera nel suo primo mandato, mirano alla normalizzazione diplomatica tra Israele e i suoi vicini regionali in funzione anti-Iran.E l’Unione europea? I vertici comunitari paiono essersi accorti del potenziale strategico della regione abbastanza tardi. A gennaio 2024, hanno promesso investimenti per 10 miliardi di euro in mobilità sostenibile attraverso il corridoio transcaspico. Lo scorso aprile Ursula von der Leyen ha annunciato altri 12 miliardi per la cooperazione su materie prime critiche ed energia. Nei mesi successivi, Bruxelles ha iniziato a puntare sull’export del green tech made in EU verso l’Asia centrale, per concentrarsi quindi in maniera esplicita sulle terre rare.Ma, considerati gli attuali livelli di produzione, spezzare la dipendenza da Pechino è impresa tutt’altro che facile. Per ora, l’UE può tirare un sospiro di sollievo. Il pericolo di uno stop totale delle importazioni dalla Cina è stato scongiurato – e non certo per merito dei negoziatori europei – almeno per i prossimi 12 mesi. Resta da vedere se e come questo anno “guadagnato” verrà sfruttato per ribilanciare queste asimmetrie strutturali. Gli Stati Uniti di Trump hanno fatto la loro mossa. Quale carta giocheranno i Ventisette?

  • in

    I leader disertano il vertice UE-CELAC in Colombia segnato dalle nuove pressioni USA sull’America Latina

    Bruxelles – Solo 12 leader su 60 e la defezione – ultima in ordine di tempo – della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Sono i numeri impietosi che ridimensionano un vertice, quello tra i 27 Paesi dell’Unione europea e i 33 latinoamericani e dei Caraibi del CELAC, carico di aspettative. Sebbene da Bruxelles affermino che von der Leyen (che si trova già in Sud America, a Belém, in Brasile, per la COP30) ha rinunciato alla tappa in Colombia a causa della “scarsa presenza dei capi di Stato e di Governo”, l’ombra che si allunga sul summit è quella degli Stati Uniti, della loro rinnovata pressione sul continente e sulle invitabili frizioni sul delicato argomento.L’ultima volta, a Bruxelles, nel luglio 2023, c’erano quasi tutti: si celebrava il primo vertice UE-CELAC dopo otto anni e Ursula von der Leyen giocava in casa per proseguire le trattative che da lì a un anno avrebbero portato alla finalizzazione dell’accordo commerciale con i quattro del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay).  Domenica 9 novembre a Santa Marta, in Colombia, ci sarà Antonio Costa, presidente del Consiglio europeo, mentre von der Leyen ha chiesto all’Alta rappresentante UE per gli Affari esteri, Kaja Kallas, di presenziare al posto suo.Bogotà ha confermato la partecipazione di 12 capi di Stato e di governo, 6 vicepresidenti e 23 ministri degli Esteri. Dal vecchio continente arriveranno il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, e quello portoghese, Luis Montenegro, legati da relazioni storiche, linguistiche, commerciali con l’America Latina. Ci saranno il premier finlandese, Petteri Orpo, il primo ministro dei Paesi Bassi, Dick Schoof, e quello della Croazia, Andrej Plenkovic. Mancano all’appello, tra i tanti, il cancelliere tedesco Friedrich Merz, la premier italiana Giorgia Meloni, e il presidente francese Emmanuel Macron. Ed anche tra i 33 del CELAC, le defezioni importanti non mancano: non ci sarà Javier Milei, presidente dell’Argentina, e nemmeno Claudia Sheinbaum, presidente del Messico.Ci sarà invece il presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, che ha fatto sapere che non mancherà di esprimere la “solidarietà regionale” al Venezuela: il regime autoritario di Nicolas Maduro è sempre più apertamente minacciato dagli Stati Uniti, che a settembre hanno intrapreso alcune manovre militari nelle acque del Mar dei Caraibi di fronte a Caracas. Il ministro degli Esteri brasiliano, Mauro Vieira, ha spiegato da Belém che si tratta “della posizione della nostra politica estera”, e cioè che “l’America latina e, soprattutto, l’America del sud, in cui ci troviamo, è una regione di pace e cooperazione”.La rinnovata aggressività di Washington verso quello che duecento anni fa fu definito il “cortile di casa” degli Stati Uniti non è limitata al Venezuela, il Paese con i maggiori giacimenti petroliferi al mondo, ma colpisce anche la Colombia e il suo presidente, che presiederà il summit, Gustavo Petro. Solo due settimane fa, Donald Trump ha accusato il presidente colombiano di essere “il leader dei narcotrafficanti” e ha annunciato lo stop di tutti gli aiuti americani al Paese.Luiz Inacio Lula da Silva e Ursula von der Leyen al vertice UE-CELAC a Bruxelles, il 18 luglio 2023  (Photo by Emmanuel DUNAND / AFP)È in questo contesto che inevitabilmente le discussioni relative alla transizione energetica e digitale, alla cooperazione e all’integrazione commerciale rischiano di passare in secondo piano. Nonostante le cancellerie europee abbiano giustificato le assenze dei leader illustrando la fitta agenda di novembre – oltre alla COP30 in Brasile, ci sarà poi il G20 in Sudafrica e il vertice UE-Unione africana in Angola -, il timore di trovarsi nella posizione scomoda di dover condannare pubblicamente l’amministrazione americana potrebbe aver giocato la sua parte. D’altronde, anche se la stessa Commissione europea ha ricordato che “le relazioni UE-CELAC sono molto importanti in questo contesto di sfide e divisioni geopolitiche”, è inutile chiedere all’Unione europea di scegliere tra gli Stati Uniti e qualsiasi altro partner al mondo.A ben vedere, gli stessi Paesi latinoamericani potrebbero non scegliere l’Unione europea, se posti di fronte alla stessa domanda. L’assenza di Sheinbaum, ad esempio, mostra che la priorità del Messico, piuttosto che approfondire i rapporti con il club a dodici stelle, è rinegoziare i dazi con gli Stati Uniti, destinazione di oltre l’80 per cento dell’export del Paese. È proprio in questo contesto di “sfide e divisioni geopolitiche”, che ognuno – soprattutto i pesci più piccoli, come l’UE e l’America Latina – si promettono in matrimonio ma sono pronti a legarsi alle grandi potenze. È proprio in questo contesto che lo scorso maggio, infine, si è tenuto il quarto forum tra i 33 dell’America latina e dei Caraibi e la Cina, a Pechino, alla presenza di Xi Jinping.