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    L’onda lunga della Brexit. Il Regno Unito paralizzato dagli scioperi a causa della stagnazione economica

    Bruxelles – Il Regno Unito non riesce ad assestarsi politicamente ed economicamente, a quasi due anni dall’uscita ufficiale di Londra dall’Unione Europea. Ferrovieri, personale della polizia di frontiera e delle poste, autisti del trasporto pubblico e infermieri sono pronti a incrociare le braccia anche durante le festività natalizie, per protestare contro la persistente stagnazione economica che sta impattando pesantemente sui salari dei dipendenti pubblici. Il governo conservatore guidato da Rishi Sunak deve affrontare ora un’impennata di scioperi che non ha eguali negli ultimi 30 anni, con all’orizzonte anche il rischio di tracollo della politica restrittiva nei confronti dei cittadini Ue stabilitisi nel Regno Unito attraverso il programma di insediamento del 2018.
    A causare la nuova ondata di scioperi – che cresce di mese in mese da giugno – è l’impennata del costo della vita e dell’inflazione, sotto i colpi delle conseguenze delle crisi che hanno travolto il Paese negli ultimi anni: dalla Brexit alla pandemia Covid-19, fino ad arrivare alla guerra russa in Ucraina con l’impatto sui prezzi dell’energia e sulle catene di approvvigionamento globali. Come emerge dai dati pubblicati dall’Office for National Statistics (Ons), tra agosto e ottobre 2022 si è registrato uno dei maggiori cali nei salari britannici dall’inizio delle registrazioni nel 2001: nonostante il segno positivo sulla crescita complessiva delle retribuzioni, al netto dell’inflazione il crollo si attesta al 2,7 per cento rispetto al 2021 (già lo scorso anno si era registrato un -3 per cento rispetto al 2020). A questo si somma il fatto che per il settore privato la crescita media dei salari (senza considerare quindi l’impatto dell’inflazione) ha più che doppiato quella del settore pubblico (+6,9 contro +2,7 per cento): come dichiarato dalla stessa agenzia governativa britannica per le informazioni statistiche, si tratta di “una delle più grandi differenze tra i tassi di crescita del settore privato e pubblico mai viste“.
    Gli scioperi dei dipendenti pubblici nel Regno Unito tra il 19 e il 31 dicembre 2022 (fonte: CNN su dati dell’Office for National Statistics)
    Nella memoria pubblica del Regno Unito l’ondata di scioperi in atto riporta alla mente quelle degli inverni 1978-1979, quando si registrarono dure dispute salariali tra governo e sindacati del settore pubblico e privato (chiuse poi dalle politiche economiche della prima ministra Margaret Thatcher). In realtà l’ultimo picco nel numero di scioperi paragonabile a quello registrato nell’ottobre 2022 (124) è quello del febbraio del 1988 (128). Secondo l’Ons durante l’ultimo mese per cui sono disponibili i dati 2022 sono stati persi in totale 417 mila giorni lavorativi nel corso degli scioperi dei dipendenti dei diversi comparti economici britannici.
    Le nuove proteste iniziate lunedì (19 dicembre) mettono sempre più sotto pressione il governo tory in carica da nemmeno due mesi, accusato di non tenere conto delle richieste dei lavoratori e di non avere ancora una linea politica chiara su come mettere fine a un’instabilità economica e politica che dopo la Brexit è andata peggiorando (tutto al contrario di quanto promesso dai suoi fautori). Downing Street 10 ha visto succedersi quattro primi ministri dalle dimissioni di David Cameron nel luglio 2016, a poche settimane dall’esito del referendum sulla Brexit (in ordine, Theresa May, Boris Johnson, Liz Truss e Rishi Sunak), e ancora il Paese non sembra essersi ripreso del tutto dalla grave crisi finanziaria scatenata dalla proposta di riforma fiscale del governo Truss, il più breve della storia del Paese. Per il gabinetto Sunak non ci sarebbe spazio di manovra per soddisfare le rischieste salariali, ma l’opinione pubblica britannica è tendenzialmente solidale con i lavoratori in sciopero e il rischio nel 2023 è di vedere un nuovo cambio di inquilino a Downing Street 10.
    Il numero di scioperi mensili registrati nel Regno Unito dal 1970 al 2022 (fonte: CNN su dati dell’Office for National Statistics)
    Tra cittadini Ue nel Regno Unito e contese con Bruxelles
    Ma il governo britannico si deve guardare anche da un altro colpo che arriva dall’interno del Paese e che rischia di screditare la politica portata avanti negli ultimi quattro anni dai governi tory nei conforti dei cittadini comunitari che vivono e lavorano nel Paese. Con una sentenza deliberata ieri (21 dicembre) l’Alta Corte di Giustizia ha dichiarato illegittimo il programma di insediamento del governo britannico per i cittadini Ue che vivono nel Paese. L’Eu Settlement Scheme è stato concepito nel 2018 per consentire ai cittadini comunitari di continuare a soggiornare e lavorare nel Regno Unito dopo la Brexit, con la concessione dello status di residente per avere accesso ai servizi di welfare. Tuttavia a oltre il 40 per cento dei richiedenti (2,5 milioni) è stato concesso solo lo status di pre-insediamento, che conferisce il diritto di residenza per cinque anni ma – in caso di ritardo nella presentazione della domanda di rinnovo – porterebbe automaticamente alla perdita del diritto al lavoro, all’alloggio, all’istruzione e alla richiesta di sussidi, con il rischio di essere espulsi.
    (credits: Daniel Leal / AFP)
    In vista della prima scadenza per il rinnovo dello status di pre-settled per agosto 2023 – cinque anni dopo l’introduzione della legge – il tribunale di primo grado della Royal Courts of Justice di Londra ha sancito che è illegale che i cittadini Ue perdano i loro diritti se non ripresentano domanda per lo status di pre-insediamento prima della scadenza: una volta che risiedono per il periodo richiesto di cinque anni, a tutti i cittadini comunitari dovrebbe essere concesso il diritto di risiedere permanentemente nel Regno Unito. La sentenza sarà impugnata dal governo britannico, che sostiene che la Commissione Europea sarebbe stata a conoscenza del fatto che i cittadini Ue con status di pre-settled sarebbero tenuti a presentare una seconda domanda di residenza permanente. Ma, se confermata la sentenza, l’esecutivo guidato da Sunak dovrà modificare la legge voluta dal governo May.
    A proposito del rapporto tra Londra e Bruxelles, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha avuto uno scambio con il premier britannico “sul nostro continuo e stretto coordinamento sul sostegno all’Ucraina e sulle sanzioni contro la Russia”. La numero uno dell’esecutivo comunitario ha però ricordato che è necessario “lavorare insieme per trovare soluzioni per quanto riguarda il protocollo sull’Irlanda del Nord“. La contesa va avanti dal marzo 2021, in particolare sulla questione del periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda, ovvero la durata della concessione temporanea ai controlli Ue sui certificati sanitari – e non – per il commercio dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord. Il tentativo di prorogare unilateralmente il periodo di grazia da parte dell’allora governo Johnson aveva scatenato lo scontro diplomatico tra le due sponde della Manica, apparentemente risolto tra luglio e ottobre dello scorso anno: l’esecutivo comunitario aveva prima sospeso la procedura d’infrazione contro Londra, per cercare poi delle soluzioni di compromesso su tutti i settori più delicati, ma senza mai mettere in discussione l’integrità della parte dell’accordo di recesso tra Ue e Regno Unito siglato per garantire l’unità sull’isola d’Irlanda. A metà giugno di quest’anno la Commissione ha scongelato la procedura d’infrazione e ne ha attivate altre due per la decisione di Londra di tentare la strada della modifica unilaterale del protocollo.

    Happy to exchange with @RishiSunak on our continued close coordination on support to Ukraine and sanctions against Russia.
    We will also push for ambitious #G7 and #G20 agendas.
    On IE/NI Protocol, we concur on the importance of working together to agree on solutions. pic.twitter.com/CndTSjQgaD
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) December 22, 2022

    Durante le festività natalizie incroceranno le braccia ferrovieri, personale della polizia di frontiera e delle poste, autisti del trasporto pubblico e infermieri. Intanto dall’Alta Corte di Giustizia arriva un duro colpo alla politica restrittiva del governo sulle domande di insediamento di cittadini Ue

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    I talebani chiudono le porte delle università alle donne afghane, per l’Ue è “crimine contro l’umanità”

    Bruxelles – Prima il divieto di frequentare parchi e palestre, poi l’obbligo di indossare il niqab, il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi, ora la mazzata più devastante: in Afghanistan, il regime dei talebani ha chiuso le porte delle università alle donne “fino a nuovo ordine”. In 16 mesi, altrettanti decreti che hanno a poco a poco estromesso le donne dalla vita pubblica del Paese.
    La fazione integralista islamica, che ha preso il potere a Kabul nell’agosto del 2021, sta inasprendo sempre più la sua interpretazione della Sharia (la legge islamica): dopo aver già escluso le ragazze dalla maggior parte delle scuole secondarie, ieri (21 dicembre) il ministro dell’Istruzione superiore, l’ex comandante militare Neda Mohammad Nadim, ha inoltrato una lettera a tutte le università del Paese in cui ordina di “sospendere le donne dall’istruzione universitaria”. Definito da Nadim “non islamico e contrario ai valori afghani”, il percorso scolastico femminile viene di fatto bloccato dopo che, neanche tre mesi fa, a migliaia di donne era stato permesso di sostenere gli esami di ammissione agli atenei del Paese, anche se con pesanti restrizioni sulla scelta dei corsi di studio.
    Ragazze afghane all’esame di ammissione all’Università di Kabul, 13/10/2022 (Photo by Wakil KOHSAR / AFP)
    Donne che sono scese in piazza, a Kabul e a Jalalabad, per protestare contro il regime, seguite dai colleghi maschi e da alcuni professori che hanno deciso di abbandonare le aule in segno di solidarietà. È arrivata immediatamente anche la ferma condanna della comunità internazionale: i governi di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Spagna, Olanda, Norvegia, Svizzera, Canada e Australia hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui definiscono le oppressive misure del regime “implacabili e sistemiche”, che smascherano “il disprezzo dei talebani per i diritti umani e le libertà fondamentali del popolo afghano”. I ministri degli esteri degli 11 Paesi promettono che “le politiche talebane progettate per eradicare le donne dalla vita pubblica avranno conseguenze” sulle relazioni con il regime.
    Alla condanna si è unito l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha citato lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, secondo cui “le privazioni intenzionali dei diritti fondamentali a causa dell’identità del gruppo o della collettività, commesse nell’ambito di un attacco diffuso o sistematico, sono definite crimini contro l’umanità“. L’Unione europea, ancora presente a Kabul con una sede allo scopo di monitorare la situazione umanitaria e facilitare la consegna degli aiuti, “rimane impegnata nei confronti del popolo afghano” e continuerà a fornire “l’assistenza necessaria alla popolazione nel miglior modo possibile”.

    The EU strongly condemns the Taliban’s decision to suspend higher education for Afghan women.
    A unique move in the world that violates rights and aspirations of Afghans and deprives #Afghanistan of women’s contributions to society.
    Gender persecution is a crime against humanity
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) December 21, 2022

    La decisione di sospendere le ragazze dall’istruzione universitaria è solo l’ultima di una serie di misure che hanno estromesso le donne dalla vita pubblica. Ferma condanna della comunità internazionale e del capo della diplomazia europea, Josep Borrell: “Ci saranno conseguenze sulle relazioni con il regime”

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    Il 3 febbraio vertice Ue-Ucraina, Zelensky invitato nella capitale d’Europa

    Bruxelles – Il 12 ottobre di un anno fa calava il sipario a Kiev il 23° vertice tra l’Unione europea e l’Ucraina con il fermo sostegno di Bruxelles all’indipendenza e territoriale del Paese e l’estensione le sanzioni economiche contro la Russia per l’annessione illegale della Crimea del 2014. Oggi (22 dicembre) fonti europee confermano che il prossimo vertice tra Bruxelles e Kiev si terrà nella capitale belga il 3 febbraio e il formato sarà lo stesso: Ursula von der Leyen, a nome della Commissione europea, Charles Michel in rappresentanza del Consiglio europeo, e Volodymyr Zelenskyy a nome dell’Ucraina.
    A essere diverso sarà lo scenario, perché da quel 12 ottobre tutto è cambiato per l’Ucraina e per i rapporti tra Unione europea e Kiev. Sullo sfondo del futuro Summit la guerra di Russia in Ucraina, iniziata con l’invasione del territorio di Kiev il 24 febbraio scorso. Visto il contesto in cui prenderà le mosse il Summit, per il momento nessuna conferma su dove avrà luogo il Summit. A quanto si apprende, Michel avrebbe invitato il presidente Zelensky a visitare la capitale belga anche se la visita non sarebbe collegata al Vertice. Il summit non sarà con tutti i leader dei 27 Stati membri, ma manterrà il formato tradizionale con i presidenti del Consiglio e della Commissione europea.
    Non è difficile immaginare che le conseguenze della guerra, sul piano economico, energetico e della ricostruzione, saranno al centro del Summit di Bruxelles. Ma lo scenario sarà diverso anche perché dallo scorso giugno, Kiev è ufficialmente un Paese candidato all’adesione all’UE, in quello che è stato un decisionale mai così veloce da parte della Commissione, accelerato senza dubbio dalla guerra.

    Il vertice non sarà con tutti i leader dei 27 Stati membri, ma manterrà il formato tradizionale con i presidenti del Consiglio europeo, Charles Michel, e della Commissione europea, Ursula von der Leyen. La presenza a Bruxelles del presidente ucraino ancora non confermata

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    Qatargate, le inquietudini della Commissione Ue

    Bruxelles – La Commissione europea si smarca dallo scandalo di presunta corruzione dal Qatar e dal Marocco che sta colpendo l’europarlamento e che lambisce indirettamente alcune personalità legate all’esecutivo comunitario. Dopo i dubbi sollevati sulla posizione del vicepresidente Margaritis Schinas, a causa dei suoi ripetuti endorsement al governo di Doha (dubbi pubblicamente respinti con decisione dal commissario greco) sotto la lente d’ingrandimento dei media è finito l’ex commissario per le Migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza, il greco Dimitris Avramopoulos, che ha ammesso recentemente di aver ricevuto un compenso annuale di 60 mila euro dall’ong di Antonio Panzeri, Fight Impunity.
    La Commissione, che aveva concesso un’autorizzazione “con restrizioni” ad Avramopoulos per il suo incarico nell’organizzazione di Panzeri, vuole vederci chiaro: il portavoce capo del gabinetto von der Leyen, Eric Mamer, ha annunciato oggi (21 dicembre) che sono state “portate avanti verifiche interne” all’istituzione. “Abbiamo notato che l’ex commissario Avramopoulos ha incontrato diversi Commissari, nelle date dal 15 al 17 novembre 2021”, ha proseguito Mamer: incontri che Avramopoulos avrebbe definito “brevi visite di cortesia” a ex colleghi, ai suoi successori, come nel caso dell’attuale commissaria per le Migrazioni e gli affari interni, Ylva Johansson, e a vecchi amici, come la greca Stella Kyriakides, commissaria per la salute e la politica dei consumatori.
    L’ex commissario Ue Dimitris Avramopoulos
    Il nocciolo della questione è che Avramopoulos accettò l’incarico nell’ong di Panzeri prima del periodo di “cooling off” di due anni previsto per i Commissari dal codice di condotta interno all’esecutivo Ue, e per questo la Commissione gli aveva specificato chiaramente che non avrebbe potuto avere contatti con i membri del gabinetto von der Leyen per conto di Fight Impunity. Nonostante i controlli interni abbiano per ora confermato che “in nessuno di questi meeting sono stati discussi temi relativi all’organizzazione”, la Commissione avrebbe chiesto ad Avamopoulos “ulteriori informazioni sul rispetto delle condizioni poste nell’autorizzazione”.
    Sul Qatargate si è espresso nella giornata di ieri (20 dicembre) il Commissario Ue per gli affari economici e monetari, Paolo Gentiloni, che in un’intervista alla CNN ha definito la vicenda “una vergogna”, evitabile soltanto “rafforzando le nostre regole di trasparenza”. Perché, ha ricordato Gentiloni, “Bruxelles è il secondo centro mondiale di lobby dopo Washington”: gruppi di pressione che intrattengono relazioni con le istituzioni, che talvolta ricevono finanziamenti da queste e che cercano di influenzarne l’agenda politica. Come nel caso della seconda Ong coinvolta nel presunto giro di mazzette da Qatar e Marocco, No peace without justice, il cui presidente, Niccolò Figà-Talamanca, è in stato di arresto a Bruxelles con la modalità del braccialetto elettronico. La Commissione ha confermato di “aver lavorato per diversi anni, anche prima di questo mandato” con l’organizzazione di Figà-Talamanca, che ha ricevuto “un certo numero di finanziamenti e che avrebbe potuto riceverne altri in futuro”. Avrebbe, perché No peace without justice è stata sospesa dal Registro per la trasparenza Ue lo scorso 13 dicembre, così come tutti i pagamenti ancora non effettuati a suo favore.
    La risolutezza con cui a Palazzo Berlaymont sono state avviate indagini interne per scongiurare qualsiasi coinvolgimento nella vicenda va di pari passo con la prudenza con cui la Commissione ha deciso di proseguire i rapporti – a differenza del Parlamento Ue- con il Qatar: sempre nella giornata di ieri l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Ue, Josep Borrell, ha incontrato il ministro degli esteri di Doha a margine della seconda conferenza di Baghdad per la cooperazione e il partenariato. Nel bilaterale Borrell avrebbe discusso “argomenti bilaterali e sfide regionali, nonché altre questioni, comprese le accuse contro alcuni membri e il personale del Parlamento europeo”, concordando con il ministro Al Thani “sulla necessità che le indagini in corso forniscano piena chiarezza“. Sullo sfondo c’è il rischio di compromettere una delle priorità del gabinetto von der Leyen, la sicurezza energetica del continente: il Qatar, primo fornitore di gas per l’Ue, ha già minacciato ripercussioni sugli accordi commerciali qualora fosse ritenuto colpevole dello scandalo.

    Met Qatari FM @MBA_AlThani_ in Jordan.
    We discussed bilateral topics and regional challenges, as well as other issues, including allegations against some members and staff of the European Parliament.
    We agreed on the need that ongoing investigations provide full clarity. pic.twitter.com/pkl68EOO7z
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) December 20, 2022

    Prima i dubbi sul vicepresidente Schinas, ora il caso dell’ex commissario Avramopoulos e i finanziamenti all’ong No Peace Without Justice: l’esecutivo Ue si difende e procede a indagini interne. Intanto Borrell incontra il ministro degli Esteri di Doha e chiede di aspettare “che le indagini forniscano piena chiarezza”

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    I ministri degli Esteri di Slovenia e Austria sono in Montenegro su mandato Ue per affrontare la crisi istituzionale

    Bruxelles – In missione per conto dei Ventisette. I ministri degli Esteri di Slovenia, Tanja Fajon, e Austria, Alexander Schallenberg, sono oggi (mercoledì 21 dicembre) in Montenegro per una missione voluta dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, per affrontare una situazione sempre più instabile nel Paese balcanico che finora si è potuto fregiare del titolo di ‘più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ tra i 10 che sono coinvolti nel processo di allargamento dell’Unione.
    Il primo ministro ad interim del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    “Il Montenegro è uno dei partner più stretti dell’Unione Europea, a buon punto nei negoziati di adesione e con il più lungo record di pieno allineamento con la politica estera e di sicurezza comune dell’Ue”, è quanto specifica il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), senza nascondere che “la visita giunge in un momento in cui i recenti sviluppi politici hanno provocato una grave crisi istituzionale, minando le istituzioni democratiche e rallentando i progressi del Paese nel suo percorso di adesione”. La questione più urgente per Bruxelles riguarda “il sostegno da parte di tutti gli attori politici alla piena funzionalità delle istituzioni, in particolare della Corte Costituzionale“, che rappresenta una delle condizioni prioritarie per “avanzare verso l’adesione all’Ue, auspicata dalla stragrande maggioranza dei cittadini montenegrini”. Lo dimostrerebbero le bandiere dell’Unione Europea sventolate dai manifestanti che stanno protestando a Podgorica contro la nuova legge sui poteri presidenziali.
    Il messaggio (e la missione stessa) dei due ministri al presidente montenegrino, Milo Đukanović, alla leader dell’Assemblea nazionale, Danijela Đurović, e al primo ministro ad interim, Dritan Abazović, dimostra quanto per i Ventisette e per le istituzioni comunitarie sia diventata preoccupante la situazione nel Paese balcanico. Mentre lunedì scorso (12 dicembre) una maggioranza risicata di forze filo-serbe all’Assemblea nazionale ha approvato una contestata legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, a Podgorica non sono ancora stati nominati tutti i membri della Corte Costituzionale (unico organismo che può valutare la legge stessa). Ecco perché Bruxelles non considera il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. “La nomina dei membri della Corte Costituzionale è necessaria per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini”, ha già messo in chiaro il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi.

    📢At their joint press conference today Foreign Affairs Ministers of 🇦🇹Austria @a_schallenberg & 🇸🇮Slovenia @tfajon sent important messages for 🇲🇪 Montenegro’s 🇪🇺 European future. Watch here 👇 https://t.co/5o3F02STaY
    — Oana Cristina Popa 🇪🇺 (@EUAmbME) December 21, 2022

    La crisi istituzionale in Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni per la primavera del 2023.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora Abazović è premier ad interim, mentre si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare la maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo il primo via libera di inizio novembre alla legge contestata da parte dell’Assemblea nazionale, la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo del 12 dicembre con un solo deputato in più rispetto alla soglia-limite della maggioranza. La legge permetterà ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato: in caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese Đukanović ha proposto di tornare alle urne – a due anni dalle ultime elezioni parlamentari – dopo essersi rifiutato di confermare come nuovo primo ministro il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno.
    Rimane evidente che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese. In questo contesto in Montenegro sta emergendo un nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, Europe Now, che si è fatto conoscere con il secondo posto (21,7 per cento dei voti e 13 seggi su 58 in Assemblea cittadina) alle amministrative di ottobre nella capitale montenegrina.

    Tanja Fajon e Alexander Schallenberg sono stati incaricati dall’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, di ribadire a Podgorica che l’adesione all’Unione passa dalla piena funzionalità della Corte Costituzionale. Proseguono le proteste contro l’adozione della legge sui poteri presidenziali

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    Iran, bilaterale tra Borrell e il ministro degli esteri di Teheran a causa del “deterioramento dei rapporti” con l’Ue

    Bruxelles – Un incontro vis à vis, dopo i ripetuti colloqui telefonici delle ultime settimane. L’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il Ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, hanno sfruttato la seconda conferenza di Baghdad per la cooperazione e il partenariato per discutere in un bilaterale le forti divergenze che allontanano sempre di più Bruxelles e Teheran. La brutale repressione delle proteste interne messa in atto dal regime dell’ayatollah Khamenei, la vendita di droni militari alla Russia, la trattativa decennale sul nucleare iraniano: questi i temi sollevati da Borrell a margine del summit regionale, che si è tenuto oggi (20 dicembre) nella capitale del regno di Giordania, Amman.

    Necessary meeting w Iranian FM @Amirabdolahian in Jordan amidst deteriorating Iran-EU relations Stressed need to immediately stop military support to Russia and internal repression in IranAgreed we must keep communication open and restore #JCPOA on basis of Vienna negotiations
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) December 20, 2022

    Un faccia a faccia “reso necessario a causa del deterioramento delle relazioni Ue-Iran“, ha dichiarato in un tweet il capo della diplomazia europea: negli ultimi mesi la Repubblica islamica e le istituzioni europee si sono sfidate a colpi di sanzioni, in un’escalation che ha toccato il punto più alto con la decisione, presa lo scorso 23 novembre dalla presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, di interrompere qualsiasi contatto tra gli europarlamentari e i loro omologhi di Teheran.
    Come ha ribadito il portavoce della Commissione europea responsabile per gli Affari esteri, Peter Stano, l’Iran “è entrato nell’agenda degli ultimi tre vertici dei 27 ministri degli Esteri Ue”, dato significativo per capire i venti che soffiano a Bruxelles sul dossier iraniano. Nell’ultimo Consiglio Affari esteri Ue, il 12 dicembre, i 27 Paesi membri hanno deciso di aggiungere alle misure restrittive anche gli alti gradi dei Pasdaran, le guardie della Rivoluzione islamica, e l’emittente televisiva statale del regime, l’Irib: ora nella lista nera di Bruxelles figurano ben 155 individui e 12 entità, soggetti al congelamento dei beni e al divieto di viaggio in territorio Ue.
    Peter Stano ha assicurato che “in ogni meeting con i partner l’Ue si prende tutto il tempo necessario per veicolare i propri messaggi”: sempre su twitter, Borrell ha reso noto di aver insistito affinché Teheran metta fine immediatamente al supporto militare al Cremlino e alla brutale repressione interna, che, secondo l’ultimo bollettino dell’ong Iran Human Rights, ha già provocato 469 vittime, tra cui 63 minori e 32 donne.
    Le trattative sul nucleare iraniano
    L’Alto rappresentante Ue avrebbe cercato di lavorare i fianchi di Amirabdollahian anche su un terzo punto: la ripresa dei dialoghi sul JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), l’accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015 a Vienna dall’Unione europea, dall’Iran e dal gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia e Germania), messo in stand-by nel 2018, quando gli Stati Uniti dell’allora presidente Donald Trump hanno deciso unilateralmente di ritirarsi. “Ci siamo trovati d’accordo nel mantenere aperta la comunicazione e ripristinare il JCPOA sulla base dei negoziati di Vienna”, ha dichiarato ancora Borrell.
    Le trattative sull’intesa, che pone significative restrizioni al programma nucleare iraniano in cambio della cessazione delle sanzioni economiche imposte dalle Nazioni Unite a Teheran, sono lentamente riprese a novembre 2021 grazie al cambio di amministrazione a Washington, ma lo sforzo diplomatico per avvicinare le parti è soprattutto a carico di Bruxelles: come ha sottolineato il portavoce Peter Stano, “Borrell è il coordinatore del JCPOA, quindi è logico che incontri tutte le parti dell’accordo, specialmente nel momento in cui si cerca di riportare l’intesa a un pieno funzionamento”.

    Il capo della diplomazia europea ha incontrato Hossein Amirabdollahian a margine della seconda conferenza di Baghdad per la cooperazione e il partenariato: sul tavolo la violenta repressione delle proteste nel Paese, il sostegno militare di Teheran al Cremlino e la ripresa dei dialoghi sul programma nucleare iraniano

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    Dopo l’intesa politica tra i leader Ue l’economia russa viene colpita con il nono pacchetto di sanzioni

    Bruxelles – A due settimane dalla fine dell’anno più turbolento per i rapporti tra Unione Europea e Russia, a causa dell’aggressione armata dell’Ucraina da parte di Mosca, i Ventisette hanno dato un altro colpo all’economia russa, imponendo un nuovo pacchetto di sanzioni contro il regime di Vladimir Putin. La nona tornata di misure restrittive è una risposta all’escalation della guerra sul fronte orientale e prende di mira il settore energetico, minerario e tecnologico russo, ma cercando di non mettere a repentaglio la sicurezza alimentare globale.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel
    “Dopo il cibo e la fame, Putin sta ora utilizzando l’inverno come arma, privando deliberatamente milioni di ucraini di acqua, elettricità e riscaldamento“, è il duro commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell. Il via libera dal Consiglio dell’Ue alle nuove sanzioni è arrivato dopo l’intesa politica tra i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri durante il vertice di ieri (giovedì 15 dicembre): “Il Consiglio Europeo accoglie con favore il rafforzamento delle misure restrittive dell’Ue nei confronti della Russia, anche attraverso il nono pacchetto di misure restrittive e il tetto internazionale dei prezzi del petrolio“, si legge nelle conclusioni, con un richiamo alle misure contenute nell’ottavo pacchetto di sanzioni.
    Il nodo principale su cui “ci eravamo bloccati nella procedura scritta” – come confessato in conferenza stampa post-vertice dal presidente del Consiglio Ue, Charles Michel – ha riguardato la deroga delle sanzioni per gli oligarchi russi attivi nel campo alimentare e dei fertilizzanti e del cibo. Come spiegato da fonti Ue a margine del Consiglio, l’esenzione si applicherà solo per questo tipo di transazioni, dal momento in cui le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazioni sul fatto che le consegne di cibo e fertilizzanti sono ritardate dai controlli nei porti degli Stati membri Ue e dei partner internazionali. In ogni caso Bruxelles sottolinea con forza che “nessuna delle misure adottate riguarda in alcun modo il commercio di prodotti agricoli e alimentari tra Paesi terzi e Russia”. Tuttavia, considerata la “ferma volontà” dell’Unione di combattere l’insicurezza alimentare globale, “è stato deciso di introdurre una nuova deroga che consenta di scongelare i beni e mettere a disposizione fondi e risorse economiche a determinate persone” che ricoprono un “ruolo significativo” nel commercio di prodotti come “grano e fertilizzanti“.

    Sciolto questo nodo e trovato “il giusto bilanciamento tra la fermezza contro il Cremlino e la sicurezza alimentare”, come ha precisato il presidente Michel, la strada è stata in discesa per l’imposizione del nuovo ciclo di sanzioni. Sul piano energetico e minerario sono stati vietati nuovi investimenti in Russia, “fatta eccezione per attività di estrazione e di cava che coinvolgono materie prime critiche“. Per quanto riguarda il fronte tecnologico, sono vietate le esportazioni di beni e tecnologie che possono contribuire al potenziamento tecnologico del settore della difesa e della sicurezza (all’elenco dei sanzionati sono state aggiunte altre 168 entità del complesso militare e industriale russo): stop al commercio con Mosca di sostanze chimiche, agenti nervini, attrezzature per la visione notturna e la radio-navigazione, elettronica e componenti informatici.
    Ma nel capitolo delle esportazioni assume particolare rilevanza un’altra gamma di tecnologie-chiave per la guerra in Ucraina: nel campo dell’aviazione e dell’industria spaziale sono stati inclusi i motori degli aerei “sia di velivoli con equipaggio sia senza equipaggio”. In altre parole, da oggi sarà vietata l’esportazione di motori per droni in Russia “e in qualsiasi Paese terzo che potrebbe fornirli” a Mosca. Un riferimento nemmeno troppo velato all’Iran, già sanzionato per il supporto al Cremlino con droni e addestratori in Crimea. Sul fronte delle consulenze europee viene invece introdotto il divieto di servizi di collaudo di prodotti e di ispezione tecnica.
    Il nono pacchetto di sanzioni prevede anche il congelamento dei beni nei confronti di altre due banche russe, mentre la Banca russa di sviluppo regionale è stata aggiunta all’elenco di entità soggette al divieto totale di transazioni attraverso il sistema dei pagamenti Swift. La propaganda di regime viene poi colpita con il divieto di sospensione delle licenze di trasmissione di altri quattro media (oltre a Sputnik, Russia Today, Rossiya RTR / RTR Planeta, Rossiya 24 / Russia 24 e TV Centre International): si tratta di NTV / NTV Mir, Rossiya 1, REN TV e Pervyi Kanal. “Queste emittenti sono sotto il controllo permanente, diretto o indiretto, della leadership della Federazione Russa”, specifica il Consiglio dell’Ue, sottolineando che “sono state utilizzate per le continue e concertate azioni di disinformazione e propaganda di guerra”.

    I welcome the agreement on the 9th sanctions package against Russia.
    It focuses on tech, finance and media to push the Russian economy and war machine further off the rails.
    It sanctions almost 200 individuals and entities involved in attacks on civilians & kidnapping children https://t.co/3vx73DMZyz
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) December 16, 2022

    Dal divieto d’investimenti nel settore energetico e minerario a quello dell’esportazione di motori per droni anche a “qualsiasi Paese terzo che possa fornirli” a Mosca. Per sbloccare le misure restrittive è stata garantita la deroga agli oligarchi attivi nel campo alimentare e dei fertilizzanti

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    Il Consiglio Europeo dà l’ok alle sanzioni all’Iran e chiede di “annullare immediatamente” le esecuzioni capitali

    Bruxelles – I 27 leader dell’Ue danno il loro beneplacito alle sanzioni contro il regime in Iran, approvate lo scorso 12 dicembre al Consiglio Affari Generali. Lo scambio di opinioni tra i capi di Stato e di governo sulla situazione nella Repubblica Islamica è durato poco, il tempo di ribadire la “ferma condanna alle sentenze di pena di morte pronunciate ed eseguite recentemente nel contesto delle proteste in corso in Iran” e di chiedere ancora una volta “alle autorità di Teheran di terminare immediatamente questa pratica e annullare le sentenze”, come si legge nelle conclusioni del Consiglio Europeo che si è tenuto oggi (15 dicembre) a Bruxelles.
    Le sanzioni aggiuntive, che fanno seguito a quelle già decise il 17 ottobre e il 14 novembre, riguardano venti persone e un’entità: ora nella lista dei destinatari delle misure restrittive figurano 155 individui e 12 entità. Tra i nuovi sanzionati spiccano il direttore, diversi conduttori e reporter della Radio Televisione della Repubblica Islamica dell’Iran (Irib) e l’emittente statale stessa, megafono del regime, colpevole di trasmettere “confessioni estorte a detenuti, fra cui giornalisti, attivisti politici ed esponenti delle minoranze curde e arabe”. Oltre al canale media governativo, entrano per la prima volta nella lista nera gli alti gradi delle Guardie della rivoluzione, il corpo armato istituito nel 1979 dall’ayatollah Khomeini per difendere la rivoluzione islamica: i comandanti e vicecomandanti dei Pasdaran delle province iraniane sono ritenuti “responsabili della repressione violenta dei manifestanti civili”. Per tutti loro, le misure restrittive comprendono il congelamento dei beni, il divieto di viaggio nell’Ue e l’impossibilità di ricevere fondi o risorse economiche provenienti dal territorio comunitario.
    Roberta Metsola, 15/12/22
    Chi ha speso parole forti sul tema è la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, che dopo il dibattito con i 27 leader Ue ha dichiarato: “Quello che stiamo vedendo non ha precedenti, possiamo commentare il coraggio delle donne, chiedere libere elezioni, continuare a aggiungere sanzioni, ma dobbiamo anche mandare il messaggio che noi siamo con la gente che protesta”. Secondo Metsola c’è bisogno di maggiore fermezza e incisività nell’azione delle democrazie europee per fermare la repressione in corso in Iran: per questo la presidente dell’Eurocamera ha annunciato che lancerà “nei prossimi giorni una piattaforma interparlamentare con i colleghi del G7” per coordinare la risposta alle continue violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime degli ayatollah, sul modello di quelle istituite per l’Ucraina e per promuovere l’uguaglianza di genere.
    Alla voce Iran avanza parallelamente un altro dossier. Come ha sottolineato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, prima del meeting di oggi, il nuovo pacchetto di sanzioni riguarda “sia la questione interna al Paese sulla repressione delle dimostrazioni, sia la fornitura di armi e droni alla Russia”. Il Consiglio Affari Esteri ha aggiunto altre quattro persone e quattro entità all’elenco delle misure restrittive “relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina”, nel tentativo di fermare l’elaborazione e la fornitura di velivoli senza pilota (Uav) utilizzati dalla Russia nei bombardamenti sulle città ucraine.

    I 27 leader Ue “condannano fermamente le sentenze di pena di morte” e sostengono le misure restrittive che colpiscono gli alti gradi delle Guardie della Rivoluzione e l’emittente televisiva del regime. La presidente dell’Eurocamera Metsola vuole una piattaforma interparlamentare per coordinare l’azione Ue in difesa dei manifestanti