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    Via libera dalla Turchia all’ingresso della Finlandia nella Nato. La Svezia rimane ancora alla finestra

    Bruxelles – Dentro la Finlandia, ancora attesa per la Svezia. I due Paesi scandinavi, che quasi un anno fa hanno impresso una svolta strategica storica per le rispettive politiche di sicurezza nazionale, alla fine non concluderanno mano nella mano il processo di adesione all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), come per mesi sperato e dichiarato pubblicamente. Perché per Helsinki è arrivato in una settimana il doppio via libera all’ingresso nella Nato prima dall’Ungheria e poi dalla Turchia – gli unici due dei 30 Paesi membri che ancora non avevano ratificato il protocollo di adesione – mentre per Stoccolma la situazione è ancora di stallo e, per il momento, non si vede una via d’uscita.
    “Tutti i 30 membri della Nato hanno ratificato l’adesione della Finlandia”, ha annunciato nella tarda serata di ieri (30 marzo) il presidente finlandese, Sauli Niinistö, rivolgendo un ringraziamento “per la fiducia e il sostegno, saremo un alleato forte e capace, impegnato nella sicurezza dell’Alleanza”. Una dichiarazione arrivata a stretto giro rispetto al voto della Grande Assemblea Nazionale Turca (il Parlamento monocamerale della Turchia), che ha ratificato all’unanimità il protocollo di adesione del Paese scandinavo. Il via libera da Ankara è arrivato dopo mesi di temporeggiamento – il protocollo di adesione di Finlandia e Svezia è stato firmato il 5 luglio dello scorso anno – dal momento in cui i due Paesi hanno portato avanti insieme la candidatura e nelle intenzioni del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, l’allargamento si sarebbe dovuto realizzare come pacchetto unico entro il Summit di Vilnius del prossimo 11-12 luglio.
    La firma del memorandum d’intesa Nato tra Turchia, Svezia e Finlandia a Madrid (28 giugno 2022)
    Ma Turchia e Ungheria (quest’ultima ha ratificato il 27 marzo il protocollo di adesione di Helsinki) hanno tenuto e continuano a tenere bloccata la Svezia, anche se per ragioni differenti, e di fatto hanno costretto gli altri membri dell’Alleanza ad accettare lo ‘spacchettamento’ per la Finlandia: come precisato dal segretario generale Stoltenberg, il Paese diventerà “fra pochi giorni” il 31esimo membro della Nato. Stoccolma rimane ancora in attesa della fine del costante ricatto in merito all’estradizione dei membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), legato anche a questioni di politica interna. Di fronte al rischio di perdere per la prima volta in 20 anni il potere alle cruciali elezioni del 14 maggio, il presidente Recep Tayyip Erdoğan non avrebbe nessun interesse nello sbloccare le trattative con la Svezia prima di essersi assicurato la riconferma, dal momento in cui l’intransigenza sulla questione curda rimane uno dei temi centrali della sua leadership politica. Per l’Ungheria invece lo stallo è motivato dal contrasto diplomatico tra i due Paesi membri Ue (fino a luglio la Svezia detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue) per le critiche di Stoccolma sull’erosione dello Stato di diritto determinato dal governo di Viktor Orbán, come ha messo in chiaro il portavoce dell’esecutivo ungherese.
    “La Finlandia è al fianco della Svezia ora e in futuro e ne sostiene l’adesione”, ha ribadito con forza la prima ministra finlandese, Sanna Marin, che domenica (2 aprile) dovrà affrontare un delicatissimo appuntamento elettorale in patria. Anche il segretario generale della Nato Stoltenberg si attende di “accogliere il prima possibile la Svezia come membro a pieno diritto della famiglia Nato”, dal momento in cui “tutti gli alleati sono d’accordo che una conclusione rapida” del processo di ratifica per Stoccolma “è nell’interesse di tutti“. Tutti, meno Turchia e Ungheria, per il momento.

    #Finland 🇫🇮 will formally join our Alliance in the coming days. Their membership will make Finland safer & #NATO stronger. I look forward to also welcoming #Sweden 🇸🇪 as a full member of the NATO family as soon as possible.
    —@jensstoltenberg pic.twitter.com/ueaOwWdLaX
    — Oana Lungescu (@NATOpress) March 31, 2023

    Come si entra nella Nato
    Per diventare membro della Nato, un Paese deve inviare una richiesta formale, precedentemente approvata dal proprio Parlamento nazionale. A questo punto si aprono due fasi di discussioni con l’Alleanza, che non necessariamente aprono la strada all’adesione: la prima, l’Intensified Dialogue, approfondisce le motivazioni che hanno spinto il Paese a fare richiesta, la seconda, il Membership Action Plan, prepara il potenziale candidato a soddisfare i requisiti politici, economici, militari e legali necessari (sistema democratico, economia di mercato, rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, standard di intelligence e di contributo alle operazioni militari, attitudine alla risoluzione pacifica dei conflitti). Questa seconda fase di discussioni è stata introdotta nel 1999 dopo l’ingresso nella Nato di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per affrontare il processo con aspiranti membri con sistemi politici diversi da quelli dei Paesi fondatori dell’Alleanza, come quelli ex-sovietici.
    La procedura di adesione inizia formalmente con l’applicazione dell’articolo 10 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che prevede che “le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. La risoluzione deve essere votata all’unanimità da tutti i Paesi membri. A questo punto si aprono nel quartier generale della Nato a Bruxelles gli accession talks, per confermare la volontà e la capacità del candidato di rispettare gli obblighi previsti dall’adesione: questioni politiche e militari prima, di sicurezza ed economiche poi. Dopo gli accession talks, che sono a tutti gli effetti una fase di negoziati, il ministro degli Esteri del Paese candidato invia una lettera d’intenti al segretario generale dell’Alleanza.
    Il processo di adesione si conclude con il Protocollo di adesione, che viene preparato con un emendamento del Trattato di Washington, il testo fondante dell’Alleanza. Questo Protocollo deve essere ratificato da tutti i membri, con procedure che variano a seconda del Paese: in Italia è richiesto il voto del Parlamento riunito in seduta comune, per autorizzare il presidente della Repubblica a ratificare il trattato internazionale. Una volta emendato il Protocollo di adesione, il segretario generale della Nato invita formalmente il Paese candidato a entrare nell’Alleanza e l’accordo viene depositato alla sede del dipartimento di Stato americano a Washington. Al termine di questo processo, il candidato è ufficialmente membro dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.

    Dopo mesi di temporeggiamento anche la Grande Assemblea Nazionale Turca ha ratificato il protocollo di adesione di Helsinki all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Stoccolma bloccata sia da Ankara per la questione estradizioni, sia dall’Ungheria di Viktor Orbán

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    La nuova iniziativa di quattro Paesi dei Balcani Occidentali per l’allineamento completo alla politica estera dell’Ue

    Bruxelles – I Balcani Occidentali spingono per l’allineamento alla politica estera dell’Ue, per avvicinarsi ancora di più all’adesione all’Unione. Non tutti, perché la questione è molto delicata per Serbia e Bosnia ed Erzegovina, toccando direttamente il tema delle sanzioni internazionali contro la Russia. Ma gli altri quattro – Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro – hanno già fatto tutti i compiti a casa da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina e vedono nel rispetto totale delle misure restrittive dell’Ue uno dei punti di forza nel proprio percorso di avvicinamento all’ingresso nell’Unione.
    Ecco perché da ieri (29 marzo) è nata una nuova iniziativa politica, la Western Balkan Quad – 100% compliance with Eu foreign policy, con l’obiettivo di coordinare le politiche e le migliori pratiche dei quattro Paesi dei Balcani Occidentali. “Dopo l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina, l’allineamento alla Pesc [Politica estera e di sicurezza comune, ndr], ma ancor più in generale alle posizioni e ai valori del mondo democratico, si è trasformato in una delle priorità più importanti dei Paesi che aspirano all’adesione all’Ue, un chiaro messaggio di dove questi Paesi appartengono“, si legge nella dichiarazione congiunta dei ministri degli Esteri di Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro.
    Un’iniziativa nei Balcani Occidentali che nasce e si svilupperà “alla luce della nuova realtà geopolitica, delle minacce ibride, della crisi energetica e delle conseguenze economiche” causate dalla guerra russa, per cui l’Ue ha già deciso di stanziare un pacchetto complessivo da un miliardo di euro. I Paesi del Western Balkan Quad – un forum informale che affianca le già esistenti Open Balkan (zona economica e politica tra Albania, Macedonia del Nord e Serbia) e il Processo di Berlino (iniziativa diplomatica per l’allargamento Ue nella regione) – baseranno il proprio confronto sul fatto che “individualmente abbiamo dimostrato di essere partner affidabili della Nato e dell’Ue“, non solo con l’allineamento sulle sanzioni, ma anche attraverso “una specifica assistenza umanitaria e di altro tipo all’Ucraina”. Da qui ne scaturirà uno scambio “sugli attuali sviluppi regionali e internazionali, il processo di attuazione e applicazione delle politiche, dei regolamenti e degli standard dell’Ue”.
    Non si può non notare l’assenza di due attori centrali per i rapporti dell’Ue con i Balcani Occidentali: Serbia e Bosnia ed Erzegovina. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, la Serbia ha sempre cercato di mantenere una – quasi insostenibile – politica di non-allineamento, per non perdere da una parte il più influente partner commerciale e politico (l’Unione Europea, tra cui in particolare l’Italia riveste un ruolo chiave) e dall’altra il punto di riferimento privilegiato per la propria retorica nazionalista (la Russia). Questo riguarda anche le sanzioni internazionali contro la Russia, che Belgrado si è sempre rifiutata di adottare, e una serie di mosse politico-economiche al limite dello scontro diplomatico con Bruxelles. Più complessa la situazione in Bosnia ed Erzegovina, dove lo scenario politico è in costante stallo per le posizione manifestamente filo-russe della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del Paese: qualsiasi tentativo a Sarajevo di far passare politiche restrittive contro Mosca sono state bloccate dalla componente serba della presidenza tripartita e del Parlamento bicamerale.
    A che punto sono i sei Paesi dei Balcani Occidentali nel percorso verso l’Ue
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente deve essere implementato un delicatissimo accordo di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo.
    Il processo di allargamento Ue in cui sono impegnati i sei Paesi dei Balcani Occidentali inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.

    Si chiama “Western Balkan Quad – 100% compliance with Eu foreign policy” e riunisce Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro, ovvero i partner più allineati agli standard di Bruxelles per l’adesione all’Unione. In particolare per le sanzioni internazionali contro la Russia

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    Il Meccanismo regionale di rimpatrio per esternalizzare i confini esterni Ue nei Balcani, rimasto segreto per un anno

    Bruxelles – Un anno intero, per ottenere una dichiarazione congiunta tra i Paesi più o meno direttamente interessati dalla rotta balcanica in cui viene messo, nero su bianco, che si spingerà sulla politica di esternalizzazione delle frontiere dell’Ue nei sei Paesi dei Balcani Occidentali con finanziamenti e supporto per il rimpatrio di persone migranti provenienti da Paesi terzi. Un documento firmato da 27 ministri degli Interni il 22 febbraio 2022 e solo a marzo di un anno dopo messo a disposizione dell’opinione pubblica europea, sotto le pressanti richieste delle organizzazioni non governative.
    Si tratta del piano per l’istituzione di un Meccanismo regionale di rimpatrio per la rotta balcanica, per aumentare il numero di rimpatri di cittadini da Paesi terzi già sul territorio di Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, prima che queste persone possano arrivare alle frontiere esterne dell’Unione Europea e presentare richiesta di protezione internazionale. A firmare il documento sono stati i ministri dei Paesi aderenti al Forum di Salisburgo (Austria, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia), i sei dei Balcani Occidentali, Belgio, Germania, Danimarca, Francia (allora presidente di turno del Consiglio dell’Ue) e Svizzera. Un totale di 27 Paesi, di cui 20 membri dell’Unione Europea.
    Non era un segreto l’esistenza del Meccanismo oggetto della conferenza ministeriale della Piattaforma di coordinamento congiunto di Vienna – come emerso anche dalle parole del commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi – ma il contenuto della dichiarazione, con i i dettagli preliminari dell’accordo, non sono mai stati messi resi pubblici. Dopo le richieste di accesso ai documenti da parte dell’organizzazione non governativa Statewatch, si è arrivati nel marzo 2023 a scoprire che da un anno l’intesa mette al centro del Meccanismo un “sostegno mirato e orientato alla domanda nel campo del rimpatrio, in particolare dai Balcani Occidentali verso i Paesi terzi“. L’obiettivo è quello di assicurare la “rapida corrispondenza tra le esigenze e la possibile assistenza al rimpatrio” sulla base di un nuovo “Piano d’azione per il rimpatrio”.
    Lipa, Bosnia ed Erzegovina (23 dicembre 2020)
    La tendenza dei Paesi membri Ue a esternalizzare le frontiere esterne – in particolare sul fronte della rotta balcanica – e a prevedere finanziamenti ai Paesi di transito per la gestione delle politiche migratorie ‘appaltate’ dall’Unione si è poi riversata in due Piani d’azione presentati a distanza di alcuni mesi dalla Commissione Europea. Uno sulla rotta balcanica il 5 dicembre 2022 e uno, appunto, sui rimpatri il 24 gennaio scorso. Nessuna delle due iniziative dell’esecutivo comunitario menziona esplicitamente il Meccanismo regionale di rimpatrio stabilito con il piano del 22 febbraio dello scorso anno, ma i contenuti dei tre documenti – come priorità da implementare o come linee operative chiare – evidenziano la correlazione nel lavoro preparatorio per definire la strategia di esternalizzazione delle decisioni di rimpatrio nei Paesi interessati dalla rotta balcanica.
    Cosa prevede il Meccanismo regionale di rimpatrio sulla rotta balcanica
    Bruxelles, Belgio (24 febbraio 2023)
    Nel piano concordato dai 27 ministri viene stabilito che la cooperazione sui rimpatri si svolgerà nell’ambito della Piattaforma di coordinamento congiunto “e dei quadri dell’Ue”. Il Meccanismo regionale dovrà “facilitare il rapido incontro tra le esigenze e la possibile assistenza al rimpatrio”, stimolando il rimpatrio volontario, ma soprattutto sostenendo “l’attuazione del rimpatrio non volontario dei migranti che non necessitano di protezione internazionale o che non hanno il diritto di rimanere”. A disposizione dei Paesi di transito lungo la rotta balcanica ci saranno una serie di strumenti di assistenza per lo “sviluppo di orientamenti tecnici e l’elaborazione di una procedura operativa standard per il rimpatrio”, si legge ne documento.
    Emerge anche il sostegno per lo “sviluppo delle capacità” per le operazioni di frontiera e lo “scambio delle migliori pratiche” sui rimpatri con “misure adeguate e personalizzate”. Il tutto sarà riunito in un Piano d’azione per i rimpatri, “la cui attuazione sarà comunicata ai ministri e ai rappresentanti almeno una volta all’anno”. Parallelamente è prevista l’istituzione di “partenariati flessibili” per il rimpatrio tra Paesi dei Balcani Occidentali, dell’Ue e la Svizzera, con l’obiettivo sia di “facilitare l’attuazione delle attività del Meccanismo regionale per il rimpatrio”, sia di “agevolare i rimpatri tramite voli di linea e charter”.

    Nel febbraio 2022 i ministri degli Interni dei sei Paesi balcanici e di 20 membri Ue (più la Svizzera) hanno siglato un piano sui ritorni di cittadini di Stati terzi prima che possano arrivare alle frontiere dell’Unione e presentare domanda di asilo. Fino a oggi il testo non è mai stato reso pubblico

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    La Moldova scaccia i fantasmi filo-russi. Michel annuncia l’avvio dei negoziati per l’ingresso in Ue entro la fine dell’anno

    Bruxelles – Le bandiere russe che un mese fa hanno riempito le strade di Chișinău nelle violente manifestazioni contro la presidente Maia Sandu potrebbero presto essere sostituite da quelle a dodici stelle dell’Unione Europea. Il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, in visita in Moldova, ha posto il suo obiettivo: aprire i negoziati per l’adesione del Paese all’Unione “entro la fine dell’anno”.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Repubblica di Moldova, Maia Sandu (28 marzo 2023)
    Il viaggio del leader Ue a Chișinău non è casuale. Dopo le mobilitazioni filo-russe fomentate dal partito di opposizione Șor e con il sospetto di ingerenze dell’intelligence di Mosca, c’era bisogno di riaffermare il “pieno sostegno” dell’Ue “per il popolo moldavo” nel suo cammino verso l’ingresso nell’Unione. E di accelerarlo, se necessario, per scongiurare le mire espansionistiche del Cremlino, che vorrebbe fare della Moldova una nuova Bielorussia. Michel ha reso onore al “coraggio e alla determinazione” con cui il Paese partner ha risposto alle minacce russe, che ha tentato di destabilizzare il Paese “usando l’arma dell’energia, gli attacchi informatici, fomentando proteste antigovernative”.
    Come a voler scacciare definitivamente qualsiasi fantasma filo-putiniano dall’orizzonte, la presidente Sandu ha dichiarato che “l’integrazione europea è l’unica strada che possa assicurare la sopravvivenza della Repubblica di Moldova come un Paese libero e prospero, l’unica possibilità per vivere in libertà, pace e benessere”. La premier europeista ha rivendicato la “determinazione a restare parte del mondo libero” con cui la Moldova sta affrontando gli attacchi ibridi che partono da Mosca, sottolineando al contempo il “supporto solido” ricevuto da Bruxelles.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, con il presidente del Parlamento della Moldova, Igor Grosu (28 marzo 2023)
    Un miliardo di euro mobilitati nel corso del 2022 a sostegno della stabilità del Paese, e la volontà a “fare ancora di più”. I 27 Stati membri hanno chiesto, nel corso dell’ultimo Consiglio Europeo, che la Commissione Ue presenti un pacchetto di misure per la Moldova “prima dell’estate”. Nel frattempo, ha ricordato Michel, è importante che il governo guidato da Dorin Recean “continui a implementare i nove passi richiesti dall’esecutivo europeo” per soddisfare i requisiti per l’ingresso nell’Unione. La presidente moldava ha assicurato di essere già al lavoro per “raggiungere gli alti standard necessari per essere un Paese membro”. Gli sforzi del governo si concentrano soprattutto su “un sistema giudiziario indipendente, sulla lotta alla corruzione, sull’eradicazione dell’influenza degli oligarchi nella politica, nell’economia, nei mass media e nella giustizia”.
    Nel corso della sua visita, Michel ha incontrato anche il primo ministroRecean e il presidente del Parlamento di Chișinău, Igor Grosu. Il numero uno del Consiglio Europeo ha infine confermato che la capitale moldava ospiterà, il prossimo primo giugno, la seconda riunione della Comunità politica europea: “Siamo certi che sarà un successo”, ha concluso Michel.

    Il presidente del Consiglio Ue in visita a Chișinău ha ringraziato la presidente, Maia Sandu, per il “coraggio e la determinazione” con cui ha risposto ai tentativi di destabilizzazione di Mosca. Il Paese è al lavoro per soddisfare i nove requisiti posti dalla Commissione Europea

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    Tunisia, le condizioni di Gentiloni a Saied: assistenza macro-finanziaria Ue solo se si sblocca l’accordo con il Fmi

    Bruxelles – Dei diversi faccia a faccia che Paolo Gentiloni aveva segnato sulla sua agenda, la spunta rischiava di mancare proprio sul più importante. In Tunisia per conto di Bruxelles, il commissario Ue per l’Economia doveva incontrare il presidente della Repubblica, Kais Saied: in mattinata è circolata la notizia dell’annullamento del bilaterale, salvo poi, in extremis, essere smentita.
    Secondo quanto riferito da diverse agenzie, non sono stati resi pubblici i motivi del forfait iniziale, né quale delle due parti avrebbe declinato l’invito. Ma, intorno alle ore 18, una fonte della delegazione Ue a Tunisi ha chiarito che il colloquio è stato poi confermato e che è iniziato a quell’ora. Prima, una giornata comunque ricca di incontri: il commissario Ue ha discusso in mattinata con il ministro degli Esteri, Nabil Ammar, con il ministro dell’Economia, Samir Saied, con il governatore della Banca centrale tunisina, Marouane Abassi, e con la ministra delle Finanze, Sihem Boughdiri Nemsia. Per poi recarsi al Palazzo di governo, nella Kasbah di Tunisi, per un ricevimento con la premier Najla Bouden.
    Il presidente della Repubblica tunisina, Kais Saied (Photo by FETHI BELAID / AFP)
    “La Commissione europea rimane impegnata a sostenere il popolo tunisino nell’attuale contesto economico estremamente difficile”, creando una “vera crescita economica, nuovi posti di lavoro e migliori prospettive per i tunisini, in particolare donne e giovani”, ha dichiarato Gentiloni a margine degli incontri. La missione, preparata in tempi record, è infatti un tentativo di mettere una pezza “quanto prima” sulla situazione economica disastrosa in cui versa il Paese: sul tavolo dei bilaterali le riforme socioeconomiche previste dal governo tunisino e le modalità di una possibile nuova operazione europea di assistenza macro-finanziaria, che la Commissione “potrebbe prendere in considerazione a condizione che vengano soddisfatti determinati requisiti”. La prima condizione, come ha dichiarato lo stesso Gentiloni, “è l’adozione da parte del Fondo Monetario Internazionale di un nuovo programma di erogazione”.
    Perché la visita del commissario è anche il primo degli sforzi diplomatici che l’Ue ha deciso di intraprendere per convincere Saied a chiudere l’accordo con il Fondo Monetario Internazionale per un maxi prestito di quasi 2 miliardi di dollari. Il finanziamento, deciso già in ottobre, è stato poi congelato a causa della riluttanza del presidente a attuare le riforme politiche e economiche concordate al momento dell’accordo. In questo senso, non riuscire a incontrare Saied sarebbe stato un vero e proprio buco nell’acqua.
    Conclusa la missione di Gentiloni, in aprile sarà il turno della commissaria Ue per gli Affari interni, Ylva Johansson, supportata da una delegazione italo-francese (probabilmente i ministri degli Interni Matteo Piantedosi e Gérald Darmanin). Oltre a limare le posizioni oltranziste di Saied sul percorso di riforme, il viaggio di Johansson potrebbe portare a un rafforzamento della cooperazione in materia di gestione delle partenze e dei rimpatri delle persone migranti.  Che è poi il motivo principale dell’improvvisa rinnovata attenzione dell’Ue verso il partner nordafricano, lo spauracchio di nuovi massicci sbarchi evocato con forza dal governo italiano.

    Il colloquio con il presidente era stato annullato, ma alla fine Saied e Gentiloni si sono incontrati nel tardo pomeriggio. Bilaterali anche con la premier Najla Bouden, con i ministri degli Esteri e dell’Economia e con il governatore della Banca centrale

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    La notte più lunga di Israele, Netanyahu in bilico tra le proteste e l’estrema destra. Ma l’Ue esprime “fiducia nelle istituzioni” di Tel Aviv

    Bruxelles – L’Ue rimane alla finestra, muta spettatrice delle più grandi proteste che si ricordino nella storia di Israele. “Non c’è niente di nuovo da aggiungere”, ha affermato il portavoce del Servizio europeo di Azione Esterna (Seae), Peter Stano, ma a ben vedere qualcosa di straordinariamente inedito c’è. La tanto dibattuta riforma della giustizia portata avanti dall’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu sembra destinata a arenarsi sulle centinaia di migliaia di persone che da ieri sera hanno invaso le strade di Tel Aviv, Gerusalemme e dei maggiori centri urbani del Paese, e che tutt’ora stanno manifestando davanti alla Knesset, il parlamento israeliano.
    La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la decisione di Netanyahu di allontanare dal governo il ministro della Difesa, Yoav Galant, che sabato aveva invitato il premier a fermare l’iter per l’approvazione della riforma, a causa delle possibili conseguenze che questo potrebbe avere per la sicurezza nazionale. Come in una profezia auto avverante, la scelta di Netanyahu di procedere a testa bassa e di eliminare la voce fuori dal coro ha segnato un punto di non ritorno: da ieri sera (26 marzo) è stato proclamato uno sciopero generale a cui hanno aderito anche diverse università e l’aeroporto di Tel Aviv, l’autostrada principale del Paese è stata bloccata e migliaia di manifestanti hanno assediato la residenza del primo ministro. Il presidente Isaac Herzog in mattinata ha reiterato l’invito a “tutte le fazioni della Knesset, sia della coalizione di governo che dell’opposizione”, a “fermare immediatamente il processo legislativo, per il bene e l’unità del popolo di Israele”.
    Il leader dell’opposizione Yair Lapid, 27/03/23 [Ph da account Twitter di Yair Lapid]Il Paese aspetta che il primo ministro torni sui suoi passi, che ridimensioni definitivamente un progetto di riforma che limiterebbe pesantemente il potere della Corte Suprema a favore dell’esecutivo, ma Netanyahu sembra ora essere ostaggio dei suoi stessi uomini di governo, soprattutto della fazione più estremista della sua maggioranza. Il leader di Potere Ebraico, Itamar Ben Gvir, ha minacciato di far cadere il governo se il premier decidesse di fare marcia indietro: “Un arresto della riforma sarebbe una resa di fronte alle violenze nelle strade”, ha dichiarato su Twitter il ministro per la Sicurezza nazionale, che ha definito “anarchici”  i cittadini che si stanno opponendo al progetto legislativo. Anche Bezalel Smotrich, capo del Partito Sionista Religioso e ministro delle Finanze, ha ribadito di non volersi arrendere “alla violenza, all’anarchia, agli ammutinamenti nell’esercito e agli scioperi selvaggi”. Dall’altra parte della barricata, il leader dell’opposizione Yair Lapid soffia sul fuoco e invita i manifestanti a non cessare la mobilitazione contro il governo: “Gli estremisti non si fermano mai da soli. Ciò che li fermerà sei tu, la tua determinazione, il tuo patriottismo. Ama il tuo paese”, ha twittato l’ex primo ministro.
    Mentre i riflettori sono puntati su un Netanyahu braccato tra il popolo inferocito da una parte e i ricatti dell’estrema destra dall’altra, da Bruxelles continua a filtrare “fiducia nell’abilità delle istituzioni democratiche israeliane nell’affrontare la situazione”. La linea dell’Ue è quella discussa due settimane fa dal rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, e dal ministro degli Esteri di Tel Aviv, Eli Cohen. Un’Unione europea che “segue da vicino gli sviluppi in Israele”, con interesse e talvolta con preoccupazione, ma che preferisce “non interferire o commentare le vicende interne” di un prezioso partner in Medio Oriente.

    Dopo l’allontanamento del ministro che aveva chiesto di fermare la riforma della giustizia, centinaia di migliaia di persone sono scese per le strade di tutto il Paese. Il presidente Herzog ha invitato Netanyahu a fare marcia indietro, ma una parte della coalizione minaccia di far cadere il governo

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    Ancora provocazioni della Republika Srpska all’Ue. Sanzioni penali per diffamazione “raggelanti” sulla libertà dei media

    Bruxelles – La solita settimana di ordinaria follia nella Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina. Dopo l’onorificenza assegnata all’autocrate russo, Vladimir Putin, a inizio gennaio, a Banjka Luka viene presa a modello proprio la limitazione di Mosca alle libertà della stampa e dei media – nazionali e internazionali – con una serie di iniziative legislative chiaramente provocatorie nei confronti dei partner dell’Unione Europea, che da pochi mesi hanno garantito al Paese balcanico lo status di candidato all’adesione.
    “L’Unione Europea si rammarica che l’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska abbia votato a favore di emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per la diffamazione“, si legge in una nota particolarmente dura del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), ripresa poi dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Modifiche legislative che “imporrebbero restrizioni inutili e sproporzionate ai media indipendenti e alla società civile”, è la denuncia di Bruxelles contro “un chiaro passo nella direzione sbagliata”, che ha “un effetto raggelante sulla libertà dei media nella Republika Srpska”. Ma non solo: “Mette in discussione l’impegno strategico dei partiti al potere” nell’entità a maggioranza serba “per l’adesione della Bosnia ed Erzegovina all’Unione Europea”.
    Dopo l’adozione degli emendamenti con 48 voti a favore e 21 contrari, l’adozione definitiva della legge avverrà a seguito di un periodo di consultazione pubblica di 60 giorni. Saranno previste multe da 5 mila a 20 mila marchi bosniaci (2.550-10.200 euro) se la diffamazione avviene “attraverso la stampa, la radio, la televisione o altri mezzi di informazione pubblica, durante un incontro pubblico o in altro modo”. Il 22 maggio scadranno i 60 giorni di consultazione pubblica e per le istituzioni comunitarie è prioritario che gli emendamenti vengano ritirati e sia garantita “piena protezione della libertà di espressione e dei media”.
    Il presupposto è che, nella concessione dello status di Paese candidato all’adesione Ue a metà dicembre dello scorso anno, il Consiglio Europeo aveva stabilito questo principio come uno dei passi da compiere in tutte le entità della Bosnia ed Erzegovina, senza il quale non potranno essere avviati i negoziati di adesione. Al contrario, se la legge entrerà in vigore, “significherà un deplorevole e innegabile passo indietro nella tutela dei diritti fondamentali” e, per quanto riguarda il cammino del Paese verso l’Ue, “avrà un forte impatto sull’ambiente della società civile” e “sulla libertà di espressione e dei media”, rispettivamente i punti 11 e 12 delle 14 priorità-chiave della Bosnia ed Erzegovina.
    La legge sugli ‘agenti stranieri’ nella Republika Srpska
    I progetti politici nella Republika Srpska guidata da Milorad Dodik sembrano però andare in tutt’altra direzione. Nella seduta di giovedì scorso (23 marzo), il governo dell’entità serba della Bosnia ed Erzegovina ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero. Nel comunicato pubblicato al termine della seduta, il governo presieduto da Radovan Višković ha reso noto che lo scopo è quello di regolamentare per legge “l’area della pubblicità del lavoro delle organizzazioni non profit, le loro attività politiche, la pubblicazione dei rapporti finanziari, la tenuta dei libri contabili, così come la supervisione della legalità del lavoro e altre disposizioni sul lavoro”. Secondo le autorità di Banja Luka l’assenza di questa legislazione “ha creato i presupposti per il collasso del sistema giuridico e dell’assetto costituzionale della Repubblica Srpska“.
    Cioè che temono le associazione della società civile è che si stia replicando un modello già visto in Russia nell’ultimo decennio. Il progetto di legge ha tratti simili a quello adottato a Mosca dal primo dicembre dello scorso anno, che ha ampliato l’utilizzo politico dell’etichetta ‘agente straniero’ già utilizzata dal 2012 per colpire media indipendenti e Ong. Un’azione simile del governo della Georgia ha scatenato a inizio marzo una durissima reazione della stessa popolazione georgiana, che ha poi costretto il partito al potere a ritirare un progetto di legge in contrasto con i valori dell’Unione Europea sulla libertà di espressione e dei media (anche se, a differenza della Bosnia ed Erzegovina, il Paese del Caucaso meridionale non ha ancora ricevuto lo status di candidato all’adesione Ue). Il rischio è che lo stesso possa replicarsi nei Balcani Occidentali – con l’incertezza di una reazione di piazza – in un Paese dall’instabilità acclarata e in un’entità che non smette di creare problemi ai partner europei.

    Le istituzioni comunitarie attaccano l’Assemblea dell’entità a maggioranza serba in Bosnia ed Erzegovina per gli emendamenti liberticidi al Codice Penale: “Mette in discussione l’adesione del Paese all’Unione”. Ma all’orizzonte c’è anche una legge filo-russa sugli ‘agenti stranieri’

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    Il Grand Tour cinese. In due settimane Sanchez, Macron e von der Leyen in visita a Pechino

    Bruxelles – Due settimane di intensi sforzi diplomatici per non far scappare la Cina dal dialogo con i Ventisette e cercare di spingere un’intesa per mettere pressione sulla Russia. Il colpo di coda della due-giorni di Consiglio Europeo ed Eurosummit all’insegna delle preoccupazioni sul blocco sino-russo è stato un triplice annuncio dei programmi del premier spagnolo, Pedro Sánchez, del presidente francese, Emmanuel Macron, e della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, sulle rispettive visite a Pechino: una in solitaria di Sánchez, e l’altra del tandem Macron-von der Leyen, almeno “per una parte del viaggio”, ha puntualizzato l’inquilino dell’Eliseo.
    Il presidente francese, Emmanuel Macron (24 marzo 2023)
    Erano note da settimane le intenzioni di Macron di recarsi in visita in Cina verso la prima metà di aprile. L’annuncio alla stampa è arrivato dallo stesso presidente francese al termine del Consiglio Ue, che ha specificato il fatto di aver chiesto alla numero uno dell’esecutivo comunitario “di accompagnarmi in un pezzo della mia visita in Cina”. A strettissimo giro dalla comunicazione di Macron è seguita la conferma da parte dei portavoce della Commissione Europea (dal momento in cui non si è tenuta nessuna conferenza stampa in conclusione della vertice dei Paesi dell’Eurozona). La presidente von der Leyen si recherà in Cina con il presidente Macron nella prima settimana di aprile: “Giovedì prossimo terrà un discorso al Mercator Institute for China Studies e all’European Policy Centre sulle relazioni Ue-Cina”, mentre la visita a Pechino si terrà “la settimana successiva”, ha reso noto il portavoce-capo dell’esecutivo comunitario, Eric Mamer. Dettagli e programma per la stampa arriveranno “a breve”.
    Il primo ministro spagnolo, Pedro Sánchez (24 marzo 2023)
    Prima della trasferta congiunta di Macron e von der Leyen sarà Sánchez a essere ospite del presidente cinese, Xi Jinping, la prossima settimana. “È un viaggio a cui diamo la massima importanza”, ha confessato ai giornalisti lo stesso premier spagnolo in conferenza stampa, anticipando che “la guerra sarà oggetto delle discussioni a Pechino, analizzeremo in dettaglio la posizione cinese“. Perché se il piano di pace in 12 punti – che più che piano di pace ha tutti i tratti di un documento di posizione sullo scenario geopolitico secondo le lenti della potenzia orientale – è stato pesantemente criticato a livello Ue, è altrettanto vero che “la Cina è un attore globale, e la sua voce va ascoltata per vedere se, fra tutti noi, riusciamo mettere fine alla guerra“. Si partirà in particolare dai punti meno controversi, se non del tutto condivisibili, per cercare di influenzare la posizione del partner/competitor: rifiuto dell’uso di armi nucleari e il rispetto dell’integrità territoriale, sono i riferimenti espliciti di Sánchez.
    La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen (23 marzo 2023)
    Non cambia comunque il fatto che – come messo nero su bianco nelle conclusioni del vertice dei leader Ue nel capitolo sull’Ucraina – i Ventisette sostengono la formula di pace del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e continuano a lavorare con Kiev sul piano di pace in 10 punti, perché “riteniamo che possa garantire una pace duratura e giusta”, ha ribadito con forza il premier spagnolo. Dopo la strada aperta da Sánchez, saranno i leader di Commissione Ue e Francia a tentare di spingere Pechino verso un “impegno diretto a fare pressioni sulla Russia” nel mettere fine alla guerra in Ucraina. Tema al centro anche del confronto bilaterale di questa mattina tra Macron e il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, che solo cinque mesi fa era stato il primo tra i leader europei a recarsi in visita in Cina.
    Oltre alle discussioni sulla guerra russa in Ucraina (con la mancata condanna anche nell’ultima Risoluzione Onu e la recente visita di Xi Jinping all’autocrate russo, Vladimir Putin, a Mosca), tra i tre leader e la leadership di Pechino servirà anche un confronto sul piano economico e commerciale – in modo da non far alimentare l’isolamento cinese – soprattutto per quanto riguarda le materie prime critiche su cui l’Unione Europea ha iniziato un percorso assertivo per non trovarsi legata a un concorrente non allineato ai suoi stessi valori nel percorso verso la doppia transizione digitale e verde.

    Tra fine marzo e inizio aprile i tre leader saranno ospiti del presidente Xi Jinping per un “impegno diretto a fare pressioni sulla Russia” per mettere fine al conflitto in Ucraina. “A breve” i dettagli e il programma dei viaggi