Non voglio ergermi ad esperto di geopolitica ma la mia (ahimè) lunga esperienza internazionale mi consente di riflettere sulla tragedia odierna con occhi allo stesso tempo appassionati verso la nazione e il popolo ucraini e freddi per cercare di capire cosa può succedere nei prossimi giorni e settimane.
Il nostro gruppo, la Duferco, ha avuto l’avventura di avere tra gli altri partner americani, russi, cinesi e ucraini. Conosco quei paesi e quelle culture e ciò mi aiuta a riflettere sulla situazione e a ragionare sui suoi possibili sbocchi, convinto come sono che questa vicenda cambierà la storia del mondo e dell’occidente.
In particolare mi ha molto colpito l’incontro di pochi giorni fa in Italia tra americani e cinesi.
Sette lunghissime ore di colloqui a Roma, scelta come località equidistante tra Washington e Pechino, tra Jake Sullivan (nella foto in alto), consigliere per la sicurezza Usa, e Yang Jiechi, figura di primissimo piano nel sistema di potere di Xi Jinping, tanto da sedere con lui nel politburo cinese. L’americano e il cinese si sono incontrati per parlare di Ucraina.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali (peraltro scarsissime: gli americani avrebbero diffidato i cinesi dall’aiutare militarmente Putin) il senso dell’incontro sta nel fatto che le due superpotenze si stanno occupando direttamente del tragico conflitto russo-ucraino, e che probabilmente passano anche per questo dialogo l’auspicata fine delle ostilità e un accordo che consenta all’Ucraina di esistere ancora come nazione indipendente.
L’eroica resistenza delle forze armate e del popolo ucraini è servita finora a dimostrare che la ‘passeggiata’ ipotizzata da Putin (fuga di Zelensky, due giorni per prendere Kiev, con la popolazione che appoggia gli invasori) non si è realizzata, e che i russi stanno subendo durissime perdite sul campo: quattro generali molto importanti e migliaia di poveri giovani soldati di leva mandati al macello con la storiella che si trattava di un’esercitazione.
Putin, che sente solo il rapporto di forza, nonostante le soverchianti forze in campo dopo venti giorni di guerra non ha raggiunto il suo obiettivo, scoprendo così quanto è duro combattere contro un popolo in armi motivato dall’amore per la propria patria e per la libertà.
Ciò, insieme al peso delle sanzioni internazionali, mai così dure contro la Russia, apre gravi problemi all’interno del sistema di potere putiniano, come confermato dall’arresto di alcuni capi dei servizi segreti e dalla notizia di divisioni che incominciano ad affiorare nella cerchia più ristretta dell’autocrate del Cremlino.
Questa situazione, se da un lato rischia di spingere il capo del Cremlino a rendere ancor più brutale l’aggressione, dall’altro potrebbe indurlo ad accettare un accordo di pace che gli dia una via di uscita.
Il coinvolgimento della Cina nella vicenda potrebbe essere fondamentale.
Si è molto discusso di ciò negli ultimi giorni, e vi sono al riguardo riflessioni molto interessanti che vanno in diverse direzioni. Taluni temono un’alleanza stretta tra Russia e Cina contro l’Occidente, altri pensano invece che la Cina giocherà un ruolo positivo da mediatore che potrebbe ulteriormente accrescere la sua reputazione internazionale, prevenire un suo isolamento e consentirle un’opportunità per migliorare le sue relazioni sia con gli Stati Uniti che con l’Europa.
Come giustamente ricordato recentemente proprio da un politologo cinese, una legge della politica internazionale dice che non ci sono “alleati eterni né nemici perpetui” ma solo “gli interessi nazionali sono eterni e perpetui”.
Condivido in maniera assoluta questo assunto; e anche noi italiani, restii dopo il fascismo a parlare di interessi nazionali, capiremo presto l’importanza di questa affermazione.
Se partiamo da qui, e cioè dalla centralità degli interessi che muovono nel medio e lungo periodo la traiettoria delle nazioni, a me sembra che la Cina in questa vicenda abbia due interessi da tenere in equilibrio.
Il primo, da ormai principale sostenitrice di un’economia globalizzata, è fare in modo che una guerra prolungata non determini una recessione mondiale di cui anche l’economia cinese pagherebbe un prezzo altissimo.
La Cina ha un export annuale che vale 1400 miliardi di dollari Usa. La maggior parte di queste esportazioni sono indirizzate verso gli Stati Uniti d’America e l’Europa. La sola idea, non dico di sanzioni, ma di un irrigidimento delle politiche protezionistiche americane o europee sarebbe drammatica per l’industria cinese e per le politiche di quel governo, sempre particolarmente attente alla situazione occupazionale e sociale.
In Cina non esistono ammortizzatori sociali: la disoccupazione in quel paese è gestita come un problema di ordine pubblico. Il che significa che da parte dello Stato e della politica c’è un’attenzione esasperata e una concentrazione totale sul mantenimento di tassi di crescita e di sviluppo alti che consentono il pieno impiego.
Il secondo interesse da tenere in considerazione, e le politiche di espansione di influenza internazionale cinesi degli ultimi anni, specie in Africa, lo confermano, è che la Cina ha un immenso bisogno, per sostenere i suoi alti tassi di sviluppo, di energia e materie prime di tutti i tipi.
Una Russia indebolita dalla guerra e dalle sanzioni, impedita di vendere la sua energia e le sue materie prime all’Occidente, che oggi ne è il principale acquirente, non potrebbe che rivolgersi alla Cina. Si potrebbe dire di più: la Cina potrebbe avere un enorme interesse ad avere nel suo retrogiardino un ‘vassallo’ debole e ossessionato dal bisogno di trovare nuovi sbocchi di mercato asiatici. Ovviamente per il venditore non c’è peggior incubo che avere un solo compratore, ma a questo probabilmente condurranno la follia e gli errori di Putin.
Mettere in equilibrio questi due interessi significa per la Cina da un lato salvare Putin dal disastro attraverso un accordo di pace onorevole. Solo un Putin sanzionato e indebolito può subire una forte ‘cinesizzazione’ della Russia. Contemporaneamente un onorevole accordo di pace che salvasse l’esistenza dell’Ucraina come stato indipendente e che vedesse come protagonista la Cina migliorerebbe i suoi rapporti con tutto il resto del mondo e in particolare con l’Occidente, consolidando i suoi flussi commerciali e le sue esportazioni.
Ma qui mi sorge spontanea un’altra riflessione.
Ho avuto modo di conoscere bene, in una nostra joint-venture industriale durata più di sei anni con la seconda più importante siderurgia russa, il gruppo Nlmk, il livello e la cultura delle giovani leve del management russo. Si tratta in gran parte di persone colte, totalmente occidentalizzate, che spesso hanno fatto studi in Gran Bretagna o negli Stati Uniti d’America. Nlmk è tra l’altro il gruppo di proprietà di Vladimir Lisin, uno dei pochi oligarchi non ‘blacklistati’, anche perché ormai da oltre dieci anni distante dal Cremlino, il quale nei giorni scorsi ha denunciato con grande coraggio l’orrore della guerra chiedendo a Putin di cessare immediatamente le operazioni.
Ritengo che quei giovani manager che ho conosciuto rispecchino il sentiment di un’intera élite russa che guarda all’Occidente, agli Stati Uniti e all’Europa come punto di riferimento. Questa élite interpreta in senso moderno lo storico attaccamento russo nella letteratura, nell’arte, nella musica all’Europa e ha una prospettiva che è tutto meno che asiatica. San Pietroburgo e Mosca sono molto più vicino a Berlino che a Pechino. Se allo sconcerto di questi gruppi dirigenti aggiungiamo il dissenso che cresce sempre di più nei media e la disperazione dei millenial russi privati di Instagram e Facebook mi chiedo se sia veramente concepibile una ‘cinesizzazione’ della Russia e se queste classi dirigenti non troveranno il coraggio e la forza per impedire che la Russia stessa non diventi uno stato canaglia.
Anche nei confronti di questa parte della società russa noi occidentali abbiamo un grande dovere, come l’abbiamo nei confronti del popolo e della nazione ucraina che dobbiamo sostenere in ogni modo perché, dopo gli orrori dell’invasione russa, si giunga a una pace onorevole.
Ha ragione Tony Blair: come occidentali “dobbiamo riscoprire la convinzione nei nostri valori democratici e nel modo di vivere che rappresentano. Dobbiamo smetterla di demonizzare le nostre istituzioni o la nostra storia. Accettare i nostri limiti e correggerli, ma non permettere che vengano usati per insinuare che non esiste differenza tra i valori che rappresentiamo e quelli di dittature ostili. La tragedia dell’Ucraina è stata una scossa per noi. Ci siamo svegliati. Ora dobbiamo agire”.
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