Bruxelles – Ricostruire le tensioni tra Serbia e Kosovo è come affrontare un domino. Per ogni tessera caduta bisogna risalire a quella precedente, caduta a sua volta per colpa di un’altra più dietro. Se si vuole inquadrare il motivo per cui – dopo un inizio di anno in cui Pristina e Belgrado sembravano avviate sulla strada della normalizzazione dei rapporti – oggi la situazione è tra le più delicate da anni, bisogna tornare indietro alle proteste di maggio nel nord del Kosovo, e ancora prima al boicottaggio delle elezioni amministrative di aprile, al ritiro dei serbo-kosovari dalle istituzioni locali, alla ‘battaglia delle targhe’. Si potrebbe tornare indietro fino al 17 febbraio 2008, il giorno dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, alla guerra del 1998-1999, alla ‘questione kosovara’ durante e dopo la dissoluzione della Jugoslavia di Tito. Isolare la situazione contingente è uno sforzo complesso, cercare delle soluzioni sul breve e lungo termine ancora di più. E l’Unione Europea da più di dieci anni è chiamata a fare proprio questo, oggi più che mai.
“Stiamo seguendo molto da vicino e con urgenza la situazione, siamo in stretto contatto con entrambe le parti e con il contingente Kfor per capire cosa e come è successo”, ha spiegato ieri (15 giugno) in un punto con la stampa di Bruxelles il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Sea), Peter Stano, rispondendo alle domande sull’ultimo episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi di mercoledì (14 giugno). Un evento particolarmente grave in qualsiasi modo lo si voglia guardare, per cui i due governi si accusano a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine. Come fanno notare diversi analisti, anche se è difficile individuare il luogo preciso dove è avvenuto l’arresto, in ogni caso si tratta di una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente coperto dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. In altre parole, un luogo dove, soprattutto nei boschi, sconfinamenti e infiltrazioni degli apparati di sicurezza serbi potrebbero non essere così rari, benché la frontiera sia ben definita. La polizia kosovara è autorizzata a pattugliare il nord del Paese, mentre è tutto da capire il motivo per cui l’unità serba specializzata in anti-terrorismo si trovasse a ridosso (o oltre) il confine nazionale.
In ogni caso dagli Stati Uniti è arrivata la richiesta formale a Belgrado di rilasciare “immediatamente e incondizionatamente” i tre poliziotti kosovari, mentre Bruxelles esorta entrambe le parti ad “astenersi da qualsiasi azione e reazione che potrebbe aumentare una tensione già piuttosto alta”. A proposito di tensione alta, l’ultimo episodio nel nord del Kosovo ha spinto l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a convocare a Bruxelles il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, per “una riunione d’emergenza la prossima settimana“, ha reso noto oggi (16 giugno) il portavoce del Seae. Anche se “per il momento non possiamo condividere dettagli”, al centro della riunione ci saranno i tentativi politici di risolvere la crisi sul campo, con un focus particolare sulle “misure temporanee e reversibili, non sanzioni economiche” contro Pristina – annunciate negli ultimi giorni – “per dimostrare che l’Ue è seria se Kurti non intraprende passi significativi per la de-escalation”, ma anche sulla “valutazione in corso degli adempimenti richiesti alla controparte serba” per evitare la tensione nel Paese confinante. Anche perché, come risposta all’operazione delle forze di sicurezza di Belgrado, Pristina ha chiuso i confini a veicoli e merci in arrivo dalla Serbia e si rischia ora un effetto a catena.
La de-escalation chiesta con urgenza da Bruxelles è reiterata quasi ogni giorno da esattamente tre settimane. Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate negli ultimi giorni per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio.
Le tensioni tra Serbia e Kosovo prima del 2023
Per capire quanto sta succedendo in questo 2023 è necessario tornare indietro, almeno agli ultimi due anni di tensione tra Pristina e Belgrado. Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles mediate dall’Ue, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘ tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha poi infiammato la seconda metà del 2022. A fine luglio sono comparsi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sbocco politico.
La situazione si è però aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska ha definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013, ovvero la mancata istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state poi rinviate al 23 aprile. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si è registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo.
Il presidente serbo ha minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si è dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese a inizio novembre. A pochi giorni dal vertice Ue-Balcani Occidentali, il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi.
Prima del nuovo exploit di tensioni sul campo iniziato a fine maggio, l’Ue ha cercato di spingere con forza per arrivare a un’intesa definitiva tra le due parti che risolva di riflesso anche i continui episodi più o meno violenti nel nord del Kosovo. È del 27 febbraio l’accordo di Bruxelles che ha definito gli impegni specifici che Serbia e Kosovo devono assumersi per la normalizzazione dei rapporti reciproci: una proposta in 11 punti avanzata dall’Ue e concordata da entrambi i leader dei due Paesi balcanici nel corso della riunione-fiume nella capitale dell’Unione Europea. Nonostante il testo non sia stato firmato, a renderlo vincolante per Pristina e Belgrado è stata l’intesa sull’allegato di implementazione (anche questo non firmato, ma con pesantissime conseguenze finanziarie in caso di mancato rispetto), raggiunto dopo una sessione di 12 ore di riunioni bilaterali e congiunte a Ohrid (Macedonia del Nord). Nonostante nei due testi compaia la questione dell’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, già al termine dell’ultimo confronto di alto livello a Bruxelles di inizio maggio l’alto rappresentante Borrell aveva avvertito in modo sinistro che la bassissima affluenza alle elezioni amministrative del 23 aprile “ha il potenziale di portare a un’escalation e di minare l’attuazione dell’Accordo di Ohrid.